#meraviglia sottovalutata
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amamiofacciouncasinoo · 8 months ago
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“Dove vai quando hai bisogno di staccare la testa?” :
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molecoledigiorni · 1 year ago
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Una sensazione sottovalutata la malinconia. A volte nasconde strati di meraviglia, può restituire la parte più autentica e ridare completezza di sé.
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thegianpieromennitipolis · 1 year ago
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
RADICALE ANTITESI
"Botero" dallo spagnolo in italiano si traduce in: fabbricante di borracce. Uno di quei casi, non so quanto rari, che i latini appellavano con l'espressione "nomen omen", il destino è nel nome. Fernando Botero (1932 - 2023) lascia, come ogni artista contemporaneo, una fama controversa, divisa tra estimatori dell'originalità delle sue opere e scettici se non addirittura ostili alle sue espressioni pittoriche e plastiche. A questa condizione si aggiunge anche la percezione negativa data dal valore rilevante di mercato cui è giunta la sua produzione: un "peccato" che non viene perdonato da gran parte dell'opinione pubblica. Si tratta di un discorso trito e ritrito: il valore commerciale non ha nulla da condividere con l'apprezzamento o l'esecrazione del risultato artistico, ma rimane nel gioco di domanda e offerta trasferito sul tavolo delle scelte d'investimento. Ora, mantenendo la barra sul tema strettamente figurativo, ci si trova di fronte a creazioni originali, "significanti" che perdono la seconda, indispensabile parte della struttura del segno, il "significato". Così, appare la traccia di un estetismo che affonda le radici nella tradizione culturale latino-americana per la quale i corpi - e le cose - rispecchiano uno stato di beatitudine e di potenza vitale quando appaiono dilatate, piene, solide, tondeggianti. Si pensi a un frutto e facilmente si comprenderà questo paradigma. La vividezza è nella forma che cresce e racchiude. Una radicalità riflessa nelle immagini. Immagini irreali di mondi irreali. Tradizioni che solcano il pensiero delle generazioni per tradizione. Piacciano o non piacciano: il giudizio di gusto sul bello e sul brutto possiede fondamenta fragilissime. Quel che veramente conta è l'esito di un racconto immaginario nel quale l'espandersi colma la scena, la riempie e la riscrive destando meraviglia mediante un effetto di straniamento. Lo straniamento che induce a riflettere sulla retorica del modello classico. Anche quando tocca il sacro, non intende ridurre a grottesco ma riallacciare l'immagine religiosa alla traccia di vitale appartenenza a una differente modalità, estetica e persino etnica, di rappresentazione. In Europa, è stata accolta la pittura "naïf" e più in generale, tra il "Vecchio continente" e l'America Latina, s'è affermata la corrente artistica denominata del "Realismo Magico": da Henri Rousseau a Frida Kalho, dai nostri Felice Casorati e Antonio Donghi fino al nordamericano Edward Hopper e al tedesco Christian Schad. Si rifletta sulle opere di Diego Rivera, sulle espressioni del "Ritorno all'ordine", su "Novecento" e "Nuova Oggettività", sulle figurazioni dei regimi in Italia e in Unione Sovietica negli anni Venti e Trenta. E si pensi a una dimensione espressiva sottovalutata come i fumetti e i cartoons. Il ragionamento sull'arte contemporanea deve lasciare nell'oblio la bellezza - concetto vuoto - per aprire varchi verso un'esplorazione complessa, talvolta urticante, sempre ricca di origini e possibilità, variegata, talvolta sintetica, paradossale, spesso sorprendente. Soprattutto, estranea a una connotazione, appena accennabile in una denotazione. L'arte, invenzione umana, ha un solo scopo: lasciarsi osservare. Nient'altro.
- Fernando Botero, "Picnic", 1982, collezione privata
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petalesderevolution · 1 year ago
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Verona città ingiustamente sottovalutata secondo me. Io sono innamorato perso della città
Assolutamente d'accordo. Dispiace sempre quando vedo gente (specialmente turisti) che va esclusivamente per vedere la casa di Giulietta o la sua tomba, ci sono così tanti bei posti un po' più lontano dal centro. Poi i colori degli edifici che meraviglia che sono💌
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valentina-lauricella · 2 years ago
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Steampunk ante litteram
L'intelligenza (nel senso etimologico derivato da intus legere) della realtà permette di prevedere il futuro a partire dall'analisi dei dati disponibili appartenenti al presente e al passato. Conoscenza, memoria ed intelligenza conducono necessariamente a una visione che potrebbe sembrare premonitrice in senso visionario, ma che in realtà lo è soltanto in senso logico.
