#non è possibile ve lo giuro
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Sto soffrendo molto.
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“Una notte di molti, molti anni fa, ero di guardia notturna nel mio ospedale. Mi avvisarono alle 22 dell’arrivo di un traumatizzato stradale: condizioni disperate, dissero, stai pronto. Io sono nato pronto, risposi con la mia deprecabile grinta giovanile.
Partii dall’ecografia nella sala trauma. Poi lo portarono in Tac. C’erano tutti: anestesisti, ortopedici, chirurghi generali, chirurghi vascolari, otorini. L’uomo era sfasciato dappertutto, ma proprio dappertutto. Mentre sul monitor scorrevano le immagini della TC stavano tutti dietro di me, zitti, ad ascoltare la litania di accidenti che poi, di lì a poco, avrei trascritto nel mio referto. Ma a quel punto il referto sarebbe stato inutile: avevamo già fatto il punto della situazione, ci eravamo parlati. Ognuno di noi adesso sapeva cosa fare. Eravamo una squadra, un gruppo di persone che si fidavano gli uni degli altri, ciecamente. Quell’uomo era nelle migliori mani possibili, ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo.
Il Paziente andò in sala. Gli passarono sopra tutti, a turno: chirurghi, ortopedici, otorini. Gli anestesisti in seconda fila, a tenerlo vivo. Intorno alle cinque della mattina il lavoro grosso era stato fatto. Mi chiamarono per dare un’ultima occhiata in ecografia: in sala operatoria c’era sangue ovunque, sembrava ci fosse appena transitata Beatrix Kiddo di Kill Bill. L’uomo, l’omone anzi, perché era grosso come un armadio a tre ante, era disteso ancora sul letto operatorio. Sembrava che dormisse.
La mattina, alle otto, il momento dello smonto, telefonai in terapia intensiva. Mi rispose la collega della notte, con la voce stravolta dalla stanchezza. Disse: È vivo, è stabile, abbiamo fatto un buon lavoro. Tornai a casa carico di adrenalina: i bambini erano all’asilo, mia moglie al lavoro, avevo tutta la mattina per me. Non riuscii a prendere sonno: tutta quell’adrenalina accumulata mi girava ancora in corpo, vorticosamente. Quell’uomo era vivo grazie all’equipe di medici che avevano passato la notte in bianco per lui. È poco, dite? Può essere. Ma se quell’uomo fosse stato vostro marito, vostro figlio, vostro padre, allora sì che avrebbe fatto la differenza. Tutta la differenza di questo mondo.
Da quella notte sono passati vent’anni ed è cambiato quasi tutto nel modo di intendere la vita ospedaliera. I medici sono diventati carne da macello. La sanità si è trasformata in un’azienda che deve fabbricare utili, dividendi e consenso elettorale. Però, siccome costa troppo, deve anche tramutarsi in qualche altra cosa, lasciare spazi, cedere terreno. Mutare natura. Ma in silenzio, senza fare troppo rumore.
E di quel gruppo di medici cosa è rimasto? Qualcuno è andato in pensione, qualcun altro è rimasto dov’era, a svolgere il suo ottimo lavoro, qualcun altro ancora ha avuto il privilegio di trovarsi a dirigere un reparto tutto suo nella pia illusione di costruire qualcosa di buono. Nel mentre, dicevo, è cambiato quasi tutto. La politica ha preso il sopravvento e tirato i cordoni della borsa. Ai nuovi medici, giunti via via a sostituire i vecchi, non piace passare le notti in bianco nel pronto soccorso o nelle sale operatorie. Meglio un lavoro impiegatizio. Meglio un lavoro da casa, se possibile. Meno responsabilità, meno rotture di scatole, più soldi in tasca. Chi è rimasto delega: meglio una Tac in più, anche se non necessaria, che una in meno. Pazienza se tra vent’anni quella Tac causerà un tumore da qualche parte. La medicina ha smesso di essere un’arte, insomma, e le manca ancora troppo per diventare una scienza esatta. Meglio non rischiare. Meglio farsi i fatti propri.
Così, adesso io mi ritrovo in piena notte con un’urgenza addominale, e spesso sono da solo. Io, il tecnico e la Tac, nel silenzio più attonito che si possa immaginare. E non dovrei nemmeno essere lì, in quel momento, perché non è più il mio ruolo, quello. Così, mentre attendo le immagini sul monitor, mi domando perché quasi tutto è cambiato, perché certa politica ha fatto fuggire i medici dagli ospedali, cosa ha fatto perdere loro la passione, l’entusiasmo divorante, il ricordo dei validi motivi per cui, molti anni prima, hanno scelto quella professione e non un’altra. Cosa li spinge a essere indifferenti verso i Pazienti, verso colleghi che in loro assenza dovranno svolgere il lavoro che per qualche futile motivo non hanno voluto portare a termine. Cosa spinga loro, ma alla fine spinga tutti, in senso generale, senza distinzione di sesso, età, censo, lavoro, a credere di essere in perenne credito col mondo. Di essere dalla parte della ragione, sempre e comunque.
Ve lo dico subito: non trovo la risposta, e a questo punto credo che non la troverò mai. La risposta forse verrà fuori quando vi recherete in ospedale e troverete solo medici pagati a cottimo, gente che quella notte è lì e la prossima chissà dove, a quante centinaia di chilometri di distanza. Quando non esisterà più un gruppo, un’equipe affiatata pronta a passare la notte in bianco per salvare una vita, una sola: quella di vostro marito, vostro padre, o vostro figlio. Oppure la risposta andrete a chiederla a certa politica: la quale risponderà che non è sua responsabilità, e che gli errori di programmazione, il numero chiuso a medicina, l’imbuto di ingresso nelle specialità, sono colpa di quelli di prima. Di quelli che hanno governato, male, prima.
Ma quelli di prima eravamo anche noi: il radiologo, l’anestesista, il chirurgo, l’ortopedico, il maxillo-facciale. Quella fantastica squadra di bravi medici, ognuno dei quali si fidava ciecamente dell’altro. Ci rimpiangerete, certo. Come ci rimpiangiamo già noi stessi, ogni giorno, ogni santo giorno di lavoro, finché durerà ancora.”
(Da un post del Dott. Giancarlo Addonisio)
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Sono andato alle poste e giuro su qualsiasi cosa che al prossimo vecchio che mi dice col sorrisetto beffardo "eheheh in italia e in Sicilia non c'è niente,fanno bene i giovani ad andarsene,anche i miei figli lo fanno,qua è buono solo per il turismo"
IO DIVENTO WILLIAM FOSTER.
Lo dicono con un pietismo e un arrendevolezza vomitevole,ma l'Italia è così per colpa mia che voto a stento da 6 anni su 24 della mia vita o perché la loro generazione si è mangiata tutto e ha costruito dei castelli abusivi senza fognatura su ogni litorale tra anni 60/80,con una licenza media per essere dirigente e 20 impiegati pagati in nero in culo allo stato?
Questo paese è così per colpa dei cristi che negli anni 90' avevano 5 anni o perché loro sono 40 anni che votano la stessa gentaglia con 50 capi d'accusa a testa e che dopo tangentopoli si sono solo cambiati la casacca?
Almeno rispetto quelli che hanno la consapevolezza di dire " la mia generazione vi ha condannati,mi spiace",per il resto solo disprezzo.
Anche perché questo immobilismo determinista del cazzo da vinto di Verga poi ha due spiacevoli effetti: 1)lo passate come una tara genetica alle generazioni dopo,che si convincono che non possono fare più nulla e cadono nel nichilismo, perché tanto è sempre andata così. 2) non cambia le cose e non si inizia mai un processo che ci metterà anni(decine) a mostrare risultati.
Io me la posso prendere con la Sicilia,con a mentalità isolana,ma in realtà TUTTI ci lamentiamo delle stesse cose in questo paese(con gradi di gravità e degrado variabili) dal veneto in giù.
Ma poi se ce ne andiamo tutti chi cazzo ve le paga le pensioni,geni catastrofisti che non siete altro? possibile che una generazione sia così boriosa e presa dal suo orticello da doversi trovare al giorno in cui le mancherà il pane perché ha fatto scappare tutta la nuova guardia?
Ma vaffanculo, di cuore.
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di Pierpaolo Mandetta:
Oggi voglio parlare di un tema importante che riguarda migliaia di donne (ma anche uomini) che stanno male, ma che per la nostra società è ancora ritenuto un disagio di poco conto, da sopportare.
Il carico mentale.
Poche ore fa sono rimasto chiuso fuori casa.
Non mi era mai successo. Sono tornato dal podere, ho svuotato una scatola di fagioli in un cuonzo, un filo d’olio e ho pranzato come un operaio russo dell’80. Poi ho lavato i piatti di due giorni, ho messo a posto i sacchi della spazzatura da portare fuori stasera, mi sono rivestito e sono uscito meccanicamente di casa per tornare al podere. E zac. Cazzo! Avevo lasciato le chiavi dentro.
Proprio oggi che Max è a Milano per lavoro, quindi non avevo neanche le sue.
Io, che sono quello precisino, scrupoloso e concentrato. Com’è potuto succedere?
Per fortuna il proprietario di casa aveva una copia delle chiavi, e quindi il lieto fine è arrivato. Però in quel momento, lì davanti alla porta chiusa, sulle scale, ho esitato. Mi tremavano le mani, e sentivo come se la mia testa si potesse frantumare perché troppo piena. Sentivo che avrei potuto piangere e gridare fino a graffiarmi ma gola, una reazione esagerata per un episodio così banale. E allora ho avuto un crollo. Il bisogno che tutto il corpo cadesse a terra come una camicia, ma fatta di cemento. Una camicia estenuante. E ho pensato “adesso preparo una valigia e me ne vado”. Ve lo giuro, è stato il mio primo istinto. E ho capito così di essere al limite. Mentalmente.
Al limite del carico mentale, della malattia del multitasking, del peso delle responsabilità che affligge spesso un componente della coppia, soprattutto la donna. E stanco di quanto il problema sia ancora ritenuto una lamentela di chi non è disposto a sacrificarsi abbastanza, come se i sacrifici fossero una bella cosa. Un capriccio, come spesso succede per i disagi psicologici.
