#mi sento un po’ in lutto
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Sto soffrendo molto.
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Ogni sera, prima di addormentarmi, dico a mia madre di parlarmi nei sogni, se ha qualcosa d'importante da comunicare. Stanotte l'ho sognata brevemente, bionda e sorridente, nella veranda della casa di mia nonna (sua suocera); parlava al telefono con mio padre, che diceva di avere comprato per lei una camicetta con un bottone gioiello che si chiudeva sulla gola, al che mia madre rispondeva, sempre sorridente e con la sua cadenza vocale tipica: "Proprio ora che mi sento un po' più libera e sto meglio, non mettermi addosso cose che mi soffocano".
Da tredici giorni mia madre non c'è più, e tutti i brevi sogni che ho fatto su di lei, notte dopo notte, vengono a comporre simbolicamente una storia evolutiva del suo passaggio e adattamento all'aldilà: si è passati dalla frase della prima o seconda notte, terminante con il verbo "soffro", al vederla, nel buio quasi totale, cercare una casa di cui non ricordava l'indirizzo, fino a un pranzo insieme a me, a base d'insalata, in cui chiacchieravamo della marchesa Adelaide Antici, e per ultimo a questo sogno in cui dice di sentirsi meglio e più libera.
Io credo che il mio inconscio stia facendo un discreto lavoro di elaborazione del lutto.
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È strano vivere fra due mondi: essere nata e cresciuta in Italia e poi aver continuato a crescere altrove, in Inghilterra, in un paese completamente diverso. Mi ricordo di essere stata brava a scrivere, di sapere bene la grammatica e di ricordarmi parole obsolete e bellissime che ormai nessuno usava più. Poi sono andata via e ho dovuto ricominciare da capo. Dopo tanti anni trascorsi a vivere a Londra non so più scrivere bene in italiano, mischio le regole, sbaglio gli accenti e i congiuntivi; e non so scrivere bene in inglese perché non ho l'agilità di una persona nata e cresciuta qui, non ho quella densità di vocabolario che mi permetterebbe di spostarmi da un vocabolo all'altro come sarei forse in grado (sarei stata) di farlo in italiano. Negli anni ho scritto all'infinito. Da bambina avevo quaderni di dimensioni A4 che riempivo di storie, di avventure gotiche fatte di personaggi alieni e macabri che amavo in gran segreto e dai quali ero sempre tutta presa. Scrivevo ovunque, ma soprattutto scrivevo a casa di mia nonna paterna durante i pomeriggi soleggiati di ogni stagione un po' perché ero un po' sola, un po' perché mi piaceva avere le sue attenzioni. Avevo tanti diari e pagine piene di documenti Word ora andati perduti dopo che il fidanzato dei tempi dell'università calpestò il mio vecchio computer e schiacciato l'hard drive, portandolo ad una morte prematura e dolorosa. Il giorno in cui il mio ex calpestò il mio computer persi tutti i miei documenti preziosi, incluse le fotografie mai stampate delle mie amicizie e viaggi adolescenziali e di amori ormai vecchi (ma mai dimenticati), e ovviamente tutti i capitoli di cose iniziate e mai finite. Forse non ho mai perso niente; tanto non ho mai finito niente, d'altro canto.
L'altro giorno per puro caso mi sono imbattuta in una scrittrice italiana che vive a Londra. Anche lei amante del gotico e del macabro, delle cose "morbid" - bello, bellissimo questo aggettivo che in italiano suona come "morbido", mentre in inglese si riferisce ad un interesse verso materie inquietanti, da pelle d'oca, che abbiano a che fare con la morte o le malattie. Sembra quasi che non ci sia una semplice traduzione di questo aggettivo, come tradurre "dolce" con "sweet", o "arrabbiato" con "angry". La scrittrice che ho scoperto si chiama Viola di Grado e ha già alle spalle premi letterari e lavori prestigiosi, indossa quello che vuole (è una goth appassionata) e scrive come le pare. È sé stessa negli autoscatti tenebrosi misti ad ego un po' imbarazzanti e teneri, e nei libri anche questi morbid e pieni di psicologia del lutto e di antropologia. L'ho adorata immediatamente e dopo ore trascorse a cogitare ho deciso di mandarle un messaggio per dirle che anche io ho un lavoro che lei forse sognerebbe, in una libreria che forse avrà visitato già tante volte, fra la stregoneria, il paranormale, la magia, i tarocchi, e che mi farebbe piacere essere sua amica.
Mi sono chiesta perché ho voluto mandarle quel messaggio e perché sento il bisogno di farmela amica. All'inizio mi sono detta che vorrei tanto avere amicizie originali e sincere, e ammiro chi nonostante l'età continui ad indossare abiti scelti con amore e con personalità piuttosto che amalgamarsi e mettere a tacere i piaceri personali. In parte è vero; in parte è anche una cazzata. La verità è che ho sempre voluto scrivere bene e scrivere un libro. Ho scritto fino alla nausea e odiato ogni cosa che ho pensato e deciso di trascrivere in flussi di rabbia, senza struttura, o in flussi di calma e amore, di notte, prima di collassare sotto il peso del sonno, anche questi senza struttura. Ho sempre voluto essere una scrittrice fino ad imbarazzarmi. Proprio come lei.
Ho un ricordo distinto delle scuole medie. Tornata per un saluto alle scuole elementari, mi ero fermata a salutare la maestra di italiano, tale Maestra Manfreda, rigida e gelosa delle bambine talentose a differenza di sua figlia, meno dotata, o almeno così mi aveva detto una cugina che subiva le sue angherie. Le dissi: sto scrivendo un libro che voglio pubblicare. Lei era contentissima, sotto sotto però mi sentivo presa in giro. Stavo gonfiando le parole quanto possibile per sentirmi grande e capace. Quindi ho voluto essere scrittrice già secoli fa, quando non sapevo cosa fosse scrivere; per me non era altro che un passatempo e un luogo metafisico per nascondermi, e da allora non è quasi cambiato nulla.
E poi Viola di Grado.
Continuo a scrivere prima di andare a letto. Sono sole paginette a sé stanti che descrivono sentimenti e fatti accaduti. Mi impegno a scrivere bene in italiano per non dimenticare questa lingua che mi ha cresciuta, che mi ha fatto innamorare e che ho odiato fino al midollo per poi rimangiarmi le parole. Scrivo scrivo scrivo e poi niente.
Forse un giorno.
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Empatia.
Da un post su Instagram di una pagina sulle malattie croniche: “Non siamo la nostra malattia, e lo conferma il fatto che sia lì come una gabbia che spesso ci prende, intrappolando ciò che siamo.
Non è qualcosa da cui si può scappare e in alcuni momenti diventa così ingombrante da risultare schiacciante. La soluzione ha comunque un suo peso, e pensare a questo tutto insieme lo fa sembrare insormontabile.”
Il peso di un presente che non sento mio, che sento limitante e frustrante; il disappunto per il riflesso che vedo allo specchio, un’immagine nella quale non mi riconosco, e per tutte le cose che vorrei fare ma che il mio corpo non regge più; la preoccupazione per il futuro, l’ansia per ogni nuovo sintomo, ogni nuovo esame, ogni nuovo farmaco; il lutto per la vita passata, in salute e senza problemi, che non tornerà mai più, e la stanchezza di tutto questo, da ormai cinque anni, tre di semi-digiuno e mal di stomaco quotidiano. E io non sono neanche un’ammalata grave. Non oso pensare quanto deve sentirsi solo e spaventato chi ha problemi più gravi dei miei.
Una patologia cronica ti logora, anche quando non grave, perché è un problema quotidiano, che non ti lascia rilassarti mai. Ma tutto ciò non è comprensibile a chi non lo prova ogni giorno. Anzi, chi non lo prova ti trova lamentoso e debole. E ti dice pure di non pensarci e andartene un po’ al mare (eh, se ne avessi le forze, e se potessi alimentarmi come le persone normali, non dovresti dirmelo tu! Se recupero un po’ di salute, e chi mi ferma più!). Sapeste quanta forza ci vuole per sopportare di stare male ogni giorno!
I deboli siete voi, che di fronte alla sofferenza minimizzate e guardate altrove. Dispensate consigli inutili, o vi lagnate di qualche piccolo disturbo, e poi tornate felici alle vostre cose. La possibilità della malattia spaventa, meglio non pensarci, tanto a me non può succedere. La pensavo anch’io così. Se c’è una cosa che ho notato da quando ho problemi di salute (e anche quando a stare male era mia mamma), è l’assoluta mancanza di empatia da parte del prossimo, il più totale disinteresse, spesso da parte di chi quando eri in salute diceva di volerti bene. Ho trovato l’indisponibilità emotiva e anche pratica. Ho trovato il giudizio, e tanti consigli poco utili, spesso non richiesti e non graditi. Consigli totalmente senza logica. Sarebbe bastato l’ascolto, e la vicinanza, ma la vicinanza vera, non le domande di cortesia su whatsapp, per poi scomparire o attaccare con le proprie lagne inutili. Ho imparato dalla malattia, dalla mia patologia e anche, mio malgrado, dalla sofferenza di mia mamma. Ho imparato a vedere il prossimo, ancora più di quanto facessi prima (sempre stata crocerossina, io). Vedo la gente soffrire, e mi commuovo, e DEVO fare qualcosa per aiutarla. Sennò sto male. Anche solo con qualche parola di conforto o comprensione, anche se spesso, poi, mi sento inappropriata, oppure temo di ferire la sensibilità della persona, e non mi escono frasi decenti. Ieri, poi, ho ricevuto un grande regalo, ho trovato l’empatia che ho spesso desiderato in persone amiche, ma in una persona totalmente estranea. Una persona che lavora a contatto con la sofferenza, e ha provato sulla propria pelle la paura di non farcela, mi ha guardata e mi ha VISTA. “Non stare rassegnata. Lo vedo che sei rassegnata. Ma dobbiamo combattere. Mai arrendersi, se ci arrendiamo è finita, il nostro corpo non reagisce più. Quindi, sii positiva, è fondamentale.” Me lo ha detto pacata, sorridendo dolcemente, come una carezza. Mi sono commossa, e ho dovuto trattenermi per non piangere. Poi sono tornata a casa, e mi sono sentita grata. Mi sono sentita fortunata, stesa sul divano, nella mia bella casa, col mio meraviglioso compagno, dopo aver (non) cenato con la mia famiglia che mi supporta e SOPPORTA costantemente (e che sta perdendo la salute mentale appresso a me), nonostante qualche incomprensione, nonostante ci manchi sempre un pezzo fondamentale. E mi sono resa conto di quanto quelle parole mi avevano fatto bene, mi avevano un po’ guarita. Mi hanno ridato speranza, mi sono detta che, forse, il genere umano non fa ancora completamente schifo, che qualche esemplare si salva. Ce ne fossero di più! Mi piacerebbe fare del bene al prossimo allo stesso modo. Ogni tanto ho considerato di fare volontariato. Fatelo anche voi, non voltatevi dall’altra parte, ognuno di noi soffre per qualcosa. Non siate ciechi, non siate egoisti, non sapete quanto bene potete fare con un solo attimo di comprensione VERA a qualcuno che da tempo sta male. E potrebbe arricchire anche voi.
