#mi hanno detto che si vede che ci so fare con i bambini
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Se la piccola Eleonora si è messa a ridere guardandomi è chiaramente perché mi adora e questo già da quando sentiva solo la mia voce mentre era nella pancia della mamma, non perché è poco più di una neonata e i neonati ridono senza un vero motivo.
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Ciao
Mi scuso già per la domanda lunga.
Ho appena messo fine ad una convivenza di un anno,su un totale di 1 anno e mezzo di relazione. Lo ammetto,forse all’epoca fu una scelta troppo impulsiva e presa alla leggera.
Ci siamo lasciati perché lui non è in grado di gestire i soldi,è costantemente indebitato e mi sono ritrovata spesso a dover provvedere ad entrambi. Inizialmente non mi pesava,ma alla lunga non l’ho più sopportato. Dal momento che prendiamo comunque lo stesso stipendio,non si spiegava mai dove finissero i suoi soldi. Per poi scoprire giocate di schedine,Spinelli e strizzate di questo genere.
Quindi si arriva alle bugie,continue bugie più o meno pesanti che mi hanno portato via fiducia,non rispondeva più a nessuna domanda senza omettere o distorcere la realtà.
L’ultimo punto che ci ha portato alla chiusura è il sesso. Non ha mai preso iniziativa. Inesistente la comunicazione al riguardo. Addirittura se provavo a chiedere spiegazioni per trovare una soluzione passavo come la
pressante della situazione. Mesi e mesi di pillola,senza fare sesso. Sono arrivata al punto che mi sembra di avere qualcosa che non va…mi ha fatto male.
Alla fine ci siamo lasciati perché non provavo più nulla se non un po’ di affetto.
Arrivo al punto.
Poco dopo la nostra chiusura,ho conosciuto un ragazzo vicino la zona in cui lavoro.Ha un’energia affine alla mia,la testa sulle spalle e un sorriso che stende,a parere mio è anche di una bellezza autentica.
Abbiamo chiacchierato 5 minuti 6/7 volte,ma è chiaro che facciamo scintille anche in silenzio. Non ci siamo mai toccati nemmeno per sbaglio,non ci siamo mai dati il numero di telefono,ma la settimana scorsa mi ha invitata a cena e io istintivamente ho risposto di sì…
Solo allora mi sono accorta di non avergli mai detto che “si sono single,ma vivo ancora con il mio cazzo di ex”,eh si,perché la casa in cui siamo dobbiamo condividerla almeno per altri 2/3 mesi. In tutto ciò ovviamente io dormo sul divano e lui nel letto,io pago il 70% delle spese perché “lui non può”,e cerco di tenere duro ma mi sento imprigionata. Con la mente sono già fuori da questa situazione,ma la realtà è un’altra.
Rivedrò questo ragazzo mercoledì,e per correttezza dovrò dirglielo..non so se sarà una cosa da poco o un amore di quelli da film,ma so di non voler iniziare nulla nascondendo la verità.
Ho bisogno del tuo parere imparziale al riguardo. Sono tante le domande che mi faccio.
Non mi sento in colpa nei confronti del mio ex. Dovrei? Sono una brutta persona se faccio questo? ”È troppo presto per accettare una cena???”
Sono in crisi.
❤️
Io non ne parlerei affatto. Manco lo conosci...e subito a mettergli in mano la tua privacy, tutelati di più. Stai a dormire sul divano pagando il 70% delle spese. Stavolta vogliamo prenderla con calma e sondare il terreno prima di appesantire il tutto??guarda aggiungo pure un'altra cosa per farti vedere le cose da una diversa prospettiva. Lui ti invita a cena, i motivi? conoscerti meglio, gli piaci, ti vede come una bella ventata di aria fresca. E' eccitato all'idea di conoscere questa nuova tipa, si immagina la serata scorrere liscia e piacevole. Non è che esce con te perché ha intenzione di accasarsi il giorno dopo, di sposarti in due settimane e fare tanti bambini, esce per conoscerti. E invece cosa si ritrova poi? Una che durante una piacevole serata gli snocciola che dorme sul divano con l'ex ancora a casa. Gli insegni come può trattarti senza manco conoscerti. Perché di fondo è questo l'errore nel raccontargli la situazione, tu gli insegni cosa sei disposta a subire pur di stare con qualcuno, gli metti il sospetto che tra l'altro gli stai mentendo, e non è una situazione di cui puoi parlare due minuti e poi tornare a dire quanto è buono il dessert. Perché lui sarà confuso, magari farà una faccia che non ti piace, non ti guarderà più con gli occhi lussuriosi di prima ma come se fossi strana, e tu ti sentirai in dovere di dare più dettagli, di parlar di più per convincerlo che non sei strana o sottona ma empatica, buona. Ma non ci crederà...e finirete per parlare del tuo ex tutta la sera, cosi da concedere a quel beota non solo di pagare per lui il 70% delle spese e di dormire sul divano, ma pure di rovinarti una bella serata con un tipo che ti piace. Non è facile trovare uno che ci piace tanto...non rovinare tutto, tienilo fuori dai tuoi casini, conoscilo e prendila piano. Io davvero non capisco chi ti consiglia di dirgli la verità sui fattacci tuoi, ma che è un prete o uno che vuoi conoscere meglio?! Suvvia.
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Festa di fine anno scolastico
Ieri ho passato il pomeriggio al parco per salutarci tutti insieme noi della classe di Tigrotto al termine dell'anno appena trascorso.
Appena arrivato Tigrotto mi ha chiesto ha preteso di fare il giro lungo perché dovevamo entrare dall'ingresso principale del parco. Il perché lo ignoro, ma è stato irrevomibile. Non oso immaginare da adolescente cosa sarà questo piccolo demonio.
Poiché Tigrotto praticamente può usare un braccio solo a causa della frattura rimediata diverse settimane fa all'omero sinistro, ho portato fogli, matite e pennarelli per disegnare così se c'erano troppi giochi proibiti per lui (altalene, bici, monopattino e simili) almeno poteva disegnare per distrarsi un po'.
Hanno avuto un successo sorprendente tra tutti i bimbi, roba che in meno di dieci minuti avevo finito i fogli. Fortuna che consorte ci ha raggiunto con altri fogli dopo che lei ha finito di mettere gli ultimi voti sul registro elettronico per preparare le schede consegnate oggi. Per inciso: ha continuato a ricevere messaggi e telefonate dalle colleghe (una in particolare) pure nell'ora in cui è stata lì.
Ognuno ha portato qualcosa, chi un ciambellone fatto in casa, chi delle pizzette prese in un forno-pasticceria, chi un rollé di Nutella, chi i Fonzies. Io ho portato i Kinder Fetta al Latte. Scaduti. La prossima volta porto la birra con la borsa termica, sicuro la apprezzano di più tutti.
La rappresentante ha provato nuovamente a vendermi il suo ruolo di rappresentante di classe. Le ho risposto elegantemente col cazzo che non me la sentivo mettendo avanti il lavoro di mia moglie, quello di insegnante nello stesso istituto comprensivo anche se in un altro plesso. Tanto tornerà alla carica, già lo so.
Una bimba di genitori africani mi ha chiesto una mano a disegnare un cuore. Ha scelto il rosa poi mi ha chiesto di scrivere "Mamma ti voglio bene".
Successivamente si è avvicinata Margherita, una bella bimba bionda dagli occhi chiari, che mi ha chiesto di aiutarla a disegnare. Mi ha detto la madre che mi "vede dappertutto" nel senso che come passeggiano per le strade davanti casa nostra (abita al portone a fianco al mio) alla bimba capita spesso di vedere qualcuno e di scambiarlo per me.
Praticamente ho fatto colpo su questa piccoletta che mi ha tenuto vicino a sé per disegnare quasi tutto il tempo. Tra l'altro è pure esigente perché mi rimproverava ogni volta che non seguivo le sue direttive. Ho i suoi genitori nel cuore.
Tigrotto ha dato I disegni che ha fatto in questi giorni ai suoi compagni di classe. Giacomo è quello che ne ha avuti più di tutti.
Prima di tornare a casa sono dovuto ripassare in aeroporto perché Tigrotto vuole vedere gli aerei. Ieri abbiamo pure beccato il volo Ryanair in decollo. Direi che ci è andata di culo... Finché non mi chiederà di salirci sopra.
Ci restano altri due compleanni: il primo di Giacomo, il secondo di Margherita. La madre di Margherita mi ha detto che se faccio stare tranquilla la figlia con i disegni evita di chiamare l'animazione per i bimbi.
Credo volesse essere un complimento, però potrei pensare a una carriera alternativa come animatore di feste per bambini.
Chissà quanto prendono
#la mia vita con tigrotto#vita con tigrotto#dai che restano due soli compleanni#speriamo bene#all'anno prossimo
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"To', sei il figlio di Joe Davis, vero?" "Sì," annuiva il conducente. "E com'è che ti sei messo a fare questo lavoro, a danno dei tuoi?" "Tre dollari al giorno. Non ne potevo più, sgobbare tutto il giorno per un tozzo di pane. Ho moglie e bambini e si deve pur mangiare. Tre dollari al giorno, e tutti i giorni..." "Già, ma pei tuoi tre dollari al giorno quindici o venti famiglie non hanno neppure il pane. Un centinaio di persone sul lastrico, vagabonde, pei tuoi tre dollari al giorno. Ti pare giusto?" "Come posso pensare agli altri! Io penso ai bambini miei. Tre dollari al giorno, tutti i giorni. I tempi cambiano, caro voi, non ve n'accorgete? La terra non rende più al giorno d'oggi, a meno che se n'abbia duemila, cinquemila, diecimila acri, e la trattrice. Ai pesci piccoli come noi non rende più. Non vi dà retta nessuno, oggi, se non siete un industriale d'automobili o la società telefonica. Eh, oggi è così, non c'è niente da fare. Provate anche voi a fare tre dollari al giorno, in qualche altro posto. E' l'unica." "E' proprio buffo," rifletteva il mezzadro. "Se uno possiede un pezzettino di terra, egli è tutt'uno con la sua terra, ne è parte integrante. Se la terra che possiede può girarsela tutta e toccarla e causargli preoccupazioni se il tempo si mette al brutto e farlo felice quando arriva la pioggia, pure egli è tutt'uno con la sua terra e insomma si sente un signore per il fatto che quella terra è sua. E anche se l'annata non è buona, si sente un signore lo stesso. E' così." "Ma prendete ora," proseguiva il mezzadro, "uno che abbia una proprietà che non vede neanche, o perché non riesce a trovare il tempo di andarla a vedere o perché non può andarci a risiedere, ecco che allora quell'uomo è schiavo della sua proprietà. Non può fare né pensare quello che vorrebbe. La proprietà è il vero padrone, è più forte dell'uomo. E lui si sente un poveraccio, non un signore. Solo i suoi possedimenti sono importanti mentre lui ne è solo lo schiavo. Non è vero anche questo?" Il conducente scartocciava i formaggini, buttava via la stagnola e continuava a mangiucchiare. "Son cambiati i tempi, non lo vedete? A ragionar così, i marmocchi restano a pancia vuota. Fatevi i vostri tre dollari al giorno, e pensate a sfamare i bambini vostri. Quelli degli altri non vi riguardano. Continuate pure a ragionare così e vedrete che non li farete mai tre dollari al giorno. Non troverete nessuno che ve li darà, fintanto che continuerete a preoccuparvi di tutto fuorché di quei tre dollari al giorno." "Un centinaio di creature sul lastrico pei tuoi tre dollari al giorno. Ma mi dici dove s'ha da andare?" "Ora che mi viene in mente," diceva il conducente, "sbrigatevi a sgombrare, sapete. Oggi stesso comincio a passarvi sull'aia." "Il pozzo me l'hai già distrutto stamattina." "Eh, lo so; dovevo tener la linea retta. E per la stessa ragione oggi devo passarvi sull'aia. Bisogna andare diritti. Oh, sentite, visto che conoscete Joe Davis, il mio vecchio, ho l'ordine, se ho da fare con una famiglia che non vuol sgombrare, ho l'ordine di non aver riguardi nemmeno per la casa, v'avverto. Son baracche di legno che basta toccarle, con la trattrice, per mandarle all'aria. Ci danno perfino un premio, in questi casi: due dollari di supplemento. Dei miei bambini, il più piccolo non ha ancora mai posseduto un paio di scarpe." "La casa? Ma l'ho fabbricata io con le mie mani. Io l'ho costruita, usando dei vecchi chiodi per fissare le tavole, legando i travetti alle longherine con del di ferro da imballaggio. E' mia. Provati a toccarla... Sto dietro alle finestre col fucile. Fa' tanto di avvicinarti e t'ammazzo come un cane." "Ma non son io, io non posso far niente, io perdo il posto se non eseguo gli ordini. Del resto, cosa credete di risolvere ammazzando me? Vi impiccheranno, certo, ma prima ancora d'impiccarvi ne manderanno un altro qui, con la trattrice, a buttarvi giù la casa. Come vedete, è inutile ammazzare me." "Vedo," mormorava il mezzadro. "Ma questi ordini chi te li dà? Vuol dire che andrò a scovare lui. E' lui che ammazzo." "Non volete proprio capire: anche lui riceve degli ordini dalla banca. La banca gli dice: Sbatti fuori quella gente o ci rimetti il posto." "Ma ci sarà pure un presidente, una direzione; io prendo il fucile e vado alla banca a fare una carneficina." Diceva il conducente: "Anche la banca, da quello che so io, riceve ordini, dall'Est. Gli ordini dicono: O ci mostrate degli utili, o vi mettiamo in liquidazione." "Da chi si deve andare allora? Ci sarà pure un responsabile da far fuori. Io non ho nessuna intenzione di crepare di fame senza ammazzare chi mi assassina." "Non so cosa dirvi. Forse non esiste un responsabile da poter far fuori. Forse non ci sono neppure degli uomini a capo della faccenda. Probabile che, come dite voi, responsabile di tutto è la proprietà. Comunque, io v'ho detto i miei ordini." "Devo pensarci," diceva il mezzadro, "tutti noi dobbiamo pensarci. Ci dev'essere un modo per risolvere questa faccenda! Non è come il fulmine, come il terremoto; è un sistema che l'ha fatto qualcuno, degli uomini come me e te, e dunque si può trovare il modo di correggerlo..."