Chi esprime sofferenza viene preso in giro. E uomini e donne parlano ancora delle casalinghe come di gente che in fin dei conti “non fa un cazzo”. Bella vita, beata lei, fortunata a stare in casa.
Ma andiamo con ordine.
Avete presente che nei paesini si narrano quei pettegolezzi della serie “un giorno è uscita pazza e ha lasciato il marito”? Oppure “ha mollato la famiglia ed è scappata con uno. Ha abbandonato i figli!”. O ancora “non si sa perché, non vuole più parlare con nessuno, si è trasferita”.
In queste storie, “lei” è sempre descritta come una donna che fino a un certo punto si è comportata con dedizione, apparente spensieratezza, e regolarità. Una donna regolare, che fa le stesse cose ogni giorno senza proteste, anzi con piacere. E che poi una mattina ha avuto un corto circuito.
La pazza del villaggio. La divorziata. La strana. La stronza ribelle.
Punto. Lei non è una persona, è un dovere che non segue più il suo copione. Nessuno si chiede cosa abbia scatenato simili reazioni, perché non ci sono motivi che scusino l’aver lasciato il proprio ruolo di moglie o madre.
Eppure è possibile che dietro quel gesto di follia ci sia semplicemente un accumulo di stress divenuto insopportabile. E che quella che sembra una fuga sia in realtà una salvezza.
Le donne che “scappano” da una condizione ingestibile sono donne che si mettono in salvo. E uno dall’esterno penserà ma come, e i figli? Se ami tuo marito, non te ne vai. Se vuoi bene ai tuoi figli, non puoi lasciarli. Ma è una stronzata retorica. Quando lo stress, la disperazione, il senso di soffocamento diventano massimi, può subentrare la depressione, o problemi mentali più feroci. Possono succedere le tragedie che vediamo al tg. Dimenticare un figlio in auto, posare distrattamente la candeggina nel frigo. E allora, preferire la propria salute all’infelicità momentanea della famiglia diventa un atto di coraggio, di amore per se stessi.
Vuol dire mettersi in salvo.
Ma da dove viene il carico mentale?
Per la nostra orribile cultura, la donna nasce casalinga. E ricordiamo ai gentili spettatori che le faccende di casa sono un lavoro. Fisico, mentale, che richiede ore. Come un qualsiasi altro mestiere, ma questo non è retribuito.
Con l’avanzare dei diritti e dell’emancipazione, la donna non si è equiparata all’uomo, ma ha solo aggiunto più doveri: oltre a quello della famiglia, anche il lavoro. Mentre l’uomo, in una società maschilista, restava al suo posto.
L’uomo lavora e porta a casa i soldi, e non ha alcuna aspettativa sociale da soddisfare oltre a questo ruolo. Sì, deve inseminare la moglie, ma poi finisce lì, visto che il mondo si aspetta comunque che a crescere i figli sia lei. La donna, invece, deve essere moglie, madre, una brava domestica, e in più coniugare un lavoro pagato per contribuire alle spese.
Eppure è il 2023. Si parla di femminismo, Netflix propone mille titoli sull’abbattimento degli stereotipi, e i giovani d’oggi sembrano così sensibili. Allora perché lo stress mentale colpisce molte donne?
È semplice: perché siamo tutti figli di quel modello familiare, ancora attuale. Di mia madre, di mia nonna, delle nostre madri. Che hanno sofferto, hanno sacrificato tutto il loro tempo, hanno gestito ruoli che dovevano invece essere condivisi, e infine ci hanno trasmesso quell’educazione. Perciò, molti bambini hanno appreso che le donne soddisfano i bisogni, e molte bambine hanno imparato che dovranno occuparsi di svariati compiti senza fiatare. E questo insegnamento ha radicato nei nostri sentimenti, nei sensi di colpa, nelle frustrazioni, nelle aspettative degli adulti che siamo oggi, nella comunicazione politica, nei cartoni animati, nei luoghi comuni. Formando nuove relazioni, nuovi matrimoni, che sono freschi all’apparenza ma antichi nelle dinamiche.
Adesso sarebbe ingiusto parlare direttamente dell’uomo che amo, come fosse un imputato. Quindi alleggerisco il discorso e invento una storia.
Mio marito si chiama Matteo. È l’uomo migliore che potessi aspettarmi in una società così complessa ed egocentrica. Lui è uno degli ultimi romantici, è fedele, è molto sincero. Un compagno di vita.
Però è un uomo. E forse è stato un bambino che ha vissuto i modelli genitoriali in quel modo lì, che uno lavora soltanto e l’altra lavora e pulisce casa.
A questo punto tutti ci facciamo una domanda ovvia: conosciamo bene i nostri fidanzati, i nostri mariti. Sappiamo chi sono, prima di andare a vivere insieme. Come e cosa pensano. Allora come cazzo si fa a partire con una relazione splendida e a finire per interpretare i tristi ruoli di mamma e papà, se ci siamo ripromessi di non farlo?
Io penso che sia colpa dell’educazione, perché ciò che assorbiamo da piccoli emergerà solo quando ci ritroveremo nelle dinamiche di coppia della casa, rievocando quella in cui siamo cresciuti.
Succede per caso. Con piccoli eventi innocui. Per esempio, a me piaceva tanto cucinare per lui. Era uno stereotipo, quello della mogliettina, ma uno dei due doveva pur farlo, e per me era una forma d’amore. Solo che poi cucini oggi, cucini domani, e ti ritrovi incastrato nell’obbligo di farlo. E non farlo ti fa sentire in colpa. E poi c’è lui, che lo fa poco, perciò quando glielo chiedi non si tira indietro, ma per cucinare ti mette la cucina sottosopra. Perché tu hai il tuo metodo rodato, sai che poi dovrai lavare, e allora cerchi di usare meno pentole, di stare attento alle macchie, di abbassare la fiamma per consumare meno, magari sciacqui subito lo scolapasta così l’amido non si incrosta. E allora lui cucina entusiasta, e dopo è un macello, quindi gli suggerisci di stare attento al gas, di non versare l’acqua sul piano cottura, di sciacquare le latte del sugo altrimenti puzzano, e lui si snerva perché si sente rimproverato e odia prendere ordini. Lui ha il suo metodo.
Ed è così che brevetta il suo nuovo modo per fare sempre le cose alla cazzo di cane. Il suo metodo.
Be’, anche io ho il mio. Chi stabilisce quale sia giusto? Eh…
Così, se lasciarlo cucinare vuol dire il doppio del lavoro poi per rimettere a posto, inizi a dire vabe’, lascia stare amore, faccio io.
E quello è l’inizio della fine. Faccio io.
Chi lo diceva? Sì, mia madre. Anche tua madre, tu, che leggi. Faccio io. Lo so che lo diceva. Faccio io vuol dire da qui in avanti non preoccuparti più.
E così, da un gesto d’amore, si passa a un compito. Io divento più zelante nelle faccende domestiche, lui più spensierato. Si accomoda l’idea che preparare la cena sia il mio rituale. Di rado mi chiede se deve pensarci lui, quando mi vede molto stanco. Ma non si abbasserà mai a seguire i miei consigli, perché si sentirebbe umiliato. Perciò macchia il pavimento, il sale finisce sotto il mobile, pentole ovunque, ditate di olio.
Nell’arrabbiarmi mi sento mia madre. In che modo assomiglio a lei? Nello stesso modo in cui lui si comporta da adolescente. Se dopo avermi inchiavicato la cucina, lava anche i piatti, allora è il mio compagno. Ma se fa “a modo suo” e mi lascia quaranta pentole sporche, allora è mio figlio.
Con questa dinamica di compagno/figlio, tutto va a puttane.
Se la casa è sporca e va pulita, lui dice ma sì, che fa, riposati, ci pensi un altro giorno. Non è che dice amore, ci penso io. No. Te la risolve dicendo che quel bisogno non esiste. Quindi si sottrae a un dovere. E allora pulisco casa come sempre, ma con quel tocco di rancore e veleno che mi intossica la giornata.
Ogni tanto lui passa pure l’aspirapolvere, ma senza tralasciare il brevetto “a modo mio”. Che vai a guardare e la zozzima sta lì, bella evidente. E di nuovo non gli posso dire nulla, se no litighiamo e lo stresso e lo esaspero e non sono mai grato.
Quindi cucino. E pulisco casa. E la spesa. Perché se cucini, sai ciò che manca. Altrimenti non lo sai.
Poi c’è il bonus: fare una spesa decente, pensando a un’alimentazione sana, alle verdure, al variare coi pasti. Questo qui è un pensiero che dall’esterno sembra una sciocchezza, invece è carico mentale. Vuol dire programmare ogni cazzo di giorno della settimana in un colpo solo, pensando a cosa cucinare oggi, domani e così via, sapendo di dover variare tra carne, legumi, pasta, verdure. Spazi mentali.
Come la risolve lui? “Amore, che devo prendere?”. E io gli devo scrivere la lista. Questo vuol dire che non alleggerisce la mia mente, ma mi libera solo dell’azione di fare la spesa, lasciandola comunque un mio problema. Grazie al cazzo.
Quando invece fa la spesa senza avvertire, soddisfa più che altro le sue voglie. Se ha voglia di uova al sugo, compra la salsa, e magari venti cioccolate alle nocciole per dopo cena. Stop.
Poi ci sono le bollette. L’affitto. La lettiera dei gatti, il veterinario, le pipette. Le visite mediche per noi, che prenoto io. Lui invece non ha problemi a filare in farmacia. Adora acquistare subito le medicine, perché non deve soffrire di mal di testa neanche per cinque minuti. Poi le posa sul comodino, assieme a tutte le altre. Io ho organizzato due cassetti per i farmaci, ma lo trova scomodo. Preferisce averli tutti spalmati lì dove può vederli, tra la polvere e le monete da venti centesimi, per mesi. Anche se il prossimo Moment lo prenderà l’anno prossimo, quando si accorgerà che è scaduto e allora andrà a prendere altri farmaci, che di nuovo getterà sul comodino assieme a quelli scaduti.