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mi manca lei o la persona che ero in quel periodo della mia vita? ad un certo punto arrivi a chiederti questo. perché io da quel giorno sento la mia vita annullata , sento di non poter essere più viva , perdere un amica più che stabile é un lutto. e accettare questo é il primo passo per capire che quelle persone non torneranno , non tornerà lei come non tornerai tu. io vi dirò la sincera verità , in questi anni ho sempre avuto la consapevolezza di mancarmi , le cose che sono cambiate sono innumerevoli , ma mi mancherà sempre stare lì , perché alla fine quella era anche un po’ la mia famiglia . quella che mi preparava il mio piatto preferito dopo una giornata pesante , quando a casa il piatto caldo dopo scuola mi é sempre mancato e a dovermelo preparare ero io. coloro che mi portavano nelle vacanze di famiglia , perché parte di essa per loro ero. mi mancherà avere una sorellina , che attualmente stanno distruggendo e io mi sento così inerme. mi mancherà passare il venerdì sera a chiacchierare , a prepararsi, a ballare , a sentirmi ancora inconsapevole che quel bene era diventato solo mio. per la più semplice delle motivazioni: le persone cambiano, gli interessi cambiano , le idee , i valori. e così siamo cambiate. giorno per giorno , tu mi sentivi più distante , e io consapevole che vi fosse un problema ti ho lasciato andare. delusione é una parola pesante ma la più spontanea che ho , perché io pensavo fossi una persona un po’ sprovveduta ma non stupida , e invece così ti sei dimostrata , quando davanti a te avevi una persona sofferente ed eri comunque così egoista da ignorare , l’arte dell’ ignorare , che una persona può essere diversa da te per stile di vita ma il legame ha la capacità di andare oltre, e allora questo legame lo avevo solo io? non credo , perché secondo me anche a te ti si é voltato lo stomaco la notte , in quella camera che ci ha visto nascere , secondo me anche tu hai pensato che nessuna ragazza fosse paragonabile a me , nonostante i miei 3000 difetti. e secondo me non l’hai manco capito subito , visto lo schifo che hai buttato su di me con chi amavo e amo tutt’ora , perché sai sorella mia , alla fine chi mi ama per la persona che sono ci sta , io ci ho messo tempo ma sono tornata a vivere un amicizia , e sono sicura che tu un amicizia bella come quella che ho io te la sogni, perché sei un buco nero , questa é la tua natura , quello che fai agli altri é quello che fai a te stessa. ed io effettivamente tanto felice mica ero , anzi ero un semino soffocato , che voleva ritrovare la felicità , e io questa felicità ora me la sento dentro , certo , non sempre riesce ad uscire ma ora la sento , mi sento , ad oggi non mi manco più , accetto chi sono e solo così sarò libera
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15.10.2024 1.51
Questa sera sono stata al cinema con i miei amici a vedere “Quarto potere”. Veniva proiettato in lingua originale. Ero molto indecisa se andare, perché nei giorni scorsi ho avuto la febbre, quindi oggi anche se stavo meglio ero abbastanza stanca. Raffreddore e febbre a parte, mi stava anche salendo la depressione a stare chiusa in casa da sola, in condominio, per giorni, stavo rischiando di entrare nel loop di reclusione. Quindi mi sono convinta e ho deciso di andare, per superare i miei limiti. Ed è stata una bella serata, sono contenta di aver fatto questa scelta. Io e G. abbiamo portato a casa G., tornando indietro in macchina abbiamo chiacchierato e ascoltato musica di anni fa. Un tuffo nel passato inevitabile, un po’ di malinconia e anche un po’ di disgusto verso le quantità di alcol e scelte pessime fatte quand’eravamo ancora piccoli e pazzi. Sotto casa abbiamo continuato a parlare, ci siamo seduti sul baule della sua macchina, abbiamo fumato i drummini e abbiamo avuto una dolce conversazione su vita e amore. In particolare sulle relazioni, su quanto sia distruttivo (ma utile a ricostruirsi) affrontare una rottura, la fine di un amore che hai vissuto appieno; trovarsi da un giorno all’altro senza la persona che hai avuto accanto, alla quale hai voluto bene nel profondo, con la quale magari avevi progetti di vita; la PERSONA che è stata un punto di riferimento e supporto, la persona con la quale hai condiviso tanto della tua vita, gioia e dolore. Ad un certo punto non c’è più e ti ritrovi a fare i conti con l’assenza e te stesso. Vorresti solo cercare conforto da lei, ma quella persona non esiste più nella tua vita. Devi affrontare un lutto ed è terribile. La consapevolezza di questa sofferenza spaventa quando ci si innamora (secondo G.). Ed è vero, però per me non vivere totalmente i propri sentimenti, o perdersi delle persone ed esperienze per paura di soffrire, è quasi peggio che innamorarsi e lasciare andare. Non voglio ritrovarmi per mesi o anni a pensare “forse avrei dovuto dare più tempo a noi”. Alla fine quando ci si espone con delle persone, quando ci si lega e ci si vuole un bene dell’anima, c’è la possibilità che si possa soffrire. Si sbaglia, ci si fa male, ma amare qualcuno non è mai una perdita di tempo. Amare è immenso, ti riempie l’animo e anche quando per qualche motivo ci si perde, se ad una persona hai tenuto nel profondo del tuo cuore, non lo lascia mai. Puoi sentirti svuotato, ma l’amore non ti abbandona mai, resta sempre lì con te. È terrificante forse, perché anche a distanza di anni ti farà ancora un po’ male il cuore pensare a quella persona. Però tempo stesso è una potenza che non ti abbandona mai e ti fa sentire vivo. Per questo dico che amare qualcuno non è mai una perdita di tempo, anche quando fa male dirsi addio, lo si rifarebbe mille volte, perché è vita.
Io in questo momento mi sento immensamente grata per l’amore che ho, ho dato e do alle persone a cui tengo con tutta me stessa. A volte torna indietro, altre no, ma trova sempre un modo per raggiungerti.
Amo i miei amici, la mia famiglia e tutte le persone che hanno camminato con me lungo un pezzo di strada della mia vita, anche se questo significa non piacersi sempre.
Mi sento pervasa da questo amore e quando capitano questi momenti di condivisione intimi, mi ricordo di quanto io sia fortunata ad avere accanto le mie persone e ringrazio la vita. ❤️
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Serena
Quando Serena è morta io sono stata avvisata dalla sua amica Kiara. Noi non ci conoscevamo ma, circa un anno prima, l'avevo contattata perché volevo mandare una cartolina a sorpresa a Serena e mi serviva il suo indirizzo. Quasi 12 mesi dopo, lei si è ricordata di me solo per questo. L'ho trovato molto bello e ho pensato che il fatto che tra noi dell'Arca sia stata io la persona designata a sapere tutto per prima, nonostante certamente non fossimo bff, mi ha fatto sentire importante e con un immenso peso sulle spalle, quello di dover avvertire tutti gli altri; esattamente come Kiara aveva fatto con me. E ho pensato che tutto sia successo per una serie di circostanze che mi hanno fatto pensare che tutto doveva andare proprio così: se Serena non avesse fatto un post in cui raccontava che non vedeva l'ora di tornare a viaggiare per raccogliere illustrazioni da tutto il mondo, a me non sarebbe mai venuto in mente di chiedere alla mia amica Federica un'illustrazione per lei. E se non fossi un po' folle proprio come sono, non mi sarebbe mai venuto in mente di contattare Kiara per fare in modo da riuscire a mandarle una cartolina a sorpresa. A volte penso che alcune mie scelte siano un po' estreme o possano risultare fuori luogo, eppure alla fine so che non è così. Doveva andare così. E dovevo essere io a sapere della sua morte un pomeriggio alle 15 mentre mi stavo vestendo per andare da qualche parte. A volte mi sento ancora lì, seduta all'angolo del letto mentre leggo il destinatario di quel messaggio di cui avevo già lucidamente capito il contenuto.
