audreysdancing
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una sorta di diario dei film che guardo
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Pearl (2022)
Diretto da Ti West, scritto da West e Mia Goth
È una strana storia d'amore quella di Maxine e Pearl. In X (2022) abbiamo visto l'anziana Pearl (Mia Goth) innamorarsi di Maxine (sempre Mia Goth), che a detta sua è identica a lei quand'era giovane. In questo prequel vediamo quanto effettivamente Pearl sia un'altra Maxine (anche se sarebbe più giusto dire che Maxine è un'altra Pearl). L'orrore è riconoscere che quell'anziana maniaca sessuale serial killer che ha terrorizzato la troupe in X, è tremendamente relatable. She's just like me! Pearl è una giovane donna con il sogno di realizzarsi ed emanciparsi, ma è costretta in una realtà claustrofobica e soffocante. Con una madre che la odia, un padre disabile e un marito partito per il fronte, la sua vita è una prigione. La via d'uscita è il cinema. Pearl sogna una carriera come ballerina per poter scappare da quella fattoria sperduta ed essere riconosciuta per ciò che davvero è: una stella. Iconica la scena del provino: Please, I'm a star! Pearl odia la sua vita, si sente bloccata, ma sa di essere speciale e desidera di più. Crede di essere destinata a qualcosa di grande e anche noi che la guardiamo non possiamo che finire col crederci a nostra volta (pur sapendo benissimo come finirà la sua vita). È terribilmente penoso vederla fallire, ancora di più riconoscere quanto tutto ciò che desiderasse profondamente, in realtà, erano l'amore e l'approvazione di sua madre. Non c'è nulla di più devastante di vedere una figlia distruggersi per l'amore di sua madre, in questo caso una donna gelida e austera, che impedisce a Pearl qualsiasi tipo di gioia. Quello che mi devasta di più è il pensiero che Pearl sia diventata quel che vediamo in X per colpa di sua madre. Non voglio dire che fosse nel suo DNA perché non voglio credere in nessun tipo di destino biologico, ma sicuramente è un male che si passa da genitore a figlio attraverso un ciclo di odio e di violenza. Se avessi vissuto quel che ha vissuto lei, sarei tanto diversa? È una domanda che mi pongo. Sicuramente empatizzo tanto con il suo personaggio: il bisogno di essere amata, la vita interiore turbolenta opposta a una vita quotidiana monotona e solitaria, l'amore per l'arte, la mira costante alla perfezione, la necessità di trovare una valvola di sfogo... Pearl è una stella tragica. È impossibile staccare gli occhi dallo schermo mentre ride, piange, urla, si scopa uno spaventapasseri o commette l'ennesimo omicidio. Ciò che la rende così accattivante è la sua purezza e ingenuità un po' infantile. Vuole solo essere amata e accettata per come è, fatica a comprendere la propria interiorità turbolenta ed è in costante lotta con se stessa. Cosa c'è di più relatable? Sa di essere diversa e sa di dover nascondere il suo vero io per essere accettata, ma non riesce. Dopo un crescente senso di oppressione che cresce minuto dopo minuto, l'omicidio arriva come una sorta di liberazione. Non possiamo nemmeno incolpare troppo Pearl perché è sua madre ad aver dato inizio allo scontro, tirandole un ceffone dopo averle detto delle cose orribili (ho quasi pianto). È quasi un incidente, questo primo assassinio, ma da il via a un rovinoso spargimento di sangue che non avrà più fine. Il rapporto tra Pearl e sua madre è decisamente l'aspetto che più mi affascina e mi terrorizza di questo film: sono due persone profondamente infelici che si amano, ma non sono in grado di dimostrarlo in modo sano. Non ne sono capaci anche se magari vorrebbero. La madre di Pearl aveva paura di sua figlia, lo dice esplicitamente. Aveva visto le cose brutte che Pearl aveva fatto in privato (nel monologo finale Pearl rivela di aver provato gusto nell'uccidere degli animali) e pensava che tenerla nella fattoria, lontana dalle altre persone, fosse la cosa migliore per sua figlia. La sua filosofia del "trarre il meglio da ciò che ha" diventa il motto tragico che Pearl si porterà dietro fino alla fine della sua vita. It's just sad to realize that she did end up like her mother. Forse il vero orrore sta in questo, in una madre e una figlia che non riescono ad amarsi, pur specchiandosi tragicamente l'una nell'altra.
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The Virgin Su*cides, Sofia Coppola (1999)
Lolita su*cida non è una buona premessa per un film, ma qui devo ricredermi. Nonostante io sia rimastə un po' turbato dall'ipers3ssualizzazione del personaggio di Kirsten Dunst (Lux avrebbe 14 anni ed è spesso ritratta con sguardo oggettivante. Non è per fare la morale, ma se dico che abbiamo un problema di s3ssualizzazione delle ragazzine nei media non credo di sorprendere nessuno), il film nel complesso mi ha emozionato. È delicato, malinconico, avvolgente, a tratti brutale, ma sempre con tatto. Toccare il tema del su*cidio senza scivoloni è un'impresa difficile, ma Coppola ci riesce. Dal mio punto di vista, fa tanto la scelta di non spettacolarizzare la sofferenza, ma di lasciarla trasparire quietamente dalle cose banali del quotidiano, senza cadere nella pornografia del dolore. E ho molto apprezzato la scelta di non dare spiegazioni. Quando lo psichiatra di Cecilia si chiede perché mai una ragazzina di 13 anni che ha una casa, uno stile di vita agiato e una famiglia almeno apparentemente amorevole dovrebbe mai voler togliersi la vita, lei gli risponde che evidentemente lui non è mai stato una ragazzina di 13 anni. Essere una ragazzina è difficile. Perché sminuire la cosa? Perché banalizzare?