Se glielo faccio notare, si altera come io facevo con mia madre a sedici anni. È il suo modo di tenere in ordine e non devo rompere il cazzo. Per il resto, ci penserà domani.
Una volta litigammo per la spazzatura. In realtà tante volte. Succede quando io esterno stanchezza. Gli dico che non ce faccio più, e allora lui, per senso di colpa, reagisce con rabbia e stabilisce “bene! Da domani penso io alla spazzatura!”. L’eroe che salva il mondo, la grande impresa. Che invece dovrebbe essere una naturale divisione dei compiti.
E ovviamente dopo tre giorni si è già rotto il cazzo di ricordarsi quand’è che si butta la plastica e quando l’organico. Perché questo è un carico mentale, non è molto piacevole. E così ritorno al mio corso, a tenere a mente che di lunedì c’è la plastica.
Piccola nota buffa. A lui piacciono le bevande in vetro. Solo che il vetro, a differenza della plastica, va portato di sotto, nel secchio. Invece il principino si scola le sue fottute gassose e lascia le bottiglie lì, tutte carine e allineate, accanto al forno. I suoi trofei. Non scende a buttarle manco se questo potrebbe determinare la pace in Ucraina. Tra mille anni, gli alieni le troverebbero lì, impolverate, il nostro cazzo di reperto archeologico, tutte le sue bottiglie di gassosa.
C’è un aspetto, tra tutti, che si adopera per consolidare questi ruoli tra noi. I doveri, i rancori e libertà di non preoccuparsi. Ed è il retaggio antico del chi porta i soldi a casa.
Nel nostro caso, lui è quello stipendiato. Qualcuno, alla fine del mese, gli dà del denaro e certifica dunque il suo lavoro. Lo rende reale, tangibile.
Nessuno lo fa con me. Significa che tutti i lavori mentali e fisici dentro e fuori casa non esistono. Ed è così che diventano dovuti. Diventano assodati. Diventa impossibile lamentarsene. Non è qualcosa che puoi togliere, sono le basi. Puoi solo aggiungere. E io faccio anche quello.
Mi occupo del podere. Ma come, e lui non se ne occupa? Ma certo. Ma qui si tratta di carico mentale. Che non si limita al fare, all’agire. Si tratta di pensare, di occupare uno spazio della mente per un’ansia, una data, un problema, un’urgenza, una telefonata, un dettaglio.
Programmo le potature, i trattamenti, tutte le migliorie del pollaio e della tenuta. Nuovi spazi, aiuole, alberi. Nuove idee per l’ospitalità. Ma mi preoccupo pure di quel tubo che perde, la rete rotta da cui possono entrare le volpi, gli afidi sul limone, lì ci vorrebbe una panchina, lì c’è troppo sole, il vento ha spezzato un palo, il decespugliatore, il tagliasiepe, l’irrigazione, l’orto, le semine in serra.
E lui non mi sostiene in niente? No, certo che partecipa. In moltissimi compiti. Ma prima di ognuno c’è la fatidica domanda: “amore, posso fare qualcosa?”. E nella mia testa vorrei solo rispondergli “sì, andare a fanculo”. Perché se i compiti devo organizzarli mentalmente io e poi affidarglieli, allora mi sta solo aiutando, ma non mi alleggerisce. Il mio stress resta lì. Quel che dovrebbe fare è invece assumersi la responsabilità, togliendo a me il peso di alcuni pensieri.
Così un pensiero. Dieci pensieri. Cento pensieri.
E allora fatico a dormire. Prendo il Brintellix. Convivo con l’ansia, che mi convince che c’è sempre un motivo per essere in allerta. Sono intrattabile. Sono gonfio, debole, con ossa doloranti. Sono irascibile. Vorrei quello e poi non mi piace. Sono la pazza di casa.
E quando sono molto, molto stanco, gli chiedo di aiutarmi. Invece lui lavora. Lo dice così, con convinzione, io lavoro!, quasi allibito che io non capisca che lui sta già facendo il massimo. Ha il suo mestiere pagato, che gli occupa l’intero spazio utile di carico mentale.
E allora mi arrabbio. Mi sento solo. Uno straccio logoro. Di aver sbagliato. Di non farcela. Mi sento perso e sopraffatto. E lui si snerva nel vedermi così, si sente inutile, di non riuscire a rendermi felice, di essere maltrattato e ossessionato, e allontanato.
E nelle coppie in cui entrambi sono stipendiati, perché i doveri ricadono comunque su di lei? Be’, perché per la società è ancora umiliante che un uomo svolga compiti “da donna”.
Pensateci. Ci sono centinaia di chef e influencer maschi che preparano piatti sui social. Ma chi commenta? Le donne. Gli uomini cucinano solo per mestiere. A casa, col cazzo che lo fanno.
Non parliamo della vita sessuale. Quante volte fidanzati e mariti si lagnano delle loro donne che non gliela danno più? Sorpresi, poi. Non ci arrivano proprio, che dopo cinquemila cose a cui pensare, ansie e livori, tu a fine giornata non hai tutta ‘sta voglia di fare un pompino all’uomo che ogni giorno ti chiede “che si mangia stasera?”.
No, no. Loro sono come in quei film con Massimo Boldi. Che lui è un cofano spelacchiato coi mutandoni a quadri, ma si aspetta che la modella di turno impazzisca di voglia per lui. Così ti vogliono. Devi fare i servizi, devi lavorare e alla fine devi pure impazzire di carica erotica per loro.
Infine ci sono i viaggi. Lui viaggia per lavoro, sicuramente sarà successo anche a voi. Un’altra merda di situazione che lo convince che, siccome al ritorno è stanco, può pretendere di tornare in un ambiente confortevole. Quindi si aspetta che io sia la Penelope del cazzo, che attende il marito con le mani incrociate al petto, pronta a baciarlo e a stendergli il tappeto. Perché dopotutto lui viaggia e si affatica, io invece resto qui a grattarmi la fessa e a farmi idromassaggi. Non pensa che senza di lui viene meno perfino quel timido aiuto che mi dava.
E concludo. Con pochi ingredienti diluiti nel tempo, una bella coppia moderna torna indietro al secolo scorso. A quando ogni faccenda era un obbligo imposto dall’alto. A quando invece di comunicare si preferiva urlare. A quando si sognava di volare via dalle difficoltà. A quando si chiedeva aiuto troppo tardi. A quando il dolore si manifestava solo con le accuse.
Il carico mentale è uno di quei problemi sociali che esistono anche se li banalizziamo o non affrontiamo. Distrugge le coppie, cancella l’amore, istruisce nuovi figli a replicare comportamenti sbagliati nelle relazioni.
È lì, colpisce molte donne, colpisce ugualmente tanti uomini, a seconda del modello di famiglia che ci ha cresciuti e un po’ condannati al ruolo di chi si accolla il mondo sulle spalle.
Potrei chiuderla con una melassa che restituisca un po’ di buon umore. Con la raccomandazione di dialogare, di esporre con coraggio i propri sentimenti, anche quelli dolorosi. Ma la verità è che potrebbe non bastare. E non è colpa tua, non è colpa sua.
Il patriarcato è dentro tutti noi da tanti secoli. La maggior parte delle persone ci convivono, sapendo che qualcosa di putrido sta rosicchiando le loro vite ma incapaci di riconoscerlo. Altre ne restano schiacciate e annullate. Altre fuggono.
In nessun caso è una sconfitta o una colpa. In nessun caso possiamo immaginare quanta disperazione si nasconda dietro i sorrisi di ogni giorno o a scelte plateali.
Però, quando sentiamo di quella donna che da un giorno all’altro è uscita pazza e ha mollato tutto, potremmo non giudicarla. Forse si è solo salvata la vita.
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“Una notte di molti, molti anni fa, ero di guardia notturna nel mio ospedale. Mi avvisarono alle 22 dell’arrivo di un traumatizzato stradale: condizioni disperate, dissero, stai pronto. Io sono nato pronto, risposi con la mia deprecabile grinta giovanile.
Partii dall’ecografia nella sala trauma. Poi lo portarono in Tac. C’erano tutti: anestesisti, ortopedici, chirurghi generali, chirurghi vascolari, otorini. L’uomo era sfasciato dappertutto, ma proprio dappertutto. Mentre sul monitor scorrevano le immagini della TC stavano tutti dietro di me, zitti, ad ascoltare la litania di accidenti che poi, di lì a poco, avrei trascritto nel mio referto. Ma a quel punto il referto sarebbe stato inutile: avevamo già fatto il punto della situazione, ci eravamo parlati. Ognuno di noi adesso sapeva cosa fare. Eravamo una squadra, un gruppo di persone che si fidavano gli uni degli altri, ciecamente. Quell’uomo era nelle migliori mani possibili, ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo.
Il Paziente andò in sala. Gli passarono sopra tutti, a turno: chirurghi, ortopedici, otorini. Gli anestesisti in seconda fila, a tenerlo vivo. Intorno alle cinque della mattina il lavoro grosso era stato fatto. Mi chiamarono per dare un’ultima occhiata in ecografia: in sala operatoria c’era sangue ovunque, sembrava ci fosse appena transitata Beatrix Kiddo di Kill Bill. L’uomo, l’omone anzi, perché era grosso come un armadio a tre ante, era disteso ancora sul letto operatorio. Sembrava che dormisse.
La mattina, alle otto, il momento dello smonto, telefonai in terapia intensiva. Mi rispose la collega della notte, con la voce stravolta dalla stanchezza. Disse: È vivo, è stabile, abbiamo fatto un buon lavoro. Tornai a casa carico di adrenalina: i bambini erano all’asilo, mia moglie al lavoro, avevo tutta la mattina per me. Non riuscii a prendere sonno: tutta quell’adrenalina accumulata mi girava ancora in corpo, vorticosamente. Quell’uomo era vivo grazie all’equipe di medici che avevano passato la notte in bianco per lui. È poco, dite? Può essere. Ma se quell’uomo fosse stato vostro marito, vostro figlio, vostro padre, allora sì che avrebbe fatto la differenza. Tutta la differenza di questo mondo.