Circa un mese fa, a due anni dalla sua scomparsa, proprio nei giorni dell'anniversario di questo lutto, ho conosciuto un'altra Serena. Volevo andare a un paio di concerti per cui cercavo un passaggio, quindi ho deciso di utilizzare il mio account fake per scrivere agli artisti in questione "Sto cercando un modo di arrivare al tuo concerto, mi aiuti?". Dente non mi ha risposto, Colombre invece ha fatto una Story per annunciare questa mia necessità. Poco dopo la sua pubblicazione, mi ha contattato una ragazza che mi ha offerto un passaggio. Si chiamava Serena e veniva da Portici, ma avrebbe allungato per quei pochi chilometri in più per venirmi a prendere.
Mia madre ha sempre paura che gli estranei che conosco su internet possano essere serial killer. Sebbene non mi sentirei di darle proprio tutti i torti, in questo caso la serial killer potevo essere io. Ho quindi confidato a Serena che quello in realtà era un mio account secondario, invitandola a seguirmi su quello principale. A quel punto si è accorta di una persona in comune: Diana.
"Ho visto che vi seguite, la conosci?", le ho risposto di sì, spiegandole che ci eravamo conosciute tanti anni fa e che ci eravamo perse di vista ma che poi ci eravamo incontrate lo scorso aprile. "Siete amiche?" ho chiesto io. "No, è mia cugina ed è anche la mia vicina di casa". I casi della vita!
Diana era un'amica di Fabio. Anzi, era un'amica di Arianna che a sua volta era un'amica di Fabio. Andando ai concerti in giro per la Campania le abbiamo incontrate un po' di volte, fino a quando non ho smesso di essere amica di Fabio e ho un po' perso di vista alcune persone. Il caso ha voluto, però, che lo scorso aprile, quando ero insieme allo Sconosciuto per il concerto di Francesca Michielin, abbiamo passato un po' di tempo con Vale a un bar. Eravamo solo noi tre e poi ci ha raggiunto un'amica di lei e si trattava proprio di Diana. Eravamo piacevolmente sorprese di conoscerci già e poi mi ha chiesto come stesse Fabio e io gli ho risposto "Non ci parliamo da 7 anni" facendo cadere il gelo su questo momento così carino. A parte questo, rivederci è stato piacevole; e conoscere sua cugina più o meno un anno dopo, mi ha fatto ovviamente gridare al destino. Spesso ho maledetto il giorno in cui ho incontrato Fabio per quanto mi ha fatto soffrire, eppure grazie a lui ho conosciuto Diana, e un anno dopo ho conosciuto la cugina… E insomma, sembra tutto così giusto. È da un po’ che penso che le cose dovevano andare esattamente come sono andate.
Quando ci siamo incontrate, Serena mi ha raccontato di essere già stata più volte al DSSZ, ma mai quando c'ero anche io. Se ci fossimo conosciute prima non avrei saltato quei concerti solo perché non sapevo con chi andare. Quando io invece le ho fatto la lista con i live che ho visto io lì, è rimasta particolarmente colpita da Giorgieness per cui ha chiesto "Ma lei l'hai vista un bel po' di tempo fa, non l'anno scorso, giusto?!". E quindi già la amo anche solo per questo. Comunque, lei è tornata a vivere a Napoli da poco, ha un nuovo lavoro da poco e ha anche smesso di portare le stampelle da poco. Da quello che ho capito, è anche tornata castana da poco. Sebbene mi sembra che parli del suo ex - che ha lasciato due anni fa - ancora con coinvolgimento, gli ho appioppato io il termine giusto per descrivere questo momento della sua vita: rinascita. Che è lo stesso che ha usato lo Sconosciuto per descrivere la sua, di vita, proprio un anno prima. Ora voglio prendere in prestito questa parola e usarla per me e per tutti. Ma mi sembra così adeguato, soprattutto per Serena, anche se non se ne rende ancora conto. Lei spesso va ai concerti da sola, ma venerdì al live di Dente le farò conoscere lo Sconosciuto e i suoi amici, che finirà per frequentare anche più di me, e io sarò relegata nuovamente al ruolo che evidentemente mi spetta sempre di diritto: quello di tramite; la persona che fa incontrare gli altri e poi resta sola. Spesso mi sembra che il mio scopo sia questo. Ma li vedo molto bene insieme, sia lei con questo gruppo di persone, sia lei proprio con lui. Se il mio scopo nella vita è questo, almeno potrò vantarmi di aver unito delle persone, di aver fatto una bella cosa e di averci visto lungo. Comunque, vedremo.
Nonostante fossimo insieme, però da sole, sia io che Serena abbiamo incontrato delle facce conosciute. Lei ha incontrato due amici che aveva conosciuto una sera di qualche tempo fa a Napoli, io ho incontrato un amico dello Sconosciuto, che mi ha confermato che non era riuscito a convincerlo a venire a questo concerto.
Serena e lo Sconosciuto, comunque, mi sembrano così simili. Quando siamo arrivate al DSSZ è andata a prendere da bere, è andata a fumare ed è andata in bagno. Si tratta di azioni piuttosto normali in realtà, ma le ho sentite vicine. A fine concerto siamo anche uscite a fumare, o meglio, io ho accompagnato lei a fumare, e mi sono seduta al mio posto, quello dove mi siedo sempre anche con lui. E abbiamo parlato di musica, come faccio sempre anche con lui.
E lui è stata proprio la persona a cui - da estranea - ho chiesto un passaggio un anno fa. Evidentemente febbraio è il mese in cui chiedo passaggi a persone random conosciute su internet. Mi è sembrato di vivere un dejavù e ho realizzato che questa potrebbe essere una mia nuova bella tradizione. Mia madre dice che prima o poi mi "ritroveranno in un fosso", se continuo a fare così, perché prima o poi magari davvero lo becco, un serial killer. Ma per ora tutto più che bene.
E la mia nuova tradizione di chiedere passaggi agli estranei a febbraio è nata per caso, ovviamente, perché per quanto io sia stata sfacciata con Colombre (sempre e comunque dal mio account fake), è stato tutto merito suo e della sua gentilezza. A fine concerto infatti l'ho ringraziato, abbracciando lui e la maglietta che aveva addosso, quella del merch di sua moglie Maria Antonietta, facendomi sciogliere il cuore ancora di più.
A inizio concerto, invece, abbiamo sentito live Bif, che lo apriva. Mentre presentava una canzone, ha spiegato di essere amico e collega degli Yosh Whale (proprio la mia ultima fissa!) e di Verrone (amico e ospite di A Casa Di Andrea). E beh, direi che per oggi con le coincidenze possiamo anche finirla qui.
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Siccome sono una donna, ci tengo a dire una cosa a proposito dei dolori d’amore e questo fa parte anche di un discorso, diciamo, politico. Io vorrei che le donne fossero un po' più schiette, per una donna una separazione è un lutto interiore, l'abbandono.
E sono proprio questi grandi dolori che possono dare il via alla grande letteratura.
Non si capisce però, come nel Vangelo, perché i tradimenti?
Perché Giuda tradisce? Cioè il problema del male nell'uomo, che viene dopo l'amore, quando è finito. È un grande dilemma, se uno l'accetta, cambia partner: dice: "Beh, invece di questa, vado con un’altra", ma non è possibile. Non è possibile perché c'è l'incapibilità del male.
Non so, prendiamo quelli che sono tranquilli, seduti in poltrona, poi si alzano e ammazzano, imprevedibili!
Non è pazzia, è proprio il corpo-dolore che c'è nella vita.
Il dolore è la malattia.
Il dolore è la cosa che ci fa ammalare, è la cosa che ci sacrifica, sacrificarsi però sull'altare di un cretino o di una cretina fa male al cuore. Perché si capisce che non valeva la pena. È questo il dolore.
Se piangiamo la morte di un congiunto, che è il dolore di tutti i giorni, che è una cosa che hanno tutti, è una cosa normale, è duro da accettare, si può ugualmente morire, però è volontà di Dio.
Ma la volontà di uno stupido, a volte, dà così fastidio, mi credete?
Ma tanto...
Abbiamo bisogno di calore e di sincerità. Se dicono che ho un brutto carattere e le dico: "vada fuori dai piedi, mi ha scocciato", buonanotte. Ma se io mi sento perseguitata allora questo diventa una morbosità.
È meglio la violenza diretta di dire quello che penso, che non continuare ad almanaccare su qualcuno all'infinito.
È questo che succede nelle grandi delusioni, perché la delusione è ancora amore, no?
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Quale destino ha deciso di separarti da me?
Guardo le tue foto, non sempre purtroppo, perché quando lo faccio il mio cuore si dilania, come stanotte. Vedo i tuoi occhi grandi, il tuo sorriso disteso sereno sul viso. Non è un dolore che accetto.
Per la maggior parte del tempo mi rifugio nel ricordo degli anni in cui non ci siamo né viste né sentite, pur di evitare la realtà. Poi mi chiedo: perché la vita ha voluto far incrociare di nuovo i nostri cammini se poi ha dovuto dividerli definitivamente, senza che nessuna di noi due potesse opporsi?
Tu che nella mia infanzia sei stata il mio fulcro, la mia compagnia, il mio unico punto di riferimento, l'abbraccio che sapevo mi aspettava ogni giorno a casa dei nonni mentre i miei passavano le loro giornate a lavoro.
Ti ho persa, poi ritrovata, e poi persa di nuovo. Il mio cuore è in lutto, disperso, straziato. Non sa andare avanti.
E quando torno alla realtà i miei occhi piangono lacrime infinite e incontenibili. L'aria nei polmoni arriva male e mi sento oppressa.
Fino a un po' di tempo fa quando avevo paura che il cancro ti portasse via, ti cercavo. Volevo sentirti per essere certa che ci fossi ancora. E tu eri lì, ogni volta. Pronta a prenderti cura di me, come facevi quando eravamo piccole. Sapevi bene tutto, anche quando lo mascheravamo. Eppure ci cullavi tutti con la tua infinita dolcezza. Avevi il peso del macigno più grosso da portare ma non fallivi mai nel farci sentire più leggeri con le tue risate, i tuoi colori sgargianti e le tue ossessioni pazze. Come quella per i peluche. Ora ne ho uno in camera che mi ha regalato la nonna, ti penso sempre quando lo guardo.