(da Furore di John Steinbeck, 1939) (ottant’anni e non sentirli)
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Mi chiamo Luca, ma tutti mi chiamano Lumaca e frequento la prima elementare. La maestra dice che così come io dimentico alcune sillabe, anche nel mio nome si sono dimenticati di scrivere la sillaba “ma”, proprio in mezzo! La mia maestra è molto simpatica e scherza sempre e tutti le vogliamo bene e io sono proprio felice quando mi mette le stelline e i cuoricini sui compiti. La mia maestra è bella, bionda e un po’ vecchia, perché ha le pieghe sul collo e usa degli occhialini sulla punta del naso che poi rimangono appesi a una collana. La mia maestra sembra anche un po’ giovane perché ha sempre le unghie colorate e usa i tacchi alti e sa raccontare le fiabe benissimo con tutte le voci diverse, anche quelle dei bambini e degli animali. Per tutta l’estate, prima di cominciare la scuola, mamma e papà, mi avevano raccontato storie fantastiche: avrai tanti nuovi amici, imparerai un sacco di cose, ti divertirai tantissimo! Avevo il mio zaino di Dragon Ball pronto già da ferragosto e ogni tanto lo ricontrollavo, osservavo le pagine bianche dei quaderni e sorridevo immaginandoli pieni di storie che io avrei scritto come i miei fratelli. Accarezzavo le copertine, aprivo e richiudevo l’astuccio verificando che non mancasse nulla, sfiorando con le dita tutte le punte dei colori; odoravo la gomma per cancellare e cercavo di capire il meccanismo del mio temperino a forma di macinino del caffè. Il mio primo giorno di scuola ero felicissimo. Mi sentivo finalmente grande, come i miei fratelli. Non capivo proprio come mai alcuni dei miei compagnetti piangessero! Volevo dirglielo che finalmente eravamo grandi e non dovevamo piangere perché avremmo imparato un sacco di cose nuove, ci saremmo divertiti e avremmo vissuto storie fantastiche. Ma non li conoscevo e io sono anche un po’ timido. Quando siamo entrati in classe, la maestra ci ha detto subito di tirare fuori dallo zaino il nostro quaderno e la matita e io ho cercato di fare più in fretta che potevo perché non vedevo l’ora di sapere cosa ci avrebbe fatto fare. - Copiate dalla lavagna: oggi è lunedì 16 settembre 2019 e sotto scrivete il vostro nome. Ho incominciato a sentire un po’ di freddo… Cosa vuol dire copiate? Devo scrivere quello che c’è scritto nella lavagna uguale uguale? Ma io non ci riesco… Mi sono guardato intorno e ho visto che i miei compagni hanno cominciato a scrivere. Va bene, ci provo anch’io. Ho preso la matita e ho cominciato a fare un cerchio, poi due palline che avevano come delle code a forma di goccia e poi una striscia piccola con un puntino sopra… Ero soddisfatto, non sapevo cosa avevo scritto, ma assomigliava proprio a quello che c’era scritto alla lavagna! - Luca, stai attento, se scrivi così in grande non ti basteranno tutti i fogli del quaderno per questa frase! E poi devi cercare di andare dritto e le letterine devono essere tutte uguali! Ha ragione la maestra, sono andato un po’ storto… ho incominciato su e sono finito giù… però quello che ho scritto è uguale! Cosa significa che le letterine devono essere tutte uguali? A me sembrano tutte diverse… Ho impiegato tutta la mattina per scrivere quella frase… Molti miei compagni sapevano già leggere e scrivere e loro hanno fatto in fretta e quindi hanno fatto un disegno. Io no. Mi sentivo così stanco, è stato davvero faticoso. La maestra mi ha detto che non ci stavo riuscendo perché impugnavo male la matita. - Devi prenderla così! Ma io non ho visto la differenza, secondo me lei la prendeva come me. A tutti ha detto: bravo! brava! bravo! brava! A me ha detto: stai tranquillo, se starai più attento sarà sempre più facile! Ma io era attentissimo! Da subito, dal mio primo giorno di scuola, ho capito che non sarebbe stato facile. La tristezza e la paura avevano preso il posto della felicità e dell’entusiasmo… Forse i miei genitori avevano esagerato un po’ dicendomi che sarebbe stato fantastico… o forse io avevo qualcosa che non andava, qualcosa di diverso. Quando i miei genitori sono venuti a prendermi all’uscita di scuola erano così felici per me che non volevo certo deluderli e finsi che fosse andato tutto bene. Mi chiesero di vedere subito il quaderno e io lo mostrai orgoglioso. - Oh, ma come sei stato bravo! Ma hai scritto tantissimo! E cosa hai scritto? - Ho scritto quello che c’era scritto alla lavagna… - Oh, sì certo… infatti… Mamma non aveva capito niente di quello che avevo scritto, eppure sapeva leggere. E se non lo aveva capito lei, figuriamoci io che non sapevo leggere. Ma decise che mi meritavo un premio e perciò prima di tornare a casa siamo passati in edicola e mi ha comprato due bustine di figurine dei Dragon Ball. Mia mamma sì che mi vuole bene e capisce quando mi impegno. Da quel giorno però, dal mio primissimo giorno di scuola, la mia vita è cambiata. Ho cercato di non arrendermi, ma per quanti sforzi facessi il risultato non andava mai bene. I miei compagni erano sempre più veloci e più bravi di me e la maestra continuava a dirmi che ero troppo distratto e lento come una lumaca. Prima della scuola, le lumache mi erano simpatiche, non ci trovavo niente di strano sul fatto che andassero lente. Oggi non le sopporto. Ogni mattina prima di andare a scuola mi veniva voglia di vomitare. Avevo smesso di bere il latte e così sembrava andare meglio. La sera quando facevo i compiti mamma mi aiutava sempre, ma mi veniva mal di testa e alla fine mi hanno portato dall’oculista, un signore simpatico: - Questo campione ci vede benissimo! - Mamma, “benissimo”, è come prendere dieci? - Sì, Luca… Ero soddisfatto, quel signore non mi conosceva, ma mi aveva dato un voto altissimo, con la mia maestra dieci non l’avevo mai preso. Il tono di mia mamma però non era felice, anzi sembrava quasi che ci fosse rimasta male. Avevo capito che per lei forse era più importante la maestra del signore e quindi aspettava un dieci anche da lei. Ma quel dieci non arrivava mai. Allora, mamma ha cominciato a dubitare di me… e ogni volta che le dicevo che avevo mal di testa quando facevamo i compiti non mi credeva. Diceva che inventavo delle scuse, che ero un poltrone e ha incominciato a punirmi. In classe poi la situazione peggiorava sempre di più. Certe volte, tante volte, mi sentivo strano… C’era così tanto chiasso… la maestra urlava e i miei compagni parlavano e parlavano e poi ridevano e urlavano e poi sentivo le macchine che passavano sulla strada fuori dalla finestra, gli aerei che volavano nel cielo, la bidella che entrava in classe… era tutto così confuso e alla fine la maestra se la prendeva con me e diceva: - Luca ti sei incantato di nuovo? Sveglia lumaca! Torna nel nostro mondo e mettiti a lavorare! Io ci rimanevo male perché tutti ridevano, poi loro forse non ci pensavano più, io invece continuavo a pensarci per tutto il tempo e non so come, né perché, ho incominciato a distrarmi davvero. Tutto è partito dal pizzico di una zanzara. A furia di grattarmi il pizzico era diventata una bella crosta e con la matita presi a staccarla. Mi faceva un po’ male, ma insistevo fino a quando con la punta non scavavo troppo e usciva il sangue… Sembrava una cicatrice di guerra ed ero orgoglioso. Allora ho cominciato a farmene altre anche senza che le zanzare mi pizzicassero per prime. Lo facevo soprattutto quando in classe c’era tutto quel trambusto e io non capivo niente di quello che dicevano. Mamma e papà erano molto nervosi. Erano stati richiamati dalla maestra che aveva spiegato loro l’importanza delle regole. - Luca è troppo immaturo e non ha ancora capito che in classe deve lavorare, fatelo leggere! Tutti i giorni, oltre ai compiti dovevo leggere con mamma o con papà. Quando conoscevo la storia era più facile, ma quando prendevano una storia nuova arrivava l’ora di cena che ancora non avevo finito e alla fine si arrabbiavano sempre. Odiavo leggere. Quelle stupide lettere ormai le sognavo anche la notte, si trasformavano in mostri e mi torturavano e mi mangiavano. C’è poi quella lettera sempre uguale, nello stampato minuscolo, la più odiosa di tutte che una volta è “b”, poi è “d”, poi è “q”, e poi è “p”! Dannata lettera che non si fa mai riconoscere! Mi faceva sentire stupido, sempre più stupido e ogni volta che dovevo leggere in classe i miei compagni non la smettevano di ridere. Ma alla fine decisi di combattere! Non avevo superpoteri, questo l’avevo già capito quando avevo cercato con tutte le mie forze di fare un’onda energetica ma non era successo nulla! Sapevo però cosa piaceva alla maestra. Avevo deciso di scriverle una lettera, una specie di giuramento come quello dei cavalieri di Re Artù: GIURO CHE DA OGGI SARO’ BRAVO E ATTENTO E LEGGERO’ SEMPRE E DIVENTERO’ PIU’ VELOCE DELLA LUCE! E poi un bel disegno tutto colorato. Colorare mi fa schifo e fare i cuoricini e le stelline è una cosa da femmine, ma farò così. Di notte preparai la mia lettera quando tutti dormivano perché doveva essere un segreto tra me e la maestra. Ci ho impiegato tanto ma ero soddisfatto. L’indomani quando gliela diedi ero emozionato. Lei la prese, la aprì e tirò fuori il foglio… - Che cos’è? - È un giuramento, dissi io ripensando ai cavalieri. - Luca, cosa c’è scritto? Rimasi stupito, ero stato molto attento a scrivere bene ogni letterina… perché non riusciva a capire cosa c’era scritto? - Va bene Luca, leggimi tu cosa hai scritto… Presi il foglio, lo guardai e… insomma, non riuscivo a leggere nemmeno io, ma cercai di ricordare e alla fine recitai il giuramento così come lo avevo pensato prima di scriverlo. Lei mi guardò, sfiorò la mia guancia con un bacio e mi disse che avevo meritato un bel dieci!!! Ero felice, forse non avevo scritto bene, ma i cuoricini e il disegno dovevano esserle piaciuti tantissimo! Non vedevo l’ora di dirlo a mamma e papà. Quando tornai a casa però loro sapevano già tutto e sembravano felici, ma anche un po’ preoccupati e infatti mi portarono da una signora, una dottoressa di quelle che non fa le punture e che si chiama con un nome molto difficile che però ho imparato bene: pe-da-go-lo-gista! Con lei ho scoperto una cosa importante. Ho scoperto che non sono una lumaca, che non sono stupido e sono anche molto intelligente. Ora sto in un’altra scuola, ho tanti amici e la mia nuova maestra è molto carina e non mi chiama mai “Lumaca”. Quando ho compiuto otto anni poi mi hanno detto che la mia difficoltà si chiama dislessia e disgrafia, ma tranquilli, non è niente di grave, non è una malattia! Avete presente il pesciolino Nemo, quello che ha la pinnetta atrofica? Lui è un supereroe vero, riesce a superare un sacco di ostacoli e a percorrere tantissimi chilometri per ritrovare il suo papà. Anche se ha la pinna così, nuota e non si arrende, nuota in modo diverso, ma nuota e niente e nessuno riesce a impedirgli di raggiungere il suo obiettivo. Beh, anche io, nella mia vita farò così, nuoterò in maniera diversa, ma come dice la mia pe- da-go-lo-gista: arriverò dovunque voglio! "Odio le lumache", di Giorgia Spano
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non fa male a nessuno
È il 15 agosto 2021. Concerti gratis autogestiti non precisamente legali ne ho fatti più o meno quaranta negli ultimi sei mesi, a tutti i livelli di sicurezza e insicurezza. Ne ho fatto uno ieri sera, uno la sera prima, ne farò un altro tra cinque ore.
Arrivano sul prato a gruppetti come le scimmie e si siedono sull’erba come in spiaggia, a piccoli semicerchi distanziati: famiglie con figli, famiglie senza, gente con tutti i colori possibili in faccia e sulle braccia, coppie storiche e relazioni aperte, turisti tedeschi, amici e amici di amici, curiosi solitari, in fondo, in piedi. Nel volantino ci sono scritte alcune regole elementari di convivenza civile: mantenete le distanze, tenete d’occhio cani e bambini, mascherina a portata di mano, fate i bravi, ballate da seduti, lavatevi le mani e le ascelle, non pisciate contro i muri, raccogliete le vostre schifezze a fine concerto, se non ci comprate un disco, cosa siete venuti a fare? Problemi zero, amore tanto, soldi pochi, ma abbastanza da farti venire voglia di rifarlo, come sempre.
Ogni tanto arriva qualcuno e ci chiede di smettere di suonare: due tizi in divisa, o una signora che ha sonno, o due tizi in divisa mandati da una signora che ha sonno. Noi chiediamo scusa e smontiamo la baracca educatamente. Non ci multano quasi mai. Nessuno è mai venuto con una mazza da baseball a sfasciarci un amplificatore. Stiamo parlando di cento, massimo duecento persone, non so se l’avevo detto, si sarà capito. In generale mi sembra difficile che un centinaio di persone venute ad ascoltare un concerto abbiano voglia di prendersi a bottigliate in testa o montare casini inutili o sputarsi in bocca, ma forse è solo che non mi è mai successo, e uno vede solo la propria bolla: sarà che abbiamo un pubblico educato. O forse è davvero un problema di numeri, e questa è la domanda che mi gira in testa.
La domanda è: sono io uno stronzo? Sono io un irresponsabile? Avrei dovuto continuare a non suonare? O dei micro-eventi di questo tipo non fanno male a nessuno? Cosa vuol dire non fanno male a nessuno? Tu la ricicli tutta la plastica? Una bottiglietta d’acqua da mezzo litro bevuta e buttata non fa male a nessuno? E cento? E centomila? Puoi fare qualcosa nel tuo piccolo, come si suol dire, per influire sull’emergenza sanitaria? E sull’emergenza climatica? O è troppo tardi? Ti sei vaccinato? La ricicli la plastica? O solo ogni tanto? Ce l’hai la macchina? Sì, ma la uso poco. La mangi la carne? Sì, ma poco. C’era gente ieri sera? Sì, ma poca. Hai fatto una dose? Ne hai fatte due? La terza è gratis. Sono tutte cose diverse? Sono altri i problemi? E chi li risolve, questi poblemi? I grandi della Terra? O i piccoli, tu, io, ognuno nel suo piccolo, come si suol dire?
Gli scienziati hanno analizzato i dati e la diagnosi è chiara: il punto di non ritorno è superato, l’umanità è irrimediabilmente idiota. Tu nel tuo piccolo sei molto intelligente, lo sappiamo, ma su larga scala, dicono gli scienziati, sembra che siamo stati abbastanza idioti da avere fatto un po’ come cazzo ci pare con il pianeta per 180 anni, e non c’è più molto da fare, a parte guardare la Grecia che brucia, la Sardegna che brucia, la Calabria che brucia, e suonare la chitarrina intorno al falò tutti belli distanziati. Non sarà mica colpa mia se la Terra va fuoco, no?
Fare o non fare un concerto da cento persone, che differenza fa? Fare o non fare un concerto da diecimila persone, che differenza fa? Comprarsi una borraccia o continuare con le bottigliette d’acqua, che differenza fa? Sono altri i problemi? O sono questi i problemi? Tra uno famoso come me e uno famoso come Salmo ci stanno in mezzo tutti i musicisti italiani viventi: vuoi che non ci avesse pensato nessuno, nell’ultimo anno e mezzo, a fare un concerto in spiaggia, o in un bosco, o in un parco, y a tomar por culo, come si dice da queste parti? Davvero negli ultimi 6 mesi vi hanno chiamati a suonare ai 18 anni della figlia del commendatore e non ci siete andati perché non eravate sicuri che la zia avrebbe mantenuto la distanza di sicurezza dal nonno?
Ripeto la domanda: sono io una brava persona solo perché non sono abbastanza famoso da creare un casino di ordine pubblico se scrivo su internet CONCERTO GRATIS DOMANI VENITE TUTTI CIAO? O il fatto di prendermi cura, nel mio piccolo, delle cento persone che vengono a vederci suonare è sufficiente a tenermi la coscienza a posto e farmi dormire sereno la notte? Li farei lo stesso questi concerti, se invece di cento persone ne muovessi centomila? O sarei una persona responsabile? Come mi comporterei, se avessi più potere del poco che ho? Quanta gente è troppa gente?
Posso andare a lavorare? Posso andare a lavorare senza sentirmi in colpa? Sono parte della soluzione o sono parte del problema? O non sono nemmeno parte della conversazione? Il mio contributo è importante? O no? Abbiamo già superato il punto di non ritorno, o no? Siamo tutti idioti, o no? Il condizionatore in salotto lo posso accendere, o no? Un concerto a cazzo di cane per duecento persone lo posso fare? E per duemila? E per ventimila? Tanto, ormai.
Sono io l’equivalente culturale delle ottocentomila bottigliette d’acqua da mezzo litro che ogni giorno compriamo beviamo e buttiamo negli aeroporti perché se no nell’acqua fresca che ci portiamo da casa ci abbiamo messo dentro le bombe? La sportina / sacchetto / busta del supermercato, non so come la chiami nella tua regione, che dici No grazie alla cassiera, perché hai la shopper di tela serigrafata da tuo cugino e tu sì che stai salvando il pianeta: sono io quella roba lì? Dovrei essere riciclato? Dovrei essere definitivamente abbandonato?
Sono sinceramente interessato all’opinione di quasi chiunque, rispondo solo a chi mi va di rispondere, nessuno si senta offeso, la storia siamo noi, scusa la pezza, era da un po’ che non scrivevi sul blog, eh, lo so, buon Ferragosto, ciao.
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L'attacco dei giganti - Ep 73 - Violenza efferata
IN ITALIA L'ANIME E' DISPONIBILE SULLA PIATTAFORMA GRATUITA VVVVID! SUPPORTIAMOLA! -> https://www.vvvvid.it/show/1414/l-attacco-dei-giganti-la-stagione-finale/1538/694218/violenza-efferata
Dopo uno stop di ben due settimane per causa di forza maggiore ecco tornato Aot, più esplosivo che mai con ben due episodi, doppia l'attesa, doppia la ricompensa, vedete bambini? Aspettare ripaga sempre, non siate mai frettolosi! Basta sciocchezze, iniziamo la puntata, abbiamo finalmente capito a che cacchio servisse tutto quel vino e che Zeke zitto zitto, cacchio cacchio, insieme a Yelena ed Eren, "c'ha già una sua idea" (cit), ed ora chiunque l'abbia bevuto è in grave pericolo perchè in esso c'è il fluido spinale della palla di peli. In realtà cominciamo da un altro punto del ristorante di Nicolò, ovvero la stanza dove si è materializzato Eren come se stesse entrando al bar per ordinare il caffè mentre invece sarebbe il ricercato numero 1 da più o meno tutti. Sostiene, non curandosi minimamente della presenza di Gabi lì vicino, che voleva parlare con Armin e Mikasa. E sentiamo cos'ha da dire il signorino, hai messo a ferro e fuoco il mondo intero e cominciato una guerra di proporzioni gigantesche (eheh gigantesche...scusate), speriamo che almeno ci dica che ha un piano e che lo sta facendo per il bene di tutti, anche se ai miei occhi e di quelli che ragionano ancora, tipo Armin o Hange, nulla potrà mai giustificare l'uccisione di innumerevoli bambini e persone innocenti. Ma sentiamo.