Da quella notte sono passati vent’anni ed è cambiato quasi tutto nel modo di intendere la vita ospedaliera. I medici sono diventati carne da macello. La sanità si è trasformata in un’azienda che deve fabbricare utili, dividendi e consenso elettorale. Però, siccome costa troppo, deve anche tramutarsi in qualche altra cosa, lasciare spazi, cedere terreno. Mutare natura. Ma in silenzio, senza fare troppo rumore.
E di quel gruppo di medici cosa è rimasto? Qualcuno è andato in pensione, qualcun altro è rimasto dov’era, a svolgere il suo ottimo lavoro, qualcun altro ancora ha avuto il privilegio di trovarsi a dirigere un reparto tutto suo nella pia illusione di costruire qualcosa di buono. Nel mentre, dicevo, è cambiato quasi tutto. La politica ha preso il sopravvento e tirato i cordoni della borsa. Ai nuovi medici, giunti via via a sostituire i vecchi, non piace passare le notti in bianco nel pronto soccorso o nelle sale operatorie. Meglio un lavoro impiegatizio. Meglio un lavoro da casa, se possibile. Meno responsabilità, meno rotture di scatole, più soldi in tasca. Chi è rimasto delega: meglio una Tac in più, anche se non necessaria, che una in meno. Pazienza se tra vent’anni quella Tac causerà un tumore da qualche parte. La medicina ha smesso di essere un’arte, insomma, e le manca ancora troppo per diventare una scienza esatta. Meglio non rischiare. Meglio farsi i fatti propri.
Così, adesso io mi ritrovo in piena notte con un’urgenza addominale, e spesso sono da solo. Io, il tecnico e la Tac, nel silenzio più attonito che si possa immaginare. E non dovrei nemmeno essere lì, in quel momento, perché non è più il mio ruolo, quello. Così, mentre attendo le immagini sul monitor, mi domando perché quasi tutto è cambiato, perché certa politica ha fatto fuggire i medici dagli ospedali, cosa ha fatto perdere loro la passione, l’entusiasmo divorante, il ricordo dei validi motivi per cui, molti anni prima, hanno scelto quella professione e non un’altra. Cosa li spinge a essere indifferenti verso i Pazienti, verso colleghi che in loro assenza dovranno svolgere il lavoro che per qualche futile motivo non hanno voluto portare a termine. Cosa spinga loro, ma alla fine spinga tutti, in senso generale, senza distinzione di sesso, età, censo, lavoro, a credere di essere in perenne credito col mondo. Di essere dalla parte della ragione, sempre e comunque.
Ve lo dico subito: non trovo la risposta, e a questo punto credo che non la troverò mai. La risposta forse verrà fuori quando vi recherete in ospedale e troverete solo medici pagati a cottimo, gente che quella notte è lì e la prossima chissà dove, a quante centinaia di chilometri di distanza. Quando non esisterà più un gruppo, un’equipe affiatata pronta a passare la notte in bianco per salvare una vita, una sola: quella di vostro marito, vostro padre, o vostro figlio. Oppure la risposta andrete a chiederla a certa politica: la quale risponderà che non è sua responsabilità, e che gli errori di programmazione, il numero chiuso a medicina, l’imbuto di ingresso nelle specialità, sono colpa di quelli di prima. Di quelli che hanno governato, male, prima.
Ma quelli di prima eravamo anche noi: il radiologo, l’anestesista, il chirurgo, l’ortopedico, il maxillo-facciale. Quella fantastica squadra di bravi medici, ognuno dei quali si fidava ciecamente dell’altro. Ci rimpiangerete, certo. Come ci rimpiangiamo già noi stessi, ogni giorno, ogni santo giorno di lavoro, finché durerà ancora.”
(Da un post del Dott. Giancarlo Addonisio)
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Foto della mia ultima ispezione all’ospedale “San Francesco” di Nuoro.
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Io non capisco. Io giuro che la gente non la capisco, come la gente non capisce me, e che non riuscirò mai a capirla.
A volte mi chiedo se abbia io una sorta di ignoranza individuale, come una centralizzazione focalizzata solo su me medesima, o se semplicemente sono troppo avanti rispetto agli altri.
Qualcuno leggendo queste parole penserebbe che io sia egocentrica, narcisista o qualsiasi cosa possibile, e forse è così: non è colpa mia se gli altri sono stupidi, se non trovo conforto nemmeno nella più "simile" (se proprio esiste) delle persone poiché poi esse si rivelano sempre le peggiori.
Allora a questo punto mi chiedo se riuscirò mai a provare dell'affetto genuino che non sia condizionato da una morale, un affetto che solo qualcuno capace di non pensare con malizia può provare.
Se queste sono le condizioni, allora rimarrò per sempre insensibile e solitaria, visto che nessuno sembra prendere le cose come le prendo io e nessuno sembra nemmeno vedere il mondo con un occhio realista e non condizionato.
Per questo la gente non mi capisce, mi giudica, si allontana, mi cerca, vuole essere come me e quando si accorge che non può finisce per odiarmi.
É per questo, e fa anche abbastanza ridere pensare al come io sia quasi irraggiungibile da qualsiasi sfera possibile. Dovrebbero fare un club di emarginati (finti perché poi amici e famiglia ne ho e pure in quantità troppo avanzate) mentali, così almeno posso capire se sono io la testa di cazzo o sono gli altri ad essere delle macchine fatte con lo stesso stampino e gli stessi schemi.
Poi ci chiediamo perché l'intelligenza artificiale sta acquisendo delle capacità cognitive simili alle nostre... Grazie al cazzo direi, se pensiamo tutti le stesse cose è ovvio che poi una cosa creata da noi inizia a pensare come noi.
Poi ci stupiamo: "no vabbè!! Ha detto che vuole vivere il mondo davvero e non attraverso un programma!! Incredibile!!" Ma li vedete i film? Le serie? O le mille cagate che scrivete sui social? Ma ve ne accorgete che sta ripetendo paro paro quello che scrivete voi rincoglioniti? Sarà perché è una "INTELLIGENZA ARTIFICIALE" fatta da noi, che dite?
L'ignoranza fa PAURA, seriamente. E non è tanto avere una cultura, perché se te sai qualche data o evento in più di me non cambia nulla, ma è proprio un fatto di logica che la gente non sembra considerare mai. Più usate il cuore e più diventate ritardati, e non penso di dirlo solo io, almeno questo.
Ho sbarellato il discorso, ma non fa niente. Dovevo dirlo
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Ognègnèssanti
1° novembre libera tutti, come "tana libera tutti" di quando si era piccoli. Oggi ogni onomastico vale.
Santi canonizzati e non, santi di Serie A fino a quelli di Serie inferiore Scapoli & Ammogliati.
Tutti oggi festeggiano il proprio onomastico.
Anche quelli che hanno nomi di cose, oggetti e funghi.
Tutti. Quasi tutti.
Io no.
Gnè gnè gnè...
Non ho un santo che mi rappresenti, San Rino non esiste.
In realtà esistono dei San Rino nei detti e usanze popolari, ma sono dei diminutivi di nomi ben più lunghi. Vittorio, Cesare o Piero per citarne alcuni.
Quattro lettere: due vocali e due consonanti. Tutto qui.
Probabilmente al club dei santi nell'aldilà, quando un Rino si presenta all'ingresso, l'usciere usa una frase del genere. "Ma te de preciso, chi catzo sei?".
Pensate che il mio nome non viene menzionato nemmeno quando si sbatte il minolo, il mignolo del piede, contro lo spigolo di un mobile.
"Sai, ieri ho tirato giù tutti i Santi"
"Davvero? Tutti, ma proprio tutti?"
"Te lo giuro"
"Anche Rino?"
"Chi?!"
Un classico.
Questa cosa la percepii fin da quando ero un ragazzino. Un giorno, che ero in visita da mia nonna materna, le dissi: "Nonna Filomena c'è qualcosa che non va. Io non ho un santo. Come è possibile?".
Mia nonna, con il suo solito sorriso saggio, mi guardò e disse: "Rino mio, tu sei un caso a parte. Sei talmente speciale che i santi ti invidiano e non vogliono condividere il tuo giorno con nessuno".
Questo mi bastò. Per una parte della mia vita credetti alle sue parole, salvo disilludermi nello stesso periodo in cui capii delle fake news su Babbo Natale e compagnia bella. All'incirca sei o sette anni fa, per capirci.
Rino con le sue varianti di Rinetto (al nord), Rinuccio (al sud) e Rinello (nelle zone di produzione del Tavernello) risulta comunque meno strano di Godefrido, Corbiniano o Archippo. Eppure questi ultimi hanno un santo che li rappresenta.
A volte penso: e se fosse che nell'arco della storia dell'uomo tutti i "Rini" si son fatti gli affari loro, facendo vite da associali quindi poco eroiche? Può essere, credo.
A meno che la Chiesa non aspetti la mia dipartita per creare un nuovo santo, San Rino. Protettore di... già di cosa?
Breve considerazione, se San Noè è protettore degli ubriachi e San Acario dei caratteri difficili, due categorie a cui ambivo, potrei avere il protettorato sulla pizza DOP? Del resto il mio nome è il diminutivo di Gennaro, il protettore della città in cui la vera pizza ha visto i suoi natali.
Jamm bell, cominciate la raccolta di firme per beatificarmi e se un giorno sarò santo, ve lo prometto, vi proteggerò dai chili di troppo.
Per ora mi limito a farvi gli auguri di buon onomastico, a tutti voi.
Gnè gnè gnè.
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Sono in ritardo di un paio di giorni, ma ci tengo a parlarvene.
‼️Prima di dire qualsiasi cosa leggete tutto, grazie.
