#mistici contemporanei
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pier-carlo-universe · 5 months ago
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Il dialogo mistico tra Sufi: La nuova opera di Zekerija Idrizi esplora la connessione tra misticismo e teosofia. Un viaggio attraverso la spiritualità islamica e il pensiero mistico moderno
L'ultimo lavoro di Zekerija Idrizi, intitolato "Dialogo tra mistici sufi - Misticismo e Teosofia", si presenta come un'opera intensa e profondamente spirituale, che affonda le radici nelle antiche tradizioni mistiche dell'Islam sufi e le connette con il p
L’ultimo lavoro di Zekerija Idrizi, intitolato “Dialogo tra mistici sufi – Misticismo e Teosofia”, si presenta come un’opera intensa e profondamente spirituale, che affonda le radici nelle antiche tradizioni mistiche dell’Islam sufi e le connette con il pensiero teosofico. Scritto sotto forma di dialoghi tra mistici, questo libro-dramma porta il lettore a riflettere su questioni esistenziali,…
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L’originale e le copie
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Tavola I. Testa di vecchio calvo barbato con capelli e ciglia lunghe. Credo sia il ritratto di Leonardo per un passo del Lomazzo, che ho fatto incidere sotto di essa. Questa stampa, di mano del signor Giuseppe Benaglia, non fu presa dal disegno originale di Leonardo (che ora si ignora dove esista) ma da una copia fattane dal signor Raffaello Albertolli. Del Cenacolo di Leonardo da Vinci libri quattro di Giuseppe Bossi pittore, Milano : dalla Stamperia Reale, 1810 ([Milano] : stampato per cura di Leonardo Nardini, ispettore della Stamperia Reale)
È notissimo che nella lettera-curriculum di presentazione a Ludovico il Moro, Leonardo da Vinci abbia offerto i propri servizi come ingegnere militare, come architetto e infine come scultore. In realtà, la testimonianza del suo soggiorno milanese rimarrà sostanzialmente connessa a due pitture: la Vergine delle Rocce e il Cenacolo. Leonardo rappresenta per noi la quintessenza del genio in base a un’interpretazione dell’artista propriamente romantica. I grandi maestri del rinascimento, pur contesi fra le corti, restavano infatti in qualità di creatori di immagini, e soprattutto di immagini sacre, legati, almeno parzialmente, a una tradizione condivisa con l’Oriente di venerazione di archetipi, immutabili e invariabili come il Mandylion di Edessa, che rimandava al volto impresso di Cristo. Lo sconcerto dei confratelli dell’Immacolata, che avevano commissionato al maestro la Vergine delle Rocce, non fu dunque legata tanto alla tecnica e alla qualità pittoriche quanto alla novità  del riferimento iconografico, per il quale Leonardo aveva filtrato i contenuti della fede nel platonismo fiorentino, nelle testimonianze dei mistici e nei Vangeli Apocrifi. Nello specifico si trattava della visione di santa Brigitta di Svezia, che funge da cornice a una sorta di quinto Vangelo mistico, nel quale i due bambini e l’angelo riassumono, nei gesti e nelle pose, l’Annunciazione e al contempo la Natività, il Battesimo (la scena si svolge sulla riva di un Giordano eterno, cfr. M. Fumaroli, La scuola del silenzio, Milano, Adelphi, 1995) e la morte in croce preannunciata dal gesto benedicente di Gesù.
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Tavola VII. Piccolo gruppo di Sant’Anna colla Vergine, il Bambino ed un Agnello. Tutto dall’originale di Leonardo ed inciso dal signo Francesco Rosaspina, ibidem.
Nel Cenacolo, terminato circa quindici anni dopo la Vergine delle Rocce (1498), l’idea eterna della salvezza è rappresentata invece nella sua incarnazione storica. La novità stava questa volta nel non avere scelto un momento preciso del racconto evangelico ma di avere in qualche modo rappresentato una summa degli annunci della passione. Se per tradizione a essere raffigurato era la notizia del tradimento, alla lontananza e solitudine siderale in cui Leonardo rappresenta Cristo meglio si intonano le parole del Vangelo di Giovanni: “Dove vado io voi non potete venire”. Nello sgomento dei discepoli, che reagiscono in modi diversi, a volte quasi scompostamente, al mistero del dolore, l’artista ha descritto, come mai fino a quel momento era stato fatto, i temperamenti e le passioni dell’umanità, che la cultura di allora non attribuiva a una struttura monadica delle psiche ma al combinarsi degli influssi delle intelligenze che presiedevano al movimento di stelle e pianeti al momento della nascita di ogni uomo. 
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Tavola IV. Testa d’uomo attempata in profilo volta a destra di chi guarda. L’ho imitata da un disegno originale di Leonardo, ibidem
Anche in questo caso, lo stupore che prese i contemporanei fu in primo luogo legato all’affermarsi di un nuovo archetipo iconografico, presto replicato, per entrambi i casi, a partire dalla cerchia del maestro. Per il Cenacolo tuttavia si impose un’ulteriore ragione. L’opera, dipinta a tempera su due strati di preparazione gessosa, per non essere stati i pigmenti assorbiti dall’intonaco,  iniziò a guastarsi già nel secondo decennio del Cinquecento. È probabile che nel corso del Cinque-Seicento ci siano stati interventi di pittori a integrare e completare le parti lacunose man mano che pezzi di pittura si staccavano dal muro (cfr. Pietro C. Marani, Leonardo. Il Cenacolo svelato, Milano, Skira, 2011). Di restauro in senso proprio non si può tuttavia parlare fino al XIX secolo, ma una migliore leggibilità del Cenacolo e un recupero sostanziale dei valori cromatici originari furono ottenuti solo nel corso del Novecento attraverso i due memorabili interventi di Mauro Pellicioli (1947-1953) e di Pinin Brambilla Barcilon (1977-1999). Prima di allora la salvaguardia di quella che, perdendo lo status di icona, era diventata un “capolavoro” era stata demandata alla copia. 
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Tavola VI. Figura intera virile con doppie gambe e doppie braccia. È presa dall’originale di Leonardo e l’ha incisa il cav. Longhi, ibidem.
In questo senso la realizzazione di un mosaico a grandezza naturale dell’Ultima Cena rappresenta un momento saliente della vita culturale milanese in età napoleonica. Nel 1803, Francesco Melzi d’Eril chiamò a Milano da Roma Giacomo Raffaeli, al fine di avviare una scuola di mosaico, per così dire, conservativo. Il 21 aprile 1807, il viceré d’Italia Eugenio Behaurnais commissionò a Giuseppe Bossi il dipinto dal quale Raffaeli avrebbe tratto la versione a mosaico (cfr. Bossi e Goethe. Affinità elettive nel segno di Leonardo, a cura di Fernando Mazzocca, Francesca Tasso e Omar Cucciniello, Milano, Officina libraria, 2016) Per la realizzazione dell’opera, il pittore si concentrò su tre copie del Cenacolo: quella ad affresco del convento dei Gerolamini di Castellazzo, allora creduta di Marco d’Oggiono, quella della chiesa di Sant’Ambrogio a Ponte Capriasca e quella conservata all’Ambrosiana, realizzata da Andrea Bianchi, su commissione del cardinale Federico Borromeo, proprio per conservare memoria del dipinto di Leonardo prima della sua definitiva scomparsa. Il Bossi si dedicò inoltre a raccogliere con acribia da filologo gli studi di Leonardo stesso, i giudizi dei contemporanei, testimonianze sulla fortuna critica dell’opera, che culminarono nella redazione di un trattato: Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, dato alle stampe solo nel 1810, quando il pittore aveva già terminato il cartone (1807) e il dipinto (1809) con i primi sintomi della malattia, probabilmente contratta nell’umidissimo refettorio delle Grazie, che l’avrebbe condotto alla morte.
Malgrado il plauso delle autorità, e del solito Vincenzo Monti, tutta l’impresa ebbe giudizi contrastanti: Goethe apprezzò l’accurato lavoro sulle fonti e lo studio profuso nella ricostruzione, Carlo Verri polemizzò invece vivacemente sulla scelta delle copie operata dal Bossi, e Foscolo, dall’esilio svizzero, tuonò contro un’opera vana, fatta mentre l’originale andava in rovina. Una critica più circostanziata dei valori estetici dell’opera di Bossi fu invece fatta da Stendhal, che imputò sostanzialmente alla copia del Cenacolo di non avere indovinato il colorito di Leonardo.
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La Sala della Balla al Castello Sforzesco attorno al 1930 con la Raccolta d’Arte Orientale e la copia del Cenacolo realizzata da Giuseppe Bossi, in una foto di autore anonimo conservata presso l’Archivio civico fotografico.
Dopo alterne vicende, il dipinto di Bossi fu posto, a inizio Novecento, nella sala della Balla al Castello Sforzesco dove fu distrutto dai bombardamenti del 1943 dai quali l’originale rimase invece solo ulteriormente danneggiato.
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valentina-lauricella · 2 years ago
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Soffrire il freddo
Il Leopardi aveva espresso i fondamenti della sua filosofia, che tutt'oggi viene tramandata, già all'età di 22 anni. È una filosofia così stringente, supportata da osservazioni precise ed incontrovertibili, da non lasciare scampo a nessuno che sia nato. Leggerla direttamente dallo Zibaldone anziché dagli schematici riassuntini scolastici, suscita veramente una grande impressione e disperata coscienza della condizione universale dell'uomo (fastidiosamente vano, quindi, l'appellarsi alla differenza di una vita dall'altra da parte del personaggio di Congiunto nella farsa di Giulio Manfredi). Poiché oltre che alla sua mente sono interessata al suo corpo, non già per trovarvi la radice della sua filosofia come vilmente facevano alcuni suoi contemporanei, ma per interesse affettivo e sensuale, ho notato come scrivesse di più in estate, attorno alla data del suo compleanno: per influssi astrali o per effetto dello scongelamento? Agli influssi astrali non credo, quindi propendo per la seconda ipotesi. Per tutta la sua vita, Leopardi soffrì il freddo, per vari motivi, tra cui ricordo: il difetto della circolazione, la pressione bassa, la magrezza, la febbre dovuta alla tubercolosi. Il Lombroso ha strumentalizzato l'usanza del Leopardi di rintanarsi in un sacco mal imbottito e che rilasciava peli, per offrirne un'immagine da uomo selvatico, asociale e in definitiva squilibrato.
Mi ritrovo ad avere un eccesso di attenzione ai mali del suo corpo a somiglianza dei mistici che meditavano sulle piaghe di Cristo.
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pangeanews · 5 years ago
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Se avessimo dato ascolto a Charles Péguy… Lode all’“amodernista” che tentò di unire scienza e mistica. Uno studio
Oltre allo studio del personaggio e alla ricerca dello scoop, fra le più alte mire della biografia c’è l’esplorazione di una personalità generazionale: l’individualità la cui vita e il cui lavoro illuminano la mentalità e la cultura, in un preciso momento e luogo della storia. Questo tipo di ambizione emerge decisamente nella mirabile biografia dell’intellettuale Charles Péguy, un pensatore troppo spesso relegato agli studi di esperti di politica e cultura francese del fin-de-siècle.
Matthew Maguire, professore associato di storia e studi cattolici presso la DePaul University, in Carnal Spirit: The Revolutions of Charles Péguy (University of Pennsylvania, 2019), ha dato un’estesa definizione di Péguy (1873-1914): quest’uomo di lettere, così selvaggiamente indipendente, fondatore del bisettimanale Cahiers de la quinzaine, tenne una posizione trasversale rispetto alle definizioni culturali delle antinomie del suo tempo, sfidando le due grandi correnti della modernità, il progressismo e la reazione. Mentre il primo si identificava nel “inesorabilità del divenire” e il secondo si sforzava di resuscitare il passato, Péguy credeva che entrambe le tendenze soccombessero in forme simili di “immanentismo”. Ossia, entrambi, ognuno a modo proprio, cercavano di determinare l’ordine finale o perfezionato – in altre parole, la fine della storia – in questo mondo e in questo tempo.
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Certamente, i progressisti illuminati erano devoti alla scienza, al positivismo e ai valori liberal-democratici; dal canto loro, i reazionari rigettavano tutto ciò, per favorire la gerarchia e un nazionalismo tradizionalista ed esclusivamente cattolico. Potrebbe sembrare un’evidente lotta fra modernisti e antimodernisti, ma non era così per Péguy. Infatti, egli credeva in un futuro guidato dalla scienza e dal costante progresso, che però non fosse più prono al modernismo – nelle sue aspirazioni più profonde – della visione reazionaria. “Questi particolaristi carichi d’ira,” spiega Maguire, “spesso sottintendono una lealtà alle più vecchie nozioni di trascendenza – inclusa la fede religiosa e la sua dichiarazione di verità eterna – ma la loro concezione di ciò trascende il tempo solo come immanenza arrestata. Presentano un passato amalgamato come unità… da reinserire meccanicamente all’interno del presente, senza creatività o stupore”. Ironia della sorte, alcuni finti antimodernisti (incluso il fondatore del movimento politico di destra Action Française e seguace del positivista Auguste Comte, Charles Maurras) credevano che la “scienza avrebbe confermato i loro particolarismi e pregiudizi”. Tuttavia, Péguy mantenne una posizione critica nei confronti di entrambe gli schieramenti e ciò gli impedì di essere identificato sia come modernista, che come antimodernista, sostiene Maguire, ma come qualcosa di molto distinto e di istruttivo: un amodernista.
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Péguy si fece strada grazie al suo essere indipendente. Si è fatto da solo, crescendo ad Orléans e dalle sue origini umili è riuscito a raggiungere l’apice dell’élite intellettuale parigina. Rimasto orfano di padre a meno di un anno, apprese il valore del lavoro dalla madre e dalla nonna, che riuscivano a sbarcare il lunario lavorando 16 ore al giorno come rammendatrici d’imbottiture per sedie. Impressionato dall’acume di Péguy, il preside della scuola che frequentava gli riservò un posto solitamente concesso ad alunni provenienti da famiglie altolocate. Da studente prodigio, Péguy iniziò la sua ascesa attraverso una successione di scuole prestigiose, fino ai migliori circoli intellettuali del paese, come la École Normale Supérieure, dove iniziò a leggere e a socializzare con alcuni dei pensatori più noti dell’epoca, tra cui Émile Durkheim, Georges Sorel, Julien Benda, Jacques e Raïssa Maritain, e Henri Bergson.
Oltre al suo percorso accademico, Charles Péguy venne formato dalla religione cattolica, dagli ideali della Terza Repubblica e da un forse senso di solidarietà con il proletariato. Tuttavia, rispose a ognuno di questi stimoli in modo fortemente personale: ripudiò le correnti clericali e reazionarie del Cattolicesimo (fino al punto di interrompere temporaneamente il suo rapporto con la chiesa); insistette sull’allargamento della giustizia a tutti i cittadini della repubblica e non solo a quelli ritenuti coerenti (per esempio, puri da un punto di vista etico o religioso); e sviluppò una varietà di socialismo anti dogmatico, che esaltava i legami mistici della solidarietà invece di un mero programma tecnocratico marxista di applicazione dell’uguaglianza.
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Come molti intellettuali, giornalisti e attivisti della belle époque, Péguy venne segnato anche dal suo coinvolgimento nell’affare Dreyfus. Un’ignobile farsa della giustizia francese che propiziò una guerra culturale fra i sostenitori e gli oppositori della condanna del Capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo dell’esercito francese, falsamente accusato di aver passato informazioni al nemico durante la Guerra franco-prussiana. È stato proprio il caso Dreyfus a convincere Péguy ad aprire una piccola libreria socialista nel quartiere latino di Parigi. Voleva farne un forum per aprire un dibattito nel momento in cui gli antidreyfusiani, principalmente antisemiti nazionalisti e reazionari cattolici, si radunavano per le strade per opporsi al proscioglimento di Dreyfus, nonostante le schiaccianti prove della sua innocenza.
Da convinto dreyfusiano, Péguy scoprì velocemente che ciò che lo spingeva a sostenere la scarcerazione dell’innocente ufficiale non corrispondeva alle ragioni dei suoi compagni militanti, dato che questi venivano da una retorica antidreyfusiana. Non è un segreto che il suo supporto a Dreyfus non derivasse da un qualche tipo di amore astratto o universalista per giustizia – come invece fu per moltissimi, fra cui Zola, la cui celebre lettera aperta, “J’Accuse”, mobilitò numerosi altri attivisti – ma per un attaccamento particolare alle tradizioni della République.
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Péguy si rivela, quindi, come un liberale atipico, che crede che i principi del liberalismo debbano essere innestati in un humus locale, nelle tradizioni autoctone. Diffidente del cosmopolitismo, sosteneva che un “vero internazionalismo” si sarebbe dovuto ergere, come commenta Maguire, “sul nazionalismo e sulla storia che lo sostiene, invece di un internazionalismo che rigetta le radici locali e nazionali”. Quest’ultimo, secondo Péguy, era parte integrante dell’imborghesimento astrattivo e venale della società moderna, che lui, in quanto socialista, contrastava. Inoltre, guardava con sospetto i valori politici e metafisici semplicisti del “partito intellettuale” progressista; valori costruiti su una demistificazione senza sosta del mondo, attraverso l’oggettivizzazione del riduzionismo scientifico e della quantificazione di ogni cosa. La limitazione della libertà umana e il valore dato dal progressivismo duro e puro venivano incarnati dalla rivendicazione dei suoi sostenitori, secondo cui la scienza empirica sostituiva il bisogno del metafisico: una rivendicazione cieca anche per i suoi stessi presupposti metafisici.
Per portare avanti la sua battaglia contro entrambe le coalizioni politiche, Péguy abbandonò i propri studi alla École Normale e, nel 1900, lanciò la sua rivista bisettimanale, con l’intenzione di rimanere indipendente da interessi esterni (anche dal Partito Socialista, che ritirò la propria offerta di supporto quando Péguy rifiutò la supervisione del partito) e dalla pubblicità. Il suo sarebbe stato un “journal vrai” (vero giornale). La calendarizzazione bisettimanale indicava l’intenzione dell’editore, scrive Maguire, “di mediare fra il quotidiano, ossia la cronaca in presa diretta, e la più temporalmente estesa sfera di interesse della filosofia, della teologia e della storia”. Un numero poteva comprendere una pluralità di commentari, oppure un unico saggio su un grande pensatore, o persino un lungo estratto da un romanzo o un’opera filosofica (incluso, in un’occasione, senza il permesso da parte dell’autore, come con uno dei filosofi contemporanei preferiti da Péguy, Henri Bergson). Nonostante le uscite fossero irregolari, la rivista ebbe influenza ben al di là dei suoi 1.400 abbonati. Era letto dalle migliori menti di Francia, molte delle quali collaborarono con Péguy. In preda alle difficoltà economiche e mentre continuava la sua produzione personale – saggi, opere teatrali e poesie – Péguy mantenne aperto Cahiers de la quinzaine fino allo scoppio della Grande Guerra, quando si arruolò nell’esercito. Rimase ucciso poco dopo, mentre conduceva una carica contro la linea tedesca.