Innanzitutto premette che non è manipolato nè da Zeke nè da Yelena nè da nessuno, le sue azioni le ha sempre fatte di propria volontà. Annamo bene, quindi hai ammazzato di tua volontà tutti quegli innocenti. Ha sempre odiato chi è schiavo, anche inconsapevole, ha sempre odiato chi segue la massa senza pensare con la propria testa, e grazie a Zeke ha imparato molto sul mondo dei giganti e sul popolo di Eldia, infatti dice ad Armin che chi possiede i giganti, i 9 con la coscienza, non cessa mai di vivere ma rimane nei ricordi del possessore attuale ed in qualche modo lo influenza, ed in effetti da quando Armin è gigante va spesso a trovare Annie, vero? La ragazza di cui era innamorato Berthold, e che ora Armin va a trovare, come se fosse manipolato dallo stesso Berthold. E Mikasa, veniamo a te, oggi Eren termina amicizie come se piovessero +4 ad una partita di Uno. Mikasa, tu in quanto Ackermann, vieni da una famiglia che venne creata al solo ed unico scopo di proteggere la famiglia reale, e quel giorno in cui avete ucciso gli assassini dei tuoi genitori, non hai preso coscienza della tua forza o risvegliato un potere o scoperto il cristallo di luna; hai obbedito ad un comando di Eren: "Combatti". Certo, Eren non ha sangue reale, ma Mikasa ha diciamo "riconosciuto" come proprio "obiettivo da proteggere" Eren, e non riesce a fermarsi se c'è di mezzo la sua incolumità. Anche lei è manipolata, dal suo istinto di Ackermann. Non è lui il manipolato, bensì loro due, ed in quanto tali li odia. Fine del discorso. Porca miseria quanto ho voglia di romperti il naso Eren. Anche Armin ne ha voglia, ed imbufalito per le parole che ha detto a Mikasa, tanto che sta piangendo, sale sul tavolo e tenta di colpirlo, ma proprio Mikasa, dando ragione ad Eren, gli torce un braccio e lo immobilizza sul tavolo, allontanandosi subito dopo perchè è tornata in se stessa. Armin ci riprova poveretto, ma può poco contro il fustacchione che è diventato Eren, e crolla a terra dopo non so quanti pugni gli abbia rifilato Eren, che per quanto mi riguarda deve morire male. Poi dice a tutti di levare le tende, prendete Armin, Mikasa e Gabi e andiamo tutti insieme a Shiganshina.
Allora. Parliamo del presente. Perchè chi ha letto il manga è più avanti ed ha una visione più completa dell'operato di Eren, ma qui siamo davanti ad un farabutto che si sente in dovere di giudicare ed umiliare i suoi amici che nonostante quello che ha fatto hanno finora cercato di tendergli una mano. A me non interessa che abbia sofferto, sua mamma mangiata dai giganti, bla bla bla, niente lo giustifica perchè tutti hanno sofferto, tutti hanno sopportato sciagure, Connie vive nell'agonia di vedere sua madre gigante bloccata in casa, Levi ha visto morire e decomporsi la madre ed i suoi migliori amici, per non parlare di innumerevoli compagni ed Erwin, che anche lui ha sofferto l'uccisione di suo padre, Armin e Mikasa hanno sofferto immensamente anche loro, non continuo l'elenco perchè non ne usciremmo. Nessuno di loro si è mai comportato come Eren, nessuno ha mai cercato vendetta, o se l'ha fatto era convinto di combattere contro mostri inconsapevoli, ed anche quando il nemico sono diventati altri esseri umani hanno sempre ucciso con dolore, sapendo che non era questo che volevano, senza cattiveria o orgoglio perchè stavano uccidendo vite, persone come loro. Eren è da biasimare, in tutto e per tutto, niente lo giustifica. Ho finito il mio sfogo, andiamo avanti.
Andiamo da Levi, che non è d'accordo col piano di Pyxis, per lui non va mangiato Eren, anche perchè, porca miseria, 60 episodi passati a proteggerlo, quanto meno non vanifichiamoli e liberiamoci di Zeke, che morto lui state sicuri che Eren non saprà più come fare. E non posso darti torto qui, anche se Eren afferma di pensare con la propria testa di sicuro Zeke è un tassello fondamentale nel piano dei due fratelli. Zeke nel frattempo è tranquillo, ed al ritorno di Levi gli chiede se il vino è finito. Che fai, lo spiritoso? Chiedi pure se c'è altro vino, come se ormai non sapessimo che era proprio il tuo obiettivo imbottire l'esercito del tuo fluido spinale. Mentre Levi si allontana dopo avergli detto di rimanere tranquillo a leggere però, lo vede correre via, ma dove va quel decerebrato? E' circondato da soldati armati di lance anti-gigante, nemmeno trasformandosi può uscirne vivo. Ed eccolo ad urlare come se avesse sbattuto il mignolino contro una radice, ma in realtà ha attivato il proprio fluido dentro ognuno dei soldati, che uno dopo l'altro si trasformano in giganti. Levi si ritrova sbalordito e circondato da una 30ina di giganti senza coscienza che vogliono assaggiarlo, e capisce che Zeke ha mentito loro, il suo fluido non immobilizza, bensì trasforma, se opportunamente attivato. Stronzo eh, ma pure voi che ve ne fidavate non brillate di intelligenza. La palla di peli è tranquilla, in braccio ad un gigante per correre via dalla foresta, figurarsi se Levi può sopravvivere, non ucciderebbe mai i suoi sottoposti. Bello mio, non hai capito con chi hai a che fare, quello lì ed Erwin sacrificavano sottoposti (ovviamente non volendo) mentre tu giocavi ancora con le bambole. Ed in men che non si dica se lo ritrova alle calcagna, e qui signori miei, scontro epico tra il piccolo Ackermann ed il gigante, con Zeke disperato che tenta di acciuffarlo e Levi che lo riempie di stacce con la voce che riecheggia tra gli alberi e di lance anti-gigante tanto da farlo uscire dal gigante conciato malissimo. Mamma mia che scena, urlavo internamente, con Levi non c'è storia. Ah, ho rivisto questa scena almeno 12 volte.
A Shiganshina Shadis sta addestrando nuove reclute per combattere i giganti, ma serpeggia il malcontento perchè a che serve combattere i giganti se sanno benissimo che il nemico è Marley? Perchè non dare ad Eren il comando di tutto e togliere di mezzo questi ufficiali dispotici? Certo cari, il mondo è bianco o nero, continuate pure a pensarla così. Nemmeno a farlo apposta, arriva Floch coi suoi compari ed Hange legata, e fa il discorsone da fascistoide, che ReStAuReRaNnO l'ImPeRo Di ElDiA!1 OfFrIrAnNo I lOrO cUoRi PeR GuIdArE iL PoPoLo CoNtRo ChI Li VuOlE aSsOgGeTtArE!1! E altre baggianate simili, la solfa ormai la sappiamo. E per dimostrare la fedeltà delle reclute che hanno fatto un passo avanti la loro iniziazione consiste nel riempire di botte Shadis. Ottimo, davvero ottimo. Io comunque sono nauseata ogni volta che dicono Shinzou Sasageyo, come se fossero nel giusto a cercar morte. Shadis, inutile dirlo, finisce a terra sanguinante, ed Hange è più sconfortata che mai mentre Floch le ripete che è meglio per tutti se rivela dove tengono Zeke.
Dopo tanta rabbia l'episodio ci regala una piccola gioia, Levi ha legato ad un carro ed imbottito di lance il corpo di Zeke, se prova anche solo a muovere la testa esploderà come una pignatta ad una festa di compleanno. E non contento gli affetta le gambe, non si sa mai. In preda al dolore Zeke ricorda un tizio con cui giocava a baseball da piccolo, preannunciandoci che il prossimo episodio visiteremo il passato di Zeke.
Si chiude così questo episodio, il trauma ha cominciato a serpeggiare, gli ufficiali lontani da Zeke hanno avvertito qualcosa nel momento in cui lui ha urlato, ed avendo visto ciò che è successo ai sottoposti di Levi possiamo immaginare bene cosa può capitare a tutti quelli che hanno bevuto il vino. Trauma dopo trauma, nessuno di noi è pronto. Lo studio MAPPA, che ve lo dico a fare, svolge il suo lavoro egregiamente, ho adorato la scena dello scontro tra Levi e Zeke ed odiato Floch ed Eren quando ha rivolto parole così odiose ai suoi migliori amici, tutto è reso con così tanta onestà e crudeltà che ti ritrovi a pensare che siano persone reali. E il comparto musiche, ogni scena, in particolare quella dello scontro e quella del discorso di Floch, entrambe un sottofondo spettacolare, hai la sensazione di trovarti lì e sentirti eccitato o arrabbiato ed impotente davanti all'ignoranza ed alla cattiveria. Applausi.
Dunque appuntamento al prossimo episodio, subito dopo questo, stay tuned! -sand-
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Non ci so fare con la vita... o nella vita. Il componimento della frase neanche mi importa, riprendere l'analisi logica dall'inizio e riprendermi la libertà che mi sono tolta man mano che increspavo. Mi sono tolta la giacca e mi vedevano troppo sensuale perché potessi fermarmi a bere il solito bicchiere che mi sembra non abbia mai avuto un odore o un colore, eppure ogni volta l'ho riconosciuto solo dall'acidità che mi lasciava in bocca. Neanche a casa mi vogliono, o forse nemmeno mi sentono quando arrivo da dopo il lavoro. Faccio sempre troppo silenzio perché questa gente si preoccupi per me, penso di essere un problema e se ti raccontassi che oggi nessuno mi ha restituito il rispetto che ho cercato di dare e mantenere, nonostante gli altri evidenziassero solo le cose che non riuscivo a concludere correttamente, inizieresti a dirmi che non ne ho bisogno o che gli altri non ne hanno bisogno, ma tutti abbiamo la necessità di non sentirci sbagliati nell'affrontare i nostri errori. Non fanno altro che giudicare la mia vita, e da bambini in cerca di tesori si sono trasformati in maschere che cercano continuamente di assomigliarsi e di discriminare chi sembra non riuscire in tutto. Cercavo qualcuno che rappresentasse il mio futuro, qualcuno che leggesse dal fondo della tazzina del caffè, che sapesse leggere un libro e prepararti il thè caldo e ti facesse compagnia la sera prima di dormire. Ma non è colpa del tempo, è solo colpa mia che non trovo più romantico nulla e che a volte mi sento forte ma so ancora piangere di nascosto, non per la vergogna ma perché riconosco il dolore di un passato che non ricordo. Mi sembra di tornare lì e delle volte ancora ci soffoco. Pure mia madre sembra essere diventata troppo vecchia o occupata per parlarmi. Lei e la sua attività di titolare, mi scambia ogni giorno per una sua dipendente, ed è da molto che non mi sento figlia, anche se cerco un minimo di contatto con la famiglia, un sorriso, una battuta. La psicologa tra due giorni mi saluterà, mi ha chiamata dicendo "Il nostro percorso è terminato, cosa vuoi fare?" Non so cosa voglio fare... vede ogni giorno perdo qualcuno che poi probabilmente potrebbe ritornare tra un mese, una settimana o un anno. Il mio ragazzo trova ogni giorno qualcosa di sbagliato in me e io me ne accorgo, ma poi lui inizia a dire che mi ama comunque che devo solo imparare a essere diversa, quindi si lo amo, ma mi sento un pesce fuor d'acqua, sembra come se io dovessi sempre per forza cambiare e nessuno mi dice, con quel grasso sei bella lo stesso, con i capelli legati sei bella lo stesso. Non potrò più parlare con nessuno e questa è la mia unica preoccupazione, se avrò qualcosa da dire, mia madre fingerà di ascoltarmi, mio padre avrà il suo tempo una volta al mese e il mio ragazzo penserà sicuramente a qualcos'altro mentre gli racconto cosa non va e appena gli chiederò cosa ho detto risponderà un'altra volta che non ha sentito l'ultima parte perché gli è venuto in mente qualcos'altro di interessante. Non posso competere con l'importanza che ha il resto del mondo, io sono solo un granello di sabbia che avrebbe voluto morire e marcire in se stessa. Un grazie va solo a mia nonna. Che in una giornata di merda come ieri si è affacciata alla finestra dicendomi " Sei stanca? La vorresti un po' di torta salata?"Le ho risposto di no, ma è stato come sentirmi amata, davvero.
ilmondodiblu
Con l'ispirazione giusta.
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𝐇𝐀𝐖𝐊𝐒: 𝐂𝐇𝐀𝐑𝐀𝐂𝐓𝐄𝐑 𝐀𝐍𝐀𝐋𝐘𝐒𝐈𝐒 ( icarus time! ) spoiler warning!
⋆ partiamo dal fatto che tutto quello che leggerete sarà estrapolato da ciò che Horikoshi dice e ciò che io penso del personaggio in sé.
By the way, Hawks è uno dei personaggi nuovi di pacca per gli anime watchers ma non troppo sconosciuto per noi manga readers. Insomma, il numero due della nuova chart di heroes ha fatto una buona impressione sulla maggiore. Ma non è tutto oro ciò che luccica! Hawks non è il classico hero che Horikoshi è solito propinarci; non è All Might dedito all’eterno bene, non è Endeavor il quale ha la focosa intenzione di battere chiunque si trovi sul suo cammino per la vetta. Andiamo a step!!
Fastest Man Alive!!! La prefazione del tutto sta nello specificare alcune particolarità di Hawks. Sin dall’inizio è presentato come l’eroe più veloce presente nel (passatemi il termine) myheroverse. La velocità raggiunta grazie al quirk Fierce Wings, infatti, lo ha reso un giovane fenomeno. Da bambino viene estirpato dalla sua cupa quotidianità, allontanato da un’ambiente tossico per poi essere messo, senza troppi giri di parole, in un programma per creare eroi dal governo. Si può dire che Hawks non sia cresciuto in un contesto familiare tranquillo o, meglio, che ne abbia avuto uno. A diciotto anni aveva già aperto la sua agenzia e quattro anni dopo si ritrova in cima alle classifiche del Giappone; la sua velocità sta anche nell’essere cresciuto velocemente ed essere stato impuntato solo ed unicamente sullo sviluppo continuo delle sue abilità.
Il carattere. Hawks, secondo il test MBTI è un ENTP ( piccola nota di piacere, nulla di che ). Lo abbiamo visto molto bene: apparentemente è una spina nel fianco dalla linguargentina. Lo si vede perfettamente aizzare i nervi di Endeavor con poche parole o con il semplice body gesture. Ma c’è una cosa da dire: Hawks ha piena coscienza delle sue capacità nonostante possa sembrare arrogante e pieno di sé. Lo stronzetto sa il fatto suo! Non ha paura di parlare davanti ad una platea, in diretta con l’intero giappone e non ha paura di esporre ciò che pensa, rigirando sempre tutto a suo favore perché ricordiamo il suo discorso durante la new chart? Disse di continuare rincarare la dose del buon eroe ma di parlare come veri eroi, dando così un trampolino di spicco al ( suo amatissimo, ironicamente ) numero uno. Hawks è un calcolatore e stratega, in grado di controllare il suo linguaggio del corpo affinché chiunque possa credergli come ha fatto la LOV ( o almeno come credevamo facesse la LOV, non tenendo conto della spiccata intelligenza di Dabi, che ce l’ha messa nel c*lo again ).
HAWKS - ICARUS
“Icarus No, I can't escape this fall, falling in reverse so how you gonna scream my name when I gave all I got? I've nothing left to give you and I'm so burnt out and lost”
Sì, è stato proprio grazie ad una canzone che ho ricollegato tutto quanto. Mi spiego: la vicinanza delle due figure è palpabile perché Icaro è il più famoso uomo alato della storia, andiamo. Ma non è solo questo. Da poco è stato rivelato il punto fatale di Hawks: il fuoco. Per questo, come disse a Tokoyami: “Devo essere più veloce del mio avversario in modo da non bruciare”. Così come le ali di cera di Icaro si sarebbero distrutte con il calore emanato dal sole. Io lo dico e lo ribadisco: we are sleeping on the most valuable character in this storyline. Non è solo il riferimento tangibile che Horikoshi pone tra Hawks e Icaro ma è anche il sottolineare che società di eroi complessa l’autore ha composto. Il tutto descritto con una frase del nostro eroe numero due: “Le persone non nascono in parità, è la dura verità che imparai a quattro anni”.
Dunque, il quirk di Hawks può essere riassunto in Icaro in due modi.
Sin da bambino, Keigo ha sempre ammirato Endeavor (il sole). “Posso risplendere anche io come lui e salvare le persone?”
Le piume. Keigo possiede delle immense ali rosse, con le quali può volare veloce, sempre più veloce e sempre più in alto. Paradossalmente possono essere staccate, anzi, comandate telecineticamente da lui, ogni singola piuma ma più ne stacca per salvare le persone e più le sue ali perdono l’abilità di volare rappresentando così la folle caduta di icaro dal cielo quando le ali di cera si distrussero. I mean, più aiuta le persone e più perde le sue ali per poter volare ovvero, come detto più volte da lui, per essere libero.