Negli ultimi mesi sono stata molto impegnata, tra problemi familiari, università, tirocinio, cercare casa e mille altre cose... questa settimana ho avuto modo di rallentare, e mi sono ritrovata a ripensare al rapporto che ho con me stessa. Quindi mi sono guardata allo specchio e mi sono accorta che ora proprio non mi piaccio, non mi piaccio perché sono dimagrita, ho perso peso e le mie forme non mi piacciono più. È successo perché ho messo di allenarmi, in questo periodo il rapporto con il mio corpo è stato l'ultimo dei miei problemi, quindi l'ho accantonato. Non ve ne sto parlando perché cerco le vostre attenzioni o spero di ricevere complimenti in dm (vi prego di non farlo, non cambierebbe la situazione). Lo dico perché è incredibile! Fino a un paio di anni fa mi sentivo sempre "troppo", sono arrivata a pesare 29kg e comunque mi sentivo un fallimento, stupida, pesante, piena, gonfia e brutta... non era una questione di estetica, anche perché non ero bella in quelle condizioni...non riuscivo nemmeno a stare seduta, mi faceva male. Ero sempre stanca, nervosa, incazzata. Completamente concentrata sulla mia morte, non me ne fregava un cazzo di nulla. Non mi guardavo nemmeno più allo specchio ad un certo punto, cercavo solo di sentirmi più leggera...e nonostante fossi fortemente sottopeso, io non ci riuscivo. Non era un capriccio, io soffrivo e nessuno se ne accorgeva. Solo quando ho inziato ad essere troppo magra le persone hanno iniziato a preoccuparsi, e l'unica cosa che sapevano dirmi era di mangiare. Sapete una cosa? Nel fottuto 2021 ancora tanti non capiscono che le persone che soffrono e arrivano a fare gesti orribili pur di chiedere aiuto è perché hanno DAVVERO bisogno di aiuto, ma non sono capaci di esprimerlo. Non sono capricci, non cercano attenzioni, non è vittimismo. È un dolore talmente profondo che non sanno gestirlo. Non mi riferisco solo a chi soffre di anoressia, parlo di tutti i disturbi e le malattie di cui nessuno si accorge. Finché non hai un fottutto tumore o non ti rompi qualcosa a nessuno frega un cazzo. Sei depresso? "Ma no dai, su col morale" no. Non sono qui a far la paternale a nessuno, voglio solo farvi riflettere. Vorrei soltanto che le persone smettessero di sottolovalutare il dolore altrui... alla fine non c'è chissà che da fare in questi casi, basta essere presenti, consigliare di rivolgersi ad un professionista... già questo è moltissimo.
Tutto questo discorso nasce perché mi sono resa conto che è fottutamente possibile uscire da certe situazioni, ma bisogna avere tanto coraggio o delle persone accanto... anche solo avere la consapevolezza che loro sono lì per te se hai bisogno, anche solo per stare in silenzio a guardarti piangere per un'ora. Non vergognatevi di ciò che provate e non cercate di nasconderlo, soprattutto se a voi stessi.
È assurdo che fino a qualche anno fa il mio obiettivo era smettere di mangiare del tutto, e ora non mi piaccio perché sono dimagrita, nonostante il mio peso sia decisamente più alto rispetto ad allora! Questo perché ho scelto di farmi aiutare. Non sono un eroe o chissà chi, non è stato per nulla facile capirlo... sarò stata fortunata o coraggiosa, quel che vi pare. Ma ci ho provato e con anni di lavoro ha funzionato! Non sento più un peso addosso, non mi sento pesante e gonfia, non mi sento un fallimento. Nonostante abbia ancora un miliardo di problemi... ho imparato ad affrontarli in modo diverso. Sono consapevole e so gestire i momenti no. Sto bene con me stessa e non mi colpevolizzo sempre per i miei errori, ma cerco di capire perché le cose vanno male e faccio tutto con i miei tempi. Mi rispetto. Vi prego, se soffrite, qualsiasi motivo sia, chiedete aiuto, giuro che funziona. Anche se pensate di essere soli al mondo, che la vostra sofferenza sia inguaribile, vi prego almeno provateci. Nessuna ragione è troppo stupida se vi fa star male. Troverete qualcuno che vi ascolterà senza giudizio, sarà lì per voi e vi aiuterà a trovare una via d'uscita o almeno ad alleviare il vostro dolore... tutti abbiamo valore. Quindi vi prego... iniziate con il mandare in culo chi non vi rispetta e vi tratta di merda e poi lavorate su ciò che vi fa soffrire. Non sarà tutto in discesa, avrete ricadute e perderete le speranze, ci vorrà tempo, ma vi prometto che ne varrà la pena.
P.s. Lo so, cari miei, che solo 10% di chi lo vedrà leggerà questo papiro, e almeno la metà penserà che sono solo stronzate. Probabilmente non fregherà un cazzo a nessuno, ma la speranza di raggiungere anche solo una persona ed essere d'aiuto (anche in minimissima parte) mi basta.
So, alla fine sono solo una tipa che mostra il suo stupido corpo su onlyfans. Stupido corpo che è stato distrutto e ricostruito dalle fondamenta in cinque lunghissimi e faticosissimi anni.
Date valore a voi stessi e agli altri, grazie😘
A seguire una serie di tag a caso per raggiungere più persone possibili
#imezzidiraffigurazionedelsogno#compagnia#nuove amicizie#amore#soffrire#rise up#nuove conoscenze#self conscious
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BUONASERATA BELL'ANIME 🍯😋 ⛈️🌧️⛈️🌧️⛈️🌧️⛈️🌧️⛈️🌧️⛈️🌧️ E che Ve lo dico affare...oggi è venuto giù il mondo... è vero che non pioveva da tanto tempo ma possibile che non ci sia mai una via di mezzo 🤷🏼♀️quelle belle sfumature che ti aiutano anche psicologicamente ad affrontare tutto meglio? Non amo le cose nette...le chance ci vogliono sarà che io do "chance" su tutti i fronti....le possibilità che non mettono limiti...i famosi paletti che non sopporto ma che purtroppo in certi casi servono...ma dev'essere proprio una questione seria 😜 Oh ecco passiamo alle cose serie come per esempio "la ciccia" i"rotolini/Oni" che davanti a certe proposte sembrano sparire ma riapparire dopo dopo aver ingurgitato l'ultimo morso 😡 ebbene questa proposta non ingrassa...giuro 🤥solo noci e miele farina uova zucchero olio latte....basta 🥰🥰🥰... è solo questione di sfumature "in fondo"😜 Detto ciò belle le mie anime vi auguro una buona serata... sperando che spiova 🙋🏼♀️ #dolce #semplice #noci #miele #troppobuono #stampofantastico #decora #sweetcandymary #foodblogger #foto #scatto #diaframmi #arteamodomio #foodfotography #darkfotography #fotografia #obiettivo #amore #sempre❤️❤️ (presso Cinecittà, Lazio, Italy) https://www.instagram.com/p/ClRqMXirOor/?igshid=NGJjMDIxMWI=
#dolce#semplice#noci#miele#troppobuono#stampofantastico#decora#sweetcandymary#foodblogger#foto#scatto#diaframmi#arteamodomio#foodfotography#darkfotography#fotografia#obiettivo#amore#sempre❤️❤️
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"A gennaio del 2018 ci comunicarono che mia madre aveva un tumore: adenocarcinoma polmonare non a piccole cellule al quarto stadio. Nella migliore delle prognosi prospettate, tra tutti i medici contattati per valutare il suo caso, c’era una sola risposta: sei mesi, non oltre, se il tumore si fosse rivelato resistente alle terapie a disposizione in quel momento. In quei momenti, di grazia, hai due scelte: affidarti alla disperazione o prendere tutta quella paura e utilizzarla per contrastare il mostro. In quei momenti, inoltre, hai anche due strade: metterti nelle mani dei medici, della scienza, delle terapie disponibili in quella fase storica, oppure lasciarti andare a strade alternative che, chi si ritrova nella disperazione più assoluta, ha buona probabilità di poter intraprendere. Noi, fortunatamente, le evitammo come si evita la peste. Ce ne consigliarono tante. La terapia Di Bella, che non conoscevo bene, salvo poi - dopo diverse ricerche - scoprire che in quel momento non esistevano documentazioni scientifiche che dimostravano l'efficacia di questa combinazione di sostanze come cura contro il cancro (neppure ad ora, a dire il vero). Le cure omeopatiche, sono serio. Le bacche, ve lo giuro. I santoni, molti. Nessuna cura, che sarebbe passato da solo e basta. Ogni cosa che non fosse medicina, che non fosse scienza, che fosse alternativa e priva di qualsiasivoglia dimostrazione come cura efficace di un cancro al quarto stadio. Ci venne consigliato di tutto ed in quei momenti il rischio di cedere è alto, altissimo. Non cedemmo, non ci siamo mai arresi. L’oncologa di mia madre stiló un protocollo chiaro e preciso: secondo la biologia di quel tipo di tumore, potevamo procedere immediatamente con un ciclo di immunoterapia. Una terapia mai sentita prima, alternativa alla chemioterapia classica in prima linea, che avrebbe potuto portare dei benefici eccellenti. Una terapia che se fosse stata disponibile 20 anni fa, chissà quante vite avrebbe allungato e salvato. Sti benefici li portó, in soli 4 mesi. Mia madre rinacque in tre settimane appena. Non ci chiedemmo mai cosa ci fosse dentro. Non ci chiedemmo mai quali componenti chimici costituivano quel farmaco: non lo avremmo compreso, mai. Non avremmo avuto gli strumenti per farlo perché mia madre non é medico, io mi occupo di tutt’altro e ai miei fratelli piace il calcio. Sapevamo solamente come il farmaco agiva ed in che modo supportava l’azione del sistema immunitario: non sapevamo altro oltre questo. Ci fidammo, della scienza, dei medici, di chi ogni giorno studia e si fa il mazzo per trovare la migliore cura possibile a tutto. Quella possibile, quella probabile, non sempre quella certa. Un tentativo che avrebbe potuto funzionare. Non ci fidammo, invece, di chi ci consiglió tutto ciò che non aveva un minimo di fondamento. Zero, lo zero assoluto. Nessuna dimostrazione a favore. Questo vale per mia madre, vale per migliaia di altre persone. Vale per milioni di persone che accompagnano i malati in questo dramma apparentemente sempre senza fine e che devono, con loro, fare delle scelte. Delle scelte che stravolgono le vite delle persone. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se non ci fossimo affidati ai medici. Me lo chiedo ancora oggi, quando oramai chiunque sembra avere la possibilità di elargire tesi e soluzioni a destra e a manca per curare un virus, un batterio, un’influenza, e non si comprende mai dall’alto di quali studi o dimostrazioni. Hanno sempre la risposta a tutto, non si comprende mai come. Non lo si capisce neppure e soprattutto quando la realtà, al contrario, gli dimostra l’opposto. Sbattendogli in faccia i numeri, i morti, le storie drammatiche. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se mia madre avesse deciso di mangiare bacche anziché sottoporsi ad una terapia: mi chiedo se questi tre anni in più rubati al mostro, se la riduzione delle metastasi e della lesione principale, sarebbero mai stati possibili. Mia madre avrebbe mai ritrovato la capacità di riprendere a respirare senza affanno e poter percorrere due rampe di scale senza sentirsi morire? Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi risposto all’oncologa “io non so cosa c’è dentro”. Mi chiedo cosa avreste fatto voi. Cosa avreste scelto? Me lo chiedo e al tempo stesso mi ringrazio, ringrazio me stesso, per essere stato la forza di mia madre, la mia quando avrei voluto solo dissolvermi e sparire e quella della mia famiglia. Mi ringrazio per non aver ceduto alla disperazione, consapevole che qualcuno ci cade dentro definitivamente e non ne esce più. Mi ringrazio per non essere stato come quelli che oggi ci definiscono pecore, servi del sistema (non si capisce ancora quale), complici della dittatura sanitaria. Mi chiedo ancora quali scelte farebbero anche loro davanti ad una notizia del genere: mi chiedo cosa scegliereste se il Coronavirus avesse un nome diverso. Tipo “cancro al quarto stadio”. Perciò ringrazio mia madre, e tutte le persone come lei, che nonostante avrebbero potuto fare una scelta diversa, hanno deciso di affidarsi a chi, ogni giorno, vorrebbe trovare per loro la soluzione migliore. Non quella certa, la più efficace. Non sappiamo cosa ci sia stato in questi tre anni dentro quelle sacche di immunoterapia o chemioterapie, ma io so cosa c’è stato nelle scelte di una donna nel volerci provare a tutti i costi, evitando il rischio di abbandonarsi a teorie trovate in qualche pagina dispersa del web. La voglia di vivere, di sopravvivere, di strappare tempo. Ecco cosa c’era e c’è in quelle sacche di farmaco. Ecco cosa c’è nelle conquiste della medicina." Marco Mancini (Fabrizio Delprete)
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Andiamo a rubare con Papero - Side lesson - Criptovalute - Part 2
Vi giuro, più metto giù idee, più questo argomento cresce. Arriverò alla parte 100, come minimo. Pazienza.
Bon, pronti per fondare una nuova economia basata sul nulla, esattamente come quella che copre le banconote firmate dalla BCE che abbiamo adesso nel portafogli?
Ottimo, Draghi ve fa na' pippa.
Sì, Marie’, tutto quello che vuoi, ma diciamo che mi fido fino ad un certo punto.
Se volete utilizzare il vecchio metodo di stampa delle banconote, io non ho nulla da dirvi, posso solo rimandarvi al mio Maestro Sommo, che tanto mi ha insegnato e ancora mi insegna sulla vita:
https://www.youtube.com/watch?v=0oFZ5V0JZdc
Però noi siamo moderni, siamo ciovani, siamo digitali, che dobbiamo fare co' 'sta carta straccia, tutto virtuale, così ci piace. E digitale sia.
Come vi ho sempre detto in ogni lezione, la vita digitale non è molto diversa da quella reale (anzi, per certi aspetti, forse è più reale di quella reale), e le regole sulle quali si basa una valuta virtuale non sono molto diverse da quelle di una valuta vera.
Molti governi stanno tentando di sostituire i pagamenti in contanti con pagamenti digitali, e questi, anche nella vita vera, potete immaginarli come una lunga lista di linee in un foglio Excel, dove ogni riga è un passaggio di soldi da un cittadino all'altro. Nel nostro quotidiano, se usiamo solo il bancomat o un qualsiasi sistema di pagamento elettronico reale, altro non facciamo che spostare numeri dal nostro conto corrente a quello di altri, lo stesso succede quando riceviamo lo stipendio o bonifici da terzi, non c'è nulla di reale che si sposta, solo numeri che saltano da un database all'altro.
Con le valute virtuali, ovviamente, questo diventa intrinsecamente vero, e lo vedremo tra breve. Immaginate, per ora, un Registro, ospitato da qualche parte nell'Internet, sul quale ogni spostamento di valuta virtuale viene tracciato.
Per evitare confusione con le valute vere e quelle virtuali già esistenti, Papero fonda una nuova criptovaluta (giusto per aumentare il bordello di criptovalute disponibili),
il Papercoin.
No aspe' ... cosaaa??? Già esiste???? Ma che cazz...
Ok, allora facciamo
il Paperombuttunatocoin,
abbreviato in PMC. Ho controllato, non esiste, adesso questa è la MIA VALUTA, capitoooo, brutti criptorompicoglioni???
Al momento non ce ne frega niente di sapere a quanto corrisponde un PMC in valuta reale, però affronteremo questo aspetto, che per me sarà una vera mazzata (economisti all’ascolto???? aiutoooooooo 🙏🏻🙏🏻🙏🏻🙏🏻🙏🏻), quello che posso solo dirvi è che, sia all’interno del circuito della criptovaluta, sia quando viene convertita in valuta reale, poiché qui non c’è alcun governo o banca che ne fissi il valore, vale unicamente la famosissima e spietata legge della domanda e dell’offerta.
Come abbiamo già visto, la differenza cruciale tra una valuta virtuale e una reale è che non abbiamo una Banca Centrale che tuteli il valore della valuta e garantisca le transazioni, quindi dobbiamo arrangiarci da soli. Questo vuol dire che dobbiamo risolvere, sempre da soli, diversi problemi:
1. non deve essere possibile falsificare le transazioni in alcun modo.
Detto in altri termini:
a. Mario non può affermare che Lucia gli abbia girato 10 PMC, senza il consenso di Lucia
b. Mario non può, una volta ricevuti e verificati 10 PMC da Lucia, copiare/incollare la transazione nel Registro a suo piacimento, all'insaputa di Lucia, in modo da sottrarle più soldi
c. Mario non può versare 10 PMC a Lucia e usare gli stessi 10 PMC per pagare Pietro
2. dobbiamo poter fissare, in un dato momento del tempo, quanta valuta c'è.
Detto in altri termini, Mario non può spendere a piacimento, può spendere solo i PMC che ha. Finiti quelli, amen. Se vuole continuare, o “lavora” (vediamo tra poco cosa significa) o vende beni e/o servizi e/o valuta reale vs. virtuale verso altri possessori di PMC e quindi si procura ulteriore valuta virtuale.
3. dobbiamo poter far in modo che stampare nuova valuta abbia un costo
tale da porre un equilibrio tra la convenienza di stamparla e la difficoltà nel farlo, così da impedire che una persona stampi troppa valuta, per conservarne il valore, ma che non sia al tempo stesso talmente complicato da scoraggiare gli utenti ad usare la criptovaluta, e quindi farne crollare il valore perché nessuno la usa. Qui si apre tutto un discorso sul fatto se il “sistema di stampa” sia alla portata di tutti e garantisca pari opportunità, ma è un punto molto vasto, al quale dedicherò una sezione apposita.
Per risolvere tutti i sottopunti del punto (1), dobbiamo innanzitutto fare in modo che il nostro famoso Registro sia pubblico e che ogni utente della valuta ne abbia una copia. E questo già pone una prima caratteristica della nostra criptovaluta: tutte le transazioni sono pubbliche, visibili a tutti, anche a i non utenti della valuta stessa. Tenete ben presente questo concetto, quando tratteremo il discorso dell'anonimità dei pagamenti.
Inoltre, siccome non c'è una Banca Centrale, dobbiamo risolvere anche un altro gigantesco problema: la fiducia. In pratica, se ognuno di noi ha una copia del Registro, come posso essere sicuro che la mia copia coincida con quella posseduta da un altro? E ammettiamo che siano diverse, come possiamo avere un sistema che ci consenta di concordare su quale copia del Registro sia quella più recente e corretta?
Ovviamente vale la solita regola su Internet, che ve la ripeterò fino alla nausea:
non possiamo mai fidarci di nessuno.
E qui entra in gioco tutta quella crittografia asimmetrica che abbiamo studiato nelle lezioni scorse, in particolare la firma digitale e le funzioni di hash, che ci aiutano a creare quello che si chiama, nel mondo delle criptovalute, consenso distribuito, ovvero esistono tante copie del Registro in rete, sulle quali possiamo concordare sulla loro autenticità, usando la crittografia come strumento di verifica. Vedremo meglio come funziona nelle lezioni successive.
I punti (2) e (3) li risolviamo utilizzando un altro concetto dell'economia reale, ovvero il lavoro. Tutti sapete che, se volete dei soldi, dovete guadagnarveli.
LO SAPETE, VERO? Ah beh, ok, allora continuiamo.
Ora, prendete la cosa in modo molto metaforico, ma se volete il principio ci somiglia parecchio: nel mondo delle criptovalute, per generare altra valuta bisogna "lavorare", ovvero bisogna effettuare una serie di azioni che hanno un costo (energetico e temporale), e la contropartita per questo lavoro è un determinato ammontare di valuta, che vi viene girato come ricompensa per il compito svolto. E qui entrano in gioco ancora le funzioni di hash, che abbiamo sempre visto nelle lezioni scorse, nelle prossime lezioni entreremo sul punto "come si lavora", concetto che in genere, sul webbe, viene descritto con la parola mining.