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Nonostante Maguire sia un accademico di genio, il suo libro non esaurisce l’esplorazione delle reali connessioni di Péguy con gli eminenti personaggi a lui contemporanei. Menziona il rapporto con il compagno dreyfusiano Julien Benda (autore de Il tradimento dei chierici), ma si sofferma poco sui forti contrasti che i due hanno avuto. Benda era un razionalista inflessibile (qualcuno potrebbe addirittura definirlo irragionevole), che dava la colpa dell’affare Dreyfus ai ceppi di filosofia tedesca e romanticismo che avevano infettato la cultura francese. Benda credeva che il misticismo e l’irrazionalismo antilluminista – di cui la filosofia vitalista di Bergson era l’emblema – minacciassero di annebbiare le cristalline e rigorose categorie cartesiane della cultura intellettuale francese, indispensabili per gli ideali della Terza Repubblica.
Per quanto apprezzasse Benda, Péguy trovava il suo estremizzato razionalismo arido e insostenibile, soprattutto quando si trattava di promuovere la solidarietà fra i cittadini di una nazione. La convinzione di Péguy secondo cui tutte le politiche iniziassero nella mistica – ossia, nella reale misteriosità delle credenze e dei miti trascendenti e condivisi – lo hanno reso un attento e profetico critico delle condizioni di separazione sociale e dell’anomia che spesso hanno portato al populismo ultranazionalista nelle moderne democrazie, tendenzialmente con risultati disastrosi.
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Si potrebbe accusare Maguire di aver lasciato delle lacune sulle divergenze fra Péguy e i reazionari cattolici. Infatti, anche se era in buoni rapporti con Charles Maurras – tanto che quest’ultimo recensì positivamente alcune delle sue opere – Péguy era irritato dal modo in cui Maurras e altri strumentalizzavano la religione cattolica per promuovere la propria agenda antiliberale. Péguy aborriva il vile clericalismo della destra, tanto che smise di frequentare la chiesa completamente, anche se rimase un sostenitore della propensione alla carità della chiesa e, in cuor suo, fortemente convinto dei valori della sua fede.
Lasciando da parte queste mancanze, Maguire fornisce una lucida ed encomiabile critica sulle correnti intellettuali di un periodo di transizione assolutamente decisivo, che comprende gli ultimi vent’anni del diciannovesimo secolo fino ad almeno i primi due decenni del ventesimo. I concetti che ispiravano i due schieramenti ideologici dominanti contrastati da Péguy non sono decaduti con la fine della Prima Guerra Mondiale. Infatti, sarebbero riemersi con ancor più vigore nella Repubblica di Weimar, con il Partito Nazionalsocialista che condensava alcune delle peggiori tendenze di entrambe le ideologie, nel tentativo di ottenere un Reich etnicamente purificato e la sua versione della fine della storia. Tutti sanno com’è andata. La più recente versione della fine della storia – quella successiva alla conclusione della Guerra Fredda – ha sancito il trionfo delle democrazie liberali e del mercato libero. Anche se molto più positiva della sua predecessora, anch’essa stramazza sotto il peso delle sue contraddizioni e dell’hybris.
Invece di differenti versioni della fine della storia così immanentiste, Péguy sperava in un’epoca della “competenza”, che incorporasse un sano interesse per gli ideali liberali e la scienza empirica (compreso un certo scetticismo sui limiti di quest’ultima) a una genuina tolleranza verso la varietà dei concetti metafisici più profondi, fra cui l’ammissione del trascendente e della mistica. Tale “federalismo metafisico”, sostiene Maguire, “limiterebbe l’eccesso di un’egemonia restrittiva della metafisica nella cultura contemporanea”. Péguy credeva che i sostenitori dell’egemonia metafisica – sia di destra che di sinistra – contrastassero le arti liberali, che invece riteneva indispensabili per una democrazia repubblicana. Uniti invisibilmente nella condivisione dell’immanentismo, questi egemonisti incarnavano la profonda intolleranza della tarda modernità e perciò andavano smascherati e contrastati per la pericolosa causa che avevano deciso di sposare. Forse, il fatto che gli avvertimenti dati dalla voce chiara e profetica di Péguy si siano perduti al suo tempo come nel secolo che da allora si è dispiegato, è da considerare una delle più grandi tragedie della modernità.
Jay Tolson
*Il saggio è stato originariamente pubblicato su “The Hedgehog Review”, si può leggere qui; la traduzione è di Giacomo Zamagni
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fi80m-blog · 8 years ago
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LA SEMPLICITA' DELL'INGENUITA' / SOSPESI NELL'INCREDIBILE - Il Progressive Italiano "minore" 1971-1977 in 2CD di Marco Mazzoldi Dunque, cominciamo col ribadire che io un raccoltone di prog italiano già lo feci, mixando fra loro parti di 25 canzoni di 25 gruppi diversi in 75 minuti. Una roba da bersi tutta d'un fiato e che trovate qui: https://soundcloud.com/marco-m…/neoprog-sucks-deluxe-edition Rispetto a quella compilation, in questo doppio CD ho usato altri criteri: non ho messo gli artisti più famosi, per i quali ci saranno compilation specifiche; soprattutto, ho escluso il "cantautorato prog" a favore di roba più esplicitamente rock. Per intenderci, non troverete Rocchi, Sorrenti, Camisasca o Stormy Six. Mi è parso doveroso fare due CD, in fondo stiamo parlando di un intero movimento musicale e non di un solo complesso. E non aiuta il fatto che i pezzi arrivano spesso a nove/dieci minuti, come da tradizione progressiva... Difficile definire il progressive italiano. Sicuramente un periodo di idee vulcaniche ed estremamente libere da criteri autocensori, che si incontrano per un breve momento con produttori illuminati o quanto meno curiosi di vedere cosa ne può scaturire. Le radici anglosassoni sono del tutto palesi, e certo il confronto con i contemporanei Genesis, Yes e compagnia (insieme alla solita cara e vecchia esterofilia italica) non aiutò questi gruppi ad ottenere il successo che arrise solo ad una piccola fetta. I mezzi tecnici limitati rispetto agli inglesi, ma anche la minore professionalità in sala macchine, sono difetti che si avvertono spesso nel suono di questi dischi. Ma la cosa che più si sente, sia nei testi che negli arrangiamenti, è l'ingenuità. E, se detta così sembra una cosa brutta, io trovo che sia invece il pregio principale di tutto il movimento: siamo giovani, siamo capelloni, ci inventiamo testi mistici senza sapere di cosa stiamo parlando, condanniamo la società industriale e l'abbandono della campagna, vogliamo rimanere bambini in eterno. E suoniamo e componiamo come se non ci fosse un domani. E' un piccolo mondo fatto di eterna adolescenza, e forse è anche per questo che della stragrande maggioranza di questi giovani musicisti si è persa ogni traccia: scarsa aderenza alla realtà. La raccolta è impostata in ordine cronologico, cosa che nella seppur breve vita di questo movimento, ha un senso. Si inizia con quello che è probabilmente il primo disco prog italiano, Collage delle Orme, si prosegue con il gruppo che potrebbe essere considerato il "più famoso dei meno famosi", gli Osanna, di cui pare fossero celebri gli spettacoli live con trucchi e maschere. I Trip erano un gruppo anglo/italiano, che nei suoi esordi degli anni '60 annoverava tale Ritchie Blackmore alla chitarra. Come le Orme e gli Osanna, sono fra i pochissimi che riescono a mettere insieme almeno tre album, ma solo "Caronte" è davvero valido. Sui Giganti di "Terra in Bocca" andrebbe fatto un discorso di sei pagine. Il primo concept-album rock italiano dopo quelli di De André, segno la rovina finanziaria e quindi lo scioglimento del gruppo a causa della devastante censura da parte della RAI. E capirete bene, si tratta di una storia di regolamento di conti mafioso fra famiglie di un paese siciliano negli anni '30, con nomi, date e tutto quanto, roba impensabile per l'epoca. Il fatto che si tratti di un album STRATOSFERICO, suonato in collaborazione col trio Tempera/Tavolazzi/Bandini, non impressiona granché i funzionari della RAI. E' talmente un'unica narrazione che ho esitato a mettere un brano (fra l'altro i titoli sono completamente assurdi!), ma io vi straconsiglio l'ascolto di tutto l'album, che andrebbe assolutamente recuperato fra le pietre miliari del rock italiano. Dopo il curiosissimo pezzo dei Panna Fredda, gruppo svanito nel nulla dopo un secondo album, ecco un altro caposaldo: la Bibbia del Rovescio della Medaglia, un trio hard-rock (senza tastiere!) dal tiro e dal groove spettacolare, purtroppo penalizzato dalla aprioristica idea di registrare tutto dal vivo in studio. Due o tre sovraincisioni avrebbero reso immortale quest'opera. Passiamo al 1972 con l'eterea Reale Accademia di Musica, un gruppo che cicca i suoni e pure qualche arrangiamento, ma che incarna perfettamente lo spirito sospeso ed ingenuo del prog italiano. Un disco che ho scoperto tardi ma che ora amo molto. La Raccomandata Ricevuta Ritorno, podio garantito per il nome più del cazzo, e non è certo semplice visti i colleghi, fanno un disco piuttosto particolare, con qualche venatura jazz, momenti acustici, sfuriate, e soprattutto la voce molto caratteristica del pittore Luciano Regoli. Il pezzo dei Nuova Idea è sicuramente il più debole. L'ho inserito in rappresentanza dei molti gruppi (procession, Murple, Pholas Dactylus...) che criticano l'alienazione del lavoro in città, fabbrica o ufficio che sia, e rimpiange la vita in sintonia con l'ambiente. Temi peraltro cari a tutta l'italica cultura dell'epoca. Il tutto si può riassumere in "Io a lavorare non ci vado manco morto". Beati voi. I New Trolls! Direi quinto gruppo per fama e gloria nel mondo prog, ebbe una parabola simile alle Orme: inizi beat negli anni '60, svolta di successo nel prog, litigi e avvocati per l'assegnazione del marchio all'una o all'altra parte del gruppo. Artisticamente non mi fanno impazzire, ad eccezione, guarda caso, dell'unico disco sbertucciato da chiunque nel periodo prog, ovvero "Searching for a Land", un album doppio il cui secondo ellepì andrebbe preso e gettato nella differenziata, ma il primo è una botta emotiva dal primo all'ultimo minuto. Consigliatissimo a tutti. Non immediato il Paese dei Balocchi, prevalentemente strumentale e molto orchestrale. La curiosità è che conosco questo gruppo grazie al chitarrista GIAPPONESE degli Acid Mother Temple, totalmente sbalordito del fatto che io non conoscessi questo gruppo notissimo dalle sue parti! Evviva il Giappone. Chiudiamo il 1972 con la ciliegina, il capolavoro del balletto di Bronzo "Ys", sul quale credo di essermi soffermato più e più volte. Se non lo conoscete morite pure ora. Suonato da dio, basato su incroci armonici a-melodici, concettualmente molto figo, non ha quasi difetti, e di certo non ne ha il brano scelto qui. L'età dell'oro inaugurata l'anno precedente prosegue per tutto il 1973. Apriamo con il Museo Rosenbach, gruppo incensato dai fans del genere. Pur avendo secondo me molti momenti deboli, l'intro qui riportato è una bomba. Il batterista, scomparso l'anno scorso, andrà poi a fondare i Matia Bazar. Poi dedichiamo doverosamente un altro pezzo alle Orme, che avrebbero forse meritato una raccolta "personale". L'intro del loro capolavoro "Felona e Sorona" è un capolavoro esso stesso. Di seguito, il misconosciuto Campo di Marte, gruppo dalle ottime sonorità hard e con un ottimo senso della melodia. Misconosciuti anche i Semiramis, nei quali milita un giovanissimo e talentuosissimo Michele Zarrillo, ebbene sì, alla chitarra elettrica. Ascoltare per credere. A seguire, un disco che sta nella mia TOP5 del prog italiano. "Vietato ai Minori" dei Jumbo è suonato magistralmente, ma è soprattutto caratterizzato dai testi espliciti e dalla voce incazzata di Alvaro Fella, un pazzo scriteriato che ancora adesso suona in giro con i C.A.P. parte del proprio repertorio. Ed è pure mio amico su feisbuc! I brani del disco parlano senza mezze misure di solitudine, alcolismo, sfruttamento della prostituzione, eroina, censura e repressione sessuale. Qua e là in questo disco aleggia il VCS3 di "prezzemolino" Battiato, che comunque secondo me all'epoca si divertiva un casino. I De De Lind, delicati e interessanti, chiudono il 1973. La parabola comincia la sua discesa. Nel 1974 l'unico vero capolavoro è la botta hard-rock del Biglietto per l'Inferno, per alcuni il miglior disco di rock italiano di sempre. Mi pare eccessivo, ma se ho la loro maglietta un motivo ci sarà! Dopo cotanto disco, il cantante ed autore dei testi Caludio Canali si farà niente meno che frate, diventando Fra Claudio e sistemandosi in un monastero in Toscana. Un mio collega l'ha pure conosciuto in questa veste, e pare che comunque sia bello spanato come in gioventù... Gli Alusa Fallax hanno all'attivo solo questo interessante concept, che curiosamente contiene anche il tema di "Run Run se fué pa'l norte" degli Inti-Illimani! E questa cosa mi ha sempre fatto molto ridere. Gli Arti & Mestieri del furioso batterista Furio Chirico (i batteristi che non lo conoscono lo guardino all'opera in qualche video sul tubo!), gruppo decisamente teso al jazz-rock, chiudono il 1974. L'anno successivo ha almeno due capolavori di cui uno famosissimo: Profondo Rosso dei Goblin, un altro gruppo che ha vissuto abbastanza per fare svariati album, soprattutto grazie alle colonne sonore, ma non solo. Altro capolavoro è il disco dei melodiosissimi Maxophone, il gruppo italiano che meglio ha imparato la lezione di gruppi come Genesis e Gentle Giant, come dimostra il pezzo da me scelto. Tutto il disco è ad altissimo livello. Ormai in discesa libera, nel '76 troviamo un disco rivalutato molto più tardi, ma che è effettivamente un capolavoro sommo, il Picchio dal Pozzo, i Gong italiani. Straconsigliato, a partire dal pezzo scelto qui. Chiudiamo con la Locanda delle Fate, che fa uscire nel 1977 un disco pulitissimo che potrebbe essere l'epitome del progressive. Per i miei gusti troppo mieloso, sia nelle musiche che nei testi, ma indubbiamente un ottimo lavoro. Che però arriva palesemente fuori tempo massimo: questo movimento, questo genere è ormai morto, e in Italia qualcuno (Ezra Winston, Nuova Era, Men of Lake...) cercherà di resuscitarlo senza nessun successo commerciale più di dieci anni dopo. Una curiosità sulla Locanda è un sontuoso servizio di mezz'ora sulla RAI, un live con interventi di questo dotto vegliardo che commenta e intervista, trattando il gruppo come i protagonisti di "questo nuovo movimento musicale giovane" in cui la musica prevale sui testi eccetera eccetera. Insomma un tempismo e un dominio della materia imbarazzanti. No, davvero, c'è da ridere, ecco il link:https://youtu.be/zOVbF7Dq2_g E questo è tutto. 25 pezzi per 24 gruppi, spero di aver fatto un lavoro gradito. Tenete conto, se ascoltate le due playlist che posterò più sotto, che i proghettari italiani amavano appiccicare tutti i pezzi, da veri proghettari quali sono, e quindi avrete pezzi che appariranno tronchi all'inizio o alla fine. Non so che farci. Se così non gradite, sentitevi la mia vecchia compilation su SoundCloud, che peraltro ha solo sette pezzi in comune con queste! CD 1 - LA SEMPLICITA' DELL'INGENUITA' (1971-1972) 1971 1. Le Orme - Uno Sguardo Verso il Cielo (Collage) 4.12 2. Osanna - L'Uomo (L'Uomo) 3.33 3. The Trip - Caronte I (Caronte) 6.45 4. I Giganti - Tanto Va la Gatta al Lardo - Su e Giù (Terra in Bocca) 7.44 5. Panna Fredda - Il Vento, La Luna e i Pulcini Blu (Uno) 9.55 6. Il Rovescio della Medaglia - Il Giudizio (La Bibbia) 10.10 1972 7. Reale Accademia di Musica - Il Mattino (Reale Accademia di Musica) 9.22 8. Raccomandata Ricevuta Ritorno - Su una Rupe (Per... un Mondo di Cristallo) 5.12 9. Nuova Idea - Mr. E. Jones (Mr. E. Jones) 3.32 10. New Trolls - Searching (Searching for a Land) 4.43 11. Il Paese dei Balocchi - Impotenza dell'Umiltà e della Rassegnazione (Il Paese dei Balocchi) 4.10 12. Balletto di Bronzo - Primo Incontro (Ys) 7.16 Tot.: 77.34 CD 2 - SOSPESI NELL'INCREDIBILE (1973-1977) 1973 1. Museo Rosenbach - L'Ultimo Uomo (Zarathustra) 3.57 2. Le Orme - Sospesi nell'Incredibile (Felona e Sorona) 8.43 3. Campo di Marte - Terzo Tempo (Campo di Marte) 6.20 4. Semiramis - Luna Park (Dedicato a FRAZZ) 4.31 5. Jumbo - Specchio (Vietato ai Minori di 18 Anni?) 7.22 6. De De Lind - Voglia di Rivivere / E Poi (Io non So da Dove Vengo e non So Dove Mai Andrò. Uomo è il Nome che mi Han Dato) 5.39 1974 7. Biglietto per l'Inferno - Confessione (Biglietto per l'Inferno) 6.30 8. Alusa Fallax - Non Fatemi Caso (Intorno alla Mia Cattiva Educazione) 4.30 9. Arti & Mestieri - Gravità 9.81 (Tilt) 4.05 1975 10. Goblin - Death Dies (Profondo Rosso) 4.37 11. Maxophone - Al Mancato Compleanno di una Farfalla (Maxophone) 5.52 12. Picchio dal Pozzo - Seppia (Picchio dal Pozzo) 10.17 (1976) 13. Locanda delle Fate - A Volte un Istante di Quiete (Forse le Lucciole non si Amano Più) 6.36 (1977) Tot.: 78.59 Playlist Youtube: CD1: https://www.youtube.com/playlist?list=PLulW32wqh1rXF1W6AxzzDqIUDthdGvxZl CD2: https://www.youtube.com/playlist?list=PLulW32wqh1rV7nF16dOZT1Ru9b-XxxSrn
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redazionecultura · 8 years ago
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sede: Dorothy Circus Gallery (Roma).