Non c'è nessuna risposta possibile al gesto delle sorelle, non c'è una spiegazione razionale e nemmeno una frase di consolazione. Restano delle tracce delle loro vite nella casa vuota, nel tronco tagliato in giardino, negli oggetti raccolti dai loro amici e questo grande mistero.
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Saignantes, Jean-Pierre Bekolo (2005)
"During a stay in Cameroon, I wanted to meet a minister but I didn’t succeed. A young woman told me she could sort it out for me. I quickly understood it was a network and I could have met the whole government that way! These young women control the workings of the system and they have a certain power. "
In un crepuscolo eterno, il destino di due giovani donne viene risucchiato dalla forza del mevungu, energia soprannaturale scaturita da un rituale di protezione delle donne Beti del Camerun. Le protagoniste sono due sex workers che si ritrovano a dover gestire la morte del segretario di stato, mancato per un malore durante un rapporto. Da qui inizia la loro odissea in questa lunga notte, ma la fortuna è dalla loro parte e la coppia riuscirà a sfuggire dai pericoli e dalla corruzione del potere e uscire vittoriosa.
Il mevungu è menzionato solo da una voce narratrice esterna e mai dalle due protagoniste, che sono intente a navigare gli intrighi legati all'occultamento del cadavere prima e alla corruzione e alla violenza della politica dopo. Sembrerebbe che le due agiscano inconsapevolmente, come se fossero possedute da entità misteriose che le guidano lungo il loro cammino verso la vittoria, ovvero la fuga dal pericolo della polizia e da un politico tanto influente quanto violento e la conquista della ricchezza. Il montaggio originale mi ha un po' spaesato. Nell'insieme, è un film folle. Non so molto di Afrofuturismo, ma sono rimastə incantatə dalla mescolanza di immaginari. Tra madri-spirito, cadaveri da assemblare e mosse di arti marziali magiche, il film risulta un'esilarante e inquietante mix di generi. Un po' commedia esilarante, un po' trash, un po' gotico burtonesco, un po' surreale alla Lynch. Avrei fatto a meno dello sguardo ultra sessualizzante con cui vengono ritratte le protagoniste, ma nel complesso l'ho trovato un film divertente e a suo modo riuscito nel raccontare la potenza delle due protagoniste nell'affrontare la brutalità del potere.
"The girls’ unhappiness is obvious. It should be felt like the presence of the mevungu, this invisible force. It all should be felt on the screen. It is said that everything is slow in Africa but the rhythms aren’t: if the editing is a rhythm, it needed this tension."
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Wojna światów - Następne stulecie (1981) di Piotr Szulkin
Ispirato a La guerra dei mondi di Herbert George Wells, il film dedicato a Wells e al regista Orson Welles, che aveva interpretato l'omonimo sceneggiato radiofonico del 1938.
Un po' un Kafka futuristico, dove l'angoscia della burocrazia incontra il regime sovietico e un'invasione aliena. Il protagonista incarna la doppia natura dei mass media, da un lato fatti di persone autentiche, dall'altro completamente anonimi e soggiogati da poteri superiori, sempre invisibili e la cui volontà rimane imperscrutabile. Quando si mette un parrucchino biondo, il protagonista depresso diventa l'allegro e pimpante Iron Idem, il giornalista televisivo volto della nazione. Con un sorriso a trentadue denti, Idem vanta in onda l'indipendenza e l'autenticità del suo programma, tutto mentre è costretto a leggere davanti alle telecamere un testo impostogli dal suo capo. Dopo un tentativo fallito di ribellione, Idem recita impeccabilmente la parte che gli è stata forzata addosso, invitando spettatrici e spettatori a donare volontariamente il proprio sangue agli alieni. Da qui in poi, degenera tutto. La mattina dopo, le forze dell'ordine alleate con i marziani irrompono nel suo appartamento, rapiscono sua moglie (perché la ama e lui può amare solo gli alieni) e gli trafiggono l'orecchio con un simbolo della sua "amicizia" con gli extraterrestri. Con questo marchio all'orecchio, Idem si presenta a un punto di registrazione e ottiene la carta "amico dei marziani" che gli conferisce alcuni diritti, tra cui la libertà di non donare volontariamente il sangue. L'allusione ai regimi totalitari è piuttosto chiara. Idem perde tutto e si ritrova costretto a iscriversi a questa sorta di partito strampalato e a sottostare a delle regole assurde. Il divario tra la persona e il suo ruolo diventa ancora più evidente con l'avanzare del film. Da un lato Iron Idem volto della nazione, amato dalle folle e entusiasta di diffondere notizie "indipendenti" e "genuine", dall'alto un uomo senza più una casa, una famiglia, uno scopo. Ma, nonostante tutto, lui è la televisione. La TV è una presenza onnipresente, ovunque