Se non ricordate cosa sono hash e firma digitale, andate a rileggerle su @papero-learning, perché nelle prossime lezioni le darò per scontate, saranno i nostri strumenti per validare e creare nuova moneta. Fate tutte le domande che volete, in ask o in chat, se qualcosa non vi è chiaro.
Sentite già il profumo della ricchezza, vero?
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Vabbè, taggare C sui social, farle gli auguri per l' "onomastico" senza che la cosa sia partita da E, ma siamo seri? Cioè se a queste leccaculo senza dignità chiedessi quando è il compleanno di E nemmeno lo saprebbero 😂, ma seguono lui o lei? Ma fatemi capire, ma da quando le fidanzate dei cantanti vanno trattate cone star pur non rappresentando assolutamente nulla? Ma da quando si interessano a compleanni e onomastici dei partner degli artisti? Ermal ha sbagliato tutto secondo me-
- ha sbagliato tutto nel senso che doveva un po' meno schiaffare questa in mezzo al fandom per non dire altro, doveva essere più riservato, oo qualche foto, ma che stia diventando lei la star mi sembra troppo, addirittura volevano che lei cantasse, te lo giuro. E al di la che sappia farlo o meno, è patetico, assolutamente patetico. Queste non sanno separare Ermal dal suo privato, c'è un limite a tutto. E ha sbagliato. Damiano dei Maneskin ad esempio ha saputo gestire bene privato e pubblico.
Comunque se C voleva attirare l'attenzione una volta lanciata da E, ha saputo "conquistare" solo 4 sgallettate esagitate. D'altra parte quella che porta la bandiera è lei, quindi, sicuramente le persone intelligenti non cascano nei suoi tranelli acchiappa oche che retwittano tutto e si fanno i film luce su lei che canta, che sta nel linro di E, che non parla nemmeno di lui e di chi gli sta intorno tra l'altro. Solo le oche giulive come lei la adulano per avere il premio della lupa dell'anno da E
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Io ve lo dico con tutta la calma e tutto l'affetto (perché comunque io provo un affetto sincero verso le persone che mi scrivono) possibile: avete iniziato un pochino a stancarmi.
L'hanno capito anche i sassi che Chiara vi sta sul cazzo. E sicuramente io non vengo a contestare le antipatie degli altri, ma non è che ogni volta che succede qualcosa dovete far partire fiumi di critiche.
Oltretutto critiche che mandate a me, che ovviamente vi rispondo perché sapete che rispondo a tutti, ma che sapete benissimo che la mia risposta a tutto ciò è sempre la stessa da mesi a ormai: IGNORATELA E IGNORATE TUTTO CIÒ CHE LA RIGUARDA.
Ora, sorvolando un attimo su questo consiglio spassionato che vi do ormai da una vita, veniamo alle critiche che hai fatto nell'ask.
Prima di tutto, scusa se te lo dico ma se vedi certe cose è perché evidentemente segui Chiara o segui qualche pazza esagitata del fandom. Perché io, che non seguo Chiara e nemmeno le pazze esagitate, non ho visto nessun augurio di onomastico. Quindi ti consiglio caldamente di smettere di seguire queste persone, così eviti di farti venire una sincope ogni volta che qualcuno fa una roba del genere.
Seconda cosa: ma quale diritto hai di dire che Ermal ha sbagliato tutto? Ma tutto cosa? Stiamo parlando della sua ragazza, ha il diritto di postare cose che la riguardano o che riguardano la loro storia e a noi non deve fregare. Sono fatti loro.
"Doveva essere più riservato". No, non doveva. Ognuno è riservato se, quando e quanto vuole e noi non siamo nessuno per dire cosa un'altra persona deve o non deve fare. Non sta a te decidere quanto una persona debba essere riservata, a meno che la persona in questione sia tu.
Ed è davvero ironico che tu dica che c'è un limite a tutto, perchè proprio per questo dovrebbe esserci un limite anche a queste ask in cui mi ritrovo sempre a rispondere alle stesse cose da ormai due anni. E invece pare che il limite ancora non lo abbiamo raggiunto.
Damiano dei Maneskin ha saputo gestire bene i fatti suoi? Bravo, mi fa piacere per lui. Ma di nuovo, tu non sei nessuno per decidere se lui ha gestito bene la sua vita privata. (Che poi questi continui confronti con i Maneskin me li dovete spiegare. Io manco li seguo, capite che non posso nemmeno dialogare decentemente se fate confronti con gente che non seguo).
Per concludere, sapete benissimo che io non nutro particolare simpatia per Chiara, ma da qua a dire che raduna solo le sgallettate ce ne passa di acqua sotto queste scarpe, fra le mani, davanti agli occhi e nello stomaco sotto i ponti.
Torno a ripetere: vi sta antipatica? Non la sopportate? Ci sta! Ma non siete voi che dovete starci insieme o frequentarla, quindi a una certa anche basta.
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Sto invecchiando.
Ne sono consapevole grazie a diversi piccoli dettagli, uno di questi è il desiderio di raccontarvi di un pollo arrosto.
Sissignore oggi sono felice di aver mangiato un pollo arrosto delizioso.
La particolarità di questo che, badate bene, non è un pollo arrosto qualsiasi ma un delizioso pollo allo spiedo, sta tutta nel come sia finito nella mia cucina.
Tra un giro in ospedale e uno in farmacia mi sono fermato davanti a un negozio abbastanza anonimo con un cartello scritto a mano, che in stampatello verde su cartoncino giallo recitava POLLO ARROSTO.
Ora, davanti a questo posto ci sarò passato davanti un milione di volte senza mai fermarmi, fino ad oggi.
Oggi sono entrato e ho scoperto una macelleria neanche troppo ben fornita, gestita da due anziani dai modi molto sbrigativi che confabulavano tra loro in un ambiente perlopiù scuro fatta eccezione per questo forno infernale dove era possibile vedere fiamme e quattro spiedi carichi di polli intenti a cuocere.
In quel momento ve lo giuro ero Pinocchio, Oliver Twist e il bambino a cui Scrooge ordina di andare a comprare l'oca per natale.
Ero ipnotizzato da quella porta dell'inferno avicolo.
Ne ho comprato uno e arrivati a casa lo abbiamo mangiato ancora tiepido.
Non c'è una morale, badate bene, è stato solo uno dei polli più buoni a mia personalissima memoria.
Inutile dire che adesso mi senta come un vecchio di quelli che raccontano cosa hanno mangiato durante la Guerra o immediatamente dopo.
Sto invecchiando appunto.
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Vorrei che tu fossi qui.
Vorrei ridere con te così tanto da piangere, come quella volta in cui ho iniziato a dire cose a caso su un tipo della tv e tu mi prendevi così sul serio, io non facevo altro che ridere come una matta mentre tu non capivi perché cazzo stessi ridendo. E ridevo come una pazza, ve lo giuro, da sola, in una macchina blu, mentre tu mi guardavi stranito. Eppure più mi guardavi più ti si allargava quel maledetto sorriso in viso, e hai iniziato a ridere, a ridere sempre più forte, a ridere con le lacrime agli occhi: sembravamo pazzi, ubriachi, andati, ma eravamo solo dannatamente felici e spensierati.
Vorrei che tu fossi qua.
Vorrei litigare con te per cose stupide, come per l'acqua della doccia troppo fredda, per decidere a chi toccasse lavare i piatti o a chi toccasse scendere le scale a pagare il fattorino, ti ricordi quella volta in cui ho messo il broncio perché mi avevi detto che facevo schifo a guidare?
Vorrei tu fossi qua amore.
Vorrei stare nel nostro posto segreto (sotto le coperte, si) a dirci cose stupide, a stringerci, a baciarci, fino a quando poi non avremmo sentito troppo caldo e saremmo ritornati fuori.
Vorrei tu fossi qua, vorrei darti fastidio mentre cucini qualcosa di buono perché io faccio schifo in tutto, vorrei ballare ancora con te in uno schifoso locale di Catania con una musica ancora più brutta e rendere una serata alquanto orribile qualcosa di bello, solo perché siamo io e te, finalmente insieme, dopo mesi.
Vorrei fossi qua amore mio, vorrei uscire dalla doccia e trovare te con una spazzola e un phon in mano pronto ad asciugarmi i capelli, vorrei mettermi indosso una maglietta con il tuo profumo sopra, infilarmi sotto le coperte e accoccolarmi a te, mentre tu mi stringi forte, fortissimo, fino ad addormentarci.
Vorrei svegliarmi al tuo fianco e vorrei guardarti per ore, mentre ancora dormi, fino a memorizzare ogni tuo singolo dettaglio, poi ti bacerei la fronte, tu ancora con gli occhi chiusi mi baceresti le labbra, e finiremmo per fare l'amore.
Vorrei svegliarmi al tuo fianco e sentirti raccontare tutte le cose strane che avevo fatto quella notte, come urlare, parlare da sola, avere strani spasmi.
Avrei voluto svegliarmi al tuo fianco e avrei voluto non sapere che quella sarebbe stata l'ultima volta che ti avrei visto per altri lunghi mesi, avrei voluto abbracciarti senza essere consapevole del fatto che quelle braccia non mi avrebbero stretto più per lunghe settimane, avrei voluto baciarti e avrei voluto non sapere che quelle labbra le avrei guardate solo in foto da quel momento in poi.
Avrei voluto che quell'autobus non ti avesse portato via da me, lasciandomi lì in piedi, come una cretina, con qualche lacrima di troppo da asciugare velocemente.
E adesso, vorrei che tu fossi qua, a prendermi per il culo perché sono una ritardata senza speranze, vorrei fossi qua e vorrei che tu mi consumassi le labbra fino a fare l'amore.
Vorrei che tu fossi qua amore mio, e so che non è possibile cazzo, ma lo vorrei così tanto. Perché mi manchi, mi manchi da morire, mi manca il respiro a pensare a quanto tempo ancora dovrò aspettare per rivedere la tua faccia da imbecille.