In conclusion, yeet perché Hawks è destinato alla caduta. Ricordiamo questa scena:
Abbiamo un Endeavor sospettoso riguardo le tempistiche di arrivo di High End e sulla loro posizione. Così Enji ( il sole ) minaccia di bruciarlo al primo passo falso nonostante Keigo riesca a sviare senza problemi la conversazione. Non è solo Endeavor a tenerlo in pugno ( come sole ) ma anche il governo che lo ingaggia come double agent. In questo caso non ha opzioni. Hawks non può rifiutarsi di agire come doppiogiochista dato che uno degli uomini con cui parlava specificò con “you can and will. that’s why we came to you”. La caduta di Hawks è assicurata in entrambi i casi: perdere la riconoscenza del suo eroe ed essere semplice carne da macello per la commissione di sicurezza. Hawks muore per mano dei villain? Beh e dov’è il problema? Loro perderebbero semplicemente un eroe come gli altri e ne sono morti (ad esempio, Nana Shimura). Hawks fa casini nella missione e viene scoperto? La commissione può rigirarlo come tradimento, a loro favore.
PARERI PERSONALI E CONCLUSIONI
Ed ecco qui che il sole si rivela non essere Endeavor ma Dabi. Le ferite riportate da Hawks negli ultimi capitoli sono tremendamente gravi e Dabi, carnefice quale è, ha bruciato tutto fino all’osso. E noi lo sappiamo bene siccome ci viene spiegato anche da Enji che le fiamme blu non permettono la rigenerazione cellulare. Icaro ha perso le sue ali perché nella foga di uccidere Twice, nella sua solita velocità nel fare tutto, non si è accorto di essersi avvicinato troppo ad un sole morente.
Hawks è un personaggio grigio alla quale mi sono affezionata velocemente. Non è il classico personaggio ed ha sfaccettature delicate che vanno analizzate e comprese. Un bambino che viene strappato da una famiglia disastrata per poi essere messo in un programma segreto per la formazione di “armi” perché è questo quello che ho colto. Vedo tanta tristezza e frustrazione in Keigo, così tanta da non saperla effettivamente descrivere. Ma vedevo anche la voglia in lui di quietare quella società di eroi che estirpa i bambini dalla strada per metterli in dei massicci training camp per creare soldati. Credo che il volere di Hawks sia quello di non vedere più bambini passare quello che lui ha passato o che altri come lui hanno passato. Come Keigo e Touya, forse?
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Buongiorno doc, ho letto il suo post sulle pensioni ai giovani e i vecchi “tenuti in vita” con tutti i mezzi, ma una vita di qualità pessima. Era sarcasmo o dice sul serio? È una questione che tocca anche me, avendo due parenti ammalati cronicamente che vivono con me. Ogni volta che prendono la polmonite mi chiedo se quei preziosi antibiotici che stiamo usando per allenare superbatteri ne valgono veramente la pena, se le loro pensioni di invalidità non sarebbero forse più utili in una scuola, e soprattutto se ha senso la loro sofferenza, che sta consumando loro e anche noi familiari. Certo, li amo, e se me lo chiedessero non sarei in grado di dire “non curiamoli”, però dopo l'ultimo ricovero ho iniziato a rifletterci, perché abbiamo avuto la prospettiva di una peg, di tracheotomia, di mille apparecchi di plastica monouso, e di una ulteriore sofferenza infinita dentro le mura di casa. Sarebbe bello lasciarci senza tutto questo, e forse a questo punto sarebbe anche utile alla società. Del resto però i miei familiari non hanno la lucidità per richiedere la sedazione profonda (né forse ne avrebbero il diritto). Non so che cosa chiederle in fondo, volevo solo qualche parola in più su questo tema da chi forse ne vede più di me, e con più distacco di me. {se potesse pubblicarlo in forma anonima gliene sarei molto grato}.
Ti faccio una piccola premessa perché non si tratta di una cosa semplice, anzi... è l’approccio al problema a non essere semplice, anzi... l’approccio è semplice, infatti il problema non è mai esistito ed è sorto solo nel momento in cui l’idea ossessiva della morte ha cominciato a rappresentarlo.
Stiamo vivendo in un mondo e in un modo funzionali all’insorgenza di un certo tipo di paranoie: intanto ci siamo dimenticati completamente della gioia della quotidianità e tutto ciò a cui aspiriamo è la proiezione nella realizzazione di un domani che -- come nella favola di Achille e la Tartaruga -- sarà sempre il giorno dopo.
Il nostro senso di sicurezza è proporzionale alla robustezza della porta di casa o allo spessore del conto corrente: voglio dire, esisterà pure un didascalico insetto che metta vie un po’ di provviste senza rompere le palle a nessuno come qualla scassacazzo della formica e che possa allietarsi il resto dell’estate con un po’ di musica cicaleggiante senza sentirsi un lupo di wall street? Perché nessuno c’ha mai scritto una storia sopra e si continua a tormentare i bambini con fulgidi esempi di meritocrazia stacanovista che li farà diventare dei frustrati serial killer con gastrite ed emorroidi che si danno il cambio?
La frase che per me è diventata un’ossessione esistenziale e in assoluto il modo peggiore di approcciarsi alla vita è MI METTO I SOLDI DA PARTE PER LA VECCHIAIA PERCHÉ NON SI SA MAI.
Minchia... vivere nel panico di uno spauracchio paventato da poveracci indecisi se terrorizzarvi o ammalarsi di terrore.
La morte: abbiamo impiegato 200.000 anni a smettere di lasciare i cadaveri al sole a farli divorare dagli avvoltoi e cominciato a seppellirli con un bastoncino legato all’uccello e un sasso nella vagina ma in questo periodo abbiamo pure sviluppato una bella corteccia cerebrale per capire che se non è malaccio evitare di farsi sbranare dall’equivalente odierno della tigre dei denti a sciabola, esistono anche momenti di pausa di riflessione mentre stiamo spaventati e acquattati in un metaforico cespuglio.
In queste pause introspettive, per esempio, potremmo persino scoprire che magari abbiamo sbagliato nel misurare la nostra esistenza e che forse dovremmo smettere di affannarci a stiracchiarla per averla il più lunga possibile. Il mondo è un forno e noi abbiamo un tempo limitato per raccogliere gli ingredienti e impastare le nostre vite: puoi decidere se affannarti a rollare uno stitico grissino che si brucerà e si spezzerà nella solitudine dell’attaccamento alla vita biologica oppure impastare una bella pagnotta saporita e soffice, che potrà essere apprezzata e consumata a tempo debito con grande gioia del cuoco e dei commensali.
Vuoi essere un lungo grissino o una giusta pagnotta?
Io ti dico solamente che non ho più intenzione di vivere nella paura e nel terrore... paura di non farcela, paura della malattia, paura del giudizio, paura della solitudine e paura che sia una paura senza fine.
Il mondo è troppo bello e strano per tenere lo sguardo a terra per paura di inciampare.
Quindi no, curo persone intubate e in stato vegetativo ma nel limite legale del mio mandato professionale mi rifiuto di accanirmi nel continuare a farle non-vivere e il mio lavoro più faticoso e pesante non è prendermi cura di loro ma cercare di spiegare ai parenti quando è il momento giusto di lasciarli andare.
Perciò stai vicino ai tuoi cari nell’evocazione del ricordo di un tempo, lascia consumare i sensi di colpa per quello che poteva essere e non è stato e permetti all’involucro di svuotarsi e al suo contenuto di rimanerti nel cuore... loro saranno oltre quello che rimane a te ma tu porterai avanti l’eredità della memoria.
Un abbraccio a te... e un augurio a me stesso di avere la forza e la coerenza di fare quanto detto, quando per me sarà il momento.
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Capitolo V
Non riesco ad abbassare lo sguardo.
L’affresco sul soffitto del corridoio principale del campus attira la mia attenzione per la sua maestosità. E’ curato al punto di sembrare nuovo, è come se mi stesse permettendo di tornare indietro di secoli e avere il privilegio di essere la prima persona al mondo a vederlo.
Due ragazze praticamente identiche mi squadrano, con le loro minigonne nere e due sigarette, sottili come loro, trattenute tra indice e medio. Ovviamente, sono troppo preso da altro per degnarle di troppe attenzioni.
Passo davanti al bar dell’università, un cubo pieno di vetrate gigantesche e pareti rosse. Ricorda vagamente una tavola calda anni ’50, e mi basta intravedere il cartellone dei prezzi per rassicurarmi che sono ancora fuori posto in questo Paese delle Meraviglie della giovane élite zaricciana.
Continuo a ignorare il telefono, che vibra da mezz’ora.
Quando noto davanti a me una bacheca di annunci, mi avvicino. La superficie in legno è tutta rovinata, con diversi fogli mossi dal vento al punto di stropicciarli, se non addirittura strapparli. Numeri di telefono ovunque, pubblicità di eventi e di stanze in affitto a prezzi stratosferici… mi passa per la testa l’idea di lasciare un’implorazione scritta riguardante il mio desiderio di lavorare a Zaricci, ma per una ragione o per l’altra sento come se fossi già stato umiliato abbastanza per oggi.
Una lampadina preme ogni parte del mio cervello, facendomi spalancare gli occhi.
Faccio un mezzo metro indietreggiando e afferrando una copia del mio curriculum dallo zaino.
Mentre entro nel bar, mi accorgo subito dell’aria condizionata destinata a farmi venire un’impressionante pelle d’oca e le diverse televisioni sintonizzate su un programma di musica pop contemporanea. Seppur il pavimento a scacchi nero e bianco e le sedie rosse mi avevano portato all’ipotesi si trattasse di un American Diner, rimango deluso nel notare che è un semplice bar, a dirla tutta abbastanza generico e anonimo, un po’ vintage e un po’ futuristico. Un casino stilistico, si potrebbe dire.
Una signora di mezza età dietro al bancone mi squadra man mano che mi avvicino a lei. Sopra la sua testa si trova una lampadina neon viola, intenta a donarle un’aria piuttosto raccapricciante. Sembra studiare attentamente ogni tremolio delle mie dita, intente a tenere fermo il più possibile questo foglio a colori con una patetica lista di esperienze lavorative che mi sono inventato di sana pianta solo per avere più probabilità di accaparrarmi un colloquio.
A quanto pare ho fatto ripetizioni ai bambini delle elementari e sono catechista da oltre tre anni. Ora come ora mi sembrano due stupidissime e inutili bugie da scrivere su un curriculum, ma sono le uniche posizioni che non mi creerebbero problemi nel caso qualcuno provasse ad indagare sulla veridicità del mio CV. Voglio dire, tutti mentono sul curriculum, anche solo per piccole cose.
Saluto la signora, che grugnisce in modo spazientito, e abbandono il foglio sotto il suo naso. Lo afferra con le sue dita enormi, unte. Vedo degli aloni trasparenti rovinare i bordi della mia candidatura, ma penso sia già buono che questa donna si sia presa la briga di leggerlo.
La ringrazio, e lei appare confusa. Non dice niente. Mi accorgo che non ha ancora parlato da quando sono entrato, e non capisco se è muta o semplicemente maleducata.
Mi giro sui talloni e mi dirigo verso la porta, giusto in tempo per capire che sto arrossendo come un bambino che si è pisciato addosso sullo scuolabus.
Sbircio un’ultima volta dalla vetrata del bar, e noto la signora intenta a servire un ragazzo altissimo con una giacca blu e uno zaino in pelle bianco. Penso a quanto possa essere geneticamente perfetto per non essere inondato dal sudore anche vestito così, e mi sento ancora più minuscolo e insignificante quando vedo che la signora non ha più il mio CV tra le mani.
Forse si è accorta che ho scritto un uragano di stronzate.
Si ingigantisce tutto nei curriculum, però, o così mi ha detto Sami. E, man mano, tutto ciò che hai ingrandito e reso sfarzoso perde di utilità perché cominci a salire di livello, proprio grazie a quelle piccole bugie bianche che ti elevano dalle altre candidature. Eventualmente, sempre secondo Sami, si arriva a un punto in cui non serve più mentire sulla resumee per ottenere il lavoro che si desidera da anni.
Non ne so molto di curriculum e lavoretti vari. Come potrei saperlo, d’altronde? Se si vuole proprio lavorare a Cordello bisogna essere il figlio del macellaio o una ragazza a cui va bene fare la cameriera in nero per dieci ore al giorno ed essere spogliata con gli occhi dagli ubriaconi del bar di paese.
Giuditta lavorava part-time in una pizzeria poco distante da Cordello prima che sua madre, rimasta vedova già da anni, sposasse il signor Moschella, cognome famoso per essere storico nell’élite del nostro paesino. E’ una verità scomoda quel pettegolezzo che girava, ossia che molto probabilmente i genitori stessi avevano vietato a Giuditta di continuare a lavorare mentre studiava per non far apparire l’intero nucleo famigliare meno agiato rispetto agli altri splendidi del quartiere.
I ricchi di Cordello non sono neanche così ricchi se paragonati ai pesci grossi di Zaricci, ma hanno le stesse venature presuntuose, elitarie ed aristocratiche molto impostate che caratterizzano qualsiasi stereotipo riguardante i cittadini benestanti. Essermi fidanzato con uno di loro mi ha proprio fatto sbattere il naso contro il muro che ci sarà sempre tra queste auto-proclamate divinità ultramoderne e i comuni mortali con una Panda del 2004 e un braccialetto in legno attorno al polso invece che un Rolex. Non penso che Sami faccia apposta a farmelo pesare, ma la differenza di background tra noi due è sempre stata un problema. Non amo mi offra le cene o mi regali vacanze, perché mi fa sentire come se fossi un toy-boy. Mi ha fatto sentire più volte come una collana eccentrica che indossa per mostrarsi alle feste dei suoi amici. Mi ha sempre fatto percepire questo mio dovere a sentirmi riconoscente, come se senza di lui finirei ancora nel baratro. A volte mi vedo come il nuovo souvenir dell’occidentale benestante dopo la sua ennesima esperienza di turismo sessuale.
Mi sento esagerato quando il mio cervello canalizza le sue attenzioni su questo fiume di negatività e mancanza di fiducia nell’umanità, ma se c’è una cosa che ho capito dei ricchi che non si sentono abbastanza ricchi è che devono sbattere in faccia a tutti quante belle cose hanno nella loro vita.
Se da una parte sono sempre stato stuzzicato dalle cronache luccicanti de “Gli schifosamente benestanti di Cordello”, è anche vero che l’unico desiderio che ho nello stare in mezzo a loro è potermi permettere di vivere in maniera spensierata, senza sentirmi in colpa per essere andato al McDonald’s per merenda o per comprarmi venti euro di erba dallo spacciatore in stazione ogni settimana.
Vorrei avere più risorse, ma sento di non avere mai i mezzi per ottenerle. I miei genitori mi supportano come possono, ma è difficile quando anche dare venti euro al tuo unico figlio sono una faticaccia.
Ho risparmiato i soldi per le sigarette e le canne per pagarmi la patente, ma che senso ha quando si usa una macchina in tre e non facciamo un pieno da due anni?
Sono colpito da una maledizione che mi tiene fermo a Cordello, le mie gambe si stanno trasformando pian piano in radici e non importa quanto mi dimeni per scappare o urli per farmi aiutare, rimango bloccato nella mia mutazione. Ho passato anni di sacrifici per essere il ragazzino sprovveduto con un curriculum farlocco che vuole essere qualcun altro, ma che non ci riesce.
Sono il ragazzino che non capisce se Sami lo vede come un partner o come una via di fuga, un escamotage dal mio futuro, troppo misero se bilanciato alle mie ambizioni.
Non siamo mai stati veramente felici, io e lui. Ci ho messo mesi e mesi per capirlo, ma non siamo mai stati veramente felici.
E sento le lacrime corrodermi le gote come se fossero acido, perché capisco che sono soltanto un disperato che gira attorno ai suoi problemi a trecentosessanta gradi ma non riesce a muovere un passo per tuffarsici dentro e risolverli. Sami, sotto sotto, è sempre stata la dimostrazione che mi serviva per convincermi che stavo correndo verso la luce, ma ora penso che ci sia soltanto il nulla.
Sono passato dall’essere quel bambino innocente che corre verso la speranza al ragazzo che tiene dei passanti per mano, implorando per ricevere un po’ di calore.
Ma se glielo danno, ha troppo caldo.
╪
Quando afferro il cellulare dalla tasca per controllare l’orario, mi insulto mentalmente.
Ho cercato per ore di non guardare il telefono, perché non volevo sapere niente di Sami e delle sue inutili scuse. Ha fatto un qualcosa di meschino, che in sé non è una novità, ma l’averlo fatto oggi mi crea problemi.
Lo perdono per avermi mentito, per avermi trattato come una scimmietta da circo davanti ai suoi amici di plastica, ma c’è poco da fare: più vado avanti a conoscere Sami, meno riesco a fidarmi di lui. E’ affidabile solo per quel che riguarda se stesso, e se fai parte dei suoi piani bene. Altrimenti, tieniti forte perché non sai dove finirai.