Lo so che vorresti altro per me, tipo tutti quei discorsi sull'andare avanti, non ricordarmi di te con tristezza e bla bla bla. Ma non riesco, nemmeno dopo 4 anni. Sei stata così tante cose per me che convivere con la tua assenza mi sembra quasi impossibile, la rinnego. Questa cosa mi intrappola. Spero di riuscire a capire come reagire prima o poi, magari andare in terapia per l'elaborazione di questo vuoto che hai lasciato. Nel frattempo non posso far altro che chiedermi
Quale destino ha deciso di separarti da me?
Ti prego, stanotte almeno vieni ad abbracciarmi.
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di moti verbali
dove il creativo (l'atto) non è celato una necessità da esprimere non evidente anche determinazione nella forma opportuna da comprendere per affermare le regole del vivere il lutto oscuro in un manifesto di non fattibilità assente, quindi, i popoli transitano innocui increduli inetti deambulare storpio nei muscoli nel tessuto intimo afferrare, quindi, solide forme cupe sofferenti indeterminate ,ma trascorse nei lontani varchi delle giovinezze vissute inconsapevolmente dalla fama corridoio buio spento delle luci che distraggono il compiersi di moti verbali consunti e unti reiterati di noia vampira delle opportunità la lira di dio ella suona funebre marcia si inerpica sul cemento di muri decadenti al concerto ha inizio sono lontano estraneo un attimo sono vicino mi protendo ascolto, lo sento ballo non danzo sudore e poi sudore partecipare una legge, salto rimbalzo urto un po' picchio rimangono i suoni. Non lontano gli altri non conto io mi basta questo agitarsi scomposto privo di riferimenti
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Questa sera mi sono messa a piangere perché il mio ragazzo mi ha chiesto di mostrargli di nuovo delle foto del mio 18°, e mi ha fatto i complimenti per quanto stavo bene in quel periodo
È stupido, lo so, lui è sempre healthy ed è il primo a dirmi che mi trova stupenda eccetera. Ma riesco solo a pensare che in quelle foto ero più magra, e nella mia testa diventa un "preferisce delle foto vecchie, in cui non mi conosceva nemmeno, a ora"
Ed è assurdo
Do la colpa della mia reazione al periodo, di solito le festività natalizie sono sempre un momento un po' del cazzo tra il lutto dell'anno scorso che ha cambiato per sempre il modo di vivere il Natale, e la solita paura di avere gli occhi puntati sul piatto e sul mio peso, e si alternano i "ma non mangi questo e nemmeno questo? E che mangi allora?" Così come i "ah ma tua sorella è la metà del tuo peso. E quando la inizi la dieta? Dovresti farla"
E mi sento anche un'ipocrita. Non so neanche cosa dovrei fare
Fatto sta che ho pianto stasera per un commento talmente stupido sul mio corpo.
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Sembrerebbe facile escludere dalla propria vita una persona o cancellandola dai propri contatti o archiviandone la chat (e anche se ho optato per la seconda soluzione, l'ho fatto con gran fatica). Ma non basta questo gesto per cancellare dalla propria testa 40 anni di conoscenza e infatuazione, 1 anno di fidanzamento, 6 e mezzo di convivenza, un anno di traccheggiamento post, 7 mesi di cincischiamento a distanza di 5 anni da quando ci eravamo lasciati e in cui lei mi ha cercato più e più volte, e il tutto “finito” nemmeno un mese fa nei peggiori dei modi, tra urla e vaffanculo.
insomma una vita imbevuta di un rapporto più tossico che salutare, di un amore enorme mai ricambiato a dovere, di sogni, illusioni e delusioni... Poi stamattina l’epilogo: “Buongiorno come stai? Spero bene. Ti volevo dire che sto frequentando una persona. Mi sembra meglio che tu lo sappia da me piuttosto che da altri o vedendomi x strada…” e tralascio il resto.
Una liberazione? un bagno di realtà? forse il modo deciso per dire veramente basta? un lutto mai affrontato e ora decisamente da liberare. Non lo so come sto. Mi sento travolto. La rabbia che avevo maturato nei giorni precedenti e negli anni passati di colpo è svanita ma non è rimasto nulla. Solo un gran vuoto. Un buco enorme. E non so se sto davvero male o semplicemente mi devo riprendere dall'ennesimo uno-due che la vita ha deciso di regalarmi. In fondo penso un po' di meritarmelo perché se l'ennesima mazzata non mi ha insegnato nulla vuol dire che o son di coccio o guasto dentro fino alla nausea
#la vita#piangersi addosso non serve a nulla#ma rivaffanculo#va bene così#amen#cose mie#cuore in tumulto#me la sono cercata#ma vaffanculo
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mi manchi papà,
scusa se non te lo dico mai, se non te lo scrivo mai, scusa se tengo tutto dentro di me, giuro, non lo faccio di proposito, ma per anni ho sperato che tutto ciò che ho vissuto dopo la tua scomparsa fosse solo un brutto , pessimo scherzo, ma invece non è così, tu davvero non ci sei più, e sento che insieme a te sia andata già anch'io, il mio cuore ha smesso di battere insieme al tuo, io lo so che devo continuare a vivere per te ma la verità è che non riesco più a vivere, non riesco più a ragionare, la tua assenza mi ha distrutta, mi sento così sola, ho vissuto la mia vita senza di te, tu non sai nulla, non sai cosa ho fatto dopo che te ne sei andato..NIENTE, ero così piccola, non hai vissuto la mia adolescenza e forse nemmeno io come avrei dovuto.
Papà, ho smesso di andare a scuola (non ne saresti fiero) mi sono chiusa in casa per troppi anni, papà mi sono lasciata andare nella stessa depressione della mamma e la cosa non mi piace.
Sono rimasta chiusa nella mia stanza, davanti al PC, tutti i giorni e dal mio viso non scendeva quasi mai una lacrima, preferivo il dolore sui miei polsi, sulle mie gambe...
non lo so quando ho cominciato e perché, ho avuto la fortuna di essere stata scoperta, mi hanno salvata anche se non volevo papà, io raggiungerti e non ci sono riuscita.
Adesso ho 23 anni, oltre la tua mancanza ho dovuto combattere altre due guerre, la nonna, quella che tanto amavamo, quella che a qualsiasi ora del giorno scendeva di casa per andarti a comprare il tuo profumo preferito, le sigarette e tutto ciò di cui avevi bisogno,
papà stava soffrendo così tanto anche lei come me, dopo la tua scomparsa non ti ha poi menzionato non si è lasciata andare al dolore, e questo l'ha consumata, anche lei come me ha smesso di vivere, non è più uscite di casa, non è andata più a comprare il tuo profumo preferito, le tue sigarette, niente più.
Papà, spero che adesso sia di nuovo con te e sia ritornata a vivere felice con il suo "figlio" perché per lei eri tale, più dei suoi "figli"
Trattamela bene papà, e trattami bene anche la mia zia, la tua sorellona, quella con cui urlavi al telefono la notte in cucina per cercare un modo di risolvere le cose con la tua mamma che rompeva davvero i coglioni,
papà, mi manca tanto anche la mia zia, quel maledetto male che sembrava essere scomparso alla fine è ritornato, e lentamente l'ha devastata, era la tua fotocopia per questo riuscivo ad andarci d'accordo, mi è mancata l'aria quando quel giorno tornata da lavoro, qualche giorno dopo la scomparsa della nonna, è andata via a distanza di pochi giorni, non ho pianto subito, lo sapevo che finiva così, ero pronta al peggio, lo sono sempre stata, ma la verità è che fa sempre così male, ci si abitua, si fa finta che non sia mai successo ma quando riaffiorano i ricordi fa così male, mi brucia il naso, la gola, mi pizzicano gli occhi, si appesantisce il cuore e lo stomaco fa male.
Fa male tutti i giorni svegliarsi e non stare nella nostra grossa e bella casa, me la ricordo ogni volta, mi ricordo ogni angolo, si stava proprio bene nella NOSTRA CASA, nei nostri letti, la nostra vita.
Fa male svegliarsi in un "letto" che non mi appartiene, fa male non avere una stanza dove poter piangere, ridere, urlare, arrabbiarsi, isolarmi, papà non avrei mai voluto ma la nostra casa non è più nostra, mi dispiace, forse è anche colpa mia che non riuscivo più a starci senza te e la nonna dentro, era così vuota, spoglia,fredda, triste, cupa, Papà io ti ho sempre visto in ogni angolo, non è vero che non mi sei mai apparso in sogno, ahimè l'hai fatto, il tuo viso era sempre così invisibile ma eri vivo, e quando mi svegliavo io sentivo che c'eri, non ero mai morto, papà ho provato delle emozioni assurde quando poi mi renderò conto che no, non c'eri.
Papà non sai che dolore mi porto dentro e non esce, a furia di fare la forte come te alla fine mi sto autodistruggendo come una cretina, delle volte non ci penso, anzi papà io non ci penso proprio a tutto questo e fa ancora più male di quando ci pensi, io lo so che non sono fatta per mollare, ma papà i miei attacchi di panico vogliono che io viva il mio dolore che ho sempre rifiutato di vivere, io di promesse non le ho mai fatte, ma vorrei cominciare, cominciare a prometterti che mi lascerò al mio lutto da sempre respinto, ti prometto che butterò tutto fuori anche un semplice " MI MANCA PAPÀ", piangerò per te, soffrirò per te, per poi arrivare a stare bene e poterti farti conoscere dalle persone che mi circondano e conoscerti nelle mie parole.