Lasciatevi incantare dal Prime Mover del Pop Surrealismo giapponese Yosuke Ueno. Originario di Tokyo, Ueno concepisce un proprio universo estremamente complesso che rappresenta perfettamente la scena artistica multiculturale da cui proviene. Ueno attinge non solo dalla cultura underground, dai manga e dai graffiti ma anche dall’immaginario iconografico pop, al fine di mettere in risalto gli elementi che fanno parte sia della tradizione giapponese, sia di quella europea ed americana. In questa nuova serie realizzata per la sua prima personale alla Dorothy Circus Gallery, lo spettatore scoprirà un infinito numero di simbologie nascoste e provenienti da diverse culture, che mescolate insieme si fondono in paesaggi dai mille colori che ci appaiono apparentemente come ricordi fantastici provenienti dal mondo dei sogni. Ad uno sguardo più attento scopriamo che le opere di Ueno ritraggono una sorta di Micro Universi, generati dalla fusione del linguaggio contemporaneo ed il suo contesto storico. In questo corpo di lavori caleidoscopico, l’artista fa riferimento al mondo di “Yaoyorozu no Kami” (8 milioni di divinità) invitandoci a sperimentare e ad immergerci profondamente nella nuova filosofia creata dalla cultura contemporanea. Lo spettatore viene catturato da uno scenario trascendentale fatto di elementi magici e un’atmosfera animata. “Positive Energy” offre un’idea chiara circa la qualità drammatica dell’opera, mostrando un spazio immenso e ventilato in cui una parata alquanto bizzarra, guidata da un fanciullo, attraversa la scena. Il gruppo include animali fantastici, figure indistinguibili dagli abiti stravaganti ed accessori inusuali, il tutto guidato da un’esplosione di forme e colori. La composizione nel suo insieme richiama i paesaggi mozzafiato di Miyazaki. In particolare, essa rappresenta una versione parallela al Castello errante di Howl e i suoi scenari inverosimili, che guidano la mente dello spettatore attraverso un viaggio senza tempo verso l’incredibile. Uno sfondo culturale giapponese, unito all’incessante desiderio di guardare oltre la realtà, è ciò che collega i due artisti e volge la loro creatività verso il surreale.
Il mélange di temi contemporanei con le antiche credenze riflette la visione del mondo propria dell’artista. Questo spiega il perché dei soggetti completamente innovativi, che però ancora accennano ad elementi storici.
Nel quadro “Memento Mori” l’artista riproduce la figura popolare e fiabesca di Biancaneve sotto una nuova luce. La scena ritratta richiama il momento cruciale della storia, quando la protagonista è sul punto di ingerire la mela letale. L’imminente conseguenza all’azione è preannunciata dal teschio al centro della scena. Come accade nelle drammatiche rappresentazioni Barocche, la presenza di tale simbolo rappresenta un chiaro riferimento al tema dell’onnipresenza della morte. Questa combinazione degli elementi fa del quadro una creazione “Vanitas”, che mischia simboli esistenti all’approccio autentico dell’artista per rappresentare i temi del tempo e della morte.
Riferimenti specifici ai temi classici emergono anche in “A swallow in the Sun”, dove la figura fluttuante richiama la storia mitologica di Icaro, reinterpretata attraverso l’occhio surrealista dell’artista. “Mugen Sanui” prende il suo nome da “Sansuiga”, una classica riproduzione orientale di paesaggi che tende ad idealizzare la natura esistente, mentre in questo contesto mostra il mondo immaginario dell’artista, attraverso una magica personificazione della natura.
Un altro tema ricorrente è quello degli antichi “Yin and Yang”, i poli positivo e negativo in costante conflitto. L’artista riporta in vita queste forze, conferendogli una forma antropomorfa che suggerisce un’energia significativa.
Tra le forze moventi c’è anche efiL (anagramma di Life), l’essenza stessa della Vita. EfiL è la dominante “potente forza della natura”. Un enorme albero che trasporta simultaneamente sia il peso del tempo che il potere della saggezza metafisica.
Ognuno dei suoi quadri, accuratamente dettagliato da una raffinata tecnica pittorica unita ad interposizioni di diverse tecniche, tra cui lo spray, raffigura e racconta un messaggio pieno di positività e “vitalismo cosmico”. Ogni universo è raccontato da un inedito paesaggio onirico ed i suoi intriganti personaggi fantastici che nascono dalla ormai inconfondibile palette di Yosuke. Scenari accattivanti popolati da elementi naturali, fantastici ed allo stesso tempo mistici, che insieme concorrono all’esecuzione di un carosello psichedelico. Persino il patrimonio del racconto Disney ha trovato un significato più profondo divenendo Memento del Tempo e della filosofia della Dolcezza.
Con quattordici nuove opere, tra composizioni meticolose su grandi tele e ritratti che esprimono tutta la grazia della giovinezza, questa mostra lascerà lo spettatore consapevole ed ispirato dai molteplici Micro Cosmos che riempiono le molteplici realtà dalle quali siamo circondati, aprendo le porte ad una iper-moderna visione della libertà intellettuale, da considerarsi come innovativa condizione mentale.
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Yosuke Ueno. Micro Cosmos sede: Dorothy Circus Gallery (Roma). Lasciatevi incantare dal Prime Mover del Pop Surrealismo giapponese Yosuke Ueno.
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pangeanews · 5 years ago
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“La condizione della scrittura è monarchica, non repubblicana, elettiva non meritocratica”. Dialogo con Roberto Pazzi
Tra i più prolifici e versatili scrittori italiani contemporanei, tradotto in ventisei lingue, con più di trenta pubblicazioni all’attivo tra sillogi e romanzi e vincitore di premi letterari tra i più importanti, Roberto Pazzi è, al di là dei numeri, testimonianza vivente di un’intera esistenza dedicata alla scrittura. Poeta devoto alla classicità ma moderno in modo sorprendente e romanziere di rara inventiva, nelle storie quanto nello stile, è tra i pochi a esercitare con esiti altrettanto felici poesia e prosa. L’abbiamo incontrato, per parlare di letteratura, di cosa è stata e di cosa, forse, è oggi.
Prof. Pazzi, di scrittura con lei si potrebbe parlare per giorni interi senza stancarsi, la prima domanda però, devo fargliela su un altro tema: di questi tempi, è un prezzo da pagare cui non si sfugge. Come ha vissuto il lockdown? Questa situazione anomala è stata favorevole o castrante per la sua ispirazione? Sui social abbiamo assistito ad una vera e propria “narrativa” del fenomeno, sono usciti instant book, e numerosi manoscritti sul tema stanno invadendo le scrivanie degli editori. Scriverà anche lei una storia ispirata al coronavirus e alla quarantena? Cosa pensa della scrittura che si ispira in modo così diretto e immediato all’attualità?
Per carità, non se ne può più delle alte illuminate intuizioni degli scrittori donate loro dalla serrata, mi lasci usare la mia bella lingua e non l’inglese. Ci hanno inondato da tutti i giornali le ricche espettorazioni dei nostrani scrittori, i Veronesi, i Covacich, i Giordano, i Carofiglio, tanto per fare qualche nome. In quei giorni ho scritto delle poesie, sì, certo, almeno sette in due mesi, ma le avrei scritte con lo stesso ritmo anche se non ci fosse stata quella condizione, perché ne scrivo sempre, qualsiasi temperatura ci sia nel mio Paese, da 53 anni. Ma chi di attualità ferisce di attualità perisce, fra qualche mese dubito che quelle pagine possano interessare qualcuno. Il giornalismo si nutre di attualità ma la letteratura muore di attualità, di contingenza, di mode, di rumori che fa il Nulla, perché il Tutto della prima pagina precipita nel Nulla del giorno dopo. Bisognerebbe saper tenere la penna ferma, il dito immobile sulla tastiera. E muovere il pensiero, non rincorrere subito la visibilità per paura di non essere fra i primi posti della vetrina. Abbiamo o non abbiamo diritto all’oblio? Abbiamo o non abbiamo la suprema libertà che sola cercava Emily Dickinson, il bello di poter essere nessuno e non dover gracidare nello stagno fra i ranocchi gareggiando a chi bercia più forte?
È appena uscita per La Nave di Teseo la raccolta di poesie Un giorno senza sera, un compendio di tutta la sua produzione poetica. Si tratta di componimenti mirabili per il linguaggio alto e lirico eppure moderno, comprensibile, oltre che per i temi ben vincolati alla realtà, ricchi di originalità e acutezza psicologica. A detta di tutti però, pubblicare e vendere poesia è sempre più difficile. Eppure i nostri tempi, che vogliono brevità e potenza, parrebbero i più adatti a vederne un grande ritorno. “La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”, diceva Italo Calvino. Chi sono i suoi poeti di riferimento? E crede sia possibile immaginare oggi una nuova poesia popolare di qualità?
I miei poeti di riferimento sono morti. Ma sono più vivi di molti poeti che occupano i primi posti delle istituzioni. Ho sempre, con quei morti che non muoiono mai, un vivace colloquio mentale, anche perché qualcuno ho avuto la sorte di conoscerlo bene da vivo e di ascoltarlo quando mi dava dei consigli su chi leggere e chi non leggere. Per primo Vittorio Sereni, che quando avevo 23 anni garantì con una sua nota la mia prima pubblicazione in versi, il poeta di cui ho amato il sofferto equilibrio fra immagini e pensiero, fra adesione alla stagione presente e viva e necessità di estraniarsene, fra impegno e devianza. E poi, conosciuto anche per 34 lettere che aveva scritto a Sereni, Umberto Saba, amato per quella sua trasparenza della parola che lo rende un classico, dal coraggio “di scrivere la poesia onesta” come scrisse su La Voce nel 1911. Niente retorica, niente intellettualismo, niente ermetiche oscurità, ma canto, in diretta con la “calda vita” di tutti. E poi Montale, tanto diverso, ma così alto nella cifra della sua poesia di pensiero negativo eppure così legata alla vita, lontana dalla retorica dannunziana, fedele alla razionalità eppure aperta alla metafisica. E Penna, con la grazia del suo sguardo pagano, la sua splendida incapacità di crescere e diventare adulto, di negarsi ai miti eroici che metastatizzano da noi subito in fascismo. E Luciano Erba, altro amico conosciuto di persona, così schivo e così parco, sempre attento a scrivere in stato di necessità, cattolico sì, ma della razza dei gran lombardi, alla Manzoni, che sanno coniugare virtù civili e fughe nel sacro. E Clemente Rebora, di cui so a memoria dei versi… “Se Dio cresce il diavolo aumenta/ vetta che al cielo più riesce/ scavando una voragine tremenda”, un poeta che mi ha insegnato che anche in età moderna si può essere dei mistici, che non esiste un’età più adatta delle altre per scrivere una poesia come fosse una preghiera. Là dove lo Spirito soffia è l’età giusta. Ma ho poi amato tanti stranieri, come Pedro Salinas e più in alto di tutti Rilke la cui scoperta a 33 anni, mentre leggevo Michelstaedter, il Nietzsche italiano, insieme a quella di Proust, è stata fondamentale. E i russi, come dimenticarli? Mandel’stam, Cvetaeva, Pasternak. E tornando indietro nel tempo, i classici greci e latini, da Saffo a Catullo, attraversando Lucrezio, Orazio e Virgilio. E Kavafis, un greco moderno che scrive come epigono di quelli antichi e ci indica la nostra condizione epigonica. E il sommo Leopardi. Come si fa, da queste altezze, a tornare a casa, dai poeti di oggi?
Nel corso di ormai cinquant’anni di scrittura lei è venuto in contatto con tutti i principali editori, oltre a numerosi colleghi scrittori. Chissà quanti aneddoti sorprendenti, inquietanti o esilaranti ha da raccontare! Vuole donarcene almeno qualcuno?
Giulio Einaudi, che giunto a Buenos Aires, sulla scaletta dell’aereo, accecato dalla luce dell’estate argentina, dice che era l’effetto Borges… così mi è stato raccontato, ma è come l’avessi sentito con le mie orecchie, perché da ragazzo l’ho incrociato a Bocca di Magra, a casa di Sereni. E lo snobismo di Giulio Einaudi vibrava nella sua conversazione sempre. Da ragazzo, a Bocca di Magra, mi capitò di avere bisogno di aiuto per spingere il mio gozzo in mare; si fece avanti a aiutarmi a spingerla un bell’uomo alto e simpatico, era Elio Vittorini. Eugenio Montale, conosciuto ancora a casa di Sereni, richiesto da questi di precisare se la Casa dei Doganieri fosse la casa della Sanità, in fondo a Bocca di Magra, si schermò nella smemoratezza, di un “non ricordo” che pareva il verdetto di un dio. E Brodskij che a Ferrara ebbe a dire, nel rimpianto del paganesimo che allenava la mente ad associare il divino alle varie forme della natura, che del Sacro sarebbe bene poter avere fruizione come della buona musica, in stereofonico e mai in mono. Pensando alle tre religioni monoteistiche così intolleranti delle verità altrui. Di Calvino ricordo le tre regole del vivere: ogni tanto risolvere un’equazione di secondo grado, ogni tanto ripetersi una poesia imparata a memoria da bambini, e almeno una volta al giorno pensare che potremmo sparire da un attimo all’altro. Omaggi alla matematica, alla poesia e alla filosofia insomma. E il mitico Livio Garzanti, editore dei miei primi cinque romanzi, che accennando alla mancanza di senso epico di una narrativa italiana languente nella morta gora del microautobiografismo, ebbe a dire un giorno “È troppo tempo che non piove”… volendo alludere alla Seconda Guerra mondiale che aveva rifondato anche la letteratura oltre che alla democrazia.
La filiera della scrittura oggi è in crisi, a partire dagli editori, fino agli scrittori e ai librai. L’offerta è sempre più ampia, e si stanno aggiungendo varie forme di autopubblicazione, mentre i lettori sembrano sempre meno. Lei è uno dei pochi che ce l’ha fatta, e questo le garantisce il lusso di poter parlare liberamente, senza il timore di essere additato come “rosicone”, che è quel che capita ormai a chiunque osi criticare l’ambiente letterario. Ma a suo parere, cosa è primario oggi per diventare scrittori? È ancora al centro la qualità della scrittura, o piuttosto l’essere “personaggio”, magari famoso per altro, o la facile adattabilità alla tv o al cinema, oppure l’appartenenza a conventicole?
Per diventare scrittori bisogna nascere scrittori, scrittori non si diventa, così come si nasce re, o folle o genio o sordomuto o autistico o portato per il Male alla Genet… È uno stato di grazia che non si merita. Non si merita la faccia di Greta Garbo, si nasce con quel volto. Non si impara il genio di Mozart, si nasce con quell’armonia in testa. La condizione della scrittura è monarchica, non repubblicana, elettiva non meritocratica. Una favola comincerà sempre c’era una volta un re, mai c’era una volta un presidente della repubblica. Il dono della scrittura è un carisma, che non si può meritare. E per questo è ingiusto, perché ha a che fare con l’esclusione e non con la cooptazione. Ne sapeva qualcosa Proust col tormento dello snobismo, che lo escludeva dagli ambienti del Faubourg Saint Germain. Il privilegio è la metafora della felicità di stato di quella condizione. Troppi oggi sono scrittori di statuto e non di stato, grazie alla tv. Diciamo che hanno sostituito “la grandezza dell’effetto all’effetto della grandezza” come scriveva Musil, così ingiustamente tenuto in ombra dalla fama di Thomas Mann, un altro genio sospetto di essere stato costruito. Ho tenuto corsi di scrittura in giro per l’Italia e a Ferrara, ma un poco mentivo sempre, perché il nucleo della invenzione è di genesi oscura, come l’arte di ballare o di cantare. E non si insegna. Si può insegnare a leggere, molto meno a scrivere. Vero è che in Italia prevale lo scrittore “personaggio”, costruito in tv e nei media. Come Erri De Luca la cui sconfortante banalità scambiata per oracolarità è pari solo all’illusione di credersi colti, dei suoi lettori. Faccio mia l’affermazione dell’amico Massimo Onofri, “la sinistra nel Sud America ha partorito García Márquez, in Italia Erri De Luca”.
Continuando il discorso, la scrittura appare sempre di più non come un mestiere, ma come un hobby, spesso anche costoso. Un esordiente si troverà sempre più a investire in scuole di scrittura, valutazioni ed editing a pagamento, trovando grandi difficoltà per emergere e pensare di vivere della propria scrittura. Come fu per lei l’inizio? Era molto diverso, allora?
Sì, forse oggi è come dice lei, ma come poeta e narratore sono venuto su in un mondo editoriale degli anni Ottanta in cui non era ancora così, anche se non era per nulla facile superare il muro del suono dell’anonimato, da parte di chi esordiva nemmeno allora. Il mio Cercando l’Imperatore, romanzo di esordio, fu rifiutato da 5 editori prima di trovare Marietti che lo pubblicò vincendo il premio Selezione Campiello, e ottenendo ben 14 traduzioni, le due ultime, in arabo e in coreano, nel 2015 e nel 2017.
Chi sono tra gli scrittori contemporanei, rigorosamente viventi, quelli che ama e quelli che non può soffrire, e perché?