Nel mio caso, sono di nuovo in stazione, che ora studio con aria maniacale. Mancano tredici minuti al mio treno, e se metà del mio cervello vuole che il desolato principe azzurro si materializzi sul suo sfarzoso cavallo bianco, l’altra muore dal mandare all’aria l’unica parte che sembra aver senso della mia vita. Quando butti via qualsiasi stabilità è quando inizi a giocare e a ricostruire. Ricostruirti, da zero.
Riguardo le otto chiamate perse di Sami, i suoi venti messaggi minatori.
E poi, come una margherita in un campo deserto, spunta una nuova notifica.
Giuditta
“Hey, scusa il ritardo, mi si era rotto il telefono!
Comunque bene, succedono un sacco di cose ogni giorno qui.
Sono un po’ persa nel mio, ma per ora tutto bene.”
11:27
Rileggo il messaggio innumerevoli volte, come per ricalcarlo nella mia mente fino a renderlo indelebile.
Giuditta è un orologio svizzero.
Giuditta
“Tu come stai?”
11:28
Mi guardo attorno, è tutto più luminoso.
Rimetto il telefono in tasca, emozionato come un bambino che scopre che andrà a Disneyland.
Salto sulla carrozza del treno e mi siedo, immergendomi nella carovana di pensieri dai colori caldi che si sta riversando tra le pieghe del mio cervello.
Sondaggio: 31 Maggio,12:20 PM
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30.06.2019
Sono la persona più forte che io conosca. Continuo a ripetermelo guardandomi allo specchio quando situazioni come queste succedono, sono la mia roccia. Devo esserlo. Mi guardo e vedo riflessa la me bambina a cui è stata insegnata l'umiltà e l'arte del nascondere, e mi chiedo come abbia fatto il tempo a passare così in fretta. Ho iniziato a scrivere questo post due giorni fa, quando lui mi ha minacciato. Mi sono bloccata due frasi dopo, non avevo tempo di piangermi addosso. Lo continuo oggi perchè oggi è stata lei a minacciarmi, lui con il braccio contro, lei con il bastone della scopa e tirandomi oggetti contro, per il semplice fatto di averle detto di non urlare, e di risolversi i suoi problemi con la persona in questione. Sono così forte da resistere a tutto, e non mi tiro indietro davanti a nulla. Che sia un muscolo puntato contro la mia faccia o un bastone a colpirmi, che lo facciano, che lo facciano pure. Ormai ho un’elasticità mentale per queste cose che va oltre, ho imparato a controllare le lacrime per non farle scendere quando succede, ho imparato a mostrarmi sempre pronta e con le spalle larghe, pronte a prenderne di ogni. La verità è che sono stanca, stanca di vivere fra questa violenza e quest’odio che continua e continua e non cessa mai fra queste quattro mura, quattro persone diverse che vivono nella stessa casa solo perchè altro posto per andare non c’è. Non mi interessa se mi chiamano “grassa” o il suo preferito “pall’e nzogn” (palla di lardo). Ormai ci sono abituata, non mi fa effetto, lo so già di mio di essere grassa. Le sue parole che derivano dall’odio verso di me e verso questa terra, alla quale è incatenata secondo lei per colpa mia. Non ho chiesto io di nascere, non ho chiesto di essere riportata qui a 8 anni e non ho mai chiesto a nessuno dei due di fare i genitori, mi sono sempre bastata. L’educazione e l’umiltà che credo di avere me li ha insegnati la mia nonna, ed è solo lei che devo ringraziare per questo petto di ferro che mi ritrovo. Posso ringraziare solo lei perchè mi ha insegnato che posso superare tutto, che devo stare tranquilla qualsiasi cosa accada. In fondo cosa puoi dire a una bambina di quattro anni che vede portaceneri di cristallo volare sopra la sua testa? O che le vengono tirati i capelli per essere andata a salutare? O a una bambina di sette anni che trascina il fratello in terra perche ha le mani intorno al collo della madre? Che finirà tutto. Solo quello puoi dirle, mentre la guardi crescere impegnata a nascondere, a non raccontare, a fingere, a fare silenzio. Le insegni che se vuole farsi degli amici l’apparenza è la cosa più importante là fuori, cosa che all’ora non capivo, mi sembrava superficiale, mi ricordo che le chiesi se davvero preferisse andare dal parrucchiere anzichè comprare il pane, e mi rispose che in queste situazioni era la cosa più importante. E lo capisco solo ora che aveva davvero ragione. Se l’avessi capito prima forse ora un po’ di forza in più l’avrei avuta (non è abbastanza?). Non so cosa darei per darti un’altro abbraccio nonna, tornare piccola piccola e sedermi sulla mia mattonella, che poi era solo un mattoncino del camino, di sedermi di nuovo sulla sedia che mi aveva costruito nonno o di rientrare dentro la casetta che aveva costruito tutta per me. Vorrei tornare a quando mi stavi aiutando a studiare la tabellina del due davanti al camino, o a quando giocavamo con la rana di plastica. Mi hai insegnato che ci vuole davvero poco per essere felice nonna, ma sento di non riuscirci più veramente. Ho paura di continuare a crescere e ritrovarmi senza tutto quello in cui credevi tu. Ho paura del mondo senza di te nonna, mi ha spaventato 11 anni e mi spaventa ora, il giorno prima del quinto anniversario della tua morte. Quanto tempo è passato e quanto sono cresciuta. Sono sicura che saresti fiera della persona che sono diventata, ti assomiglio in tante cose. Mi manca giocare a carte con te che mi lasciavi vincere sempre, mi manca bere il thè con te nelle serate fredde. Lo sai nonna, lo prendo ancora il thè. Ho iniziato ad avere una piccola collezione e so che ti piacerebbe un sacco vederla, ma il tuo thè col limone saprà sempre di te e di infanzia. Era bello aspettare e vedere se qualcuno veniva a casa a prendere il thè con noi, mi piaceva ogni giorno non sapere se dovesse arrivare qualcuno, zii e amici, alle 5 puntuali. Mi manca stare in cucina davanti al fuoco, mi manca vedere nonno aggiustarlo. Mi manca stare nel loggiato d’estate al fresco a guardare reazione a catena, mi faceva ridere provare a indovinare le parole con te. Mi mancano i natali tutti insieme, fare l’albero grande grande e cenare tutti insieme, tanto da dover unire due tavoli e uno più piccolo per farci stare tutti. Mi manca sentire lo spirito natalizio, adesso non è niente di più di una tovaglia rossa con piatti di plastica, mentre mangio cose che non mi vanno con persone che mi mettono di mal umore. Mi manca fare i disegni con te, mi manca andare dal dottore e poi tornare a flumini quando era già buio, mi piaceva un sacco stare in macchina con voi. Mi è rimasto anche questo, lo sai? Mi piace ancora tanto stare su strada, fare viaggi lunghi in macchina o in pullman, mi rilassa ancora. Mi manca quando mi cantavi “carissimo chicocchio”, perchè pinocchio non mi piaceva. Mi manca quando prima di dormire mi cantavi la nostra canzoncina un po’ stupida che mi faceva ridere, non so cosa darei per sentirla ancora una volta. Mi manca quando mi prendevi in braccio anche se ti faceva male la schiena e mi cantavi tutte queste canzoni e quando cantavi “amore mio non piangere, che non ti lascio sola. Ti lascio alla tua mamma, che tanto ti consola...” mi veniva sempre da piangere e ti dicevo che non volevo che me la cantassi, e ora ho capito perchè mi faceva piangere, lo stesso motivo per cui piango ora. Perchè non ci sei più. Mi faceva così male all’ora l’idea che tu potessi lasciarmi in quella situazione da sola che mi veniva già da piangere. Ora ci sono immersa in questa situazione da 5 anni nonnina, e me la cavo come meglio posso. Penso alle passeggiate al mare che facevamo di mattina con zio Lino e zia Elena, al mio pozzo alla fine della spiaggia dove trovavo i granchietti. Penso a quando mi facevi ascoltare da tutti mentre cantavo “o mare nero” da piccolissima quando attraversavamo quel pezzetto con le alghe. Mi ricordo che avevo sempre sonno quando andavamo al mare, mi svegliavi sempre alle 7 per arrivare presto e tornare a casa all’ora di pranzo. Adesso sono io quella sempre di fretta, lo sai nonna? Non sono più ritardataria come una volta, adesso sono sempre puntuale. Adesso esco sempre presto, sono io quella che vuole fare le cose da prestissimo. Credo che anche questo me l’abbia passato tu. Mi torna in mente quando per carnevale mi avevi cucito interamente tu il vestito da strega che tanto volevo. Eri una sarta ed eri bravissima, avevi preso le misure e comprato la stoffa, avevi cucito uno spettacolo con pazienza e dedizione. Mi dispiace che negli ultimi anni mi abbia sentito più distante nonna, vorrei poterti dire che non era colpa mia, che ho dovuto, nonna ti giuro ho dovuto diventare fredda da quando sono tornata qui, altrimenti non sarei riuscita a sopravvivere come la persona sensibile che ero e che cerco ancora di nascondere. Ci sono un milione di cose che vorrei dirti e che vorrei farti vedere. Quando mi hanno dato la scatola con le tue cose sono scoppiata a piangere, ho visto il tuo anello e i buoni fruttiferi che mi hai lasciato. La tua scrittura e la scritta dove hai compilato “Miriam Orrù, in qualità di: nonna” mi ha fatto scoppiare a piangere. So già che quei soldi mi serviranno per scappare da qui, ma come posso nonna? Come posso col peso di altre tre persone che se non ci fossi io in casa non saprebbero come andare avanti se non a suon di urla e schiaffi, più di quanto lo facciano già? Ho paura di non riuscire mai ad andarmene da qua, ho troppa troppa responsabilità che non mi spetta. Mi manchi davvero tanto, mi manca vedere nonno normale. Da quando non ci sei tu si è ammalato, non ricorda le cose e si perde sempre. A volte esce in pigiama e quando vado a trovarlo mi scalda il cuore quando non si ricorda dei nomi delle altre persone e quando glielo chiedo io mi risponde sempre “tu sei Mirietta”. Il mio nonnino adorato. Mi manca quando mi chiamavi “sa sposa” o quando per svegliarmi appoggiavo la testa sulle tue gambe quando ti sedevi nel letto e mi facevi le “carezzine” nei capelli dietro l’orecchio, come piacevano a me. Mi manca pranzare con te in giardino quando nonno faceva il pt e gli altri esami e io non potevo avvicinarmi a lui per 24 ore perchè ero troppo piccola. Mi manca giocare con i gatti in giardino, con musetto. Mi manca la capannina dove tenevamo in legno per il camino d’inverno, mi manca vedere nonno legare le fascine. Mi manca vederti seduta a vedere le mie recite, non sai a quante non è venuto nessuno a vedermi e alla fine quando tutti andavano dai genitori io rimanevo con le maestre. Mi ricordo quando in terza elementare forse era venuta la psicologa per i bambini, la chiamavamo “follettina”. Dovevamo scriverle dei bigliettini e metterli in quella casella attaccata al muro della scuola, mi ricordo che scrissi “sono triste perchè non riesco più a sorridere”, non pensavo che qualcuno l’avesse letto veramente. Poi arrivarono i turni per decidere chi far andare a parlare con questa ragazza vestita da elfo, e mi fecero andare per prima. Quando mi chiese il motivo le risposi “perchè nonno sta facendo un sacco di visite e anche quando ci provo non ho mai voglia di sorridere” o comunque una cosa del genere. Era una bugia ovviamente, lo sapevo qual era il vero motivo, ma come mi hai insegnato tu non si può mai parlare di queste cose, e uscii da lì soddisfatta che nessuno aveva scoperto il motivo. Vorrei che ci fossi tu qua ancora una volta per consolarmi come facevi sempre, senza stancarti. Vorrei ancora chiacchierare con te e tornare a casa da scuola e andare a salutare nonno in garage. Vorrei preparare ancora una volta la pasta al forno fatta in casa con te. Vorrei fare ancora la teglia più piccolina a parte per me, perchè non mi piaceva il formaggio. Vorrei tornare nel capannone a fare le pardule e a mangiare l’impasto quando ti giri. Vorrei tornare a bere il thè freddo con te nel loggiato. Vorrei andare ancora in bicicletta e sui pattini mentre mi guardi, mi ricordo che la prima volta che li misi mi dicesti “guarda che brava, hai già preso l’equilibrio!”. Mi lodavi in tutti i modi, e nonostante ciò sono sempre stata la bambina più umile ed educata che esistesse. Ero davvero brava, mi piaceva esserlo. Mi ricordo quando andavamo al parco a sant’andrea e mi piaceva giocare da sola, mi infastidivo quando venivano le altre bambine (e in questo non sono cambiata), mi piaceva giocare con te che mi guardavi da lontano. Mi ricordo il tuo sguardo fiero alla mia prima comunione quando ti avevano scelto per portare il cesto con i viveri sull’altare, lo sapevo che ti avrebbe fatto piacere. O quando feci la cerimonia per diventare chiricchetta, c’eri tu a mettermi il vestito davanti all’altare. Ora non credo di avere tanta fede nonna, mi dispiace. Ma ti prometto che proverò a riavvicinarmi alla chiesa, mai come ora ho bisogno di credere davvero in qualcosa di bello, e per ora è molto difficile farlo. Canto ancora nonnina, sono sicura che mi senti. Non sono più sicura di me stessa e della mia voce come una volta, ma ti prometto anche qui che proverò a fare del mio meglio per migliorare e per migliorarmi. è la tua luce che mi sprona ad andare avanti e sempre lo farà. Ciao nonnina, mi manchi tanto. Sempre tua, Mirietta.