Nessuna meraviglia quindi, che un giovane Leopardi, innegabile possessore delle tre qualità sopra citate (conoscenza, memoria e intelligenza), nel 1824, chiuso nel suo borgo ma affamato di notizie dal vasto mondo (che gli servissero anche solo per sbeffeggiarlo), abbia scritto una chicca sottovalutata quale la Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi, in cui prefigura i robot, l'intelligenza artificiale, l'avvento delle macchine sostitutive dell'uomo e, man mano che gli anni passano, e i nostri incubi tecnologici si concretizzano, che tra le stesse righe noi possiamo scoprire altre, e prima inosservate, premonizioni.
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giadametearchitect · 5 years ago
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[STUDIARE] Recentemente ho deciso di ritagliare uno slot di tempo nella mia settimana per dedicarmi allo studio e all'approfondimento di tematiche per me fondamentali. * Prendere consapevolezza di nuove ricerche e nuovi percorsi, apre la propria visione. * Ho capito che non basta fare l'architetto per esserlo! * Ho la sensazione che questa professione sia sottovalutata, è arrivato il tempo di dare nuova linfa e nuovo nutrimento ad un lavoro che ha regalato al mondo storia, cultura ed esperienze di meraviglia. * L'architettura è innovazione, ricerca e stupore condensati in un incredibile risultato tridimensionale, che può cambiare il mondo. * #animarchitettura #giadamete #architetturaolistica #homecaoching #architecture #architetturaconuncuore #architettiperpassione #progettareperlepersone #progettareconlepersone #progettareecostruire #progettarecasa #rivoluzioniculturali #womanarchitect #bioarchitettura https://www.instagram.com/p/B3by2E4ogb7/?igshid=bdxjq20wamzf
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lriennevaplusl · 6 years ago
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Allora premetto che avevo intenzione di iniziare questa AU in tutt'altro modo e so che mi pentirò di questa cosa
MA ieri ho riguardato il concerto di Fabrizio all'Olimpico (sì era un momento difficile ed ero in full ice cream and tears mood) quindi ho sentito la necessità di inventarmi qualcosa di brutto fluff e iniziare l'attesissima (ma da chi)
TUSCANY!AU (PT.1 / PROLOGO ??)
in questo modo discutibile.
Fabrizio sta osservando le luci dell'alba con uno sguardo sereno.
Assaporare quella serenità, sotto le coperte e con Ermal al suo fianco, è un qualcosa che non avrebbe mai pensato di provare.
Se glielo avessero detto due anni prima non ci avrebbe creduto.
E non avrebbe creduto nemmeno che il sogno avveratosi la sera prima sarebbe mai diventato realtà.
L'Olimpico, il grandioso Olimpico, gremito di gente per lui. L'Olimpico dove da bambino sognava, urlava, dove poteva dire di essersi sentito per la prima volta /libero/.
Ancora gli tremavano le mani dall'emozione, gli tremavano le ossa, il cuore.
La serata è stata una costellazione di emozioni fortissime. Vedere Nic davanti a tutta quella gente e cantare con lui "Melodia di giugno" gli aveva riempito il cuore di orgoglio e di felicità. 'Sto ragazzetto è diventato nel giro di poco tempo parte della sua quotidianità, e Fabrizio si è ormai abituato a considerarlo come fosse figlio suo.
《E poi capire che
Non ho che te》
E per anni si era riferito alla musica, alla sua famiglia, alla libertà e alla pace che ha sempre cercato, ogni giorno della sua vita. Ma quel te era una porta aperta, e poteva significare molto altro, Fabrizio ne era consapevole quando lo aveva scritto. Quel te era pieno di non detti, pieno di parole sussurrate e carezze fugaci.
Fabrizio abbassa gli occhi per osservare la massa di capelli di Ermal che, a pancia in giù e con la schieda nuda scoperta, ancora non accenna minimamente a svegliarsi.