Mi piacciono Giancarlo Pontiggia, Vincenzo Pardini, Umberto Piersanti, Renato Minore, Francesca Capossele, Romana Petri, Matteo Bianchi, Claudio Magris, Roberto Calasso, Franco Cardini, Massimo Onofri, Gerardo Passannante, Emanuele Pettener e Alberto Bertoni. Mi vanto di aver scritto, in tempi non sospetti, due prefazioni quando era vivo a due mirabili opere in versi di Alessandro Ricci, di cui oggi è di moda lodare la grandezza poetica postuma sulle orme di Kavafis e che mi piacerebbe aggiungere a questa lista, come se fosse ancora vivo. Non amo Gianrico Carofiglio, il cuginetto di Lilli Gruber, onnipresente televisivo, che fa sospettare di essere il primo a temere che la sua scrittura non vinca il Tempo, col suo inesauribile apparire in tanti talk show. Non amo il banal grande De Giovanni, Francesco Piccolo che oggi guarda dall’alto dell’empireo nannimorettesco dei cineasti i suoi poveri colleghi rimasti scrittori puri, Walter Siti strozzato da uno Strega vinto che l’ha consegnato al tormento di come poi risalire la china, Mazzantini-Castellitto la coppia più bella del mondo. Ma non amo nemmeno i cultori di Terzani, che paiono adepti di una setta mistica e mettono in sospetto sul loro mito, anche se non avendolo letto non posso dire nulla. La lista poi degli autori costruiti dai media sarebbe più lunga, ma perché amplificarla anche qui? Mi limiterò a fare un solo nome, Paolo di Paolo, di bulimica presenza in ogni sito e sede giornalistica.
Nella sua produzione narrativa ha spaziato in molti generi, storico, fantastico, psicologico, intimista, di formazione, ma non mi sembra, almeno a quanto ricordo, che abbia mai scritto un giallo o un thriller. C’è qualcosa che non apprezza o che non la ispira in questo genere, ormai tra i pochi ad avere un certo mercato, o magari lo affronterà in futuro?
Il giallo è un genere importante della letteratura ma oggi fa insospettire di essere così in voga per la facile riduzione televisiva o cinematografica. Ma non tutto il leggibile è visibile, ci sono libri altissimi renitenti alla trasposizione in schermo. Fra i miei 21 romanzi un giallo veramente l’avrei scritto io pure ed è stato tradotto in 18 lingue, Conclave, uscito nel 2001, oggi edito da Bompiani. Invece dell’assassino, vi si cerca il futuro papa, ma la suspense è la stessa. Di recente una grande casa musicale con sede a Londra e New York ha chiesto l’opzione sui diritti di trasposizione in un musical.
Nel suo ultimo romanzo, Verso Sant’Elena, Napoleone sogna tutta la vita che gli è mancata, una vita diversa, da uomo semplice, dedito all’amore e alla famiglia e non al potere. Ha anche lei in qualche modo una sua vita sognata e non vissuta, in cui magari non è scrittore? O la scrittura è del tutto compenetrata con il suo essere?
No, non avrei voluto un’altra vita diversa da quella dello scrittore. La rifarei quella vita. Ma non si sceglie, si è scelti, come dicevo, da un’oscura elezione del destino. Borges, ricevendo dalle mani del re di Spagna il premio Cervantes, ebbe un giorno a dire “Sono particolarmente felice di ricevere questo premio dalle mani di un re, ho sempre pensato che re e poeti adempiano un destino”.
Viviana Viviani
*In copertina: Roberto Pazzi, photo listonemag.it (l’immagine è tratta da qui)
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pangeanews · 5 years ago
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“Sono una stranezza ingombrante”: le 1000 vite di Carlo Coccioli
Le mille vite di Carlo Coccioli non ammettono attese, bisogna percorrerle tutte – il suo tentativo fu quello di darsi alla macchia, rendersi irraggiungibile, esaurendo il veleno di ogni gloria e ogni sofferenza. Coccioli nasce a Livorno, cento anni fa. Nel 1950 è già in lizza per lo Strega, con un romanzo d’impietosa potenza, Il cielo e la terra, edito da Vallecchi. Tradotto in quindici lingue, “questo romanzo… che pone Coccioli sulla stessa linea di un Kierkegaard, di un Léon Bloy, di un Bernanos” (Henry Daniel-Rops) è il primo di una serie di libri – che conta già L’erede di Montezuma e Uomini in fuga – pubblicati da Lindau, con l’intenzione di riproporre l’opera omnia di CC (come a dire, solo i piccoli, tenaci editori, pur stritolati dalla crisi, sanno ancora percorrere le grandi avventure editoriali). Nel 1950, in gara, insieme a Coccioli, c’è l’amico Curzio Malaparte – che lo convincerà a lasciare l’Italia – con La pelle; naturalmente, come si sa, vincerà La bella estate di Pavese. Prima di quell’anno, Coccioli aveva vissuto a Bengasi, al seguito del padre, Attilio, ufficiale dell’esercito, poi a Tripoli, a Fiume, a Napoli, a Firenze. Medaglia d’argento al valor militare, prigioniero dei tedeschi, a San Giovanni al Monte, Bologna, è il 1944, “partecipa a una drammatica evasione, armi in pugno, e attraversa la Linea Gotica” (ricavo le notizie dall’informatissimo sito curato da Marco Coccioli, nipote di Carlo). Scrittore dal talento rapace, precoce – il primo romanzo, Il migliore e l’ultimo è edito da Vallecchi nel 1946; due anni dopo, con La piccola valle di Dio, è nel mucchio dello Strega, vinto da Vincenzo Cardarelli, insieme a Palazzeschi, Comisso, Anna Banti, Giuseppe Berto, il consueto Pavese –, vero e proprio aristocratico della forma (“Maniaco della prosa, della prosa chiara e succinta e precisa, toscana o francese o spagnuola, giacché scrivo in queste tre lingue”, diceva), Coccioli varca il ’50 e cambia vita. È tradotto in Francia, con successo, segue Michel, l’amato, tra Parigi, il Canada, il Messico; pubblica, nel 1952, Fabrizio Lupo, romanzo di un amore omosessuale, un classico, ora, sommerso di critiche, allora, spesso al bavaglio (“In Argentina se ne proibì la vendita, all’epoca del primo Peron, nella circoscrizione di Buenos Aires; i lettori andavano ad acquistarlo, avidi, nei sobborghi. In Inghilterra, già stampato, lo si tenne in sospeso per timore di azioni legali, dal 1958 al 1960”). A Città del Messico frequentava Diego Rivera; dal 1960 scrive, da inviato speciale, per il “Corriere della sera” e “La Nazione”; torna spesso a Firenze, prende a pubblicare in francese (Un Suicide è del 1951; il Journal del 1957; Soleil del 1961); dagli anni Ottanta lo si vede in Texas, a San Antonio. Pare estraneo alla vita letteraria italiana, eppure nel 1976 è al Campiello con il suo libro più grande, Davide, la storia del re biblico, redatta in una lingua intransigente, mobile, mirabile (“Il mio leggendario successo sul mostro blasfemo dalla voce di donna fu seguito da un piacere insipido: i miei fratelli mi leccavano le mani… Giunsi a credere che un angelo mi spalleggiasse”). Il libro fu stampato da Rusconi, riprodotto da Mondadori nel 1989, da Sironi nel 2009. “Si dice che, chi vuol farsi desiderare, deve negarsi. Sottrarsi. Nascondersi. Farsi cercare. Devo dire che la ricerca delle opere di Carlo Coccioli… è stata una vera e propria esperienza erotica”, scriveva allora Giulio Mozzi, gran maestro del club dei ‘coccioliani’. Per la cronaca, quell’anno il Supercampiello coronò Il busto di gesso di Gaetano Tumiati – libro ora scomparso dal panorama editoriale. Nel 1982 Coccioli fu ancora allo Strega, con La casa di Tacubaya: il premio andò – giustamente – a Goffredo Parise, per Sillabario n.2, Coccioli sparì all’ombra di un De Carlo qualunque (in quel caso, quello di Uccelli da gabbia e da voliera). Nel 1988, fu sequestrato, poi rilasciato, “le successive indagini non hanno mai fatto luce sui mandanti e sul movente del rapimento”.
Forse oggi, a un secolo dalla nascita, per CC è la volta buona: la sua vita da romanzo è diventata un romanzo, Grande karma. Vite di Carlo Coccioli, firmato da Alessandro Raveggi (che intervisto qui sotto) per Bompiani, uscirà tra un mese; i suoi libri, come detto, tornano degnamente in commercio, in una collana specifica, pensata per lui. Scrisse di cattolici inquieti – come fecero Sergio Saviane, Mario Pomilio, Diego Fabbri – scoprì l’ebraismo (in Davide, in Documento 127), cui apparteneva la madre, scrisse una avvincente biografia su Budda e il suo glorioso mondo (Rusconi, 1989). “In questo caos in cui soffochiamo, io sono una stranezza ingombrante: non soltanto io credo in Dio, ma anche non riesco a non occuparmene. Me ne occupo fino all’ossessione. E Dio, a sua volta, mi occupa. A volte è molto fastidioso, ma non si sceglie sé stessi”, ha dichiarato, l’inafferrabile Coccioli. Morì a Città del Messico, nell’estate del 2003, “essendogli stati offerti gli estremi sacramenti, li ha rifiutati con gentilezza”. Per molti versi, fu più letto e capito nel resto del mondo che in Italia; probabilmente, preferiva così. Lo scrittore scrive per agguantare Dio, per aggiudicarsi la sua nudità – infine, ne diventa il cibo; si prega, anche, dando valore di consonante ai morsi. (d.b.)
Carlo Coccioli. Perché leggerlo? Perché nessuno lo legge più?
Leggerlo perché per tematiche e ibridismo dello stile è un autore attualissimo in una condizione multilinguistica delle lingue (Glissant docet) e perché ha insegnato un nuovo modo di raccontare il viaggio come migrazione personale e interiorizzazione radicale di altre culture. Perché nessuno lo legge più? In realtà Coccioli è molto letto, i suoi libri all’estero hanno venduto molto, ma forse sono gli specialisti e critici che dovrebbero riprenderlo, perché i lettori di Coccioli sono una specie di congrega clandestina di assoluti innamorati che conservano il culto molto gelosamente. E forse non è più letto perché è stato un mito respingente e ‘sciocco’ (come lui stesso direbbe).
Una vita, forse centomila. Qual è l’evento capitale nella vita di Coccioli?
Uno degli eventi capitali della vita è un evento poco raccontato: quando fu ospite di Curzio Malaparte a Capri. E quello lo convinse ad andarsene dall’Italia. Da lì Coccioli si è giocato tutto. Poi ovviamente ci sono tante folgorazioni, tanti ‘miracoli’ che lui racconta, e che io ho ripreso nel mio romanzo. Ma vorrei partire da un evento banale appunto: una cena deludente con Malaparte, dove quest’ultimo servì solo insalata e pomodori. Coccioli si divertì e si lamentò per la scortesia malapartiana. Ma, da quella cena, decise di farsi consigliare da Malaparte, di seguirlo. Dopo pochi anni, Coccioli sarebbe stato famosissimo in Francia.
Cattolicesimo, ebraismo, buddismo. Attraversa la terra e i territori religiosi, Coccioli. Perché? Connaturata inquietudine, spirito di ricerca, istinto al gioco, al combattimento con Dio? E poi: dove si aggiusta meglio, infine, in quale fede?
Inquietudine corroborata dall’infanzia libica negli anni Trenta, dove venne attratto dalle tre grandi religioni monoteistiche e ad un tempo cominciò a sentire una voce, quella dello jinn, un essere genio-angelo che dalla cultura pagana arriva a presentarsi in varie forme, anche nelle tre suddette religioni, a volte espressione del travaglio omosessuale stesso. Nella sua vecchiaia, Coccioli dichiarò di aver trovato infine nel buddismo un ‘pianerottolo’ di questa scalata verso Dio. Ma solo perché al buddismo, lo dicono gli stessi buddisti, non ci si più convertire. Credo che alla fine della sua vita, fosse abitato da tutte le precedenti conversioni. Una summa incredibile di questo approdo è il romanzo Le case del lago.
Il libro che ti piace di più di Coccioli. Quello che consigli a chi di Coccioli sa nulla. 
Ce ne sono diversi. Per il mio romanzo ho letto veramente tutti, e forse quasi più i minori e quelli di passaggio, che i grandi classici. Il cielo e la terra quando lo lessi la prima volta mi parve un gran libro davvero, capace di riscrivere il neorealismo. Anche il succitato Le case del lago mi piacque davvero moltissimo, nella sua forma di romanzo-interrogatorio, romanzo-meditazione. Davide è un libro perfetto, ma l’ho sempre trovato molto ostico, preferendogli il suo gemello messicano, L’erede di Montezuma, dove Coccioli riscrive l’italiano con l’influsso del nahuatl. Molto interessante anche La difficile speranza, che fu il libro per il quale Malaparte scrisse, in ritardo, una prefazione per benedire l’autore, Coccioli, che credeva il migliore delle nuove generazioni.
Cosa leggeva Coccioli, che rapporti aveva coi suoi contemporanei? 
Leggeva molto e leggeva molte cose. Da trattati sull’induismo, ai mistici ebraici, dai filosofi cattolici francesi a Gide, da Kerouac a Milarepa, onnivoro davvero e poco interessato alla letteratura italiana a lui contemporanea (questo non ha aiutato, perché non ha potuto avere accesso alle conventicole, autoescludendosi). Non aveva un proprio canone.
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pangeanews · 5 years ago
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“È un romanzo mistico, la storia di un’anima in guerra con sé stessa, un’anima dannata”: dialogo con Monica Pareschi. Ha dato nuova lingua a “Cime tempestose”
Ancora, per fortuna, attrae e atterrisce, lascia attoniti, intontiti per eccesso – come si guarda il mare dalla cima di una scogliera, l’onda si frantuma, bianca, e pensi di poterlo annodare al dito indice, quel bianco, pare un nastro di nebbia, protetto, senza scambio di sangue. “Cime tempestose è un’altura solitaria, che si eleva da un’esperienza di vita che mi confonde… è un racconto visionario che mantiene ancora la sua capacità di sconvolgere il lettore comune”, scriveva Harold Bloom, installando Emily Brontë tra i geni letterari di ogni tempo, nello stesso ‘girone’ – mi riferisco al libro, audace e felice, Il genio – di Virginia Woolf e Jane Austen. Come si sa, quel libro, pubblicato nel 1847 da Thomas C. Newby, a Londra, con il velo dello pseudonimo, Ellis Bell, sconcertò i lettori vittoriani: “Wuthering Heights è una storia spiacevole”, scrisse l’“Athenaeum”, “non esiste un personaggio che non sia totalmente odioso… o disprezzabile” lo bacchetta l’“Atlas”. Su tutto aleggia una bruma demoniaca, convergono un poco tutti, pur riconoscendo che l’orrore attrae, che quel “libro strano, che confonde ogni critica regolare” è “impossibile iniziarlo senza finirlo” (così il recensore del “Douglas Jerrold’s”), dacché, in effetti, è una specie di sortilegio che tiene sotto scacco e sotto incanto, intontisce, appunto, e strazia. Il romanzo, diamante oscuro della letteratura inglese, dissanguò, letteralmente, l’autrice, Emily, che spirò di lì a poco, nel dicembre del 1848, dopo il fratello amato e sregolato, Branwell (che morì in settembre). “Profonde, appassionate, le sue felicità sono state la poesia, gli animali, le brughiere, la sua famiglia: in loro trovava libertà e pienezza. La morte non le è nemica: che ci sia o meno un «mondo splendido» dove liberarsi della propria prigione, le darà almeno l’atteso riposo ma deve somigliare alla “sua” terra per valere la pena di scoprirlo. Per compiacere Charlotte ha esposto il cuore agli artigli della Londra letteraria ma Ellis Bell resta una creatura solitaria”, scrive Paola Tonussi – da cui ho reperito molte notizie – nella raffinata biografia dedicata a Emily Brontë, edita da Salerno nel 2019. Libro miliare e inesorabile, “un diavolo di libro, un incredibile mostro”, lo diceva Dante Gabriel Rossetti, Cime tempestose è stato tradotto innumerevoli volte – la prima edizione, per i Treves, è del 1926, lo hanno ‘maneggiato’, tra i tanti, Elio Chinol e Bruno Oddera, Bruna Dell’Agnese e Margherita Giacobino, Beatrice Masini e Marta Barone – così che la versione Einaudi per mano di Monica Pareschi (già eccellente traduttrice della sorella di Emily, Charlotte, e di Bernard Malamud, di Doris Lessing, di Shirley Jackson, James G. Ballard, Paul Auster) è un piccolo evento editoriale. Nel mio privilegio di lettore, oltre a interrogare chi ne sa più di me, mi sono messo a fare un esercizio. Alcuni passi di Cime tempestose (questo, ad esempio: “Il suo insediamento a Wuthering Heights portò un’indicibile angoscia. Mi convinsi che Dio avesse abbandonato la pecora smarrita alle sue abiette peregrinazioni, e che una bestia feroce se ne stesse acquattata tra la casa e l’ovile, pronta a balzare e a seminare distruzione”) mi hanno ricordato il Cormac McCarthy più arcaico e biblico, in bilico sugli assoluti. L’osservazione mi ha fatto sorridere. Forse Emily Brontë – cioè il suo mefistofelico specchio, Heathcliff – è il remoto modello, l’idolo, del Giudice Holden che sparge terrore e innocente spietatezza lungo quel mattatoio superbo intitolato Meridiano di sangue. (d.b.)
Parto con una domanda generica. Qual è l’‘attualità’ formale e letteraria del capolavoro di Emily Brontë? Voglio dire, che senso (inteso come: significato) ha oggi leggere “Cime tempestose”? Piuttosto, che impressione (da lettrice che anatomizza le parole) ti ha dato?