Tutti meritano di conoscere il mio papà, prima che ti lascio ( per un po') vorrei tanto tu sappia che tra qualche giorno diventerai un supernonno, il supernonno di Beatrice, si lo so, sembra assurdo, lo è anche per me papà, ma stiamo per avere la nipote oi bella del mondo (anche se avrei preferito un maschietto, scommetto anche tu)
Ma sono sicura che l'amerai fortemente ed io l'amerò fortemente per tutti e due,cercherò di essere la zia di cui avrá sempre bisogno, magari un giorno riuscirò anch'io ad avere un/una bambino/a bellissimo/a e parlerò così tanto di te da riempirgli la testa, il cuore, i polmoni, tutto ciò che può contenere un corpo umano.
Adesso ti lascio ma ci sentiamo presto, buona luna papà ti amo e ti amerò finché avrò respiro .
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Ciao! Hai chiesto "come mai avete aperto il vostro blog" bene, la mia motivazione è questa. I miei amici, si possono contare veramente sulle dita di una mano. Ma non ho così abbastanza amicizia da aprirmi e da raccontare i miei problemi a loro, o comunque quello che sento dentro.
In passato avevo un blog, ma lo avevo chiuso causa scuola-maturitá (quindi non avevo tempo materiale per gestirlo), venivo qui, principalmente per scrivere i miei pensieri, ma da quando ho avuto un brutto lutto, non so che significa scrivere, quindi ho riaperto questo blog (anche se questo è del lontano 2016) e ho iniziato mettere frasi (seppur non mie) che mi rappresentano. Come se fosse un diario.
Provai anche ad avere un profilo Twitter, ma ogni giorno avevo sempre più la conferma che fosse un brutto social con gente di m**.Là sopra, non sei libera di avere mal di testa, che subito la gente ti accusa dicendo che vuoi fare la vittima, che ti piace attirare attenzione, come se io venissi stipendiata dai padroni di Twitter, per scrivere che ho mal di testa, mal di gambe ecc..
Sono qui, per liberarmi un po', a modo mio. Sono qui per passare il tempo, per non pensare a quello che sento, che fa male, sia dentro che fuori.
Ma senza farlo sentire, perché odio attirare attenzione, ma ogni tanto ho bisogno anche io di esplodere.
Anche se a volte, neanche Tumblr mi piace, perché mi dà l'idea di una sorta di Tinder, mascherato. Qua la gente ha dei blog p*rn* assurdi che neanche un attore, e magari poi fa tanto il furbino/a e sotto sotto magari poi è pure vergine. Ed è per questo che ho tolto la chat privata, perché penso che alla fine, non ci conosciamo a fondo, quindi perché io devo aprirmi con una persona che in realtà non mi conosce però in chat mi scrive "secondo me hai un bel culetto" boh, sarò all'antica, ma secondo me non ha minimamente senso.
Penso di non essere adatta ai social media tante volte, ma lo faccio solo per compagnia, per aprirmi un po'.
Scusa il papiro e la rottura.
Non devi affatto scusarti, anzi mi ha fatto molto piacere "leggerti", capisco perfettamente quello che provi e concordo, io a differenza tua però non ho chiuso la chat, semplicemente non rispondo. Mi fa piacere però che questo social ti faccia sentire meglio, anche se a volte non basta. 🌸
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Pinochet “visto” da Gustavo Valcà rcel
PENTAGRAMMA DEL CILE ANTIFASCISTA
di Gustavo Valcárcel (qui versione originale)
Lima,
10 Settembre 1975 . “Sono stato due volte in Cile. Abbiamo avuto l’opportunità di frequentare notevoli autorità, tra le quali Luis Corvalán, Segretario Generale del Partito Comunista Cileno, oggi detenuto in ingiustissima detenzione e Pablo Neruda, che avevo già incontrato a Lima, La Habana e Mosca. Abbiamo vissuto la profonda soddisfazione di essere ospiti nelle case di entrambi a Santiago e a Isla Negra, sulla spiaggia di Valparaíso. Il golpe fascista di due anni fa ci segnò l’anima, ma non le speranze; ridusse in ceneri transitorie la nostra illusione cilena, ma non le nostre speranze; ci straziò il cuore ma non la fiducia nell’avvenire. A Londra apprendemmo della morte di Pablo e del nobile sangue popolare che stavano spargendo Pinochet e i suoi complici della Giunta. Tuttavia, ho dovuto acquietare i miei sentimenti per mesi e mesi, fino alla Settimana Santa di quest’anno, affinché sgorgassero a fiotti – insanguinati, imprecatori- i versi del mio
"Pentagramma del Cile antifascista",
che dovrebbero essere già stati pubblicati in questi giorni a Mosca , in russo, e nella rivista della Casa delle Americhe, a Cuba, in spagnolo. Domani è l’Anniversario Nazionale del Cile. Confermiamo al suo popolo solidarietà e poesia, i nostri auguri più umani per la sua rinascita nazionale e per il suo futuro socialista.”
Gustavo Valcarcel
———————————————-
I
PASSO dopo passo, sangue onesto,
frantoio di lacrime, cateratta di ossa,
un coagulo nero nella luce e in gola, nodi
piombo nelle strade e alla Moneda*, fumo.
Grumi crescenti, vertici rotondi,
scala di odio, balaustra di agonie
gradinata di sospiri massacrati,
scendiamo un po’, compagni,
è arrivata in Cile la morte a bastonate.
II
FRIGGIMI le lacrime, Santiago,
metti in forno le mie nostalgie
organizzami il pianto in quattro tempi
lega i miei dolori ad un palo
nascondi i miei singhiozzi in un nido
appendi le mie angosce al soffitto
fai strada ai miei sandali e al mio zaino, mondo
facciamo un po’ di silenzio, compagni,
è arrivata in Cile la morte a bastonate.
III
CHITARRA impazzita, canto sommerso,
il crimine ha calzato gli stivali,
l’escremento ha indossato la divisa
le orine adesso ostentano i galloni
la Giunta avanza scortata di feci.
Intanto, gli asini pascolano nei rettorati
e il libro va al rogo a capofitto
con rilegature singhiozzanti e laceranti caratteri.
Rileggete un po’ le loro ceneri, compagni
è arrivata in Cile la morte a bastonate
IV
LO Stadio è un mondo a parte, pianeta
di sogni rossi fatti a pezzi
piedistallo di morte prematura
teatro dell’angoscia in gradinate.
Già cominciano a cantare i due moncherini
di Victor Jara, il camminamorte,
usignolo decapitato
il muto più sonoro di questi anni.
Ascoltiamolo un po’, compagni,
è arrivata in Cile la morte a bastonate.
V
QUESTO è Pinochet, il disgustoso Caino del nostro tempo,
il boia su misura, il cerbero esatto,
il traditore perfetto, il servo diligente,
la emme più emme del vile abbecedario.
Dategli il suo diploma di tiranno insanguinato!
Dategli la sua patente di affamatore del popolo!
Dategli il suo titolo di saccheggiatore del fisco!
Dategli la sua medaglia di assassino made in USA!
Dategli alla fine il dottorato della morte!
Per tutto ciò abbonda di meriti.
Il Cile non potrà mai dimenticarlo
nelle sue notti più tristi e lunghe
nacque dal pus e si fece fistola
studiò da scorpione e si laureò come vipera
sognò di essere generale e si svegliò Giuda degradato.
Sovrano dei pidocchi, re dei vermi
non c’è dubbio, arriverai molto lontano, lontanissimo,
dove terminano le cloache!
VI
STANCO, il tempo ritira le sue impalcature
tremolante, il vento nasconde la sua vecchiaia
l’aviazione fascista le strappò il suo nome, Marta
e il suo cognome, Bulnes morì di solitudine.
Dolce abitante di una strada triste
i tuoi figli vivranno un altro settembre
ed allora tempo e vento dovranno ripetere
che Marta Bulnes morì felice
con la fede curva dei diseredati.
VII
COME accade con anni e anni mal sommati
oggi mi viene in sogno Antofagasta*
e mi giunge al timpano Valparaíso**
con il rintocco a morto delle sue camapane sotto il mare.
La nebbia singhiozza sottovoce
il pomeriggio mi porta gli odori del Sud
il quadro dell’uva in esequie
la via Teatinos rimpicciolita
l’immagine del copihues senza musica.
Ahi, la voce del Cile si è spezzata,
oggi si abbassa a raccoglierla il cuore.
VIII
MINATORE di Chuquicamata* accendi il forno
resisti all’aria e al fascismo, fuoco!
Illuminati molto nel profondo del corpo
perché l’ombra pesa, le pupille pesano
e la Giunta è un corvo che strappa gli occhi.
Compagno, stai attento,
ora ritornano le ingiurie alla cieca,
le pallottole, la repressione, l’assenza.
Compagno che vivi di notte tra i tetti
scostati dalla dura gogna,
sorvola la fossa comune,
allontanati dal sudario generale,
sì generale,
perché in Cile ancora c’è posto per la speranza!
IX
Mi allontano un po’ Pablo
per avvicinarmi di più a te.
Sommo e moltiplico le tue viñas del mar
le tue islas negras sottosopra
i tuoi fiori in vedovanza, i tuoi alberi spogli
ed il tuo lutto che ora infiamma
i pani, gli uccelli e i pesci.
La tua voce percorre il mondo, non ti affliggere,
trasformata in petali e polvere
e se è certo che nascosero il tuo corpo
non nasconderanno mai la tua vita in Cile
perché la tua vita Pablo ha un sapore Neruda
perché Neruda l’uomo, perché il tuo popolo, Pablo,
avanza sottobraccio ai tuoi versi, canta
e sta giungendo senza voce al domani.