Dopo la fine del duetto con Nic si era precipitato in backstage per cambiarsi, e fregandosene di tutti gli orari da rispettare e della canzone che la band già stava iniziando pochi metri più in là, aveva afferrato Ermal e lo aveva baciato, con passione e anche con un briciolo di divertimento nel vedere la sua espressione farsi improvvisamente *scioccata*tm. Non che fosse la prima volta, anzi, dopo Sanremo e specialmente dopo Lisbona il loro rapporto si era fatto molto più intimo di quel che altri potrebbero credere, altri che non fossero i loro amici più stretti e le rispettive band. E nonostante tutto Ermal ancora non si era abituato a dimostrazioni di affetto così sincere.
Nessuno li aveva visti a parte Fiorella, che, in disparte, aveva sorriso intenerita e, soprattutto, orgogliosissima di loro ed Ermal si era concesso di afferrare il volto di Bizio per stampargli un altro bacio veloce sulle labbra.
Ermal, che era salito sul palco con lui e gli aveva regalato alcuni dei momenti più belli della sua vita. Gli era corso accanto, e glielo aveva urlato, che quella realtà era la sua, cazzo!
E quando lo aveva richiamato sul palco se lo era visto arrivare con una chitarra acustica, e aveva detto, così davanti a tutti e in diretta nazionale e con una leggerezza che nascondeva tanto altro, che aveva una sorpresa per lui.
E gli aveva suonato "L'altra metà", incurante dell'opinione della gente e di ciò che avrebbe potuto scrivere di lui la stampa il giorno dopo.
(odio intromettermi ma vi prego se non conoscete quella canzone chiudete questa pagina per un momento, andate ad ascoltarla e sentite che meraviglia di testo ha, è troppo sottovalutata, passo e chiudo)
Fabrizio non ha potuto e non può fare altro che pensare ad Ermal come a una luce, la sua.
La fine del concerto era arrivata come un fulmine a ciel sereno, Fabrizio ricorda con estrema chiarezza i sentimenti che lo hanno investito alle prime note di "Pace". Ricorda il cuore martellargli nel petto, il respiro affannoso, la commozione che gli ha impedito di cantare buona parte della canzone. Ricorda ogni parola cantata dal suo pubblico all'unisono, quell'urlo al cielo scuro di Roma, e ricorda di aver pensato
Ecco la mia pace
Ermal aveva seguito il momento dai camerini e Fabrizio lo aveva trovato seduto su un divanetto, con gli occhi arrossati e un sorriso che avrebbe potuto illuminare tutto lo stadio, e anche di più.
E Fabrizio era quasi corso via con lui, dopo tutti i ringraziamenti e gli abbracci del caso con amici, staff, e anche qualche fan fortunato con il badge al collo.
Era corso via trascinandosi dietro Ermal ed erano entrati nell'appartamento di Fabrizio baciandosi e svestendosi, le mani tremanti, con il solo obiettivo di donare tutto il proprio amore all'altro.
E avevano fatto l'amore, scoprendosi lentamente come se fosse la prima volta.
I ricordi delle ore precedenti fanno scuotere leggermente la testa a Fabrizio, ancora incredulo e molto, irrimediabilmente, innamorato.
Istintivamente una mano corre alla tempia di Ermal, sfiorando con cura una ciocca di capelli arricciati e scoprendogli il volto. Fabrizio si ritrova a canticchiare a labbra chiuse una melodia appena accennata, avendo cura di non svegliarlo.
Dopo pochi secondi sorride e inizia a mormorare le parole che, dalla sera prima, ancora erano rimaste intrappolate nella sua mente, tracciando lievemente una linea invisibile sulla pelle morbida di Ermal
《Se ne andrà questa voglia che brucia / Ma devo ancora darti l'altra metà / di un cuore che hai già / Sei come me, in preda al tempo, che dalle dita ci sfugge via / Sei via da me, ritorna presto, per ritrovare un amore mai perso》
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aneddoticamagazinestuff · 4 years ago
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Roberto Poggi: UNA GENERAZIONE ALLO SPIELBERG - parte seconda
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Roberto Poggi: UNA GENERAZIONE ALLO SPIELBERG - parte seconda
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La distruzione della rete cospirativa creata da Maroncelli non indusse la polizia asburgica ad abbassare la guardia. Mentre i “cugini” languivano nel carcere sull’isola di San Michele di Murano in attesa di conoscere la loro sorte, alcuni rassegnandosi al peggio, altri confidando nella clemenza imperiale, i “lupi”, come erano chiamati i poliziotti nel gergo carbonaro, tornarono ad azzannare nuove prede.