Comincio dalla seconda parte della domanda, dell’impressione o meglio delle impressioni che in diverse fasi ho avuto di Cime tempestose. Avevo letto il libro da ragazza, credo intorno ai quindici anni, quasi di nascosto. Imperversavano i tardi anni Settanta, gli anni di piombo, i collettivi studenteschi. Io ero una ginnasiale timida che desiderava in primo luogo uniformarsi, essere accolta nel grande abbraccio rassicurante dei pari, come la maggior parte degli adolescenti. Gli adolescenti impegnati, ai tempi, leggevano altro, o fingevano di leggerlo. La narrativa dell’Ottocento non era esattamente cool; a parte i testi-bibbia dei filosofi del comunismo, dalle sacche di noi studenti usciva molta roba sudamericana, o francese, rigorosamente novecentesca. Le idee, ecco, credo cercassimo questo in ciò che leggevamo: e dunque molta saggistica, e poi autori come Sartre, Malraux. Tra gli italiani Fenoglio (che curiosamente di Cime tempestose scrisse un adattamento teatrale) e Pasolini. Forse c’entrava l’equivoco che leggere dovesse insegnarci qualcosa, nel nostro caso a essere liberi, a raddrizzare le storture del mondo. Qualcuno, volenteroso, lesse Dickens, forse in omaggio a Marx. Io avevo già letto Balzac e Stendhal, ero stata ipnotizzata da Mathilde de la Mole che folle di dolore gira con la testa di Julien Sorel decapitato in un cesto – la follia, dunque, l’elemento gotico all’interno di un romanzo così politico e realista come Il rosso e il nero – ma i romanzi delle sorelle Brontë in Italia erano ancora considerati libri per signorine, letture da ragazze da marito. Immagino che più del libro, così strano e bizzarro rispetto alla letteratura coeva, in Italia si conoscesse il film di Wyler del ’39, che prevedibilmente accentua l’aspetto romantico a scapito degli elementi più perturbanti. Tieni conto che la prima traduzione italiana è del ’26. Lo lessi e, credo, lo misi da parte spiazzata. Quel mondo chiuso, pietroso, claustrofobico non dovette rivelarsi funzionale al mio progetto di autoeducazione e di crescita, di apertura al nuovo. Poi venne l’università, gli anni Ottanta, i primi seminari di Women Studies importati dagli USA. Improvvisamente una grossa fetta di letteratura (femminile ma non solo) venne sdoganata, si incominciò a leggere con occhi diversi, con uno sguardo più sottile. Il godimento, la lingua e, direi, l’intelligenza della scrittura, tornarono a essere al centro dell’esperienza. Si scoprì che si poteva parlare degli uomini e del mondo, della loro ipocrisia, crudeltà, grettezza, pusillanimità, e del loro coraggio, della loro nobiltà, descrivendo le dinamiche in atto in un salotto della provincia inglese, dove l’attività più perseguita era combinare matrimoni, mentre altrove avanzavano le truppe napoleoniche. Nemmeno allora mi soffermai più di tanto su quel libro, preferendogli le sottigliezze austeniane, lo sperimentalismo della Woolf, le amatissime Dickinson e Plath. Rilessi Cime tempestose nei primi anni Novanta. A quel punto ero un po’ meglio equipaggiata: nel frattempo, credo, avevo imparato a leggere. Avevo anche letto molta poesia anglosassone, e, per un periodo, parecchi testi mistici, da Angela da Foligno, a Marguerite Porete, alla Nube della non conoscenza. Mi parve, appunto, un romanzo mistico, la storia di un’anima che si sdoppia e parla a sé stessa, un’anima in guerra con sé stessa, un’anima dannata (imperscrutabilmente e doppiamente dannata, secondo l’etica protestante) che nell’impossibilità di riunirsi si lascia morire, o meglio si dà la morte; e però un’anima pagana, che nella morte non si ricongiunge a Dio ma alla terra, alla roccia, al vento. Ed è come se quella grande guerra interiore non potesse combattersi che in quei pochi ettari di brughiera, nell’isolamento dal mondo, in assenza di mondo. Il mondo, in Cime tempestose, è un altrove innominato: è il luogo dove le cose cambiano. Cime tempestose, l’amore e l’odio che vi si svolgono, sono il luogo dell’immanenza: la roccia, la natura che è tutt’uno col personaggio e il suo nome: Heath-cliff. Tutto questo per dire che leggiamo ogni opera del passato con occhi inevitabilmente nutriti del nostro presente, e non può che essere così. I classici sono i libri che superano la prova del presente perché dal presente traggono nuovi significati.
Sul piano formale, è noto come il libro abbia spiazzato a lungo i critici contemporanei: è come se il romanzo vittoriano ai suoi albori contenesse già i germi della sua distruzione. Saltano i capisaldi della narrativa del tempo, con una cinquantina abbondante di anni d’anticipo rispetto alle avanguardie novecentesche. La narrazione è multipla, a scatole cinesi; non c’è progressione né educazione dei personaggi, tipica del romanzo borghese – se si eccettua la coppia Catherine figlia-Hareton nessuno cambia idea, prospettiva, strategia, posizione sociale ecc. Coppia questa che fa pensare sì a una conciliazione finale, ma che allo stesso tempo decreta l’immobilità e l’endogamia a cui è condannata anch’essa, visto che i due sono cugini. Anziché un andamento progressivo, come per esempio in Jane Eyre, che avevo tradotto prima, dove le vicissitudini portano a un punto di vista diverso del personaggio, lo mutano profondamente sul piano materiale e spirituale, insomma lo educano, qui non si va da nessuna parte. I personaggi, isolati da qualunque contesto sociale, sono costretti a un andirivieni perpetuo tra i poli opposti e speculari delle due dimore, Wuthering Heights e Thrushcross Grange, come in una sorta di supplizio infernale. Tutto ciò che avviene in termini di cambiamento sociale (la ricchezza acquisita di Heathcliff, la fuga al sud di Isabella Linton) rimane vago, avvolto nella nebbia, come se non fosse pertinente al nucleo della storia: un nucleo selvatico, primitivo, uno scenario ideale per lo scatenarsi di passioni divoranti, nel segno dello Sturm und Drang. Allo stesso tempo, se guardiamo alla struttura del libro, si dovrà aspettare parecchio tempo prima di assistere a uno sgretolamento altrettanto radicale e nichilista del romanzo borghese.
Come hai lavorato nella lingua della Brontë e che peculiarità ha questa lingua? Ad esempio: hai tenuto conto delle molte traduzioni precedenti e dei reperti critici intorno al romanzo? Tradurre significa anche rivivere la vita di una scrittrice così particolare come la Brontë o è preferibile compiere un freddo esercizio di chirurgia retorica?
In un romanzo fatto eminentemente di voci, spesso discordanti tra loro, ho cercato in primo luogo di restituirne una differenziata a ciascun personaggio-narratore. Quindi una voce il più possibile “abbaiante” a Heathcliff (per cui nell’originale si sprecano le metafore canine e lupesche); una a Nellie, al cui superficiale buonsenso è affidata la parte più cospicua della narrazione; e a Lockwood, lo straniero e primo narratore, una voce in cui risuoni tutto lo scetticismo dello straniero beneducato che si ritrova in un mondo alieno, dove la crudezza delle passioni non conosce filtri. C’è poi la questione della resa del dialetto dello Yorkshire in cui si esprime la servitù e in particolare il servo Joseph, figura grottesca e quasi caricaturale nella sua malevolenza puritana. Nell’impossibilità di ricorrere a termini dialettali o comunque troppo geograficamente connotati, ho lavorato in parte sul lessico e in parte sulla sintassi, nell’intenzione di ricostruire un identikit espressivo adeguato al personaggio: una lingua stralunata e grottesca, da predicatore ubriaco. Per il resto, la lingua di Emily, come già ampiamente argomentato da Virginia Woolf, è una lingua fortemente poetica – e poeticamente controllata – alla quale è necessario aderire il più possibile senza cedere ad alcuna semplificazione. Impossibile, almeno per me, tenere conto di tutto il materiale critico, anche solo nelle lingue che leggo, e delle numerosissime – a questo punto lo sono – traduzioni. Di solito in questi casi ne tengo quattro o cinque, più o meno recenti, sulla scrivania, che consulto per chiarirmi certe ambiguità testuali, o anche per orientare certe mie scelte stilistiche, non necessariamente in contrapposizione con quelle di chi si è confrontato prima col testo. Va da sé che il lavoro di chi ci ha preceduto è sempre prezioso, sia come materiale di confronto sia come spunto per tentare altre strade. E no, non sono un’appassionata di biografie di scrittori. Se il relativo isolamento in cui è vissuta Emily, l’essere stata la figlia di un pastore protestante, cresciuta orfana di madre in una casa dove molti morivano da bambini, aver avuto un fratello alcolizzato e poi dedito all’oppio possono aver avuto un peso nelle circostanze esterne del suo romanzo e nella genesi di alcuni tra i suoi personaggi, credo che le ragioni di un’opera così visionaria e allo stesso tempo così sapientemente costruita vadano ricercate all’interno dell’opera stessa.
Ritaglia una frase, un capoverso che a tuo avviso è indicativo della tensione narrativa e linguistica che trasuda da “Cime tempestose” (un brano, intendo, che ti soddisfa in particolar modo)?
Uno scambio, nella seconda metà del libro, tra Catherine figlia e Linton Heathcliff, suo cugino e poi marito, che illustra bene, all’interno di un solo capoverso, quella rigida simmetria (riscontrabile persino nei nomi dei personaggi) che costituisce l’ossatura del romanzo, come una sorta di gabbia, quella dialettica binaria che qui è ben esemplificata dall’idea di movimento in Cathy e quella di stasi in Linton. “A un certo punto però abbiamo rischiato di litigare. Lui diceva che il modo migliore di passare una calda giornata di luglio era starsene sdraiati da mane a sera su un pendio d’erica in mezzo alla brughiera, con intorno il ronzio irreale delle api tra i fiori, e il canto delle allodole lassù, e il sole forte che splende senza sosta in un cielo azzurro e limpido: era questa la sua idea perfetta di felicità celeste. La mia invece era cullarmi tra la verzura frusciante di un albero, con il vento che soffia da ovest, e nuvole candide che scorrono rapide in alto, e non solo allodole ma anche tordi, e merli, e fanelli, e cuculi, e la loro musica che si riversa da ogni parte, e la brughiera in lontananza, interrotta da forre cupe e fresche; e, più vicino, tutto un ondeggiare di erba alta che il vento gonfia in enormi flutti, e boschi, e un risonare d’acque, e il mondo intero desto e pazzo di gioia. Lui voleva tutto disteso in un’estasi di pace; io che tutto scintillasse, e danzasse in una grande, magnifica festa. Io ho detto che il suo cielo sarebbe stato vivo a metà, e lui che il mio sarebbe stato ubriaco; io ho detto che nel suo mi sarei addormentata, e lui che nel mio, non avrebbe respirato e ha cominciato a irritarsi molto…”. (p. 281 dell’edizione Einaudi)
Come traduci? Cioè: che strategie, che spergiuri, che manovre adotti per ‘assalire’ il testo, per evitare che l’esercizio diventi automatico, ripetitivo, anonimo?
Ho bisogno di un leggio – ne ho uno bello solido, di legno, regalo di un amico traduttore, e uno pieghevole, di metallo, da infilare in valigia –, di un computer portatile che da qualche anno è un Mac, di un libro cartaceo, sempre più difficile da ottenere in quest’epoca editorialmente frettolosa, di una matita, di una penna, di alcuni fogli di carta su cui scarabocchiare ipotesi di traduzione o scarabocchiare e basta. I gesti apotropaici sono semplicissimi, prosaici. Preparo il file impostando il carattere – ne uso tre o quattro a seconda dell’umore – scrivo sul frontespizio il nome dell’autore e il mio in corpo 14, il titolo in corpo 16. Mi faccio un’agenda di massima che prevede un numero di cartelle ragionevole a settimana; l’agenda cambierà molte volte diventando sempre più compressa e ansiogena per adattarsi ai piccoli e grandi imprevisti della vita. Non leggo mai prima il libro che devo tradurre; ovviamente, come nel caso dei classici, può capitare che l’abbia letto in un altro momento, ma la lettura per me non è mai funzionale alla traduzione. Mi piace lasciarmi attraversare dalle parole, dal ritmo della scrittura, con meno preconcetti possibile. È un po’ il contrario di quello che dici tu: non sono io ad assalire il testo, è il testo ad assalire me. Conosco traduttori che prima di mettersi a tradurre leggono attentamente l’originale, anche più volte, in un certo senso appropriandosene. Nel mio caso la lettura è la traduzione: quindi una lettura lenta, verticale, minuziosa, piena di interruzioni e strappi. A volte c’è un’accelerazione, un momento di felicità in cui le parole scorrono più veloci sotto le dita, in cui il ritmo dell’originale è miracolosamente in sintonia con il nostro respiro. Sono momenti di felicità quasi fisica, ma sono rari. La prima stesura è perlopiù faticosa, a volte tediosa, piena di dubbi e di lacune. Non credo si sfugga a questa fase: all’inizio, è davvero uno sporco lavoro. Un libro è qualcosa di concreto, pesante, corposo e corporeo, fatto di carta, di pagine, di caratteri. È un peso che va trasportato da un’altra parte. C’è un aspetto molto fisico nel tradurre. La scrittura non è un’attività naturale, il corpo ne risente. Le spalle, gli occhi. La postura. Tutto questo per dire che gli automatismi, la noia, la ripetitività sono una parte abbastanza cospicua di questo lavoro. Mi piace molto la fase in cui rivedo e aggiusto il lavoro “sporco”, di miniera: diciamo che dalla seconda stesura in poi tutto si fa più sottile, più raffinato. Lì se sei fortunato senti la musica, il ritmo, il testo è diventato anche tuo, è un’altra cosa rispetto all’originale ma una cosa in cui l’originale risuona forte e bene, una sua vita ulteriore. Del tradurre mi piace in primo luogo l’ordine che dà alla mia vita. Mi piace come scandisce le mie giornate, che senza questa attività sarebbero molto più informi, caotiche, dispersive. Mi piace la quieta disciplina che impone. Lavorare sulle parole mi permette di vivere in una dimensione soprattutto interiore, che è quella dove sto meglio. Né sopra né sotto le righe – non sono una traduttrice umile, solo una donna un po’ sociopatica – ma in mezzo.
Dimmi: il libro che ha formato la sua giovinezza, che ti ha ‘cambiato la vita’; quello che vorresti tradurre. 
I libri che si leggono per primi sono davvero i più importanti, credo. I miei primi libri adulti, quelli che ho pescato un po’ a caso nella biblioteca dei miei genitori, sono stati quelli di Pavese. Non mi hanno cambiato la vita ma sono abbastanza certa che hanno modificato la mia lingua di traduttrice. Immagino ci sia un nucleo linguistico-affettivo che viene da lì, una specie di lingua madre letteraria. Altri libri che ho letto prestissimo e di cui conservo un’impressione forte: I Buddenbrock, Il rosso e il nero, Madame Bovary, Diario di una giovinetta di un’Anonima viennese, in realtà una psicoanalista della cerchia di Freud e membro della Società Psicoanalitica di Vienna, anche questo trovato nella biblioteca dei miei. Me lo ricordo come un libro perturbante e bellissimo. Se potessi scegliere, vorrei che un editore mi affidasse un grande libro di racconti: possibilmente i Dubliners di Joyce.
Dimmi: il libro che sei stata più felice di tradurre (magari in forme inattese); quello che ti ha messa più in difficoltà. 
Sono sempre felice di tradurre i libri di Alice McDermott, un’autrice che credo meriterebbero più attenzione critica e un pubblico un po’ più folto in Italia. E Cime tempestose, naturalmente. Ma forse il libro che mi ha messa più alle strette e che allo stesso tempo mi ha dato più soddisfazione tradurre è stato Le vite di Dubin di Bernard Malamud, che ho tradotto per i Meridiani.
Cosa stai leggendo?
Lo sai che i traduttori – dovrei dire i traduttori professionisti, ossia quelli che di lavoro fanno solo o soprattutto il traduttore, come me – faticano a leggere per il puro piacere di farlo? E poi finisce che mentre leggiamo vivisezioniamo il testo, perché è quello che siamo abituati a fare quando lavoriamo. Se poi si tratta di un testo tradotto, pensiamo a come doveva essere l’originale. L’estate scorsa in dieci giorni di vacanza vera e solitaria, su un’isola greca con pochi turisti, in giugno, ho letto tre romanzi italiani in dieci giorni, uno decisamente corposo. Sono una lettrice piuttosto lenta. A casa, se lavoro, ormai riesco a leggere solo cose brevi, quindi poesie e racconti. Sto rileggendo quelli di Clarice Lispector usciti da poco per Feltrinelli, quasi tutti ritradotti. Per fortuna non so il portoghese, e questo fa di me una lettrice più ingenua e gaudente. Ovviamente continuo a comprare molti libri, che leggerò quando cambierò lavoro. O quando tradurrò solo un paio di libri all’anno.
*In copertina: Ralph Fiennes e Juliette Binoche in una traduzione cinematografica di “Cime tempestose”, del 1992
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pangeanews · 6 years ago
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“La rana è bella come l’angelo serafino”: Angelus Silesius, il mistico che influenzò Rilke e Borges
Arrivano come coltellate, liane di luce che non puoi schivare, serpenti che fanno giubilo nella giugulare. I distici di Silesio vanno assorbiti appena svegli, quando l’alba sfonda l’utero della notte, tenuti sotto la lingua, a sorvegliare la ‘ragione’ e ripeterli, senza ruminare pensiero, altro. “Uomo, nulla è imperfetto: l’arena è simile al rubino/ la rana è così bella come l’angelo serafino”. Basta questa piccola feritoia per avviarci al vivere – il male è non avere parole per dirlo, e muta mutevolezza verso la gioia.
*
Angelus Silesius (1624-1677), nasce, il giorno di Natale, nell’anno in cui muore il suo maestro di sguardo, Jacob Böhme: è parte dei grandi mistici di Svevia, forse il più spericolatamente ispirato. Nel Seicento l’uomo guarda la Luna e scopre il ‘metodo’ scientifico (Galileo), impone dubbio e geometria (Cartesio) come modo di studiare il mondo scevro da superstizioni, scopre che l’uomo è e non è, una tribuna di contraddizioni (Shakespeare), che l’immaginazione vince la realtà (Cervantes) e che il fedele è solo al cospetto del male e di Lui, senza mediatore che tenga (Lutero). Alla sfera si sostituisce l’ovale, al cerchio, in cui Leonardo inscrive l’uomo, la spirale in cui svanire: l’arte è teatro, maschera, finzione. Perduto Dio nel groviglio dei ragionamenti, il mistico si aggiorna alla vertigine: la poesia rivoluziona la grammatica, procede, senza mezzi verbali, per associazioni, allusioni, svenimenti. Vagabondaggio e minaccia: creatura che s’intrufola nel buco del creato, nella narice del creatore.
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“Immensurabile è Dio: eppure lo puoi misurare,/ se misuri il mio cuore, poiché da lui è posseduto”; “Uomo, tutto ti ama, attorno a te fa ressa:/ tutto corre a te per giungere così a Dio”. In Silesio, con proprietà d’estasi, i contrasti sono raffinati in fiamma, l’assurdo è trama divina, sconcerto ha valore di concordia. Proprio l’inaccettabile è il segno del divino; ciò che è ‘giusto’ si stanzia nelle leggi umane. Dio ama pretendendo, è dirompente.