X
QUESTO è Corvalán, il molto amato,
quello esperto in campi di concentramento
in lotte proletarie, in tenerezze
di sposo e di padre, di combattente e uomo
di militante senza rughe
di soldato che non conosce resa.
Quanto ti penso tra mille pareti
mi si rivolta l’anima
e si unisce al gran movimento
che chiede libertà per i tuoi sogni.
Forse saprai, Luis Corvalàn,
che il muro gira veloce verso sinistra
che la rosa cerca il pane con fermezza
perché il loro giorno si avvicina per tutti
e vogliono stare insieme
in un matrimonio di indissolubile amore.
Grande operaio del futuro cileno
stringo le mie insonnie con i pugni
afferro la solitudine dai capelli
rinchiudo la tristezza nella sua gabbia
di notte mi fermo. Sento. Odo. Grido. Vedo:
tra l’austerità del filo spinato
sul groppone del tempo del ricordo
di spalle al patibolo messo a punto
al centro della nerezza mal riuscita
l’unica cosa che brilla è la fantasia
della tua rossa allegria comunista.
XI
IL coraggio ha imparato molto da te
quando afferrasti la vita in un secondo
fucile in mano, polso fermo,
e cominciasti a dettare una semplice lezione:
come morire di faccia al cielo, sfinito,
sudando dignità.
Cile, Salvador, Valparaíso Allende:
si apriranno i grandi viali
come dicesti con l’agonia al fianco
e ti vedremo in piedi al centro di essi
colpire il passato con molta furia
baciare il domani sulla sua guancia australe
abbracciare l’indio più anziano dell’Arauco
e tornare di notte all’opera del mare.
Si apriranno i grandi viali
compagno Presidente
e perfino lì giungerà a piedi la nostra speranza.
(Traduzione di Annalisa Melandri)
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MY SADNESS AND MY HOPE
*Avviso ai naviganti: questo post è come quelle ricette che trovate sui blog di cucina in cui prima di arrivare a leggere il procedimento per la panna cotta dovete sorbirvi il racconto dell’infanzia a San Vito Chietino di chi ha scritto l’articolo. Pertanto, se non volete conoscere lo stato della mia sanità mentale dopo più di un anno di pandemia, perché giustamente pensate vabbèmachecazzomenepuòfregarechegiàhotantiproblemidimio e volete andare subito alla parte in cui blatero e straparlo di WandaVision, scorrete fino al primo titoletto in grassetto corsivo*
«Ciao, sono PieraPi e non vado al cinema da 479 giorni.» «Ciao, PieraPi.» Una volta contavo i giorni che mi separavano dalle cose belle future, e adesso posso solo tenere traccia di quelli trascorsi, che si ammucchiano come vecchie riviste su quel tavolino da caffè traballante che è la mia testa. Mi sento sempre più vicina allo sbroccamento totale, e sapessi almeno quando avverrà — una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran — potrei organizzare un conto alla rovescia in memoria dei bei vecchi tempi. E invece no, manco ‘sta soddisfazione mi viene data. Vivo in costante attesa di un tracollo che sento vicino ma che non arriva, un po’ come quando ti pizzica il naso ma non riesci a starnutire, e resti appesa con la faccia da deficiente. In realtà dico così perché ho sempre pensato che il tracollo debba essere una specie di eruzione pliniana, un evento così distruttivo da divenire un chiaro spartiacque tra il prima e il dopo, ma a questo punto mi è venuto il dubbio che invece possa semplicemente essere un processo sedimentario, una consunzione lenta e ineluttabile (wink wink nudge nudge). Perché esplosa no, non sono esplosa. Erosa però sì. Mi sa che sono tracollata da mo’, e manco me ne sono accorta. Quando va bene mi sento soltanto un guscio vuoto che si trascina nel mondo non per volontà ma per inerzia, non per scopo ma per abitudine, per cui nulla ha senso e tutto è futile, senza più nessun entusiasmo e ancor meno interessi, quello che forse i cinici greci chiamavano adiaforia, ma è più fregancazzismo.
Quando invece va male passo un sacco di tempo a cercare di non piangere; non sempre ci riesco. Guardo indietro e vedo solo anni buttati via a studiare cose che non mi interessano per fare un lavoro che non mi piace; guardo avanti e non riesco a vedere un futuro che vada oltre le nove di sera del giorno in cui mi sveglio. E se per caso capita che riesca a squarciare il velo di Maya-hii maya-huu maya-haa maya-ha ha che sta all’orizzonte, non vedo una me del futuro felice. Contenta ogni tanto, forse, ma felice mai. È colpa della pandemia? Sì, no, non sa/non risponde. Certo è che mentirei se dicessi che per gran parte non mi sentissi miseramente, superbamente a pezzi anche prima. È una sbronza, la pandemia: non altera la personalità ma si limita a far emergere ciò che da sobri riusciamo a nascondere o almeno a controllare. Tra l’altro io addirittura svuoto i Mon Chéri forandoli con lo stecchino per buttare via il liquore, quindi in effetti che diavolo ne posso sapere.
Ma almeno prima, santoiddio, potevo andare al cinema. Almeno prima, santoiddio, avevo qualcosa da attendere. E sebbene ci siano stati alcuni film che ho aspettato con trepidazione — su tutti, per stare in tema Marvel, quelli della saga dell’infinito — in generale era proprio l’idea di andare al cinema che mi elettrizzava. Sedermi in poltrona, vedere le luci abbassarsi, guardare i trailer. Perfino le pubblicità sparate a tremila — ristorante pizzeria Orange, prima o dopo il cinema — per me erano una cosa bella. Andare al cinema era l’equivalente dell’infilare un caricabatterie in una presa di corrente, una botta di vita che mi rendeva tollerabile tutto il resto, e che mi sostentava fino all’esperienza di sala successiva. E lo stesso vale per le serate film a casa di un’amica che chiamerò Melania per tutelare la sua privacy, insieme a un’altra amica che chiamerò Silvia, in cui la prima passa la metà del tempo a scusarsi per il disordine e le tazzine di caffè dimenticate in bagno, e l’altra si gira a dormire e si sveglia solo per chiedere di abbassare il volume. Almeno quando ancora si poteva indulgere in cotali trasgressioni. Adesso, che nella presa di corrente infilerei ben più volentieri un dito, privata dell’una e dell’altra esperienza, è da un anno che mi alzo la mattina e, come Homer Simpson, “cerco solo che il giorno non mi faccia troppo male, finché non mi imbacucco nel letto” e scivolo nella benvenuta incoscienza. Gli unici film, ormai, sono quelli mentali. E non sono avventure epiche, no: sono Ricomincio da capo, o 50 volte il primo bacio (che poi non si può manco baciare nessuno, c’è la pandemia), perché ogni giorno è contemporaneamente la ripetizione del precedente e di quello successivo. Il concetto stesso di tempo, se il tempo è la misura del cambiamento, è volata dalla finestra: non scorre in linea retta e nemmeno in cerchio, ma in un groviglio di Jeremy Bearimy. Ogni tanto è martedì. La fine, per cortesia, si può vedere la fine? È in questo contesto desolante e mesto che si è inserita WandaVision, la miniserie introduttiva della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe che, per otto settimane, mi ha fatto compagnia il venerdì sera e nei giorni di mezzo, quando con gli altri fan ci si scambiava opinioni, teorie e meme in egual misura. Se le serie tivvì (quelle sui supereroi in special modo) sono da sempre il mio rimedio contro il logorio della vita moderna, a maggior ragione una serie Marvel adesso è stata un cataplasma per il mio animo sgualcito. Per un po’ ho avuto qualcosa da attendere, ed è stato bello. E no, non mi sfugge l’ironia del cercare rifugio dalla realtà in una serie la cui protagonista a sua volta cerca rifugio dalla realtà nelle serie. È la vita che imita l’arte che imita la vita. So you’re saying the universe created a sitcom starring two Avengers? WandaVision, le cui vicende si svolgono pochi giorni dopo Avengers: Endgame, vede come protagonisti due personaggi che, sebbene decisamente importanti nell’economia dell’MCU, sono sempre ricaduti sotto l’etichetta “secondari”: Wanda Maximoff e Vision. Questa miniserie è stata dunque la benvenuta occasione per gettare luce su coloro che, inevitabilmente, si sono sempre mossi all’ombra di personaggi ingombranti come Captain America, Iron Man e Thor, e l’ha fatto costruendo una solida e approfondita caratterizzazione (per Wanda in special modo) che soltanto una narrazione a episodi poteva consentire. Innanzitutto, c’è da dire che WandaVision è un prodotto innovativo, che utilizza la grammatica, il linguaggio e gli stilemi delle sitcom per raccontare il lutto e la sua elaborazione. E lo fa muovendosi contemporaneamente su due binari: da una parte percorrendo i vari decenni della tv americana, partendo dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, adattando tecniche e registri stilistici sia all’epoca sia alle serie cult di riferimento, dall’altra le cinque fasi del lutto secondo il modello postulato dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Così, mentre vediamo Wanda e Vision passare dal bianco e nero a colori, dai 4:3 ai 16:9, dagli effetti speciali col filo trasparente alla CGI, parallelamente osserviamo Wanda venire a patti col suo dolore, dapprima negandolo (epp. 1-2) e poi accettandolo (ep. 9), ma non prima di aver sperimentato rabbia (epp. 3-4), patteggiamento (epp. 5-6) e depressione (epp. 7-8). E in effetti è proprio Wanda il vero focus della serie, che avrebbe ben potuto chiamarsi “Wanda’s vision”, se non fosse stato appena appena spoiler. È lei che, sebbene inconsciamente, ha creato la realtà fittizia che ha inglobato dentro a un esagono di pura magia una piccola porzione di New Jersey, la cittadina di Westview, che Vision aveva scelto come luogo per “invecchiare insieme”. Wanda riscrive la realtà secondo il suo bisogno di lieto fine, che segue a vent’anni di traumi accumulati e mai affrontati: la morte dei genitori in un bombardamento e poi