  Il 1° dicembre 1821, il conte Strassoldo, governatore di Milano, ordinò la perquisizione dell’abitazione di Gaetano De Castillia, un giovane avvocato sospettato da mesi di simpatie liberali e di aver intessuto relazioni con la corte di Torino in vista di una invasione del territorio lombardo da parte delle truppe piemontesi. A metter sull’avviso la polizia era stata la denuncia del fratello di Gaetano, Carlo, che nel mese di marzo aveva riferito di una riunione avvenuta in una casa di San Siro, sotto la direzione di Giuseppe Pecchio, al fine di preparare l’insurrezione a sostegno dell’esercito sardo. L’attendibilità dell’informazione, peraltro anonima, era stata inizialmente sottovalutata dalla polizia che aveva ritenuto più prudente raccogliere altre indiscrezioni prima di agire. Quando il governatore ordinò la perquisizione disponeva di indicazioni molto precise, come dimostra l’invito a ricercare in casa De Castillia un sigillo recante l’iscrizione sediziosa “Leggi e non re. L’Italia c’è”.
I poliziotti non si rammaricarono troppo di non aver scovato il sigillo, poiché rinvennero indizi ancora più pesanti di colpevolezza: corrispondenze che lasciavano trapelare il desiderio di “politiche novazioni”, implicandolo con gli avvenimenti rivoluzionari in Piemonte, ed una misteriosa lettre à jour. Tratto in arresto, De Castillia non seppe tacere, compromettendo il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio che fu interrogato, perquisito ed arrestato a sua volta. Il marchese fornì nelle sue memorie una versione piuttosto fantasiosa delle circostanze del suo arresto che non trova riscontro nei documenti: ”Un amico mi reca la dolorosa nuova soggiungendo: sussurrasi che io mi sia procacciata l’impunità col sacrificio del mio compagno. La circostanza dell’aver la polizia imprigionato il Castillia e non me, aveva dato origine all’indegna calunnia. Qual meraviglia che io, invece di cercar scampo nella fuga, attendessi a salvare la mia fama? Me ne vo di filato in polizia e mi consegno prigioniero dicendo: ‘Gaetano Castillia fu da me trascinato in Piemonte; se quel viaggio è riputato delitto, io solo sono il delinquente, io solo sono meritevole di pena!’. (…) Il direttore di polizia non mi ritenne quel giorno. E forse volle procacciarmi l’opportunità di mettermi in salvo, facendomi dire che potevo tornarmene a casa, ma non uscire dalla città… . Passò quel giorno, ed il seguente. Venuta la sera, io me ne andai al teatro Re…”, dove la polizia lo arrestò.
Risulta assai poco credibile che sapendo di rischiare la testa per una accusa di alto tradimento il marchese si sia spontaneamente consegnato alla polizia solo per tutelare il suo buon nome. Ancora più falsa suona l’affermazione secondo cui la polizia, che già aveva avuto sentore delle trame tra cospiratori lombardi e piemontesi, lo abbia rilasciato dopo aver udito una aperta e provocatoria ammissione del suo viaggio a Torino. De Castillia era stato arrestato sulla base di indizi molto più vaghi al confronto. Certamente il prestigio sociale del Pallavicino potrebbe aver fatto la differenza, i documenti ufficiali non offrono però alcuna conferma in merito.
Lasciando da parte le circostanze del suo arresto, quando fu interrogato Pallavicino non esitò a coinvolgere il conte Confalonieri e ad indicarlo come ideatore del suo viaggio a Torino per strappare a Carlo Alberto una promessa di intervento militare. Dichiarò inoltre di far parte della società segreta dei federati italiani e di esservi stato introdotto da Confalonieri. L’ampiezza e la rapidità di tali ammissioni stridono con l’immagine, costruita a posteriori dallo stesso Pallavicino, dell’aristocratico intrepido ed imperturbabile, disposto anche a sacrificare la propria vita pur di allontanare da sé l’ombra di una calunnia infamante.