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Indro Montanelli a Federico Fellini. Lettera aperta pubblicata su Il Corriere della Sera S.l. 22 gennaio 1960 Sere fa, Federico Fellini mi ha invitato a vedere in privato il suo ultimo film La dolce vita. Confesso che ci sono andato con qualche apprensione: e non tanto per i pareri molto discordi che avevo udito da coloro che avevano visto alcune scene isolate, quanto perché, parlando ogni tanto con lui, avevo avuto l’impressione che Fellini avesse perso il senso della misura. L’uomo, di solito pacato e abbastanza staccato dal proprio lavoro, stavolta m’era parso che non sapesse uscirne nemmeno quando veniva a cena con me. Se gli parlavo di altre cose, mi fissava con l’occhio vitreo di chi non ascolta. E gira gira, il discorso tornava sempre lì. Questa storia andava avanti da un anno, perché è da un anno che Fellini sgobba quattordici o quindici ore al giorno dietro a questa pellicola su cui evidentemente, rischiando grosso, ha puntato tutto. Non la finiva mai. Non la rifiniva mai. Non so quante decine di migliaia di metri ha ammatassato nei rulli. Non so quante volte ha fatto, disfatto e rifatto interi episodi per eliminare o aggiungere una virgola. Non avrei voluto essere, fino all’altra sera, il suo produttore, a cui credo che questa dolce vita ne abbia procurata una da cane. Ma ora, a cose fatte, non credo che lo rimpiangerà. Non voglio commettere indiscrezioni anticipando, sul piano dell’estetica e della tecnica cinematografica, dei giudizi che spettano in esclusiva al mio collega Lanocita. Non saprei nemmeno farlo, del resto, perché me ne mancano i rudimenti. Ma non c’è dubbio che qui ci si trova di fronte a qualcosa di eccezione (sic!) non perché rappresenti un meglio o un di più di ciò che finora si è fatto sullo schermo, ma perché ne va nettamente al di là, violando tutte le regole e convenzioni, a cominciare da quelle della durata, che supera le tre ore di spettacolo, per finire a quelle della trama, o meglio della non trama, perché non c’è. Ancora oggi mi chiedo come avrà fatto Fellini a “raccontare” questo suo film al produttore, e non vorrei essere nei panni del critico quando dovrà a sua volta raccontarlo ai lettori. Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società. Ed è di questo che voglio parlare. Fellini, prima di fare il cineasta, è stato giornalista. E di un giornalista qui si serve per cucire i vari episodi del film, descrivendoli attraverso altrettanti fatti di cronaca, che lo conducono all’esplorazione della società romana in tutti i suoi ceti e quartieri, dal palazzo del Principe, ai covi intellettuali di via Margutta, all’appartamento dei nuovi ricchi dei Parioli, ai caffè di via Veneto, ai tuguri delle passeggiatrici in periferia, ai terreni vaghi delle bidonvilles che ne formano la cintura sottoproletaria. Ecco qui siamo dunque nel mio mestiere, ed è sull’esattezza del resoconto che mi sento autorizzato a pronunciarmi. Molti la negheranno, questa esattezza, e speriamo che lo facciano in buona fede, cioè credendo veramente che il ritratto sia arbitrario. Ma io in tutta onestà debbo dire che se Mastroianni, il quale interpreta la parte del protagonista, avesse saputo raccontare con la penna, per un giornale di cui io fossi il direttore, le stesse cose che ha raccontato con la macchina da ripresa di Fellini, e con la stessa evidenza, gli avrei triplicato lo stipendio. Il suo reportage non è una “patacca”. Il poco – oh, molto poco! – che vi luce è proprio oro. E il molto che vi puzza è proprio fogna. Del resto, se così non fosse, il film sarebbe fallito come falliscono i reportages quando eludono la verità o non riescono a centrarla. Quindi, amici, vi prevengo se domani La dolce vita vi farà inorridire, non confutatela dicendo: “Non è vero”. Perché per esser vero, tutto ciò che qui è raccontato, lo è. D’altronde Fellini è ricorso al mezzo più spicciativo (e più diabolico) per dimostrarlo. Egli ha fatto incarnare a ciascuno la parte di se stesso, a cominciare da Anita Ekberg, che fa appunto Anita Ekberg, con le follie e le scempiaggini che compie abitualmente Anita Ekberg, e perfino con gli sganassoni che di tanto in tanto riceve dal marito di Anita Ekberg. E fin qui, niente di straordinario, visto che Anita Ekberg fa di mestiere Anita Ekberg ed è pagata appunto per questo. Ma quando poi egli ha voluto rappresentare il mondo aristocratico, non è agli attori che è ricorso per impersonarne i tipi, sibbene alle gentildonne e ai gentiluomini con nomi altisonanti e blasoni a molte palle che lo popolano e che hanno trovato del tutto naturale accettare l’invito mettendo a disposizione le loro ville e se stessi. E non per una delle solite parodie, che a furia di essere convenzionali e di maniera non mordono più, del solito marchese col solito monocolo e la solita erre moscia. Eh, no. Fellini ha affondato il suo bisturi fino all’osso. E del loro mondo e dei loro costumi, reso più vero dalle facce vere, ha dato un ritratto, anzi un autoritratto, agghiacciante, che del resto la gentile e volontaria collaborazione dei protagonisti convalida. Anche chi non li conosce dovrà pur rendersi conto che, se essi hanno accettato di dipingersi così, vuol dire che non sono meglio. E, badate, non si tratta di libertinaggio. Magari così fosse. La morale non c’entra. C’entra solo il gusto. Ma mi affretto subito ad aggiungere che La dolce vita non è una polemica a sfondo giustizialista, che appunta i suoi strali sulle cosiddette classi alte. Non convincerebbe, in questo caso, o convincerebbe meno. Gli altri ambienti, che si srotolano giù giù negli appunti di questo reporter d’eccezione, sono descritti con la identica spietatezza, convalidata dalla stessa tecnica di rappresentare ciascuno nei propri panni. Lasciatemi testimoniare in tutta onestà che raramente ho visto qualcosa di più vero di quel salotto intellettuale. Esso ha dato perfino a me, che non ne frequento nessuno, un senso profondo di mortificazione, un vago anelito a cambiar mestiere e a iscrivermi, fo’ per dire, ai coltivatori diretti. Dio mio, che tristezza, che miseria, quei discorsi, quelle facce, quel fasullume! Siamo noi, quei tipi? Sì, siamo noi, Dio ci perdoni. Quelle son le cose che diciamo (e che non pensiamo) quando ci si trova insieme. Quelle son le nostre bugie. Quelle son le nostre vanità. Quelle son le donne che ci ruotano intorno, o intorno a cui noi ruotiamo, che hanno tutto incerto, anche il sesso. No, il ritratto di questa società non migliora, quando si passa dal palazzo del Principe al salotto della poetessa o all’atelier della pittrice. Cambia stile. Ma resta nel meschino, nel dialettale e nel falso. E non migliora nemmeno quando si arriva al fondo della scala, a quello che la retorica proletaria chiama il “sano popolo lavoratore”, nei terreni vaghi delle bidonvilles, dove ogni tanto la Madonna appare. Non la si vede, grazie al Ciel è l’unica che abbia rifiutato l’invito di Fellini a recitare la parte di se stessa. Ma sono dei bambini a dire, istigati dai genitori, che l’hanno vista. Ed ecco montarsi, intorno a questa bugia, una di quelle atmosfere di miracolo italiane in cui la fede e la speculazione, l’ingenuità e il calcolo si attorcigliano sino a comporre un’allucinante e avvilente scena di sacrilegio pagano. È quella la nostra religione? Sì, è quella. Anche qui Fellini ha detto la verità ed è inutile cercare di difendersene negandola e ficcando la testa dentro il cespuglio come lo struzzo. Si capisce che anche fra noi c’è chi sa pregare davvero, e non ha bisogno di veder la Madonna per crederci. Ma il tono lo danno quelle folle scettiche e idolatre, che per Grazia intendono i numeri del lotto e non conoscono il solitario rapimento della contemplazione di Dio, ma solo le isteriche suggestioni collettive. Non so se il pubblico potrà vedere per intero questo straordinario (e terrificante) documento sul costume italiano, perché mi hanno detto che ci sono delle difficoltà con la censura. Personalmente non ne vedo proprio i motivi, cioè li vedo, ma non li accetto. Forse La dolce vita darà a qualche spettatore la voglia amara di togliersela. Ma, a parte il fatto che il nostro cinema non ha mai prodotto niente di comparabile a questo film, non ravviso in esso nulla di negativo. Intendiamoci: non è che Fellini condanni esplicitamente ciò che rappresenta. Al contrario, la sua macchina da presa non ha un trasalimento. Egli analizza le viscere di Roma con la stessa impassibilità con cui Austoni analizza quelle dei suoi pazienti. Non cerca nemmeno di giustificare le scene piccanti che abbondano nella pellicola, col facile ma logoro alibi della “denunzia”. Perché specialmente qui in Italia, con la scusa della “denunzia” da tempo si contrabbanda ogni sorta di scollacciature e di volgarità. No, no, egli lascia parlare i suoi fotogrammi da soli. E se questi fotogrammi, presi uno per uno, ci fanno disperare di noi stessi e di tutto, sommati insieme ottengono l’effetto, che mi sembra tutt’altro che da buttar via, di togliere alla dolce vita ogni fascino e di farla apparire qual è: molto, molto amara. A questo risultato, che ha l’aria di non cercare, Fellini non giunge per vie facili e risapute. Alla dolce vita egli adesca col petto travolgente di Anita Ekberg e con la eccitante canaglieria di Magali Noël. L’aristocrazia la incarna non secondo il solito, in vecchie mummie, ma in giovani, belle creature, che fanno cascar le braccia solo quando aprono bocca, ma per fortuna l’aprono di rado. Le orge sono proprio quelle che sognano i nostri ventenni vitelloni di provincia, e lo spogliarello lo fanno fior di ragazze che da esso non hanno nulla da perdere. Voglio dire insomma che il peccato e il vizio sono presentati su un piatto d’argento, senza verdetti di condanna esteticamente sbagliati e didatticamente inutili, perché, Dio mio, non convincono nessuno. Eppure, alla resa dei conti, questo ritratto della società romana non ispira che un senso di squallore, di noia, di solitudine, e di pietà per i suoi protagonisti. A Fellini occorrono tre ore per condurre lo spettatore a questo risultato, e anche perciò i tagli sarebbero un grosso sbaglio. Se il censore è intelligente (ma può esserlo, un censore?), lasci che questa sconvolgente “cavalcata” proceda senza intoppi fino al traguardo, che forse Fellini non si proponeva nemmeno, ma che con sicurezza raggiunge: quello di mostrare al pubblico che la dolce vita è una vita opaca e triste, dove più che ricercare il piacere si fugge la disperazione. E inesorabilmente vi si ripiomba. Caso mai, se ne avessi l’autorità, io proporrei che questo film, invece che ai minori di sedici anni come al solito, venisse proibito ai maggiori di sessanta. Perché credo ch’esso metta più in pericolo l’innocenza dei nostri babbi che quella dei nostri figli. Pubblichiamo un lungo articolo/ lettera pubblicato sul Corriere della sera da Indro Montanelli, in cui difende dalla censura l'opera del Maestro.
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La premessa.
Dove comincio a raccontarvi cose che dubito vi interessi sapere (ma io ve le racconto lo stesso).
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Chiunque mi conosca anche solo un pochetto sa che ci sono alcune cose che mi accompagnano da una vita e che sono alla base della persona che sono oggi: gatti, Harry Potter, Berlino, Taylor Swift.
Una delle mie fantasie ricorrenti è quella che mi vede capace di scrivere canzoni come quelle di Taylor e di avere poi la possibilità di cantarle su un palco mentre guardo negli occhi la persona che ha ispirato quelle parole.
È più o meno quello che desidero fare con questo blog. Da un lato sento di avere alcune cose di cui mi devo liberare per poter andare avanti; dall’altro mi piace l’idea che qualcuno che ne ha bisogno legga le mie parole e si senta capito, alla fine è quello che vorrei anche io.
Lo faccio per aiutare me stessa: ho bisogno di mettere tutto nero su bianco per capire il mio passato e non ripeterne gli errori. Se proprio devo scazzare voglio che sia in maniera innovativa, voglio sorprendermi.
Magari, poi, qualcuno di voi capirà immediatamente quale è stato il mio problema sin dall’inizio e sarà così gentile da spiegarmelo.
Non nascondo che questo account sia anche uno strumento un po’ codardo per chiedere scusa a chi lo merita e per togliermi anche il gusto di dire, sempre a chi lo merita, “sei un pezzente, mi hai fatto soffrire e ora te lo dico senza mezzi termini senza che tu abbia la possibilità di controbattere”.
Disclaimer necessario: racconterò le cose in maniera onesta, vera per quanto possa permettermelo la memoria. Sentirete solo una versione dei fatti e dovrete prenderla per buona, ma fidatevi, lo è. Alcune cose non potrei inventarmele nemmeno se lo volessi e, in ogni caso, a mentire mi darei solo la zappa sui piedi.
Se vi riconoscete in quello che scrivo, nel senso che pensate che stia parlando proprio di voi come individui singoli, è perché è così, d’altronde è uno degli scopi di questo blog.
Prima di gettarvi nel calderone infernale che è la mia vita sentimentale è giusto che faccia qualche presentazione, così potrete destreggiarvi meglio per la selva oscura.
I ragazzi che ho finora avuto la (s)fortuna di frequentare si dividono in due categorie che ho deciso di chiamare i “ripetenti” e le “belle speranze”. Questi ultimi sono i ragazzi “vergini”, quelli che non conoscevo prima che succedesse qualcosa di romantico e quelli che, una volta finita l’avventura, sono usciti dalla mia vita (storie di Instagram a parte). Credo che i miei flirt con questi ragazzi saranno relativamente semplici da raccontare visto che le cose sono finite sempre in maniera civile, senza troppi rancori. Almeno così mi pare.
I ripetenti sono tutta un’altra classe. Sono quelli che si sono ripresentati più volte nel corso della mia vita, in una sorta di versione perversa di “Acchiappa la talpa”, quel gioco dove c’è il roditore che spunta fuori quando meno te lo aspetti.
Con tutti e 3 i ripetenti è finita MALE (per me, loro sono tutti felici come delle Pasque). È qui che mi servirà aiuto per decodificare questo pattern autodistruttivo, il filo rosso che ha strangolato la mia vita amorosa negli ultimi due anni.
Intanto ve li presento brevemente, avrete modo di conoscerli meglio più avanti (mi dispiace per voi):
ZM —> pluri-ripetente, con lui non ho mai avuto una storia vera ma un tira e molla che è durato buona parte delle superiori e qualche anno di università finché non mi sono ritrovata col culo per terra nell’estate del 2017.
QU —> ripetente, la persona più intelligente che conosca ma anche la più stupida che conosca e quello che mi ha trattata peggio di tutti perché è stato completamente disonesto. Odio quelli che si lamentano di come sono stati illusi da una persona senza cuore, voglio dire, leggi i segnali cazzo, ma lui mi ha illusa per davvero. Chiedete pure in giro, questa storia l’ho raccontata a chiunque avesse voglia di ascoltarmi perché è quello che QU si merita.
GM —> altro ripetente e quello che ha lasciato una ferita che sta cominciando solo ora a rimarginarsi. Vi do già un consiglio gratis: non innamoratevi mai di qualcuno che non vi vuole. Non c’è di che.
BH —> uno dei vergini e, ironicamente, il ragazzo con cui ho perso la mia verginità. Non so ancora se ne parlerò ma magari lo farò, meglio mettere le mani avanti.
NB —> altro vergine, nonché colui che sarebbe stato il ragazzo perfetto, quello che presenti ai tuoi senza vergognartene, se non fosse che GM è ricomparso come uno di quei mascelloni da soap, quelle che mia nonna guarda dopo pranzo, ovvero quei personaggi che muoiono ogni stagione ma poi resuscitano in tempo per rovinare tutto.
Una sottocategoria dei “vergini” sono i semi-disgraziati che ho conosciuto a Bologna. Loro non hanno portato vere e proprie sofferenze, solo frustrazioni e storie divertenti, e verranno utilizzati come intermezzo quando ci sarà bisogno di alleggerire un po’ il mood dopo tutta l’auto flagellazione in pubblico che mi accingo a fare.
Detto questo, bambini miei, è ora di cominciare.
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Okay, sarò molto onesta e molto breve (anche se ho letto che non si dovrebbe dire ma BLABLA): sono ancora nella fase in cui sto cercando di sbloccarmi per tornare a scrivere in tranquillità quindi questa cosa è scritta un po' di corsa, un po' senza un'idea precisa. E si vede. Spero solo che sia una cosa vagamente leggibile! Also, side note: lo so che sono una patata sociale e sono incapace di rispondere ai commenti perché sono fatta male, però li leggo e li rileggo tutti trecentomila volte e sono molto molto grata per questo fandom. Ora vadoh.
Come find me (su AO3)
La prima volta che lo vede Fabrizio si tira su con uno scatto perché è disteso su una panchina che in realtà è solo un blocco di cemento, ma c'è ancora il sole perché sono le sei di sera ed è solo metà Settembre, quindi c'è sole ma non troppo, quel tanto che basta a giustificare il fatto che se ne stia disteso con le gambe accavallate.
Roberto gli ha mandato un messaggio dieci minuti fa dicendogli un quarto d'ora e arrivo e poi una serie di consonanti che Fabrizio ci ha messo tre minuti buoni a decifrarla, ad estrapolare un questo posto fa schifo, chiedi a tuo padre di assumermi a cui Fabrizio ha solo arricciato un angolo delle labbra in un sorriso che non era proprio un sorriso.
E ora è lì, col cellulare tirato su a fargli ombra sul viso, una giacca di pelle buttata sulle spalle perché non voleva presentarsi all'Università solo con la canottiera degli AC/DC che ha più buchi e macchie d'olio che stoffa, e quando lo vede si tira su di scatto e il cellulare gli scivola tra le mani e gli cade in grembo.
Ermal – prima che sia Ermal, quando ancora è quel ragazzo coi ricci che gli cadono sugli occhi e i jeans neri stretti e l'abbronzatura che ancora non gli è andata via, quando è ancora quel ragazzo che gli fa cadere il cellulare di mano, e forse non smetterà mai di esserlo, in realtà – cammina lentamente, con le mani infilate nelle tasche dei jeans anche se riesce ad incastrarci solo le dita, una giacca di pelle buttata su una spalla, lo zaino sull'altra, ha le guance colorate di rosa e si spinge i ricci via dalla fronte. Cammina lentamente perché mette un piede davanti all'altro come i bambini che immaginano di camminare in equilibrio su una distesa di lava.
Fabrizio non sa che Ermal è Ermal, non ancora, ma poi si scorderà del momento prima di questo, prima di Ermal.
Ora è a sedere sulla panchina, ha recuperato il cellulare senza farlo cadere per terra e gli occhi del ragazzo – di Ermal, si chiede sempre quando Ermal abbia smesso di essere il ragazzo e forse direbbe adesso, ora che lo guarda e Ermal ha quegli occhi scuri e luminosi che sono un po' la fine di Fabrizio, lo guarda e Fabrizio ci mette un attimo a capire che è perché sta camminando accanto a Roberto e Roberto lo ha visto e gli rivolge un breve cenno con la mano.
Fabrizio si alza e si strofina le mani sui jeans – i jeans strappati che un tempo erano strappati intenzionalmente e ora sono solo un disastro.
Roberto si ferma ad un paio di passi da lui, Ermal con un secondo di ritardo, ancora impegnato a camminare sulla sua distesa di lava. Un po' gli toglie il fiato così da vicino, un po' di più che mentre lo guardava da lontano.
Roberto lo abbraccia brevemente, con un braccio solo, e Fabrizio gli lancia un'occhiata indagatrice perché non è da lui, riesce a distrarlo da Ermal per qualche secondo prima che gli dica: “Lui è Ermal,” e Fabrizio si ritrovi a guardarlo di nuovo, a stringergli la mano per un attimo.
“Fabrizio,” gli dice, e Ermal sorride in quel modo che poi Fabrizio avrà modo di imparare, quello che gli addolcisce lo sguardo.
Roberto gli tira una mezza spallata e Fabrizio si infila le mani nelle tasche della giacca. “Stavamo pensando di andare a bere qualcosa più tardi.”