quella di Pietro dovuta a Ultron, l’incidente in Lagos in cui Wanda ha causato la morte di alcuni civili nel tentativo di salvarne altri, gli accordi di Sokovia e la conseguente etichetta di fuorilegge (se non proprio di terrorista), la prigionia nel Raft, dover uccidere Vision per salvare metà dell’Universo, ma solo per vedere Thanos portare indietro il tempo e ucciderlo lui stesso. E poi lo “snap” del titano e il “blip” di Hulk, il ritorno cinque anni dopo e Vision smembrato dallo S.W.O.R.D. La “visione di Wanda” è dunque l’illusione di una famiglia, lei che ha perso ogni singolo membro della sua, e un luogo cui appartenere, lei che è una straniera in terra straniera. La sua illusione prende la forma delle sitcom, quella particolare categoria di serialità in cui tutto si risolve e nessuno è mai “realmente ferito” perché “non è quel tipo di show”, in cui lei ha sempre trovato conforto. Io, per dire, sono perfettamente consapevole del ruolo che ha giocato Modern Family nel tenermi sana di mente durante gli oscuri anni universitari. Ecco quindi che WandaVision non è solo un tassello del Marvel Cinematic Universe che porta avanti una storia iniziata nel 2008 con Iron Man, ma è anche e soprattutto un brillante esperimento di meta-televisione, in cui i riferimenti alle serie tv del passato non sono mero citazionismo pop fine a se stesso ma diventano necessario meccanismo di narrazione in quanto, appunto, strumenti per l’elaborazione del lutto di Wanda. Perfino gli intermezzi pubblicitari, elementi ulteriori che ci hanno venduto l’idea di stare assistendo alla trasmissione di un programma (endo)televisivo vero e proprio, hanno contribuito a narrare in via simbolica e subliminale il malessere di Wanda (va da sé che, come le sitcom, anche le pubblicità sono frutto dell’inconscio di lei stessa): lo spot del tostapane a marchio Stark, con l’unico tocco di colore in una trasmissione altrimenti in bianco e nero dato dalla luce rossa pulsante, richiama il lampeggiare della bomba inesplosa di Sokovia; quello dell’orologio a marchio Strücker è un riferimento agli esperimenti cui sono stati sottoposti i gemelli Maximoff; quello del sapone a marchio Hydra è piuttosto eloquente nel promettere una fuga dalla realtà, e rivolgendosi a chi voglia trovare la propria “dea innata” è altresì un sagace richiamo all’essenza (mitologica) di Wanda stessa; ugualmente eloquente lo spot della carta assorbente Lagos, “per quando combini un casino senza volerlo”. Quello dello yogurt Yo-Magic, in cui il bambino naufrago sull’isola deserta finisce col morire di fame per non essere stato in grado di aprire il vasetto, potrebbe invece essere un diretto riferimento a Vision, che è stato creato con la magia (“your magic”) ma potendo esistere solo all’interno dell’esagono quella stessa magia non è in grado di sostentarlo in toto; infine, quello del farmaco antidepressivo Nexus si riferisce, oltre alla condizione psicologica di Wanda, anche al fatto che nei fumetti lei sia un “essere Nexus”, ossia uno di quegli individui, uno per ogni mondo del multiverso, in grado di alterare la realtà. Dick Van Dyke again? Always sitcom, sitcom, sitcom... Dei nove episodi di WandaVision, ognuno con un titolo che richiama il mondo seriale, sei sono in stile sitcom. Molte di più, però, sono quelle omaggiate, nelle tecniche, nelle sigle, nelle scenografie: The Dick Van Dyke Show (Dick Van Dyke è stato persino consultato), Lucy ed io, Vita da strega, La famiglia Brady, The Mary Tyler Moore Show, Genitori in blue jeans, Gli amici di papà, Casa Keaton, Malcolm, Happy Endings, The Office, Modern Family (per quest’ultima rimediando l’aperto plauso di Julie Bowen, interprete di Claire Dunphy).
In realtà ve ne sono moltissime altre, perlomeno a giudicare dai mille articoli di approfondimento imperversati su internet, che più articoli erano tesi di laurea, ma le mie limitazioni anagrafiche e una coscienza seriale che si sviluppa solo a partire dalla metà degli anni ‘90 non mi consentono di essere più di tanto esaustiva. Una cosa però la so: vista la mia già menzionata affezione per Modern Family, vedere Elizabeth Olsen dar impeccabilmente vita alla versione MCU di Claire Dunphy mi ha portato più gioia della ricezione di un bonifico.
I’m so tired. It’s just like this wave washing over me, again, and again. It knocks me down, and when I try to stand up, it just comes for me again. It’s just going to drown me. In ogni caso Wanda Maximoff nasce, e resta, un personaggio estremamente tragico, e non c’è nessuna sitcom che possa ovviare a questa verità. D’altronde, le sitcom stesse non erano che un mezzo per arrivare a un fine: vivere un’esistenza, per quanto soltanto fittizia, per una volta priva di dolore (e lo stesso passaggio da un decennio all’altro non è che un modo per illudersi di avere avuto, con Vision e i figli Billy e Tommy, tutto il tempo che hanno le altre famiglie). La sofferenza di Wanda ha una portata tale da informare ogni sua decisione, conscia e inconscia. È certamente conscia la decisione di tenere Westview sotto il suo incantesimo, per quanto non immagini nemmeno che le persone coinvolte ne soffrano (anzi, crede sia il contrario), ed è certamente inconscia la creazione dell’esagono: l’unica consapevolezza riguarda il sentimento che ha condotto a quell’evento.
Per Wanda il tracollo è stato sì un’eruzione pliniana, scatenata dalla vista del lotto di terreno acquistato da Vision e che nei piani era destinato a diventare casa loro. Sopraffatta, Wanda cade in ginocchio e la magia che andrà a produrre sia l’ESA sia Vision prorompe non (soltanto) dalle mani, come è sempre stato, ma direttamente dal petto, in una sequenza tra le più intense e drammatiche, in pieno parallelismo con quella di Age of Ultron, in dieci anni di MCU.
I don’t know how I did it. I only remember feeling completely alone. Empty. Just endless nothingness. Il fatto che la creazione dell’ESA e tutto ciò che ne è conseguito fosse involontaria, e che Wanda ne abbia soltanto una minima (ma via via crescente) consapevolezza (quando dice di non essere lei a controllare gli abitanti di Westview nella misura che insinuava Vision, di totale privazione del libero arbitrio, o ribadisce ad Agatha di non aver fatto nulla, non sta mentendo: sta soltanto rimuovendo e sopprimendo un trauma) contribuisce a delineare il personaggio in una maniera assolutamente originale. Non sarebbe stata la stessa cosa se invece vi fossero state premeditazione e volontà di ferire gli altri in cambio della sua felicità: in quel caso avremmo avuto a che fare con un’antagonista pura e semplice. Wanda, invece, che comunque milita nelle fila dei buoni, è qualcosa di più: è un’eroina tragica nel senso in cui lo intendeva Aristotele nella “Poetica”: “Sarà cioè buon personaggio da tragedia colui il quale, senza essersi particolarmente distinto per sua virtù o sentimento di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura a cagione di sua malvagità o scelleraggine, bensì a cagione soltanto di qualche errore” [Laterza, edizione digitale 2019, trad. Manara Valgimigli]. Wanda, nonostante quello che possano pensare i cittadini di Westview, non è una villain: non ha agito (nella parte conscia delle sue azioni) per malvagità, ma per il “difetto fatale” che le è proprio, cioè l’incapacità di processare il suo lutto. E quando si rende conto che quegli stessi cittadini preferirebbero morire che vivere un solo altro istante con il dolore di lei nella testa, non esita a distruggere l’ESA, anche se questo significa dover rinunciare all’illusione in cui si era rifugiata. Tra l’altro, è opinione dello Stagirita™ che la tragedia non debba rappresentare “uomini estremamente malvagi cadere dalla felicità nella infelicità, perché, se anche una composizione siffatta potrebbe soddisfare per un certo rispetto il gusto del pubblico, non potrebbe però suscitare nessun sentimento né di pietà né di terrore: si prova pietà per una persona la quale sia immeritamente colpita da sventura, si prova terrore [“terrore”, in tutte queste espressioni, significa più propriamente “trepidazione”] per una persona la quale [, egualmente colpita da sventura,] abbia parecchi punti di somiglianza con noi; e insomma, pietà per l’innocente, terrore per chi ci somiglia”. Quand’anche in questa miniserie Wanda si muova spesso in un’area moralmente grigia, resta in ogni caso un personaggio verso il quale provare aristotelica empatia. Di più: le si vuole bene, dai. You, Vision, are the piece of the Mind Stone that lives in me. You are a body of wires, and blood, and bone that I created. You are my sadness, and my hope. But mostly, you’re my love. Dopotutto, bisognerebbe essere proprio dei cuori di pietra per non sentirsi nemmeno un po’ partecipi della più delicata e sventurata (e insolita — Vision non è nemmeno un essere umano) storia d’amore dell’MCU. Quello che nei film era stato appena accennato (data la natura corale degli stessi, in cui il focus era sui personaggi “maggiori”) qui è stato sviluppato e approfondito: dalla scena del paprikash di Civil War a vederli genitori di due gemelli tanto pucciosi quanto magici; dalla vita fuori dai radar a Edimburgo a una casetta con la staccionata bianca nella placida periferia americana. Certo, basta solo non pensare al fatto che quel Vision lì non esiste davvero. I can’t feel you Il vero Vision, infatti, giace(va) ormai smantellato come una macchina qualsiasi e non un essere senziente e dai sentimenti purissimi nonostante la sua natura artificiale. Nell’episodio 8 quel fil rouge di percepirsi, quella comprensione profonda l’una dell’altro che era la cifra del loro rapporto, si è definitivamente spezzato, unitamente ai nostri cuori. Cioè, il mio di sicuro.