Immediatamente fu spiccato un ordine di cattura per il conte, che, in violazione delle procedure, fu incriminato per alto tradimento prima ancora di poter presentare elementi a sua discolpa. La testimonianza di Pallavicino fornì finalmente consistenza legale ai sospetti che, soprattutto durante il processo Maroncelli-Pellico, si erano accumulati sul fondatore del “Conciliatore”. Confalonieri rappresentava tutto ciò che il governo asburgico odiava e temeva, un aristocratico che impiegava il proprio denaro in attività economiche innovative, come l’acquisto del battello “Eridano”, che implicitamente mettevano in evidenza quanto gli artificiosi confini imposti dal congresso di Vienna fossero un ostacolo allo sviluppo della valle del Po; un intellettuale liberale che non perdeva occasione per scuotere le coscienze assopite degli italiani, rinsaldare i legami con la cultura riformista europea e sbeffeggiare l’ottusa censura imperiale, lasciando vuoti sulle pagine azzurre del “Conciliatore” gli spazi degli articoli soppressi; un pericoloso cospiratore che non si accontentava di gingillarsi con riti iniziatici e messaggi in codice, ma guardava al Piemonte ed alla sua forza militare per liberare il lombardo-veneto dall’occupazione straniera.
Nel pomeriggio del 13 dicembre 1821, una squadra di poliziotti, al comando dell’attuario Cardani, si presentò a palazzo Confalonieri e fu introdotta nella camera da letto del conte, sorprendendolo mentre questi si stava vestendo assistito da un domestico. La stanza fu rovista da cima a fondo, numerose carte furono sequestrate e stipate in un sacco. Al termine della perquisizione, Confalonieri, come ci informa il verbale redatto dal Cardani, “…addusse un forte bisogno, ed indicando una piccola latrina all’inglese che sta in un piccolissimo stanzino contiguo alla sua stanza da letto chiese di ivi recarsi. Io prima di permettergli l’accesso, sebbene (avessi) già osservato lo stanzino all’atto della perquisizione, entrai in esso per vedere se vi era qualche segreta uscita, ma le indagini (mi) persuasero che non ve ne esisteva sembrando tutto di muro circondato.”. Lasciato alla sua intimità, il conte aprì un passaggio segreto da cui sgattaiolò nel solaio. Cardani ed i suoi uomini impiegarono qualche minuto ad accorgersi della fuga, poi, superato lo stupore iniziale, reagirono con prontezza, nonostante il trambusto inscenato dai domestici e dai familiari per rallentare e forviare le ricerche. Cardani corse a cercare rinforzi con cui circondare il palazzo, mentre i suoi sottoposti frugavano ogni stanza. Il nascondiglio del conte fu ben presto trovato in una nicchia del solaio. Confalonieri cercò goffamente di giustificarsi, dicendo di “…essersi dato alla fuga non con decisa intenzione di evadersi, ma per mettersi per il momento al sicuro, e per presentarsi poi lui medesimo a giustificarsi alla commissione speciale di Milano…”, senza tuttavia riuscire a convincere il Cardani, che considerò la scoperta di un secondo passaggio segreto dietro il letto come la prova che il conte si era da tempo attrezzato per sfuggire ad un ordine di cattura.
Il governatore Strassoldo, pur rallegrandosi per la cattura, non risparmiò a Cardani ed ai suoi agenti una dura reprimenda per i modi rudi e villani con cui avevano trattato la moglie del conte, Teresa, il suo anziano padre, Vitaliano, ed i domestici. In particolare l’epiteto di “donna di malaffare” rivolto da uno degli agenti alla contessa indignò il governatore. A difesa dell’operato di Cardani intervenne il direttore generale di polizia Goehausen che esaltò la prontezza di spirito ed il coraggio del suo funzionario, esecrando al tempo stesso la condotta del conte, degna di uno “scellerato” e non di un “cavaliere”.
Il giorno dopo la brillante operazione condotta dal Cardani, la polizia fornì nuovi argomenti a chi la accusava di eccessi e di mancanza di tatto, procedendo senza un mandato legale all’arresto di un amico cremonese di Confalonieri, il barone Sigismondo Trecchi, menzionato dal Pallavicino nelle sue deposizioni.
Strassoldo condannò con fermezza il mancato rispetto delle procedure, enfatizzando come simili abusi fossero lesivi dell’immagine pubblica del governo. L’arresto di Trecchi fu prima confermato ex post dalla commissione speciale, con grande soddisfazione di Goehausen, poi revocato dopo poco più di un mese per insufficienza di prove.
Mentre le autorità asburgiche battibeccavano tra loro, delineando il contrasto tra i sostenitori della cautela e della moderazione e quelli della più sbrigativa repressione, le deposizioni di Pallavicino furono confermate dal De Castillia, rendendo difficilissima la posizione di Confalonieri, che si difese opponendo il silenzio alle domande del giudice De Menghin.