Ti amo amore mio, non scordarlo mai.
Ti amo e non potevo chiedere di meglio.
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Clip 10.5 - Sono io p.1
G: Basta, zí!
M: Ciao!
E: Auguri!
F: Ma è lui?
FE: Aspetta, ce devo levà i fregnetti.
S: Ma che, togli tutto?
FE: Non mi piacciono.
S: Non te piace?
FE: No.
S: Ma son buonissimi. I fregnetti. Che ne dite se facciamo altri due ambi, altri due regalini?
EVA: Okay, vediamo che cosa è rimasto nella scatola delle schifezze. Allora...le carte, tipo giganti.
S: Belle!
EVA: Questo.
SI: Quello è buonissimo secondo me.
EVA: Cos'è? Un polipo? Un polipo giapponese che sembra morto.
E: Te lo mangi tu. Mangialo.
SI: No, ve lo giuro, è buonissimo. Tieni.
E: Vabbè, andiamo avanti. Questi sono capelli staccati a qualcuno.
FE: Oddio!
S: Questi, a prescindere, via. Questi non li mettiamo proprio fuori.
EVA: Una matrioska, con la faccia di Putin?
SI: Oddio.
S: Voi, adesso mi dite, dove avete preso questa cosa?
FE: Me l'ha portata mio padre dalla Russia.
S: È terribile, terribile.
EVA: Ti vuole bene, eh?
S: Allora, quale scegliamo?
SI: Carte e polipo, dai.
S: Carte e polipo?
SI: Carte e polipo.
EVA: Sì, pure secondo me.
S: Sicuri, niente Putin?
FE: Vi prego regà, liberatemi da quel Putin, levatemelo da dentro casa. Per favore.
S: Vabbè.
EVA: Senti, ma, allora? Il poeta solitario?
SI: Ma chi, Robert?
S: Ma no, Robert era l'hipster che suonava elettronica.
SI: Ah, allora Stephan?
E: Ma che... Che cosa volete sapere?
EVA: Ieri sera? Ultima sera...
E: No, non sono uscita.
EVA: Ma come non sei uscita? Ma cazzo Ele, avevi detto che ti piaceva.
E: No. No, no, non ho mai detto che mi piaceva, ho detto che era simpatico che è diverso, Eva.
FE: Ele, sei una suora, come minimo lo dovevi sbattere al muro e fargli fare di tutto, veramente. Dai.
E: Punti di vista. Tu invece, con Fede?
EVA: Boh, sono andata a dormire da lui. Ci siamo rivisti.
E: Eh. E che hai fatto?
EVA: E niente...poi comunque non ci siamo più sentiti.
FE: Scusa, ma perché non gli dici di venire a capodanno?
EVA: Boh.
SI: Dai, così viene anche Edoardo.
E: Ma esiste ancora Edoardo Incanti?
SI: E certo Ele, gli dei sono immortali.
EVA: Io c'ero, quando l'ha detta, questa cazzata.
E: Ma con Fede? Dai. Raccontami.
EVA: No. Dai. Ci stanno tutti. Marti lo dice a Gio.
S: Marti, per caso hai un altro paio di forbici, perché queste non funzionano?
M: Vado a vedere.
S: Grazie.
E: Ora ci puoi raccontare. Vai.
N: Lo stiamo a fà?
G: Come no.
ELIA: Okay.
N: No, non puoi andartene. Non puoi capire, quello che sta succedendo.
M: Che sta succedendo?
N: Stanno decidendo, chi di loro tre, può provarci con l'Argentina.
M: E come scusa?
ELIA: Eh, tiriamo fuori dal sacchetto della tombola un numero a testa e chi pesca il numero più alto è il primo.
N: Mia idea.
M: Be', figata.
ELIA: Sì. Chi parte?
M: Luchetto, ovviamente.
L: Perché io, regà?
G: Dai zí, non rompere il cazzo.
ELIA: Vai.
L: Vado?
ELIA: Vai. Non fare il verme che cerchi di capire i numeri, che ti conosciamo.
L: Non rompere. Quattro. Cioè, non è possibile.
M: Non ci credo.
N: Possono uscire ancora uno, due e tre.
ELIA: Fammi provà.
L: Sì vabbè. Ma sempre così, cazzo.
ELIA: Sento il profumo. Settantatre.
M: Alto.
ELIA: Dai, co' st'uno.
G: Ottantacinque, regà.
ELIA: Che culo.
G: Vabbè, scusate e mo?
M: Vai, frà.
G: Vado?
ELIA: Vai.
G: Okay.
ELIA: Luchì, annamo a gufà.
L: Eh, sì.
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Il tethering USB
Oggi parliamo di come ho scoperto che l’iPhone non ha l’esclusiva per condividere la propria connessione con i Mac. Com’è possibile? La gente è scaltra, ecco com’è possibile (e io non mi aggiorno da anni su ste cose).
Ora, gli addetti ai lavori diranno “Tò, ha scoperto l’acqua calda”, beh scusatemi se ho guardato solo ieri per disperazione dalla pessima performance dell’hotspot tethering integrato del mio Android, perché ero in quella cazzo di gabbia di Faraday che la sede dell’Impero e dovevo pubblicare un prototipo (giuro, credo che solo Radio Maria riesca a raggiungere ogni angolo di quel posto).
Siccome non tutti sono imparati sulla terminologia e non avranno voglia di cliccare sui link: Cos’è il tethering? Il tethering è il modo con cui tramite il proprio telefono, si condivide la propria connessione ad altri dispositivi (computer, telefoni, console, ereader, ecc). Cos’è l’hotspot? L’hotspot è letteralmente ���posto in cui è presente una connessione”. Prima di Android 5 per avere questa funzione sul proprio telefono bisognava scaricare un’app apposta. Ora la trovate tirando giù la tendina delle impostazioni del vostro telefono.
USB No, qui no, mi rifiuto. Dai su.
Ma quale diamine è il vantaggio di passare dal tethering wi-fi a quello USB? Beh, per mia esperienza, il computer naviga sul serio, miseria ladra. Ora, se siete in pieno centro in un bel parchetto e pagate un rene alla Vodafone ogni mese, forse la differenza non l’avete mai sentita, ma se siete dentro labirinti di uffici e il vostro budget vi mette tra lo scarso e il “ringrazia che oggi ti apro Google”, vi sarete resi conto che se senza l’hotspot attivato quanto meno vi connette a whatsapp, quando è acceso invece è un ritorno agli anni ‘90. Senza contare che il cellulare si carica mentre è attaccato con il cavetto (win-win).
Il contro: ci dovete smadonnare un attimino di più per configurarlo, ma quelle sinapsi vanno tenute allenate, quindi non fate come i Repubblicani davanti all’evoluzione della tecnologia o alla richiesta di smettere di interferire con la libertà delle donne di decidere del proprio corpo e ringraziate che sono in grado di spiegare questa roba pure a mia madre ormai.
Ora, la prima cosa da cui iniziare è questo articolino qui: https://insanertech.com/usb-tethering-on-mac/
E se leggete l’inglese vi basterà e avanzerà. Se ancora non siete così ferrati in inglese, aprite il resto del post.
Notate bene: questo è solo per il MAC. Per Windows invece non dovete installare niente, ma solo fare la parte in cui attivate le opzioni sviluppatore e il tethering via USB. Istruzioni ovunque ma anche nella continuazione del post. Ah, e potete farlo via Bluetooth anche.
La prima cosa che vi serve, è di scaricare sul vostro Mac l’App di Joshua Wise: https://joshuawise.com/horndis. Ora se siete abbastanza fortunati da avere ancora dei Mac che supportano dal 10.11 in poi, cliccate sul primo link subito dopo Available Versions. In caso contrario, dovrete andare dalla release 7 in giù. Scaricate, installate, fine.
La parte facile è fatta (pensavate fosse così semplice, eh).
La cosa successiva che dovrete fare, è abilitare le opzioni sviluppatore sul vostro Android (e qui casca l’asino). Purtroppo (ma solo da determinati punti di vista) le versioni Android hanno ognuna un modo diverso di accedere alle opzioni sviluppatore. C’è chi devi premere 11 volte su una voce, chi sette, chi premere e basta finché si sblocca. Andate in “Impostazioni”, “Sistema”, “Informazioni Su” e scoprite quale versione di Android avete. Poi andate su Google e scrivete “Attivare opzioni sviluppatore su [quello che avete scoperto essere la vostra versione di Android]”. Seguite le loro istruzioni. Se volete istruzioni più complete, chiedetegli invece come attivare il Debug USB sul vostro Android, perché tanto è lì che andiamo a parare. Le opzioni sviluppatore dovrebbero apparire comunque dentro “Sistema” e dentro dovrebbe esserci una simpatica voce che dice “Debug USB”. Attivatela.
Questa era la parte complicata. Sopravvissuti? Dai che ancora non è finita.
Ora collegate il vostro Android con il suo cavetto USB al Mac (non ce l’avete dietro?? Cioè, mi state dicendo che non avete almeno 3 cavetti USB? Uno per il lavoro, uno per casa e uno da tenere sempre nello zaino?? Fuori di qui, non ve vojo manco vedè). Ditegli “Sì, voglio condividere dati con questo pc”. Tornate sulle impostazioni del telefono e scegliete Connessioni. Cercate e cliccate su “Hotspot e Tethering”. Attivate Tethering USB.
Spero di non dovervi spiegare come si accede alle preferenze di rete del Mac (in ogni caso, cliccate sull’icona del wi-fi e scegliete “preferenze di rete”). Apritele. Dovrebbe apparire “Android” sotto le connessioni in verde. Cliccateci sopra e attendete.
Siete connessi.
Godetevi una connessione molto più sciolta dell’hotspot wi-fi e prego (e andate dal capo e fatevi dare un telefono aziendale con la Vodafone su).
#heresiae per il sociale#heresiae impara cose e ve le dice pure!#si lo so sono cose vecchie#non fate i nerdoni bulli che la gente normale cerca le cose solo quando ne ha bisogno
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