Fabrizio scrolla le spalle, stringe per un attimo le labbra, si fa due calcoli; è relativamente sicuro che suo padre non lo licenzierà se arriva in ritardo la mattina dopo. Relativamente.
“Ci porti tu?”
Fabrizio alza gli occhi al cielo. “Ho alternative?”
Roberto sorride, il suo sorriso a trentadue denti: “No.”
Fabrizio ruota gli occhi.
Ermal sorride con un angolo delle labbra mentre li osserva. Ha i ricci illuminati dagli ultimi raggi di sole, e anche gli occhi, di striscio, e Fabrizio poi ci ripensa e un po' lo sa perché si ricorda poco e niente del prima di Ermal.
*
Devono parcheggiare ad un paio di strade dal locale. Roberto ha invitato Gemma perché ci vede lungo, e quando Fabrizio ha aggrottato le sopracciglia in un'espressione preoccupata ha alzato gli occhi al cielo, gli ha tirato uno scappellotto e ha detto: “Ha una spilla con scritto pride attaccata allo zaino.”, e Fabrizio si è sentito vagamente meglio.
Ermal li sta aspettando fuori dal locale, la giacca di pelle a coprirgli le spalle e una maglietta bianca e sottile con lo scollo a V; sta muovendo distrattamente le dita sullo schermo del cellulare, senza guardarlo davvero.
Roberto richiama la sua attenzione con un Oi che gli fa alzare il capo; gli si stendono le labbra in un sorriso mentre si fa scivolare il cellulare nella tasca dei pantaloni neri su cui si curva la luce, e Fabrizio si passa nervosamente le dita tra i capelli, spingendoli all'indietro.
Due ragazze si stanno baciando a pochi passi da Ermal, tutte risate che sanno di alcol e mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans.
Roberto si lascia scivolare il cellulare in tasca: “Gemma dice di cominciare a prendere un tavolo.”
Fabrizio si scansa per far entrare Ermal prima di lui.
Ermal gli sorride, e quando abbassa il capo i ricci gli ricadono sugli occhi.
*
Finiscono a ballare.
Prima finiscono su un divanetto stretto perché Roberto e Gemma occupano quello di fronte, e Fabrizio scopre che Ermal ha le gambe lunghe quanto le sue e le loro ginocchia continuano ad urtare il tavolino o scontrarsi quando seguono il ritmo della musica.
Fabrizio prende solo una birra, Ermal scuote il capo quando si offre di prendere qualcosa anche a lui. Roberto e Gemma sono nel loro mondo e Fabrizio si schiarisce la voce due volte prima di chiedere ad Ermal dell'Università.
Ermal studia Lingue, come Roberto. Fabrizio lavora nell'officina di suo padre. Nessuno dei due sa bene cosa se ne faranno di queste cose con cui si riempiono le giornate. Ermal dice: “Non c'ho mai capito assolutamente niente di macchine,” mentre se ne sta col mento poggiato sul palmo della mano, il gomito sul tavolo; si è tolto la giacca e Fabrizio pensa che ora ogni tanto lascia che le loro ginocchia si scontrino apposta.
Fabrizio fa un mezzo sorriso, prende un sorso di birra. “Col padre meccanico per forza di cose,” lascia un po' la frase in sospeso.
Ermal si fa vibrare un breve mmmh tra le labbra e non gli chiede altro, lascia vagare gli occhi sul resto del locale semibuio dove c'è gente che balla. Gli chiede: “Ti va?” e inclina il capo, i ricci che seguono il movimento.
Fabrizio dice: “Ballo malissimo.”, perché è equo che lo avverta.
Ermal ride: “Anche io.”
*
Finiscono a ballare. Malissimo.
Non hanno idea di cosa fare, non finché Ermal non prende un respiro profondo prima di allacciargli le mani dietro al collo con un passo avanti e Fabrizio poggia le proprie sui suoi fianchi, esitando per un attimo finché Ermal non gli preme il viso contro l'incavo del collo.
È più semplice quando Ermal gli poggia le labbra contro la pelle e Fabrizio gli stringe le dita sui fianchi, quando smettono di seguire la musica e sentono solo il sangue che gli scorre nelle orecchie e i loro respiri leggermente affannati.
È semplice quando Fabrizio gli chiede: “Vuoi venire da me?” e Ermal annuisce con gli occhi lucidi e le labbra gonfie. Fabrizio si sente un livido sottopelle vicino alla clavicola.
*
Ermal si lascia scappare una risata quando vede la Punto e si copre immediatamente le labbra con le mani, gli occhi spalancati che ancora ridono. Fabrizio gli lancia un'occhiataccia che avrebbe più effetto se non fosse distratto dal modo in cui i ricci di Ermal sono stati scompigliati dalle sue dita.
Ermal solleva le mani in un gesto di resa: “Non ho diritto di parola, io mi sposto in metro.”
“Ecco.”
Ermal tamburella con le dita sulle proprie gambe mentre Fabrizio guida – prova a guidare, non riesce a smettere di seguirne il movimento.
“Qualche problema?”
Fabrizio gli lancia un'occhiata, distogliendo lo sguardo dalla strada o dalle sue dita per un momento, vede il sorriso furbo sulle labbra di Ermal, il modo in cui solleva le sopracciglia in una piccola sfida. Si sente un sorriso sulle labbra quando ci passa la mano, forzando il proprio sguardo sulla strada, tra le proprie dita mormora: “Stronzo.”
Ermal butta la testa all'indietro e ride.
*
Ermal ha i ricci sparsi sul cuscino, le guance e il petto colorati di rosa, di rosso dove Fabrizio ha posato le labbra, ha le gambe avvolte attorno ai suoi fianchi, le cosce che gli scivolano contro la pelle, ha gli occhi chiusi e la bocca spalancata anche se non emette un suono, solo gemiti di gola che rimangono incastrati tra le sue labbra e quelle di Fabrizio.
Fabrizio ha la voce roca che inciampa nei respiri con cui cerca di riempirsi i polmoni quando mormora: “Prima tu.”, ed Ermal getta la testa all'indietro, la gola scoperta, la mano di Fabrizio tra di loro, solo respiri pesanti e pelle contro pelle nel silenzio della stanza.
*
Fabrizio fuma. Si sente troppa energia sottopelle.
Ermal gli lancia un'occhiata di sbieco, le palpebre pesanti; non sembra abbia intenzione di muoversi. Ha le gambe ancora mezze intrecciate a quelle di Fabrizio. “Quella roba uccide,” biascica.
Fabrizio guarda per un attimo la sigaretta prima di poggiarci contro le labbra: “Così dicono.”, che non ha molto senso e metà parole gli finiscono nella sigaretta che ha tra le labbra.
Ermal ruota gli occhi. Ha ancora i ricci sparsi sul cuscino, le mani che vagano pigramente sul petto; allunga un braccio come se gli costasse una fatica immensa e gli toglie la sigaretta di bocca, ignora l'ehi di Fabrizio che non è difficile da ignorare e se la porta alle labbra, le guance incavate mentre prende una boccata prima di spegnerla nel posacenere sul comodino.
Butta un braccio attorno ai fianchi di Fabrizio e chiude gli occhi.
Fabrizio ci mette un minuto buono a smettere di guardarlo.
*
La sveglia sul comodino suona e Fabrizio si sveglia di colpo anche se tiene a malapena aperti gli occhi, c'è un peso rassicurante sul suo stomaco e un calore contro il suo fianco che non gli è familiare – sbatte le palpebre e i ricci di Ermal sono la prima cosa che vede, ha la spalla che gli sta facendo da cuscino ed è ancora nudo e ha bisogno di una doccia prima di andare a lavoro e merda.
Ermal arriccia il naso in un'espressione scontenta quando Fabrizio sfila il braccio da sotto la sua testa, sbatte lentamente le palpebre con uno sbadiglio mentre Fabrizio è già in piedi, della biancheria pulita buttata sul braccio.
���Addirittura cerchi di scappare dal tuo stesso appartamento,” dice Ermal attorno ad uno sbadiglio, la voce ancora profonda che distrae Fabrizio, “Non pensavo fosse stato così male.”
Fabrizio si gira a guardarlo con un'occhiata incredula – che è un errore perché Ermal è ancora nudo nel suo letto, ha rimpiazzato Fabrizio con un cuscino e ci ha poggiato il mento, e Fabrizio si sporge senza pensarci, gli preme un bacio contro le labbra che è più denti e respiro che altro e si sente le dita di Ermal sulla nuca. “Devo andare a lavoro.”
Ermal si mordicchia il labbro inferiore. Ha le guance tinte di rosa. “Okay,” dice, con quel tono che viaggia appena sopra il suo respiro e Fabrizio ha già imparato ad associare ad una certa luce nei suoi occhi.
“Dovremmo rivederci,” gli dice, di getto.
Ermal alza gli occhi da sotto i ricci, un sorriso lento e assonnato sulle labbra: “Decisamente.”
*
Fabrizio trova un numero di telefono scarabocchiato su un post-it sotto il posacenere nella camera da letto quando torna da lavoro, i vestiti macchiati d'olio e dei lividi sul petto su cui ogni tanto preme le dita.
*
Hai da fare stasera?
Dimmelo tu.
*
Hanno Netflix aperto sul portatile di Fabrizio e una pizza a testa, e Fabrizio non sa se sia così che deve funzionare ma Ermal lo sta guardando col suo sorriso furbo.
“Che?” gli chiede alla fine, esasperato dal silenzio e dagli occhi di Ermal che continuano a studiarlo mentre scorre inutilmente la sezione dei film consigliati.
Il sorriso di Ermal si allarga solo in parte, chiuso a metà dove i denti gli affondano nel labbro inferiore: “Niente. Mi sto chiedendo quanto ti ci vorrà a venire a baciarmi.”
Fabrizio chiude il portatile.
Non molto.
*
Ermal riempie quegli spazi che prima erano vuoti di cui Fabrizio non si era nemmeno accorto.
Riempie le sere dopo che Fabrizio è tornato da lavoro, le Domeniche pomeriggio che gli pesano nello stomaco, il suo appartamento la mattina presto quando ha lezione più tardi. Riempie il suo letto e i Sabati notte quando tenta di accendersi una sigaretta prima che Ermal gliela tolga di bocca e si metta a parlare.
Gli parla dei corsi che sta seguendo e degli esami che dovrà dare e ha una ruga tra le sopracciglia su cui Fabrizio passa le dita. Poi lo bacia. A volte lo bacia e basta.
Roberto gli tira un calcio sotto al tavolo quando si presenta alla mensa dell'Università per la prima volta, ma un angolo delle sue labbra è arricciato verso l'alto.
Impara una cosa di Ermal che glielo fa odiare per qualche ora, quando Ermal si presenta a casa sua con un maglione arancione con sopra una zucca nera il giorno di Halloween, una busta piena di caramelle che gli pende da un braccio: Ermal è innamorato della vita. Ne è innamorato in quel modo che fa più male che bene, in quel modo che viene solo dopo averla odiata e che gli fa chiudere gli occhi quando c'è vento, e che ha a che fare con le cicatrici che ha sulla schiena. Ne è innamorato in modo insopportabile, non se ne rende neanche conto del modo in cui brilla senza sforzo, come se gli venisse da dentro, un fuoco sempre acceso e Fabrizio si sente un idiota, travolto, con la sua piccola vita e il suo piccolo appartamento e le sue piccole ambizioni che nemmeno ha il coraggio di dirsi a bassa voce.
Gli chiude praticamente la porta in faccia con una mezza parola e si lascia divorare dal senso di colpa fino a notte fonda mentre fuma una sigaretta dopo l'altra. C'è Ermal anche nelle dannate sigarette.
Puoi venire da me stasera?
Per favore
Non dirò niente se non vuoi
Ermal ha gli occhi rossi e il viso pallido, i ricci tenuti indietro da una fascia. Ha le braccia incrociate sul petto.
Fabrizio fa per prendergli lo zaino come farebbe sempre prima di premergli un bacio sulle labbra, ma Ermal ha qualcosa negli occhi che lo inchioda alla porta.
“Sono un idiota,” gli dice, gli si spezza la voce. Lo è.
Ermal si schiarisce la voce: “Dimmi qualcosa che non so.”
Fabrizio lo prende alla lettera: “Mi sono licenziato.”
La posa di Ermal crolla, le braccia gli pendono vicino ai fianchi. Fabrizio si sposta di lato per lasciarlo entrare.
*
Ermal ha le braccia avvolte attorno alle ginocchia mentre Fabrizio cerca di spiegare. Che Ermal ama la vita in un modo che costringe Fabrizio ad amarla un po' di più. Che gli ci è voluto un po' a riconoscere che era amarezza che si sentiva nello stomaco. Che ora si sente insopportabilmente vivo e certe cose gli vanno troppo strette – ma non Ermal. Mai Ermal.
Ermal lo guarda, sbatte lentamente le palpebre: “Non sono niente di quello che stai dicendo.”
A Fabrizio viene da ridere, un suono isterico che gli esplode tra le labbra, distoglie lo sguardo da Ermal e scuote leggermente il capo: “No, sei solo – tutto.”
È anche tutte le cose che lo terrorizzano.
Ma la cosa è che – quando non hanno più voce Ermal prende posto prepotentemente sotto al suo braccio, col visto affondato testardamente nel suo maglione, un altro vuoto di cui Fabrizio non si era accorto. E Fabrizio non ha paura.
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VARESE!AU PARTE 4
Oooooh, finalmente ci siamo! La attesissima ma da chi parte 4 della AU ambientata sul lago di Varese, plottata sempre da me e dalla intaggabile @IriennevaplusI. <3
Finalmente siamo giunti all’appuntamento e non solo, quello che si può definire quasi il cuore di questa fanfiction a punti.
Bando alle ciancie! Per chi se le fosse perse, ecco le parti precedenti necessarie ad avere un senso logico nella lettura:
PARTE 1 • PARTE 2 • PARTE 3
Buona lettura!
Questa quarta parte inizia con il tin dell'ascensore ed Ermal che si volta e trova un Bizio che è già li ad aspettarlo e c'è un .EXE COSMICO DELL'UNIVERSO CHE MANCO LE SCENE DEI FILM DISNEY QUANDO LA PRINCIPESSA SI ANNUNCIA AL POPOLO, sembra di stare in una bolla tutta loro, la hall è deserta e nessuno fiata, ERMAL SUDA FREDDO PERCHÉ VEDE TIPO UN TERZO DEL PETTO DI FABRIZIO ED È VESTITO. FABRIZIO SENTE EFFETTI STRANI IN MOLTEPLICI PARTI DEL SUO CORPO PERCHÉ CAZZO ERMAL HA QUEI PANTALONI E LE MANI CE LE HA IN TASCA E I RICCI GLI RICADONO SUGLI OCCHI E LO FISSA CON QUELLO SGUARDO E QUEL MEZZO SORRISO E-
Fabrizio.exe, proprio non riesce a capacitarsi che sto ragazzo ha veramente dei pantaloni di pelle nera nell'armadio e non gli guarda quelle cosce fasciate dalla pelle più del dovuto no no
COMUNQUE SI FISSANO PER UN MINUTO BUONO PRIMA CHE ERMAL SI SCHIARISCA LA VOCE E FACCIA PER DIRE QUALCOSA, COSA NON SI SAPRÀ MAI PERCHÉ FABBRÌ GLI SPARA UN "SEI SPLENDIDO" UNA LUCE VERA E PROPRIA, aggiunge nella sua testa
Ermal PER UNA VOLTA riesce a gestire abbastanza bene la situazione, dopotutto ha prenotato lui e deve fare la figura dell'ospite QUINDI gli sorride come un bimbo felice e gli risponde "Anche tu lo sei, Bizio" e poi lo prende sottobraccio prendendolo in giro e si avvia insieme a lui all'uscita. Fabrizio non è molto abituato ai complimenti e piuttosto che guardare dove va rimane con la testa girata ad osservare il profilo di Ermal, e dopo un attimo gli schiocca un bacio sulla tempia
La luce del tramonto rende tutto caldo e quieto, il caldo del pomeriggio sta lasciando spazio ad un venticello piacevole e mentre vanno al ristorante se la prendono con calma e iniziano a chiacchierare, molto a loro agio. se si esclude l'attrazione in stile calamita che DIOBO COME SE FA, ma riescono ad ignorarla al momento Camminano in silenzio e stanno letteralmente uno appiccicato all’altro e si sfiorano le mani (involontariamente e non) in CONTINUAZIONE
Dopo un paio di minuti si allontanano dalla strada, Ermal sceglie la strada più lunga per arrivare al ristorante (la stessa percorsa il mattino prima) e poco per volta iniziano a parlare di cose piacevoli, si raccontano di com'è iniziata la loro passione per la musica e se ne escono pure con un paio di aneddoti divertenti di quando erano piccoli Bizio che HO TROVATO UNA CHITARRA IN SOFFITTA e si stringe nelle spalle, Ermal che ha iniziato a suonare perché si era rotto una gamba e QUALCOSA LA DOVEVA PUR FARE
A metà strada Ermal si blocca in mezzo alla ciclabile perché una bambina lo ha indicato dicendo qualcosa sui fiori blu della giacca ed eccolo che si piega su un ginocchio e le chiede come si chiama, se le piace la giacca e prima di tornare da Fabrizio le regala un fiore scompigliandole leggermente i capelli.