Soltanto nella primavera del 1822, pur senza ammettere di aver preso parte attiva alla congiura di cui era accusato, Confalonieri iniziò ad abbandonare il suo mutismo, fornendo vaghe informazioni sulle sue relazioni con personalità d’oltralpe di sentimenti liberali.
L’idea che la Federazione, una setta diversa dalla Carboneria, ormai quasi annientata, minacciasse i domini austriaci in Italia tormentava gli inquirenti, inducendoli a moltiplicare le pressioni per strappare una piena confessione a Confalonieri, considerato, alla luce delle deposizioni di Pallavicino, come capo della cospirazione, nonché custode del nascondiglio segreto dei documenti più preziosi per sgominare l’intera rete dei federati in Lombardia ed altrove.
Nell’aprile del 1822, l’imperatore Francesco I sciolse le commissioni speciali di prima di seconda istanza di Venezia e ne costituì due analoghe a Milano. Contestualmente trasferì da Venezia a Milano il magistrato che più di ogni altro aveva dato prova di esemplare abnegazione nella lotta contro la Carboneria: Antonio Salvotti, che con la consueta tenacia riuscì a fare breccia nella difesa di Confalonieri, costringendolo ad ammissioni incriminanti. Anziché affrontare di petto il suo avversario, Salvotti agì d’astuzia, cercando di ottenere ulteriori accuse a carico del conte dagli altri congiurati. La prima vittima della sua tortuosa, ma efficace, strategia fu un collaboratore del “Conciliatore”, incarcerato in base alle deposizioni di Pallavicino, Pietro Borsieri che, indotto subdolamente a credere che Confalonieri avesse già reso un’ampia confessione, non si rifiutò di confermare quanto riteneva fosse già noto a Salvotti. Dichiarò di essere stato affiliato alla Federazione dall’amico Confalonieri e di essere al corrente sia delle trame con i liberali piemontesi, sia dell’esistenza di una rete cospirativa a Brescia. Per compiacere Salvotti, Borsieri non si trattenne dal puntare l’indice contro un giovane bresciano, Andrea Tonelli.
Alle rivelazioni di Borsieri seguirono quelle del barone Francesco Arese Lucini, ex colonnello delle armate napoleoniche, nonché ministro della Guerra in pectore del governo provvisorio vagheggiato dai federati, e quelle di Tonelli, tutte concordi nell’assegnare a Confalonieri un ruolo eminente nella cospirazione.
Difronte al moltiplicarsi degli elementi a suo carico, Confalonieri finì per lasciarsi andare a parziali ammissioni. Continuò a negare di essere associato alla Federazione e di aver iniziato Borsieri, e tutti gli altri che lo accusavano, ammise tuttavia di aver riconosciuto in Giuseppe Pecchio, già latitante, un cospiratore in relazione con i liberali piemontesi. Non seppe fornire convincenti giustificazioni al versamento di denaro effettuato a favore di Filippo Ugoni, sospettato di essere il capo della ramificazione bresciana della Federazione. Si sforzò senza successo di convincere Salvotti che quel denaro non aveva finalità rivoluzionarie, ribadendo il proprio rifiuto dei mezzi violenti e rivoluzionari. Senza preoccuparsi di sfidare il ridicolo, si ostinò a dipingersi come un “passivo contemplatore dei progressi” dei federati in Lombardia, lasciò intendere di conoscere l’estensione della cospirazione a Milano, Brescia, Pavia e Mantova, limitandosi però a citare personaggi come Pecchio ed Ugoni che sapeva essere già al sicuro dalle spire della polizia asburgica. Incalzato da Salvotti, quanto mai irritato dalla maschera inverosimile del “passivo contemplatore”, Confalonieri confessò di essere stato informato del progetto della creazione di una guardia civica e di un governo provvisorio, a garanzia dell’ordine, in attesa dell’invasione delle truppe piemontesi, invasione che egli stesso aveva sollecitato scrivendo al generale dell’esercito sardo San Marzano. Nell’ingenuo tentativo di discolparsi affermò che le trame di cui era venuto a conoscenza non avevano altro fine che quello di scongiurare l’anarchia nel caso in cui il governo austriaco si fosse trovato minacciato da repentini mutamenti politici. Salvotti non si sognò mai di considerare Confalonieri un uomo d’ordine alieno da ogni passione rivoluzionaria antiaustriaca, né di accettare come attenuante il fatto che il conte nel marzo del 1821 si trovava gravemente malato e quindi nell’impossibilità di prendere parte attiva alla cospirazione, il disegno di cui era venuto a conoscenza era palesemente eversivo e violento, la mancata denuncia di esso configurava senza mezzi termini il reato di alto tradimento. L’ostinazione di Confalonieri nel respingere l’accusa di essere a capo della setta dei federati irritava Salvotti, impedendogli di far luce su tutti gli aspetti della vicenda, ma non di ritenerlo reo di alto tradimento.