But what is grief, if not love persevering?
Però cos’è il dolore, se non amore perseverante? Non deve stupire che sia stato Vision a pronunciare la frase-simbolo della serie. Nonostante sia un sintezoide, dalla sua introduzione nell’MCU si è rivelato il personaggio in grado di dimostrare la più pura forma di solidarietà, comprensione e indulgenza verso gli altri. Un essere artificiale, sì, ma da sempre definito dalla sua caratteristica migliore e principale: l’umanità. D’altronde, prima ancora di Cap, Vision è stato fin da subito degno di sollevare il Mjölnir di Thor.
L’ESA-Vision, poi, è ulteriormente peculiare. Rivive per unica volontà di Wanda, suprema demiurga, e nonostante sia “un ricordo diventato realtà” esercita, a differenza degli altri abitanti di WestView, il libero arbitrio, al punto da arrivare a mettere in discussione la “sceneggiatura” della moglie.
This is Chaos Magic, Wanda. And that makes you the Scarlet Witch WandaVision è stata anche, e soprattutto, l’origin story di Wanda Maximoff come sceneggiatrice regista produttrice segretaria di edizione tecnica delle luci costumista Scarlet Witch. Sebbene Wanda abbia fatto il suo ingresso nel Marvel Cinematic Universe già nel 2014 (nella scena dopo i titoli di coda di Captain America: The Winter Soldier) e sia stata presente in Avengers: Age of Ultron, Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame, per una mera questione di diritti del personaggio (allora appartenenti alla 20th Century Fox) non era stato possibile, fino ad oggi, appellarla col suo nom de guerre fumettistico, Scarlet Witch. Vederla trasformarsi e poi discendere dal cielo di Westview col nuovo costume e la consapevolezza di chi effettivamente è mi ha gasata tanto quanto, al cinema durante Endgame, mi ha gasata vederla apparire dal nulla e piazzarsi davanti a Thanos. Sì, il traguardo è stato tagliato dopo una maratona lunga sette anni, ma ne è valsa la pena.
A questo punto, tra l’altro, si può anche dichiarare concluso l’annoso dibattito su chi sia l’Avenger più potente: è Wanda, statece. Di certo è anche quello a cui serve più terapia. You know... a family is forever. We could never truly leave each other, even if we tried. You know that, right? In narrativa, e in generale nelle storie che fruiamo a prescindere dal medium, il “difetto fatale” è qualcosa che il personaggio, dopo averne preso consapevolezza, deve superare. Il superamento del fatal flaw di Wanda coincide con la quinta e ultima fase del modello Kübler-Ross, l’accettazione. Lo scontro finale con Agatha ha dimostrato quello che già dall’episodio 7, con l’ESA che “sfarfallava”, Wanda aveva iniziato a intuire: l’insostenibilità, nel lungo termine, della sua illusione; vi rinuncia per salvare i cittadini e per salvare se stessa. La Wanda che lascia Westview ha imparato la sua lezione: ha elaborato il lutto, non ne è più sopraffatta, e ora è in grado di conviverci. È tornata nel mondo al termine del proprio personale viaggio dell’eroe, e ora è pronta a iniziarne un altro: comprendere chi è, i suoi poteri, il suo ruolo. Nell’ultima scena dopo i titoli di coda la vediamo, infatti, nei panni di Scarlet Witch studiare il Darkhold sul piano astrale. Se non fosse che, inaspettate, le voci dei gemelli che chiedono il suo aiuto vengono a turbare questo nuovo equilibrio, la qual cosa potrebbe farla ripiombare nel baratro e cadere nella tana del bianconiglio che è il multiverso della pazzia di cui al prossimo film di Doctor Strange. Considerando poi che Agatha ha dichiarato che il destino di Scarlet Witch è quello di distruggere il mondo, be’, c’è poco da star tranquilli. In ogni caso, in questo pandemico e stinfio mondo, ora come ora ben poche cose sono suscettibili di portarmi gioia come il pensiero di una reunion tra Wanda e i figli, quindi io dico: daje. Purché Wanda non mi sbrocchi definitivamente nel processo.
She recast Pietro? A proposito di reunion, quella farlocca tra Wanda con il fratello Pietro è stata la più grande trollata di sempre e l’ho amata alla follia. In molti ne sono rimasti delusi, perché credevano che significasse l’introduzione degli X-Men nell’MCU e di conseguenza del multiverso: d’altronde, perché chiamare a interpretare Pietro Maximoff non Aaron Taylor-Johnson ma Evan Peters, ossia il Pietro Maximoff dell’universo Fox? La risposta è una: perculata. O, se vogliamo, un meta riferimento in una serie che è già meta di suo. Considerando che, per quanto sia fan di roba supereroistica, gli X-Men proprio non riesco a farmeli piacere, per quanto mi riguarda non poteva andar meglio di così.
It’s been agatha all along
Se nella realtà il falso Pietro è opera degli autori, nella narrazione è invece opera di Agatha Harkness, una strega già a spasso ai tempi di Salem (nei fumetti era addirittura presente quando è scomparsa Atlantide). Strega estremamente potente, nel canone fumettistico è stata sia la mentore di Wanda che la tata del figlio di Reed Richards e Sue Storm dei Fantastici 4. WandaVision strizza l’occhio ad entrambe le circostanze (quando Wanda la ringrazia ironicamente per la “lezione” sulle rune e quando Agatha, ancora Agnes, si propone come babysitter per Billy e Tommy) ma reinterpreta il personaggio in altro modo. In particolare, qui Agatha è una sorta di antagonista ma non l’antagonista, ed è arrivata a Westview con l’obiettivo di comprendere l’anomalia magica in corso. Funge altresì da catalizzatore per la nascita di Scarlet Witch e sblocca anche, sebbene indirettamente, il trauma di Wanda facendole rivivere il passato, l’ultimo tassello per la definitiva accettazione. Ora, sebbene già si fosse intuito che la bislacca vicina di casa Agnes, colei che fondamentalmente ha ricoperto fino all’episodio 7 il ruolo di spalla comica, fosse la famigerata Agatha Harkness, la rivelazione della sua vera identità ha saputo in ogni caso stupire, il che è anche la cifra della cura con cui è stata realizzata la serie: l’originalità meta narrativa con cui è stato (re)introdotto il personaggio nell’episodio 8 è tra le cose migliori di WandaVision.
E la canzoncina di riepilogo che l’accompagnava è diventata una hit e un meme in tempo zero, mi aspetto almeno almeno un riconoscimento ai prossimi Grammy. Bravo! Se dopo un post lunghissimo di mila e mila parole (cosa che in genere riservo solo a Taylor Swift) ancora non si fosse capito, ho amato questa miniserie in ogni aspetto. Saltare da un decennio all’altro, ognuno con le sue peculiarità in fatto di abiti, acconciature, scenografie, stilemi e tecniche è stata una benvenuta novità in un mondo – quello delle serie supereroistiche — abbastanza standardizzato. Da questo punto di vista WandaVision può certo stare in compagnia di una serie della concorrenza, DC’s Legends of Tomorrow, che ha fatto della follia senza freni e del rompere gli schemi il suo tratto distintivo, e che per ciò è una delle mie preferite da anni a questa parte. Ora, al di là dell’evidente ottima realizzazione tecnica, cioè che per me è davvero il fiore all’occhiello della serie è la recitazione. Il duo Olsen-Bettany, già ben rodato, qui ha ancor più ribadito la propria intesa, e Kathryn Hahn nei panni di Agnes/Agatha, già piacevolmente oltre le righe in Parks & Rec, è stata una vera sorpresa. Comunque, la vera punta di diamante è la protagonista in persona, Elizabeth Olsen. Che fosse decisamente brava non è certo una novità (e lo sa bene chi ha familiarità con la sua filmografia, fin dai suoi esordi con La fuga di Martha, passando per quel capolavoro totale che è I segreti di Wind River, e arrivando alla serie Sorry For Your Loss, dove più che brava è straordinaria), ma qui se possibile si è superata. Ha condotto Wanda attraverso le epoche di volta in volta modellando l’interpretazione al decennio di riferimento (ed è tanto più evidente se si confronta il modo di porsi della Wanda anni ’50 con quella contemporanea), ma sempre mantenendone intatta la coerenza di fondo. Di quando in quando ha lasciato tornare in superficie l’accento sokoviano, ha coniugato comicità e dramma (il primo aspetto è una novità tanto per Wanda quanto per Elizabeth stessa, la cui carriera è sempre stata orientata sul secondo), ed è stato incredibile vedere con quanta velocità modificasse registro di recitazione quando la serie stessa cambiava di passo in quelle scene stranianti e stridenti rispetto all’illusione perfettamente confezionata che Wanda provava a vendersi e a venderci.
Pertanto, se nella stagione di premi di là da venire Elizabeth Olsen non si porta a casa t u t t o, tra Emmy e Golden Globe a carriolate proprio, giuro che creo io stessa una realtà alternativa in cui vince qualsiasi cosa, dal Nobel al Telegatto. Please stand by WandaVision è stata solo la prima portata di quello che è praticamente un pranzo di matrimonio, tra tutte le serie e i film della Fase 4 che vedranno la luce tra quest’anno e il 2023, e sarà bello bello bello. Sì, sì, per carità, c’è la pandemia e la vita è miseria, ma siccome è miseria a prescindere, non fa certo male tenersi un po’ di roba Marvel a portata di mano, tipo EpiPen.
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