vi sono degli schermi che invitano all'obbedienza, o meglio, all' "amicizia" con i marziani. Quando viene trasmesso l'annuncio che le trasmissioni sono state sospese perché si sta preparando il supershow serale per festeggiare la partenza degli amici dallo spazio, nelle strade si scatena il delirio: il prezzo del biglietto per lo spettacolo è una sacca di sangue, chi resiste viene risucchiato fino all'ultima goccia. Con l'inizio del super spettacolo in corso, un Idem sempre più esaurito ed esasperato irrompe sulla scena con un discorso sovversivo, invitando a opporsi agli invasori spaziali e alle persone che approfittano della loro permanenza sulla Terra. Per sua sfortuna, nessuno lo prende sul serio. Con questo intervento, Idem smette di essere la televisione e viene sostituito da un altro giornalista, il nuovo volto della verità. Condotto in carcere dopo aver tentato di bloccare un attentato (che in realtà era una messa in scena della TV), Idem assiste alla propria gogna mediatica sullo schermo della cella. Distorcendo i fatti, la TV lo accusa di terrorismo. Scopre anche che gli invasori marziani sono partiti e che, da "amici", sono ora considerati crudeli assassini, responsabili del massacro della popolazione. Idem dovrà affrontare un processo per la sua alleanza con gli invasori, in particolare per aver disinformato il pubblico e convinto le persone a sottomettersi ai marziani. Il verdetto dipenderà dai risultati di un plebiscito telefonico di telespettatori. Condannato, il protagonista assiste ai preparativi per la trasmissione televisiva della sua morte, quando improvvisamente vengono sparati dei colpi. Un monitor mostra il suo corpo morto, ma Iron Idem esce indenne dallo studio.
Oltre alla bellezza estetica della fotografia e dei colori sgargianti della pellicola, penso a questo film come a un rompicapo molto attuale che invita a ragionare sul potere dei media, in particolare a come le vicende possano essere raccontate in modo tale da distorcere i fatti (penso, ad esempio, a come i media italiani stiano coprendo il genocidio di Gaza). Ma anche il delirio di affermare una cosa e, poco dopo, il contrario a seconda della convenienza. La psicosi polarizzante che rende tutto o bianco, o nero. Forse oggi sono più i social media e non tanto la televisione a controllare la propaganda, ma il succo è lo stesso. Navigare il flusso delle informazioni senza rimanerne schiacciati, prestare costantemente attenzione per non essere travolti dalla propaganda è la vera sfida. Se, generalmente, nei film di fantascienza faccio il tifo per gli alieni, qui risulta piuttosto difficile. A parte la rappresentazione abilista dei marziani (persone nane vestite d'argento), l'alieno qui non rappresenta il migrante, come una prospettiva di destra vorrebbe forse farci credere, ma il colonizzatore. I marziani qui sono coloni a tutti gli effetti: arrivano, prendono possesso delle risorse (sangue) e pretendono obbedienza ("amicizia"). Pensando alla storia della Polonia, è piuttosto scontato associare i marziani al regime sovietico. In particolare, la scena della registrazione come amico dei marziani rimanda all'iscrizione al partito e la cieca ottusità di alcuni personaggi nel portare avanti ordini venuti dall'alto (talmente in alto che sembra che vengano dal nulla e non abbiano senso) ricorda le follie della burocrazia sovietica. Mi è venuto immediato il collegamento con le vicende del pittore Wladyslaw Strzeminski come narrate in Powidoki (2016) di Andrzej Wajda. In questo film, l'artista viene vessato dal regime perché non aderisce alle direttive dello stile ufficiale, il realismo socialista. Viene dunque emarginato, è sospeso dall'insegnamento in Accademia e gli viene vietata qualsiasi occupazione alternativa. Come se non bastasse, a seguito di un blitz ordinato dal partito, le sue opere esposte vengono distrutte. Strzemiński, ancora più del fittizio Idem, non si piega alla brutalità del regime e, a differenza del fittizio Idem, raggiunge veramente la morte.
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Pino (2020) di Walter Fasano
Il film documenta l'acquisizione dell’opera Cinque bachi da setola ed un bozzolo, che passa dal gallerista Fabio Sargentini alla Fondazione Pino Pascali, ma lo fa in maniera sottile, lasciando tanto spazio a un silenzio contemplativo e facendo parlare le bellissime fotografie d'archivio che mostrano frammenti di vita dell'artista.
"Appena l'hai fatta, una cosa è finita. L'arte è un sistema per cambiare".
"Così come in amore esiste l'illusione di poter ricordare tutto, così ho vissuto l'illusione che questi animali siano realmente esistiti".
"Chi può dire che il gioco cancelli il tragico dell'esistenza. Quando si è nel gioco bisogna giocare e la necessità non è libertà".
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