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Un amico che mi conosce, mi regala una edizione straordinaria del Pellegrino Cherubico di Silesius. Quella ‘completa’, per così dire, è edita trent’anni fa da San Paolo, per la cura di Giovanna Fozzer e Marco Vannini. La mia, il dono, è una edizione di pregio ma ‘manuale’, da portarsi in giro – e lo faccio, perché, credete, un distico di Silesio è cocaina lirica, se sono annebbiato dal peso umano, apro a caso, leggo, “Dio abita in una luce alla quale non v’è accesso:/ chi non diventa la luce, non lo vede in eterno”. La ha stampata, nel 1990, l’editore La Locusta di Vicenza; la traduzione di alcuni distici scelti è di Giuseppe Faggin, grande studioso di Plotino. A suo avviso il “tono inconfondibile degli epigrammi” di Silesio lo avvicina “alla grande corrente religiosa che dalla Bhagavad-Gita, dal Tap-Te-King discende a Plotino, a Eckhart, a Dante”. Mi basta entrare nei gangli della parola ‘cherubico’: l’evidenza è con Cherubino, l’angelo che secondo San Tommaso è versato in scienza divina; il Cherubino è legato a kèrub che vuol dire pregare. Un canto si avvia nel pellegrinaggio: bisogna lasciare, abbandonare, senza ritorno, sul lastricato del canto.
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Silesio, per eccedenza linguistica – poesia che tormenta l’indicibile con decisione – è il mistico dei poeti. Il legame con Rainer Maria Rilke è testimoniato prestissimo: su Angelus Silesius und Rainer Maria Rilke scrive Wilhelm A. Schulze nel 1958 in “Evangelische Theologie”; d’altronde già nel 1925, su “Il Baretti”, Elio Gianturco, che parla di Silesio come autore mistico che supera i contemporanei “per un più sentito tremore dinanzi alla rivelazione ineffabile”, avverte la prossimità con Rilke (“Se la maggior parte dei conterranei guarda a Rainer Maria Rilke come ad un segnacolo, è, più che per la portentosa perfezione dei suoi canti impeccabili, per quello che in essi manifesta di fiducia inconcussa un’anima che ha sopravvinto il dissidio interiore e conciliatolo in una realtà superna”).
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In particolare, l’affinità diretta è tra questo distico perfetto:
“La rosa fiorisce senza perché: fiorisce perché fiorisce, a se stessa non bada, non chiede d’esser veduta”
…e questa poesia di Rilke, tra i Sonetti a Orfeo:
Rosa, tu fiore in trono, per gli antichi eri un calice dal semplice orlo. Per noi il pieno, innumerabile fiore, l’oggetto inesauribile.
Veste su veste nella tua ricchezza avvolgi un corpo che non è che luce; ma ogni tuo petalo ad un tempo elude e rinnega ogni veste.
La bellezza è, con violenta naturalezza, e se è tale sparisce, non vuole essere vista – è la visione. Il pudore è una aristocrazia da conventuali al vivere.
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Rilke cerca una parola ‘soprasensibile’, che superi i limiti della poesia europea, dove “la vista, sovraccarica di mondo, sopraffà di continuo” il poeta. Rilke desidera una poesia di “sensazioni estreme, di confine”, dove accada la “partecipazione degli altri sensi” – qui ricorda il Rimbaud della “sregolatezza di tutti i sensi” –, perché “il mondo afferrato contemporaneamente con cinque leve compaia… su quel piano soprannaturale che è appunto il piano della poesia”. La poesia ‘totale’, che tocca tutti i sensi, è la mistica.
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Tra i lettori più accaniti di Silesio – per ragioni d’eminenza bibliografica più che mistica – va detto di Jorge Luis Borges. In un articolo del 2004, pubblicato su “El Trujamán”, Carlos García sintetizza i rapporti tra Borges y Angelus Silesius. Per Borges, Silesio è il mistico-poeta per antonomasia, e ricorre nella sua opera innumerevoli volte. In particolare, in L’altro, lo stesso, nella poesia Otro poemas de los dones, Borges cita “le monete mistiche di Angelo Silesio”, mentre nella lirica Al idioma alemán – in, L’oro delle tigri – il grande scrittore ammette, “Le mie notti sono piene di Virgilio/ ho detto una volta: lo stesso potrei dire/ di Hölderlin e di Angelus Silesius”. Citazioni di Silesio accadono in Altre inquisizioni; in una conferenza del 1977 su La poesia, Borges conclude con il distico della rosa amato da Rilke, perché “un poeta del XVII secolo, dal nome stranamente poetico, Angelus Silesius, ha detto la stessa cosa che io ho detto attraverso un ragionamento, in una poesia”. Borges conosce Silesio dal 1924, la sua edizione del ‘Pellegrino’ è decisamente annotata; Borges fa dei tentativi di traduzione, corrispondenti alla sua ricerca.
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Mi sorprese, con una spada di ghiaccio in mezzo gli occhi, questo distico, “Temere Dio è cosa molto buona, ma è meglio amarlo/ e ancor meglio è esser sollevato in lui oltre l’amore”. Il primo verso sintetizza l’insegnamento biblico: Dio si deve temere (il crisma del Primo Testamento) ed è amore (nel Primo Testamento pretende amore, lo odora, lo lecca, lo raspa, lo rimprovera; nel Nuovo è Lui a farsi amore sovrumano, fino al sacrificio che per troppo amore porta a morte). Ma cosa significa questa amare “oltre l’amore”? Cosa significa farsi amanti frontalieri dell’oltre, a fronteggiare ciò che è al di là dell’amare, perché supera ogni amore – gratificato in desiderio o granitico nella colpa, astrale nella gioia astuto nell’assenza. “Oltre l’amore” – oltre l’incastro della pretesa, l’impero del duello – è cosa disumana, l’ambito del mostro, dove tutto è risolto nel sovrano. Che bello. (d.b.)
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pangeanews · 6 years ago
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Analisi filosofica (e spietata) del fenomeno Asia Argento. Care donne, il problema non è l’uomo ma l’umanità, e comunque, meglio Marilyn e Vivian Maier, autentiche sovversive…
Non ho niente contro i border line, anzi.
La storia, in gran parte, non la fanno i probi. E peraltro non esiste la normalità. Nessuno di noi è normale. E, a guardare con lucidamente la fisiologia del mondo, la storia è anche e soprattutto l’umiliazione millenaria dei singoli a favore della comunità, che a sua volta edifica le cattedrali della ragione attraverso la sovranità delle singolarità di rango, anche e soprattutto equivoche, paradossali, che emergono dal travolgente pantano dell’avventura umana. La storia, nel bene e nel male, l’hanno sempre fatta i grandi squilibrati, le personalità d’eccezione. Il che getta un paradosso assoluto, immoralista, sulla genesi delle nostre istituzioni umane. Perfino il Diritto si fonda sulla violenza; e la stessa guerra, nella natura umana, non rappresenta solo un vuoto transitorio della nostra moralità, un errore, un’eccezione alla nostra innata nobiltà o alla nostra superiore facoltà civilizzatrice. Condottieri, imperatori, guerrieri, tiranni, poeti, filosofi, teologi, riformatori, artisti, mistici, popoli, seduttori o mascalzoni di ogni epoca. Tutti squilibrati d’eccezione. Popoli, nazioni e individui distinti da questa facoltà di unire patologia e, talvolta, produzione di teoria della cultura. Molti coltiveranno piccole oasi, alcuni raggiungeranno grandi distanze, altri, la maggioranza, subiranno estasi negative d’inesorabile ferocia, e li chiameranno i margini della storia, le vittime.
Di una cosa sono certo. Inutile leggere con la lente morale la vita. La morale, e peggio ancora il moralismo, sono una formidabile lente di distorsione della realtà, il miglior modo per perderla e non comprendere l’originaria ambiguità dei fenomeni del mondo e della vita umana. E mi chiedo, allora, se esista il coraggio di abbandonare la truffa moralistica del PC on steroids, del politicamente corretto all’ennesima potenza, di una realtà che si rifa a un’idea degli esseri umani che non esiste? Ho sempre pensato che la pietà più sincera, e il più bel gesto estetico, paradossalmente, siano quelli di mostrare agli esseri umani che credere nell’Uomo, in una fede millenaria, a questa confortante e illusoria dimora, a questo territorio astratto in cui la fiducia nelle regole trascende le regole stesse, insomma, vuol dire credere in un’idea degli esseri umani non solo parziale, ma falsa, che non è mai esistita, non esiste e mai esisterà, se non nelle nostre fantasiose utopie. Di qui, in realtà, nasce anche il famoso “disagio della civiltà”; da questa non coincidenza tra quello che siamo e l’immagine ideale, falsa, nobile, che abbiamo creato di noi stessi; e quando ignoriamo che c’è solo quello che c’è, e quel che dovrebbe essere non c’è, non è mai esistito e mai esisterà. Qualcuno che la sapeva lunga sostiene che religione, ragione, filosofia, letteratura, arte, tutte, danno troppa importanza agli esseri umani. Se vuoi conoscere veramente la loro natura, basta parlare con loro, vivere in mezzo a loro. La misantropia è figlia della conoscenza in presa diretta, del realismo. Più si conoscono gli esseri umani, più si è misantropi, e il buon misantropo: “non fa distinzione di sesso… l’Uomo, nelle due versioni proposte dal Creatore, non gli piace.” Gli esseri umani sono indubbiamente un’apparizione straordinaria, ma non un successo.
*
Penso a questo, mentre solco con i pensieri la linfa dei secoli, e leggo con interesse e stupore il pezzo edificante su Asia Argento dell’avatar letterario Barbara Costa. La sua volontà di fare un mito del nulla, evocando argomenti che, naturalmente, vanno ben oltre questa ragazza interrotta, fragile, sbadata o svagata, estemporanea, come solo poteva esserlo Marylin Monroe, una misfit dalla imbarazzante, stupefacente e conturbante fragilità e bellezza.
Eppure, quale abissale differenza tra le due donne.
Marylin, per cui provo una sconfinata e complice malinconia, la Costa non la nomina neanche nel suo articolo. E avrebbe dovuto, date le sorprendenti analogie, e soprattutto le notevoli differenze con Asia, giacché un reale termine di paragone, tra le due, è improponibile, se non per sottolineare le plateali contraddizioni che le distinguono. Una è la stella, un tragico e ambiguo mito immortale, l’altra, più o meno una meteora.
Impossibile, per me, provare per Asia la stessa empatia che provo per Marylin, per questa donna a torto inchiodata all’immagine delle diva “platinata e vacua, magari felice di esserlo”; per questa creatura assolutamente anti-conformista, profonda, molto umana, generosa, totalmente estranea al denaro, estremamente intelligente e dotata di una sensibilità morbosa, che ha sempre flirtato con la morte; per questa donna eternamente insicura di sé, timida, funestata dall’insonnia e ricca di una bellezza oltraggiosa, “quasi irreale, radiosa, di una vitalità sconfinata”, ma “predestinata dalla sua singolarità a un ruolo di vittima… la creatura sacrificata sull’altare all’invidia degli dèi è sempre la più giovane e la più bella… l’intera storia di Marylin assomiglia alla sequenza di un banchetto sacrificale: tutti si sono cibati, o volevano cibarsi, simbolicamente o letteralmente, del suo corpo…”. Una donna distrutta dalla sua infanzia infelice, da un mondo che non riconobbe la sua anima, dal letale e inutile mito della psicanalisi (plagiata a tal punto, che ancora oggi un’importante fondazione psicanalitica, in Europa, riceve milioni di dollari di royalties sulla sua immagine, che detiene), dal suo impotente e ambiguo analista, dagli uomini che la umiliarono, a partire da quel bastardo di Arthur Miller, che l’aveva sposata, e dall’attore shakespeariano Laurence Olivier, con il quale lavorò, che per lei provò solo disgusto. Unica eccezione, Joe di Maggio, l’uomo che l’amò profondamente, e che gli rimase sempre accanto, anche dopo il divorzio.
“…adunava sentimenti contrastanti, in chi la guardava: di possederla, leccarla, mangiarla, egoisti, fino allo sfinimento e, allo stesso tempo, di abbracciarla, baciarla, accarezzarla, proteggerla…”
Nata povera, da padre incerto, e “assediata dai fantasmi della follia che pullulavano lungo la discendenza materna”, a nove anni viene abbandonata da una madre instabile tra orfanotrofi e case-famiglie; adolescente, sarà Norma Jean, la ragazza di provincia senza istruzione che, tuttavia, mostrerà da autodidatta un profondo interesse per la conoscenza, la letteratura, l’arte; agli esordi, da attrice sconosciuta (all’epoca, fu per fame, come ammise con “adorabile candore”, che posò nuda per un calendario, “suscitando il morso della bellezza e del desiderio di milioni di persone” – leggenda vuole che di lei, oggi, circolino film porno di quella primitiva epoca della sua biografia), seguirà i corsi serali di storia della letteratura dell’Università di California a Los Angeles. Ormai passata alla storia come “Marylin”, a New York frequenta i circoli letterari, è amica di Truman Capote, si interessa al meglio della poesia americana del Novecento, e la sua biblioteca ormai vanta oltre quattrocento libri, dato che ama leggere sia i classici sia i contemporanei di tutti i tempi. Ma da adulta sarà anche la donna segnata dal destino che l’aveva preceduta. Sarà la donna dalla stupefacente promiscuità, dalla disinvolta bisessualità. E arriverà a darla a tutti, registi, produttori e attori, per soddisfare il suo desiderio di brillare nel cinema, per riscattare la sua miseria e, raggiunto il successo, esclamerà con ironica malinconia: “finalmente non dovrò più fare pompini, per lavorare”. Le umiliazioni che questa creatura incantevole subì dagli uomini e dalla sorte avrebbero lasciato segni indelebili. Famosa, e nondimeno tarata dal disamore di sé e da una strisciante follia, da un bisogno struggente di essere amata, desiderata, si travestirà, per non farsi riconoscere, e vagherà per le metropoli, in cerca di un perfetto e insignificante sconosciuto a cui concedersi, per sodomia, in qualche vicolo oscuro, e umiliare la sua incredibile innocenza. Nel suo discorso funebre, Lee Strasberg ritrasse così la sua potente vulnerabilità: “Aveva qualcosa di luminoso, una combinazione di pensosità, radiosità, struggimento, che la distingueva e allo stesso tempo faceva desiderare a tutti di parteciparne, di condividere quell’ingenuità infantile che era insieme così timida e così vibrante”. Ricordo la “perturbante e malinconica carnalità” del Black Session, la straordinaria serie di fotografie scattate dal suo amico Milton Greene; penso alla bellezza sconvolgente, allo stesso tempo seducente e dolorosa da guardare, di quella foto che la ritrae all’uscita dal manicomio in cui si era auto reclusa… cappotto nero, bavero alzato nel tentativo vano di nascondersi dalla folla di giornalisti che l’attendeva, volto spettrale, capelli sfatti, biondissimi, mobilissimi, di una bellezza selvaggia, rapinosa, perduta, che adunava sentimenti contrastanti, in chi la guardava: di possederla, leccarla, mangiarla, egoisti, fino allo sfinimento e, allo stesso tempo, di abbracciarla, baciarla, accarezzarla, proteggerla; penso a quella foto, da lei voluta, negli ultimi giorni della sua vita, in cui, come per presagio, si fa ritrarre, dal suo eterno amico e fotografo, dietro il portico di casa, in piena notte fonda, appoggiata a un palo della luce, sotto un flebile lume, con un cappotto scuro da uomo, più grande di lei, completamente struccata, e un buco nero le lampeggiava negli occhi, ormai perduta, obnubilata e abbattuta dagli psico farmaci, eppure eternamente bella, anche alla vigilia della fine.
C’è più verità sul suo volto, che su quello ostentatamente anticonformista di Asia. Altra vita, altra fame. Passando dall’una all’altra, da vette alte di potente e involontaria tragicità, cadiamo rovinosamente a terra.
*
Se è vero che il potere uccide l’innocenza, dobbiamo pur ammettere una buona volta che, superata l’infanzia, tutto è potere, forza di coercizione, seduzione e soggezione. Il potere del potere, e poi il potere del danaro, del sesso, della bellezza, delle parole, dell’intelligenza, della passione, della forza fisica. La ‘violenza’, ovunque voi vi volgiate, fa essenzialmente parte della vita. E ognuno di noi nasce con in dote una dose di opportunismo da spacciare; e se teniamo fede al movente di ogni nostro atto, all’amor proprio, vale solo la capacità di illudersi su stessi e di illudere gli sulle nostre illusioni, anche nell’incoscienza del falso! Voilà.
Se è vero che non c’è grandezza se non là dove un essere umano è solo contro tutti, nella disperazione o l’eresia, in Asia non vedo nessuna grandezza da esaltare. E se la sfacciataggine, il libertinismo e la durezza, in sé, per me non sono un problema, anzi; lo sono, però, quando sono più che altro una posa ostentata e sfoggiata da una giovane donna apparentemente più puerile e cinica che libera. Penso a uno scrittore, che da qualche parte nota: “Le imprese che si basano su di una tenacia interiore, devono essere mute e oscure, e per poco uno le dichiari, e se ne glori, tutto appare fatuo, senza, addirittura meschino”. Penso alla potenza del silenzio di Vivian Maier, una grande fotografa postuma, che in vita ha fatto la bambinaia e non ha mai pubblicato niente, né ha mai fatto l’‘artista’, e ha condotto una vita modesta e appartata. Una donna strana, che viveva nei sotto-soffitti o nelle camerette delle case dove lavorava come bambinaia, di volta in volta. Nessuno sospettava cosa custodisse nella sua camera, che non apriva mai a nessuno, e chiudeva con il lucchetto. Cartoni e cartoni di migliaia di negativi e foto. Tutto fu scoperto, per caso, dopo la sua morte, in un baule, come in passato accadde per Emily Dickinson, che in vita non pubblicò mai niente. Le sue foto sono state acquistate recentemente, per caso, da un ragazzo in un mercatino dell’usato a New York, dove le cose della Maier, dopo la sua morte, erano state buttate, come roba vecchia su cui guadagnare qualche dollaro! Furono trovati migliaia di negativi in un baule. Oggi è stata consacrata, postuma, come grande fotografa. Il gesto esistenziale della Maier, involontariamente, è infinitamente più eversivo e potente di quanto possa essere mai quello di Asia, che, al contrario, indugia nel banalissimo e assai diffuso narcisismo infantile, immaturo, del mondo di Twitter e Instagram, a colpi di selfie e autoritratti a getto continuo (altra cosa sono i ritratti artistici, anche di grandi fotografi, della Monroe) che alimentano l’esibizione del suo fragile ego – e lei, ovviamente, vi dirà che è solo per lavoro.