Quando si rialza, ancora sorridente, e vede Fab incantato gli fa “Che c’è?”
“Ti piacciono proprio i bambini”
“Si, sono bellissimi” Fabrizio scuote la testa chiedendosi quanti lati di Ermal gli faranno venire ancora le farfalle allo stomaco (per ora siamo a quota: TUTTI) e "Continui a soprendermi" Ermal sorride e “Spero in positivo" che marpione
Arrivano al ristorante e Ermal scruta Fabrizio perché insomma, era una sorpresa e Fabrizio è raggiante, seriamente, nessuno faceva qualcosa per lui da anni, quindi Ermal poteva portarlo anche a una discarica e lui sarebbe stato felice lo stesso
Al che si gira e lascia la mano di Ermal (dopo averla stretta un altro pochino) per mettergliela sulla guancia, carezzandogliela e non voglio dire che Ermal fa quasi le fusa, ma fa quasi le fusa dopo un attimo di trance, in cui Fab gli ha sussurrato un grazie, gli dice prontamente “aspetta a ringraziarmi, non so ancora com’è il cibo” (BRAV ERMAL SEMPRE SUL PEZZO) Fab ride ed entrano.
Il tavolo è abbastanza minimal e come centrotavola c’è una candela accerchiata da delle conchiglie. Si siedono e dopo un attimo di... non imbarazzo, ma un silenzio che da un’aria sospesa??? Ecco quello- viene interrotto dall’ordinazione del cameriere. Mentre attendono ricominciano a parlare e neanche si rendono conto di quanto cercano il contatto fisico, cosa che sconvolge Ermal che non ne è mai stato un grande amante e anche con la sua ex non ci stava appiccicato come una cozza, perlomeno non in pubblico, mentre con Fab si sentiva attirato letteralmente come una calamita, tanto che anche dopo che arriva il cibo continuano a sfiorarsi le caviglie a vicenda.
“Io non sono così solitamente, sai?”
“Così come?”
“Fisico. Non amo essere toccato, soprattutto da persone che conosco da poco, mentre con te... non so cosa mi è successo.”
“Io cerco molto il contatto fisico, forse troppo, dimmelo se ti do fastid-“
“Non mi daresti mai fastidio, non tu” e gli preme la caviglia contro la sua. E da lì iniziano a parlare, di tutto, letteralmente.
Fabrizio gli racconta del rapporto travagliato che ha col padre, che lo ha spinto a quasi fuggire lì a Varese a lavorare per la stagione estiva grazie all’aiuto di un suo amico, zio del titolare. Ermal accenna cose della sua infanzia, di suo padre, della fuga in Italia e della sua voglia di lasciare un segno nella musica italiana, quasi fosse un riscatto, una rivincita nei confronti di un passato che lo tormentava. Gli aveva raccontato di come aveva conosciuto i suoi amici che erano lì con lui, che nonostante li prendesse in giro costantemente li amava come se fossero suoi fratelli. Ermal aveva dei progetti, degli obiettivi, Fabrizio no. Riuscì a raccontargli di come si sentiva perso in un mondo in cui non aveva fiducia, salvato solo da quei pochi affetti che lo legavano alla sua amata Roma. Gli raccontò del suo concetto di pace, che cercava disperatamente, mentre Ermal in silenzio lo ascoltava e lo capiva.
In una sala piena di gente, erano chiusi in una bolla: gli altri erano un mormorio indistinto, Ermal lo guardava sempre negli occhi, osservava e accarezzava con lo sguardo ogni suo singolo gesto mentre Fabrizio, introverso di natura, vagava ovunque con lo sguardo, anche se aveva una predisposizione per l’osservare le mani di Ermal.
Quello che stavano amando l’uno dell’altro era che riuscivano ad ascoltarsi: nessuno prevaricava sull’altro, si sentivano così bene.
Fab è così contento che se glielo avessero detto non ci avrebbe mai creduto: passano dai discorsi seri alle cazzate, per poi tornare a questioni quasi di carattere filosofico, tanto che neanche si rendono conto di aver finito la cena da quasi un’ora, se ne accorge solo quando Ermal si gira ad osservare la sala e la ritrova dimezzata, sono quasi le due di notte.
Entrambi si alzano ed Ermal insiste nel pagare per entrambi, Fabrizio gli deve dire praticamente venti volte che non è il caso, che non vuole che spenda dei soldi per lui, ma Ermal non vuole sentir ragione, "se insisto è perché lo faccio volentieri bizio!" replica con un sorriso rassicurante anche se un poco esasperato, e Fabrizio è costretto a lasciar perdere
Una volta usciti si fermano ancora per un po' sul vialetto bianco di fronte all'ingresso, accendendosi una sigaretta. Ermal sta guardando in su, e Fabrizio segue il suo sguardo e si perde con lui ad osservare il cielo stellato "È bellissimo, non è vero?"
Fabrizio esita un momento prima di rispondere, perso nei suoi pensieri “Ti voglio ringraziare, sai te sei fidato tanto di me da confidarti. Per me significa molto, nessuno è mai stato tanto sincero co' me dopo così poco tempo"
Ermal abbassa lo sguardo per scrutare nei suoi occhi. "Mi sembra quasi di aver aspettato questo momento, anzi, te, per anni" Fabrizio lo guarda con crescente ammirazione e sente il suo cuore accelerare. Una cosa è certa, non ha mai incontrato nessuno nemmeno lontanamente simile ad Ermal, e soprattutto, non ha mai provato emozioni tanto forti per nessun altro. Le sue parole gli riecheggiano nella mente, nel cuore, nell'addome e sente il cuore pompargli sangue nelle vene velocemente, e ad ogni respiro pensa a quanto si ritrovi nelle parole di Ermal, quanta verità racchiuda una frase così breve
Sono anni che ti aspetto, pensa. Di colpo vorrebbe avere un pianoforte di fronte a sé, o la sua chitarra accanto, per poter vomitare pensieri e sentimenti, metterli in musica, esprimere tutto ciò che Ermal è diventato per lui. (Si ripromette di provarci, una volta che l'altro sarà andato a dormire, anche a costo di nom chiudere occhio)
Entrambi hanno gettato la sigaretta da un po', e Fabrizio fa un passo per avvolgere Ermal nelle sue braccia e baciargli lentamente il collo. Ermal rabbrividisce sotto le sue labbra e un momento dopo allontana il volto per poterlo guardare in faccia.
Fabrizio sta illuminato, letteralmente lampo di genio in corso “Su vieni, mi è venuta un'idea"
Arrivati all'hotel (mezz'ora dopo perché ovviamente alla fine hanno allungato il giro andando sul lungolago) Fabrizio lo trascina attraverso la hall e nuovamente all'esterno. La tipa che fa il turno la notte gli deve un favore e fatto sta che si ritrovano tutta la piscina per loro, Fab si ricorda di alcune lanterne che avevano per le festività (vedi la notte bianca o simili) e ne mette qualcuna a bordo piscina romanticone per poi iniziare a spogliarsi “Beh che fai, non entri?”
“Fabbrì non ho il costume”
“E che credi che io ce l’ho addosso? Entra in mutande, chi vuoi che ci veda
Ovviamente non si vede nessuno in giro sono le due e mezza di notte dopotutto, ed Ermal si avvia verso un ombrellone posando sul tavolino il cellulare e la giacca, girandosi poi verso Fabrizio e iniziando a spogiarsi velocemente a sua volta.
Ermal è in boxer rigorosamente bianchi, Fabrizio.exe sul bordo della piscina, e i riflessi dell'acqua gli dipingono la gamba sinistra e il petto. Fabrizio fa in tempo a togliersi le scarpe che alzando lo sguardo vede Ermal avvicinarsi e passare i pollici sotto l'elastico dei boxer.
Fabrizio in quel momento SA che se li sta per togliere e tutto quello a cui riesce a pensare è "NO"
Al che si getta in avanti, ancora mezzo vestito e gli afferra i fianchi buttandosi con lui in piscina e quando riemergono Ermal soffoca una risata perché sembrano entrambi due pulcini bagnati per non farsi sentire da tutto l'hotel e "che ti è preso???" Fabrizio non risponde subito perché si è accorto che GUESS WHAT BIZIO sono fradici e non si è assolutamente perso nel fissare le gocce d'acqua rotolare tra e giù per i riccioli dell'altro. Pure Ermal si è dimenticato un secondo come respirare perché ASPE i capelli e le ciglia lunghe di Fabrizio sono bagnati e lui non lo aveva mai visto in piscina STO RAGAZZO LAVORA SEMPRE ed è bellissimo.
Bizio nuota a bordo piscina appoggiandocisi e sibilando tra i denti un "meno male che eri te quello indeciso", ed Ermal lo raggiunge in tempo zero.
"Non ci pensare. -gli dice di punto in bianco Fab voltandosi a fissarlo- Non pensare nemmeno di spogiarti del tutto qua, dove chiunque può arrivare e vederti." Gli occhi gli brillano improvvisamente dalla gelosia ed Ermal sta in modalità NOT FOUND e non trova nemmeno una delle sue frasi ironiche con cui controbattere. Questo lascia il tempo a Bizio di aggiungere "e in più io non ti ho ancora visto, non permetterò che qualcuno arrivi bello bello e condivida st'esperienza co' me" e la sua voce di è fatta fin troppo roca.
Ermal ancora non ha trovato un modo soddisfacente con cui rispondergli senza fare una figura pessima, perciò gli afferra la nuca e fa scontrare le loro labbra bagnate, facendo scontrare insieme anche i loro fianchi e cazzo Fabrizio ha ancora i jeans addosso e il contatto gli manda scintille ovunque, e basandosi sul gemito trattenuto di Fabrizio, anche lui non è messo meglio.
Fabrizio sa di non potercela fare quindi con poche bracciate si allontana e inizia a farsi la vasca avanti e indietro per scaricare la tensione, mentre Ermal si perde un attimino ad osservare il torso nudo dell'altro contrarsi e rilassarsi ad ogni bracciata CHE VISIONI
Fabrizio gli sbuca davanti schizzandolo apposta in piena faccia e li parte una guerra breve ma intensa di manate e risate e insulti detti a bassa voce sono due bambini BAST
Nuotano, si appoggiano al bordo piscina stremati e senza fiato, si tuffano e si fanno i dispetti nell’acqua per un tempo indefinito
Arriva un punto in cui c’è Fab appoggiato di schiena al muretto nella parte della piscina in cui riesce a stare in piedi e mentre sta lì col fiatone per essere appena fuggito da Ermal che lo tirava giù nell’acqua dai piedi si ritrova Ermal che sbuca da sott’acqua davanti a lui, lui stesso col fiatone che ride come uno scemo perché non faceva cose del genere con qualcuno che non fosse della sua solita compagnia da secoli e Fab ride a ruota, mettendogli la mano sul collo e “Pausa, te prego, nun riesco più a respirà” ed Ermal avvicinandosi di più gli dice “Va bene” mentre praticamente gli si spalma addosso, chiudendolo tra il suo corpo e il muretto della piscina
Inizialmente continuano ad alternare fiatone a risate perché essenzialmente hanno 3 anni in due mentre hanno le fronti una appoggiata all’altra, finché Ermal finalmente inizia a baciarlo COME SI DEVE con una lentezza esasperante che fa impazzire Fabrizio, soprattutto quando, stronzo com’è, inizia a leccargli il collo catturando le gocce d’acqua che gli scivolavano dai capelli e arriva a un punto in cui Fab non ce la fa più e inverte le posizioni mettendo Ermal al muretto che ghigna soddisfatto incrociando le gambe sui fianchi di Fabrizio che ricomincia a baciarlo strusciandosi su di lui mentre gli mette una mano tra i riccioli bagnati
Fatto sta che passano tipo altri 20 minuti avvinghiati così e le due erezioni leggermente evidenti di entrambi devono essere risolte in qualche modo e si guardano come a dire “dove cazzo andiamo senza essere denunciati per atti osceni in luoghi pubblici”
Entrambi escono dall'acqua mangiandosi con gli occhi. A Ermal viene un lampo di genio e
“Hai le chiavi della sala col pianoforte?”
“Posso prenderle nella stanza del personale nella hall, perché?” e immaginiamoci ermal con le sopracciglia (coff coff QUALI AHAHAH) su e un ghigno che dice tutto
Fab che “AAAAAH buongiorno Bizio sempre sul pezzo cerca di asciugarti il più possibile, intanto vado a prenderle”
Quindi sti due si ritrovano a sgattaiolare tra i corridoi dell’albergo mezzi bagnati, con i vestiti umidi e sbottonati, i capelli totalmente bagnati mentre mano nella mano, proprio a dita incrociate, vanno verso la dannata stanza mentre sono tutti un “shhhh non fare rumore” “ma se sei tu il casinista!” “Aò ma che stai a dii” e ridono
GRAZIE A CHUCK DIO riescono ad entrare nella benedetta stanza e rimangono qualche secondo fermi, uno accanto all’altro che osservano la stanza illuminata solo dalla luna che si riflette sul lago e la luce che si riflette sul piano e Fab accarezza il dorso della mano di Ermal con il pollice e “se vuoi fermarti qui non c’è problema per me sai?” E ermal che “Ma mi hai visto?” E stacca la mano dalla sua solo per tornare a baciarlo OVUNQUE, letteralmente, non riesce a stare fermo e si lascia sfuggire un “sei bellissimo” che fa realmente rabbrividire Fab ed Ermal se ne accorge, tanto che torna a guardarlo accarezzandogli la guancia e Fab dal nulla lo abbraccia e gli sembra assurdo perché non si erano ancora realmente /abbracciati/ proprio lo stringe fortissimo e ad ermal pare assurdo che il cuore gli inizi a battere all’impazzata per QUESTO
Appena si staccano vanno verso il divano, Fab si siede e Ermal si mette a cavalcioni su di lui mentre tornano a togliersi quei pochi vestiti bagnati che avevano addosso e Fab lo prende così, su quel divano al buio in una stanza riempita solo da divani/poltrone e un piano dove l’unico suono era quello dei loro gemiti che FIGURATI se hanno trattenuto, tanto in quel piano c’erano solo pochissime camere perché c’era anche la sala da pranzo che li divideva e, nonostante non avessero niente per prepararsi, il fatto che erano entrambi bagnati dal bagno in piscina aveva aiutato
Dopo l’orgasmo si sistemano stesi tutti intrecciati sul divano, nudi e bagnati perché ancora umidi, sudati e chi più ne ha più ne metta con Fab che gli sfiora i riccioli alla base del collo e “Ti piacciono proprio, eh?”
“Si” e si avvina per strofinare quella parte col naso e le guance mentre Ermal sorride
“sentiti onorato, non amo farmi toccare i capelli”
“questo mi rende speciale?”
“Lo sei” e Fab torna a baciarlo in una maniera dolcissima, anche dei semplici baci a stampo che asdfghjkl
Fatto sta che passano altro tempo così fino a quando si rendono conto che si sta facendo DAVVERO tardi, sono tipo le 4:30 di notte e anche se fortunatamente quel lunedì Fab ha il turno di pomeriggio devono pur dormire
Quindi molto tristemente decidono di alzarsi per rivestirsi, anche se si sentono così felici che ogni tanto si fermano anche solo per guardarsi e baciarsi
Si lasciano allo stesso punto dell’ultima volta e “Ci vediamo domani?”
“Certo, se vuoi facciamo colazione insieme”
“Per le 10:30 va bene?”
“Fai anche alle 11”
E IMMAGINATEVI ERMAL CHE ENTRA DI SOPPIATTO IN CAMERA CERCANDO DI NON SVEGLIARE GLI ALTRI aka entra quatto quatto nella stanza chiudendosi subito in bagno per mettersi delle robe asciutte e ringrazia il cielo che Dino e Vige abbiano il sonno pesante e quando si butta sul letto c’è questo strano momento in cui Montanari allunga il braccio per accendere la luce sul comodino, Ermal si gira con una faccia sconvolta ancora in post-sesso, i capelli umidi e improponibili e Macco che lo guarda aggrottando le sopracciglia mentre Ermal lo guarda con uno sguardo da “che vuoi?” Seguito da un altrettanto sguardo da “domani ti spiego” e Macco spegne di nuovo la luce senza dire una parola per poi rigirarsi
Ermal che, nonostante sia stanchissimo e dolorante perché insomma non lo prendeva da decisamente troppo tempo, riesce a dormire poco e niente perché ripensa solo alla serata appena passata
E nulla, per oggi chiudiamo qui! Direi che questa parte è bella ricca e sostanziosa, fateci sapere cosa ne pensate, siamo sempre curiose di conoscere il vostro parere! <3
Speriamo che vi sia piaciuto, la prossima dovrebbe salvo imprevisti aka troppo materiale essere l’ultima parte, quindi preparatevi!
Buon ferragosto a tutti, alla prossima ✨
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