“Penso alla potenza del silenzio di Vivian Maier, una grande fotografa postuma, che in vita ha fatto la bambinaia e non ha mai pubblicato niente, né ha mai fatto l’‘artista’, e ha condotto una vita modesta e appartata”
Meno si è, e più si esibisce! Io stesso, non meno spregiudicato di Asia, ho sempre amato le ragazze un po’ rock, e le donne che vanno in moto, e anche quella femminilità sofisticata eppure carismatica, di temperamento, che, quando un uomo rompe davvero le palle, reagisce con un pugno in faccia, e a calci nel sedere; io, che ho lavorato nel mondo del cinema, e avuto il privilegio e l’onore, mio malgrado, di lavorare con attori internazionali, premi Oscar, di conoscere e fare provini con registi del calibro di Federico Fellini, Pasquale Squittieri, Tinto Brass etc.; io, che non ho il fisico degli intellettuali, dei filosofi, dei letterati e dei critici – che detesto e critico ferocemente da sempre – ma dell’esistenzialista dal fisico nervoso e atletico, dark, con gli anelli alle mani; io, che sono fotogenico, e assai adatto a prestarmi all’esibizione mediatica, e sono più narcisista di Asia – eppure, malgrado tutto, non mi sono mai fatto un selfie in vita mia, detesto farmi fotografare, e se proprio devo, che sia a tradimento, mai in posa; io, che non ho Instagram, né Facebook, né Twitter, né, addirittura, sono su Linkedin. Io, che sono iper-sessuale e iper-sensuale, ma non sono mai stato atavicamente attirato dalla pornografia sfoggiata, dal culto pop, contemporaneo dell’erotismo, e guardo alla sessualità, alla nostra parte più profonda – ammesso che qualcuno, oggi, sia ancora degno della propria profondità – come qualcosa che si fa e non si dice… non è una cosa da dire il mondo, ma da vivere. Il sesso è una potenza oscura e muta! Io, che sono sessualmente eversivo, ma sono tutto il contrario della posa rock-punk-dark sfoggiata da Asia, di questa travestita del male, al pari della scrittrice dark Isabella Santacroce, che, ahimè, per evocare il sacro e l’erotismo cita Georges Bataille – “io sono da sempre nella dimensione del sacro, così come era pensata da Bataille, ovvero quella degli estremi… il Bene produce frivola bardatura insensatamente aggiunta all’opera compiuta da Dio onnipotente… solo il male ha una distruttrice potenza, il Bene nulla distrugge, nulla crea” – un nevrotico affascinato dal male e dall’erotismo, come Nietzsche, un impotente e un casto, era affascinato dalla forza; un semplice elucubratore filosofico, pletorico del negativo, non all’altezza del suo squilibrio! Nessun miglior segno di falsità, per un’artista che si pretende profondo e libero, che citare prima di ogni altro Georges Bataille, parlando del male. Niente, qui, che sia autentico charme geologico, atavico, fascino della creatura, ma solo pornografia, ossia la sofisticata volgarità dell’umano. Fatevene una ragione.
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Certo, il lavoro di attrice, la timidezza, l’insicurezza, il paradossale bisogno di essere amati, nonostante tutto, la curiosità per l’arte e la letteratura, l’atavica ambizione, fanno parte anche di Asia. E anche lei, a un certo punto, per un periodo aureo, sarà dotata di un invadente bellezza. Il suo volto richiamerà tutta la linfa della bellezza irresistibile e ambigua di Lolita, a cui lei aggiungerà una certa congenita e attraente goffaggine, e qualcosa di torbido, del sottosuolo. Ogni uomo, qualunque uomo, guardando quel volto, allora, non avrebbe potuto non pensare, nudo e crudo, al desiderio di possedere quella creatura all’apice della sua impertinenza animale ed estetica, a succhiare ogni millimetro di lei, per rubare il sapore dei suoi baci e l’odore della sua pelle. A usarla per il proprio piacere. Penso a quelli che all’epoca del film di Abel Ferrara hanno avuto il privilegio di fotterla, di averla tra le braccia, e provo un po’ di invidia; oggi non la degnerei di uno sguardo. Ma, in fondo, a pensarci bene, lei non rappresenta un eccezione. Di ragazze giovani, prorompenti di ambigua bellezza, sono piene le strade, oggi. Basta incrociare i loro volti, nei metrò, per strada, ai semafori, nelle biblioteche delle Università, nei bistrot. Ogni volta che ne vedo una, e la perdo, quando gira l’angolo, e mi oltrepassa, è un piccolo, struggente lutto.
Siamo sinceri. I due Donatello, i lavori con Abel Ferrara e Gus Van Sant? Exploit, fuochi fatui di un potenziale che non è mai fiorito in tutta la sua potenza, estensione. A una faccia giusta, a occhi torbidi e corrosivi – questo hanno sfruttato, di lei, Ferrara e Van Sant, la sua gioventù e la sua naturale vis ambigua, da caratterista – non è mai corrisposta una attrice dalla potenza innegabile, matura… e penso, come termine di paragone, alla bellissima e potente Cate Blanchett. Come regista, non è mai stata una potenza. Come scrittrice è mediocre, e quando non sembra esserlo del tutto, ciò accade perché pesca a piene mani nelle atmosfere dei suoi idoli letterari o cinematografici, e qualcosa ti rimane sempre attaccato addosso – ha studiato e digerito, tutto si impara, anche il vocabolario dell’inquietudine e del male, del sottosuolo… ho letto casualmente una sua recente frase in inglese, su twitter, riportata dai giornali, che voleva essere letteraria, profonda e poetica, e non è nessuna delle due cose, ma solo prosa infantile, disarmonica. E altro potrei aggiungere. Marylin Monroe, al contrario… trent’anni di vita su questa terra, quindici anni come attrice, e trentatré film, lavorando con i più grandi attori e registi del mondo, in parti memorabili. In Il Principe e la ballerina si rivelò molto più brava del suo co-protagonista, il gigante Laurence Olivier; nei diari che lei scriveva, e nelle conversazioni private con il suo psicanalista, che furono registrate e trascritte, emerge una donna profonda, tutt’altro che superficiale.
*
E io sono qui, a dirvi e scrivervi che cosa, care donne? Che non ho mai pensato che gli uomini, in generale, siano superiori alle donne, o che le donne, in generale, siano superiori e migliori degli uomini! E affermo anche che nei confronti delle donne nutro una posizione da scettico che potrebbe facilmente essere scambiata per misoginia. Ma non è paura né odio per la donna. Semplicemente non credo nella Donna come non credo nell’Uomo, in un’entità astratta, generalizzata, fosse anche il Femminino. Quando sento sostenere che la donna sia meglio dell’uomo, “che abbia più…” etc., capisco immediatamente di trovarmi di fronte a qualcuno che non ha capito. Credo, in fondo, sia più realistico parlare di cambio di piani limitati, ognuno con i suoi pregi e i suoi difetti. Si passa, oggi, dall’Uomo alla Donna per cambiare prospettiva, nell’illusione della diversità, quando in realtà è la stessa irrealtà vista da un’ottica, sì, alternativa ma non meno debole. Ci siamo stancati dell’Uomo e adesso ci volgiamo altrove, l’altra metà del cielo, per tirare il fiato, per rinnovare le nostre illusioni stanche; e, dopotutto, perché no, se non altro per par conditio, ma senza illusioni filosofiche per favore! Io stesso, ho sempre accordato, umanamente, una qualche provvidenza e un credito unicamente agli incontri al singolare, individuali. Donne o uomini, poco importa. Malgrado, in quanto uomo, io possa trovare infinitamente più affascinante la donna: è la mia inclinazione sessuale a impormelo, la mia parzialità, e perché sono attirato da chi, allo stesso tempo, mi seduce ed è radicalmente diverso. Dalla particolare umanità delle donne.
Scrivo, qui, per affermare che non sono gli uomini a essere il male, care donne. È l’essere umano, in generale, a essere non di rado meschino, e pressoché tutti i moventi umani, anche quelli più nobili, sono in realtà fondati sugli istinti più impuri, più bassi: amor proprio, interesse, opportunismo, ambizione, desiderio, invidia, cattiveria, disonestà, gelosia, viltà, crudeltà. E se gli uomini sono affetti dalle tare più innominabili, anche le donne lo sono; solo la natura della tara cambia, non la gravità! Nella vita di tutti giorni si possono trovare infiniti esempi di bruttezza umana, tanto negli uomini quanto nelle donne. Alla faccia del Femminino.
L’episodio di cui è protagonista Asia Argento, in sé, è riprovevole, ma è vecchio come il mondo, e non è una prerogativa assoluta delle donne. Da che mondo e mondo, gli abusi e le alienazioni, sotto varia natura e gravità, sono sempre esistiti, contro le donne, gli uomini, i bambini. Contro tutti! Penso a quando vivevo a New York e, in certi locali notturni, ho assistito personalmente a episodi in cui delle lesbiche butch, quelle che fanno i maschi, attaccavano al muro, davanti a testimoni che non fiatavano, altre ragazze, completamente estranee e scioccate, e baciate senza consenso, frugate mani nei pantaloni. Episodi analoghi, aggressivi e predatori, mi sono stati riferirti anche da mie amiche e, a quanto dicono, non sono rari. Non risulta che queste frequenti pratiche ‘femminili’ siano mai state denunciate pubblicamente! Io stesso, da adolescente, ho subito vari tentativi di molestie, di attenzioni non gradite, sgradevoli, da parte di omosessuali, prontamente respinte. Esperienze analoghe, in seguito, da adulto, sono successe anche in ambito lavorativo. Sono situazioni molto frequenti. Mal comune, mezzo gaudio, care donne! Eppure non mi sono mai sentito o mai spacciato per una vittima, né ho mai gridato “al lupo!”, né sono mai andato dall’analista perché qualche sfigato gay ha tentato di molestarmi, quando non c’era assolutamente trippa per gatti, per loro; né, per questo, sono rimasto traumatizzato a vita, né ho maturato un odio atavico per gli omosessuali (Asia, dopo Weinstein, afferma di aver mutato radicalmente idea sugli uomini – in profondo disprezzo), a priori, a causa di questi incidenti, che poi sono lo specchio di un modo molto promiscuo, diffuso di fare, in quel mondo. E del mondo in generale, dove, a guardare bene, scorgiamo tutti: “l’orrore che scorre appena sotto le abitudini e le pratiche più correnti della vita e della società”, a vari livelli e sfumature. Né penso siano tutti dei “viscidi froci”, delle “checche di merda”, da prendere a calci nei denti, anche se il primo impulso è ovviamente quello. Queste osservazioni, ovviamente, non sono una giustificazione fatalista degli abusi. Ognuno di noi, prima o poi, molto più spesso nell’infanzia e nell’adolescenza, è stato vittima di qualche tipo di molestia o di un tentativo di molestia. Ma quando non si è più bambini, i veri indifesi, in certe situazioni c’è chi si difende, chi reagisce, e chi si paralizza o decide di venire a patti, per paura, per opportunismo, o per un misto di entrambi. A ventuno anni, l’età in cui Asia racconta di aver subìto l’abuso da parte di Weinstein, non si è più bambini. Alessandro Magno, intorno alla stessa età e nei dodici anni a seguire, conquistò l’intero Impero persiano, l’Asia!
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Fatevene una ragione, care donne. Il primo impulso che ha un uomo nei vostri confronti è predatorio. L’uomo, da sempre, valuta istintivamente se le donna che si trova via via di fronte è una creatura che amerebbe avere tra le braccia o meno, se vorrebbe avere un contatto fisico con lei. È inutile essere ipocriti. Sono i modi di conquista, eventualmente, a poter essere stigmatizzati, se proprio volete. Il caso Weinstein è un’estremizzazione, specialmente da parte di chi è molto ricco e molto potente, meschina, di un istinto assolutamente naturale nell’uomo, che, in sé, non è da biasimare in blocco. Solo il peggior femminismo, quello più perdente e deteriore, infatti, può scadere, con un tipico brainfart progressista, in un’omologia che vede in questa natura, in assoluto, il semplice maschilismo, una natura bieca, non-evoluta, con il risentimento a buon mercato di chi è stato discriminato e ha sofferto – e chi ha sofferto non è mai umile, ma ciecamente vendicativo. Anche il corteggiamento, in fondo, è un differimento, una sofisticazione rituale, retorica di un atto predatorio, in cui i due contendenti recitano una parte, che può o non può concludersi con l’assenso della donna a essere presa. E poi, in molti casi è lei a predare lui, soprattutto oggi, del tutto legittimamente. Il sesso, questa cosa che noi civilizzati facciamo, come diceva Baudelaire, con “organi escrementizi”, e che resiste alla pratica dissacrante, prosaica del bidè, è sempre un questione di mangiare ed essere mangiati, di vittima e carnefice! Il confine è molto sottile e fumoso, come in tutte le profonde faccende umane in cui vige, su tutti, l’amor proprio, il soddisfacimento del proprio piacere, dei propri bisogni e di tutta quella selva di moventi impuri che costituiscono il vero motore della natura umana. Possiamo attaccare addosso agli esseri umani tutta la cultura e la civiltà, il progresso che volete, ma l’istinto rappresenterà sempre il fondo oscuro dei nostri atti mascherati da civiltà.
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Ora, la lussuriosa e promiscua Asia si lamenta di essere stata mangiata dal potere cinico, baro e aggressivo di un maschio. È stata una molestia, uno stupro? Non lo so, non c’ero, e sarà la magistratura ad accertare la verità. Ma so, con assoluta certezza, che nello stesso momento in cui quell’uomo si presentò davanti a lei, nudo, coperto solo da un accappatoio, e le chiese insistente di farle una massaggio con la crema, in quello stesso istante lei avrebbe dovuto girarsi e uscire da quella stanza; e se non lo ha fatto, la colpa di quello che è successo dopo, è soprattutto sua. Lo ha detto anche Whoopi Goldberg ieri: “Se un uomo mi avesse invitato per un meeting in una stanza d’albergo avrei detto di no. Perché invece le attrici di ieri e oggi accettano queste condizioni?” Cosa ancora più clamorosa, poi, è il fatto che lei riveli, dopo essere stata “stuprata” una prima volta da Weinstein, di esserci ricascata una seconda volta, di essere stata “stuprata” una seconda volta da lui, quando, in Italia, accettò di farsi accompagnare dall’assistente di lui in camera, per discutere il lancio di un film che Asia aveva girato con lui, dopo il primo stupro!, B. Monkey; che dica di aver sempre rifiutato tutti i suoi regali, eppure si faccia fotografare, talvolta anche abbracciata, con il suo aguzzino, per anni, ai festival, e si giustifichi, anche qui, sostenendo di non essere riuscito a evitarlo. Questa sua atavica impotenza, e debolezza, come la chiama lei, è asfissiante, esasperante, irritante.
Penso a lei quando, intervistando un artista per cui stravedeva e da cui era sedotta, ma con cui non aveva rapporti diretti, a un certo punto esclama verso di lui, diretta e davanti alla telecamera, qualcosa del tipo: “Dopo l’intervista andiamo in camera da te”, con plateale allusione sessuale. Fantastico! Bella tipa. Ma immaginatevi se lo avesse fatto un uomo. Sarebbe stato licenziato, messo alla gogna e tacciato di sessismo, definito un molestatore, un potenziale stupratore, un viscido maiale, un satiro incallito. Con il clima di oggi, sarebbe stato lapidato. Niente di tutto ciò, ovviamente, è successo ad Asia, alla femmina dal seducente spirito rock. Chissà, se fosse accaduto a un uomo, Asia forse sarebbe stata tre le prime ad accusarlo. E noi uomini non siamo rock, siamo solo dei coglioni! E povera Jacuzzi. Un tempo poteva anche essere altro, evocare l’idea del rilassamento e, in un incontro a due, un fantastico conduttore di emozioni: l’acqua. Oggi è vista soprattutto come lo scannatoio di un impenitente satiro, un misogino maschilista, un viscido porco, un molestatore, un potenziale stupratore! Sventra papere! Addio mia cara Jacuzzi, non potrò mai più nominarti di fronte a una donna con tanta ammirata disinvoltura, senza essere considerato un MAIALE.
Penso al fatto che in tv, dal compiacente Gilletti, Asia vada a dire quello che non disse dalla Berlinguer a Carta Bianca, parlando dello stesso fatto, ossia che Farrow, nel famoso articolo contro Weinstein, a lei, nella trascrizione della loro telefonata, gli ha messo in bocca parole che non ha mai detto. E che malgrado i clamorosi fastidi che quelle parole, col senno di poi, le avrebbero ingiustamente creato, secondo lei, non mi risulta abbia querelato Farrow, e chiesto danni. Penso alla sua taggine, quando, si lascia andare a una delle sue improbabili affermazioni: “eh, guarda, infatti, in quella foto con Bennet, a letto, sono io la vera traumatizzata, guarda che faccia!”.
Penso al momento in cui si infastidì, dopo la denuncia, perché molte donne, in Italia, la attaccavano e giudicavano, per le sue plateali e indifendibili contraddizioni, e la sua risposta implicita, tra le righe, improponibile: “Ragazze, ma io sto lottando per la nostra causa, per le donne, che cavolo vi frega delle mie eventuali incongruenze, se io ho più o meno aggiustato a mio vantaggio certe verità, se ometto e ne invento altre. L’unica cosa che conta è la lotta contro il maschilismo, contro un temibile predatore. Perché non lo capite, perché mi date addosso?”, con una disposizione generale contro i maschi tutta politica, che, al limite, poco ha a che fare con una piena obiettività e verità, quella che rivelerebbe che, in fondo, lei e Weinstein sono due facce perdenti della stessa medaglia.
Ricordo quel suo film, girato da giovanissima, come protagonista, con l’attore Marco Leonardi (uno dei protagonisti di Nuovo Cinema Paradiso), dove lei recitava una parte che si attagliava alla perfezione all’immagine che all’epoca, giovanissima, lei amava dare di sé. Quella scena in cui sbatte al muro, con prepotenza e aggressività, un Leonardi intimidito, sopraffatto, passivo, a subire il fascino intimidatorio di lei; e lei che lo blocca con un braccio, e con l’altro gli infila violentemente la mano nella patta dei pantaloni, immagino con suo sommo piacere, dato che nella scena sottomette un uomo.
Penso ad Asia, quando da giovane, nelle sue interviste, sbeffeggiava quei ragazzi ingenui che si innamoravano di lei, che l’andavano a prendere all’aeroporto quando tornava dai suoi viaggi, e puntualizzare qualcosa del tipo: “poverini, non sapevano che avevo anche altri amanti!”. E penso a un’intervista di qualche decennio dopo, in cui lei, in lacrime, ammetteva sconsolata: “so che rimarrò sola, che non troverò più un compagno”, e mi fece tornare in mente quei ragazzi ingenui che lei tanto allegramente aveva disprezzato qualche anno prima, per il loro attaccamento e la loro voglia di averla come compagna. Naturalmente, secondo la sua logica tarata, furono loro i deboli perché “sentimentali”, mentre lei, oggi, avrebbe tutto il diritto di scadere nello stesso sentimentalismo, senza con ciò essere considerata una debole. Voilà. Solo loro, i maschietti, sono i deboli. Ricordo anche le sue recenti dichiarazioni sui suoi ultimi due compagni, Morgan e Michele Civetta, che ha accusato a mezzo stampa di non essere dei veri uomini, di essere degli irresponsabili (lei che, oggi, pretende di essere quello che spesso non è, un’adulta, e stra-parla della loro ‘responsabilità’; lei che, sparendo, non avrebbe nemmeno pagato l’onorario dell’avvocato, la Bernardini de Pace, che l’ha aiutata a riavere la custodia dei suoi figli), e allora sorge spontanea una constatazione: anche nel caso fosse vero, anche fossero degli scapestrati e dei rammolliti, si può allora obiettare che neanche lei è una vera donna, poiché li ha frequentati a lungo, se li è sposati e ci ha fatto dei figli. Una donna mediamente dotata di buon intuito capisce quasi subito la pasta di cui è fatto l’uomo che ha di fronte, specialmente se ha modo di frequentarlo per un certo tempo, prima di sposarlo e farci dei figli. Come si dice: “dimmi chi frequenti e ti dirò chi sei”. Hai voglia, inoltre, a giustificarsi, a dire che Weinstein era un orco, un armadio, ricco e potente, e lei solo una piccola ragazzina di ventuno anni, indifesa e sprovveduta. Ad Asia allora piaceva spacciarsi per un Lupo, per una femminista e una donna alpha, e quando ne ha incontrato uno vero, si è trasformata in un agnellino remissivo, salvo poi rifarsi sugli sprovveduti ragazzini coi brufoli con cui talvolta si accompagnava.
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Penso a quanto sia curioso vedere una femminista dura e pura, dal pugno alzato, una misandrica, che in fondo risparmia solo gli uomini di turno che amerà per quel tanto che la sua volubile attenzione concederà loro, dire che Bourdain era un “uomo speciale”, anche e soprattutto perché: “si occupava di me e dei miei figli”; a quanto curioso sia vedere una donna, che ha certe convinzioni di libertà e di indipendenza, accettare di farsi regalare a fondo perduto 380 mila dollari, da parte di Bourdain, per problemi che riguardano solo lei (ma perché, al contrario, non si è rivolta alla sua famiglia?), che all’epoca non era né la moglie di Bourdain, né la madre di sua figlia, ma solo la sua compagna, non esclusiva, da qualche mese. Alla morte del compianto Bourdain si scopre che la sua eredità, in contanti, non ammonta a più di 1,2 milioni di dollari. Immaginatevi, dunque, un uomo, già divorziato, con una figlia piccola che adorava, che, anziché pensare a lei, facesse un regalo, a fondo perduto, alla Argento, di quasi quattrocento mila dollari, per risolvere problemi solo suoi. Fantascientifico. E a chi fosse tentato di rispondere che Bourdain temeva che la faccenda Bennet avrebbe danneggiato anche lui, io rispondo che è irrealistico. Bourdain se ne fotteva di tutto e di tutti.
Penso, udite udite, incredibile a dirsi, dato la personalità trasgressiva della figlia, al padre di Asia, che per difenderla, in un’intervista afferma candido, e forse senile, che sua figlia è una ragazza “pura”.
Penso alle tante menate che si dicono, da una parte e dell’altra, sulla storia di Asia con Jimmy Bennet; e io, più di trent’anni fa, ho avuto una storia di qualche mese con un’attrice inglese di ventisette anni, allora famosa, acclamata da tutto il cinema internazionale che contava, e considerata una delle donne più belle del mondo, progressista-comunista, che a metà degli anni Ottanta adorava Cuba e considerava il suo sistema economico una sorta di paradiso terrestre! Lavorammo insieme, sul set, per sette settimane, e tutti sapevano che stavamo insieme – dormivo con lei. Finite le riprese, andavamo nei grandi alberghi, a Roma, per conferenze stampa, e con il concierge mi faceva passare per suo nipote, e invece scopavano come conigli tutta la notte, con mio e suo sommo divertimento, al punto da lasciarsi andare, lei, a lusinghe imbarazzanti: “nessuno mi ha mai baciato come te, fotti come un adulto che ci sa fare”. E avevo quindici anni! Sono sempre stato precoce e a mio agio con il sesso, e in questa occasione non mi sono mai sentito una vittima, né considero lei una pedofila. Io stesso, da adulto, ho ricevuto un buon numero di pro-offerte sessuali da ragazzine quindicenni-sedicenni già sessualmente attive, eppure ho sempre messo dei paletti, mai accettato le loro avance. E dire che rimasi indifferente sarebbe una bugia, un’ipocrisia. Qualunque uomo che affermi candidamente di essere indifferente a certe creature, di non essere turbato, tentato e torturato fino allo spasimo da una tale offerta, mente spudoratamente o ha qualche difetto di alcova. La natura umana è complessa, mai morale! Cosa dovremmo dire di Pasolini? Che era un pedofilo, un frocio bastardo, che per di più approfittava della povertà e dell’ignoranza dei giovani sprovveduti che abbagliava con la lanterna del suo successo, della cultura, dei soldi e delle belle macchine? Cosa dovremmo dire del grande pittore Balthus, del suo rapporto ambiguo con le ragazzine, che rappresentavo le sue muse privilegiate nei quadri? Cosa dire di Charlie Chaplin, e delle sue passioni per le ragazzine? Cosa dire di Polanski, di Kevin Spacey, di Nabokov con Lolita. Tutti proscritti, da mettere al rogo? Non leggete più Nabokov. Non guardate più i film di Chaplin. Non leggete più Pasolini, non guardate i suoi film. Non ammirate le opere di Balthus. Cosa dire, poi, dei patologici e dysfunctional Orson Welles, Marlon Brando, Pablo Picasso, in ambito lavorativo, familiare e sentimentale? Cosa dire, inoltre, di questa frase emblematica dello stesso Welles: “In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”?
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Penso alla regista francese Catherine Breillat, per cui Asia ha lavorato, che in un’intervista prende di mira il movimento femminista MeToo. Quella Breillat che ha definito, senza mezzi termini, Asia Argento: “una persona servile senza alcun timore nei confronti del sesso… L’ho conosciuta quando era molto giovane. Se c’è una persona che può difendersi, che non è timida nei confronti del sesso, è lei. Se c’è una persona a cui non credo, quella è Asia Argento. È una donna molto servile. Non le ho mai chiesto di baciarmi i piedi, ma lei è quel tipo di persona”. E allora penso a lei, che gioca tutta la vita a fare la maudit rock, l’ambigua e torbida all’ennesima potenza, la femminista con le palle, e poi, ahimè, fa la vittima perché dice di essere stata travolta dell’ambiguo e il torbido, dall’orco Weinstein, a cui non ha saputo reagire, e dal più compatto Bennett, a cui, ancora una volta, non ha saputo reagire – “mi sono arrettilata”, dice lei. Due personalità e due fisicità diametralmente opposte, e da nessuna di queste due è riuscita a difendersi, a dire un no secco, a voltare i tacchi e andarsene. Una che, oggi, dopo essersi spacciata per una femminista dura e pura, una donna alpha, una dura, una predatrice, un lupo, ci viene a dire che, no, non è così, e che tutto ciò nasconde solo fragilità, insicurezza, poco o inadeguato amore in famiglia, esperienze dure e ciniche in giovanissima età, insomma traumi. E detto da una che ha sempre osannato l’educazione siberiana, Dostoevskij, il sottosuolo. Prima si spaccia per una “stronza” col botto, libera di una libertà estrema, assoluta e poi, oggi, spiega tutto con una tara di fondo che l’ha sempre funestata, con il suo essere ingenua e maldestra; e, peggio ancora, riporta tutto ciò che lei, sfoggiata immoralista, ha subìto recentemente, al più scontato moralismo, e al politicamente corretto. A un racconto che emana il fetore insincero dell’auto-giustificazione assoluta. L’immoralista che viene a patti con la morale, con lo sguardo moralista, è più spregevole del dogmatico che fa aperta professione di morale.
Barbara Costa dipinge Asia come una faro di libertà e sovversione, io, al contrario, constato amaramente che, non avendo avuto il coraggio, vent’anni prima, di denunciare Weinstein, perché intimidita dal suo potere, nel momento in cui lei, oggi, invece decide di cavalcare l’onda delle giuste accuse contro di lui, lo fa contro un produttore ormai decaduto dall’essere il terzo produttore più importante al mondo, e una potenza assoluta di Hollywood, ad essere solo il n. 200 del ranking mondiale cinematografico. Penso, insomma, a una Asia ridotta ad accusare un Re ormai nudo, a usare, oggi, la logica vile di chi è debole con i forti, e forte con i deboli. Altre donne, all’epoca dello stra-potere di Weistein, non reagirono allo stesso modo di Asia. Si parla di libertà, in Asia, e io vedo in lei solo qualcosa di irreparabilmente rotto, da sempre, una tara di partenza non indifferente, che non manca di un certo fascino. Una tara ammessa dalla stessa interessata, a Verissimo, l’altro giorno, dove lei pare aver ridotto tutta la sua apparente voglia di libertà, i suoi comportamenti provocatori, a traumi infantili, al suo non essersi mai liberata della ‘bambina’ che è in lei – “è ora di liberarsene”, afferma accorata, inserendosi per direttissima nel quadro dei casi umani, in quel territorio dove i pregiudizi e limiti di un essere umano non muteranno mai più, come per paradossale incanto, in mito, in potente e contraddittoria arte. Stremata, infine, ha ridotto tutta la sua pretesa libertà a mero sigillo di una segreta debolezza, a malinconica diserzione, di fronte alla libertà che ha sempre professato… grandi qualità – il genio – si accompagnano sempre a grandi difetti, e tra il genio e il semplice caso umano, tra il sublime e ridicolo, c’è un confine sottile.
Penso, infine, a quelle donne che votano, a priori, sempre per le donne, che stanno sempre da loro parte, per partito preso, poca importa se una delle persone che hanno accanto, un uomo, è meglio di una donna. Come affermato, con scarso acume, qualche tempo fa, da Eva Grimaldi, e pensato, sono sicuro, da legioni e legioni di altre donne. E io, povero stupido, che non voterei mai e poi mai a priori per uomo! Penso anche all’attrice Pivetti, che dichiara a mezzo stampa di essere stufa e delusa degli uomini, e si butta sulle donne. Buona fortuna! Penso anche alla cantante Paola Turci che, anche lei, sempre a mezzo stampa, afferma di essersi stufata degli uomini, e si butta sulle donne! Buona fortuna! Penso a Imma Battaglia, la fidanzata della Grimaldi, che si atteggia a maschiaccio duro, a butch, e poi la vedi all’Isola dei famosi, crollare e frignare letteralmente come una bambina perché ha fame, e vantarsi pubblicamente, poverina, tutta contenta e ansiosa per il fatto che la Grimaldi gli ha confessato che lei (la Battaglia), una donna, fotte meglio di Gabriel Garko, un uomo! Le lesbiche, ahimè, hanno quasi sempre questo genere di ansie antagoniste, e complessi, nei confronti dei maschi. Penso anche a Monica Guerritore, quando sostiene, con piglio spregevolissimo, che in generale sono solo gli uomini ad avere gravi problemi, che sono loro a dover farsi curare, che hanno bisogno di aiuto, e che solo le donne, quando hanno problemi, vanno avanti, evolvono, migliorano! Penso, inoltre, a quanto sia vergognoso sentire dire, come mi capitato di sentire in una puntata di X Factor dell’anno scorso, che LA civiltà di una cultura, IL valore di un paese, si vede da come si trattano la donna, come se tutto dipendesse e si riducesse a questo scioccante singolare, a loro! Con una difesa delle donne perdente, falsa, ipocrita, interessata, tendenziosa, intellettualmente disonesta e miope, folle, imperialista, razzista e sessista, esattamente come il mondo patriarcale che pretendono di combattere e abbattere. Care donne, non illudetevi troppo su voi stesse, collettivamente. Sarete anche diverse dagli uomini, ma siete anche voi esseri umani, umane troppo umane, fragili e forti allo stesso tempo, vulnerabili, e annegate anche voi nelle comuni tare che discendono da questa impura genealogia. L’articolo della Costa, che lei lo voglia o meno, e per quanto critichi il movimento MeToo, alimenta più che altro questo mondo, quello del più disastroso femminismo.
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La Costa non vorrà far passare Asia come una novella Bukowski al femminile, o come una impavida Anna Karenina in mezzo a un legione di Vronskij cretini, una ragazza che non è mai stata una disagiata, un’autentica outsider. Prima, la protezione dell’agio borghese familiare, la luce riflessa del suo rango sociale e artistico, compreso il parterre di potenziali conoscenze, e poi il mantenimento coniugale, sfruttando a suo piacimento, da femminista dura e pura, una antica istituzione patriarcale, maschilista, a colpi di assegni di 2000-3000 euro al mese, e annesse costose spese scolastiche per i figli; e non può vantare nemmeno il supremo coraggio di un Wittgenstein, filosofo che disprezzo, ma uomo che ammiro, figlio di una potente e ricchissima dinastia di banchieri, lui, che poteva avere tutto, compreso la serenità economica per coltivare i suoi studi, e invece rinuncia a tutta la sua eredità, pagando sulle sue pelle il coraggio di questa sua negazione radicale. Asia non ha mai vissuto nemmeno la vita Bukowski, per esempio, un cazzuto che per tutta la vita ha sempre fatto lavori umilissimi, che iniziò a scrivere, alla grande, con il tutto il potente fetore della vita vissuta, solo dopo i cinquant’anni, dopo aver accumulato un robusto e doloroso bagaglio di esperienze; e Asia non è neanche l’Henry Miller del mirabile libro su Rimbaud, Il tempo degli assassini, scritto all’epoca in cui era ancora una sorta di barbone, di bohèmien disadattato, che vagabondava con curiosità febbrile in giro per New York, per immergersi nel suo cuore di tenebra, come pochi all’epoca, imparando a conoscerla da dentro, in tutto il suo splendente fetore. In mezzo a tanta autentica vita, l’io drammaturgico di Asia, di questa perdente di qualche successo, e mai una un’autentica perduta, come lo era Marylin, non regge il paragone. La differenza di rango tra i due termini è abissale.
E poi, la Costa non vorrà farci credere che l’ecumenismo sessuale di Asia, la sua bocca buona – “per uomini che non sono granché, artisti brutti, falliti, scrittori con cani piscioni… e registi nanetti 36enni a letto amanti penosi… uomini col cazzo moscio irrecuperabile, bamboccioni, prepotenti perché vigliacchi” – siano il segno di grande arte esistenziale, di tragica e grottesca libertà? Quando è un cliché abusatissimo e meglio vissuto nei secoli dei secoli, con più verità – altra fame, altra vita – dalle donne da marciapiede, le creature meno dogmatiche che possano esistere, aperte a tutto e a tutti. Che io possa credere, anche solo per un attimo, che questa misandrica col pugno alzato possa mancare di affermare con disinvoltura: “a letto sono meglio le donne, sanno dove toccarti”, e che tu, Barbara, possa mancare di confermare, con solidarietà femminista: “e come darle torto”? Ahimè, come non riconoscere, in realtà, che gli spregevoli limiti da voi giustamente riconosciuti in tanti uomini, appartengono a tutti agli esseri umani, in generale, anche alle donne?! Chi può negare, infatti, che gli stessi ignobili limiti – e altri, che sono prerogativa esclusiva delle donne – o le stesse pietose contraddizioni, che voi elencate con tanta disinvoltura contro gli uomini, non si trovino nella stessa misura anche nelle donne? Io stesso lo riscontro tutti i giorni, platealmente, eppure, mio dio, non mi sognerei mai di usare questi evidenti limiti per massacrare una parte, a vantaggio dell’altra. E se ci limitassimo a registrare la generale e irrimediabile fragilità e vanità umana, e provassimo un po’ di ironica pietà. Riconosco, con grande serenità, che la donna, potenzialmente, è più radicata degli uomini nella vita, ha diverse zone erogene, e che la sua complessa libido le conferisca un peso tutto particolare, misterioso, eppure, riconosco anche, altrettanto serenamente, che la maggior parte degli esseri umani, in generale, vivono quasi sempre al di sotto del loro potenziale umano, sessuale, immaginale, intellettuale, e che la maggior parte di loro non sono fatti per essere liberi. They are not built for freedom… they are beyond repair. E poi, volendo usare lo stesso linguaggio moralista di Asia: oltre che stronzissimo, non è razzista, discriminatorio, dare del “nano” a un uomo – impotente forse perché anche nano?! Quintessenza dell’insulto: uomo, nano e impotente! Logica tanto implacabile, quanto esilarante. Barbara, pensa a Leopardi, a questo illibato e virginale, uno che non ha mai trombato in vita sua, e forse era anche omosessuale, o forse bisessuale, sempre e comunque represso; a uno che era più o meno un nano, giacché era alto solo un metro e quarantuno – eppure, altro che Asia, che al cospetto di questo gigante, di questo amaro, impietoso e lucidissimo genio, appare essere la vera nana. Pensa anche al geniale pianista Petrucciani, cara Barbara, a questo ennesimo fragile nano, storpio, uomo decisamente brutto, eppure indubbiamente figo, larger than life, dotato di charme da vendere, al punto che si trombava solo belle donne ‘normali’, che cadevano ai suoi piedi e, a loro volta, testimoniavano del suo insaziabile appetito sessuale.
Impossibile ridurre tutto a una lettura femminista – in difesa della superiorità e supremazia del Femminino – e pornografica, a una pretesa non plus ultra lucidità, e quasi che i geni di questo secolo dovessero essere – perdonate la comica iperbole – Valentina Nappi e Rocco Siffredi. Voi donne meritate di meglio.
Émile Ronin
L'articolo Analisi filosofica (e spietata) del fenomeno Asia Argento. Care donne, il problema non è l’uomo ma l’umanità, e comunque, meglio Marilyn e Vivian Maier, autentiche sovversive… proviene da Pangea.
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