Con ogni probabilità, l’inefficace linea difensiva del conte fu ispirata da una conoscenza molto superficiale del codice penale asburgico. Se Confalonieri nel suo lungo duello con Salvotti avesse potuto avvalersi di una assistenza legale, non sarebbe certo scivolato, come tanti altri patrioti, lungo il pendio sdrucciolevole delle parziali ammissioni e dei tortuosi distinguo, avrebbe negato ogni contestazione, inceppando così l’apparato repressivo imperiale. La correttezza formale e l’indubbia abilità inquisitoria di Salvotti non devono far perdere di vista il carattere profondamente iniquo ed illiberale del sistema giuridico asburgico. L’assenza di limiti alla carcerazione preventiva, la negazione di ogni diritto alla difesa, il riconoscimento del valore di prova alla semplice delazione di due coimputati, il totale e minuzioso controllo esercitato dall’imperatore su ogni fase del processo, sulle condizioni della carcerazione, nonché sulla nomina e sulla carriera dei giudici, ponevano l’imputato in una posizione di tale inferiorità da renderne quasi inevitabile la condanna, se non la piena confessione, genuina o meno che fosse.
Anche in assenza di una piena e contrita confessione di Confalonieri il processo contro i federati continuò con inesorabile lentezza, arrivando a coinvolgere decine di indagati. Le imprudenti dichiarazioni di Tonelli consegnarono a Salvotti tutto il filone bresciano della cospirazione, tranne il capo, Filippo Ugoni, che sin dalle prime fasi dell’inchiesta si era messo in salvo in Svizzera. Il testimone chiave fu il conte Ludovico Ducco, un possidente bresciano menzionato da Tonelli. Inizialmente i sospetti a suo carico erano tanto vaghi che Salvotti dovette accontentarsi di convocarlo per un accertamento, anziché procedere al suo arresto. Interrogato a proposito dei suoi rapporti con Ugoni, Ducco confermò di essere stato informato dei suoi progetti rivoluzionari, aggiunse però di averli avversati, considerandoli folli. Commise lo stesso errore di valutazione di Confalonieri, ritenendo che la semplice conoscenza di un progetto eversivo non costituisse di per sé un grave reato. Salvotti ordinò immediatamente il suo arresto, non solo per le dichiarazioni incriminanti che aveva reso, ma soprattutto perché la sua lunga esperienza di inquisitore gli aveva suggerito che Ducco sapesse molto di più e non avesse la forza di carattere per resistere ad un interrogatorio serrato. Come scrisse nella sua relazione mensile all’imperatore, osservandolo Salvotti notò che: “…una cupa tristezza gli sedeva sulla fonte, e pareva che egli in quel momento tutta sentisse l’angoscia della sua posizione ed era evidente che egli sottaceva dei più importanti segreti.”. Non si sbagliava.
Dopo qualche debole resistenza, Ducco crollò, aggravando la posizione di Confalonieri. Confessò di essere stato iniziato alla Federazione dal conte in persona e lo indicò come capo indiscusso della cospirazione, rivelò inoltre i nomi di tutti gli aderenti alla rete bresciana. Il conte Vincenzo Martinengo, l’ingegner Pietro Pavia, l’avvocato Dossi e suo figlio Antonio e molti altri furono arrestati, tra questi anche l’ex colonnello napoleonico Silvio Moretti, che si era offerto nel marzo del 1821 di guidare un audace colpo di mano contro un convoglio incaricato di trasferire fuori da Milano le casse pubbliche. L’estrema prudenza dei congiurati bresciani gli aveva però impedito di passare all’azione.
Moretti diede prova del suo temperamento risoluto al momento dell’arresto, tentando di tagliarsi la gola con un coltello. La ferita, per quanto grave, non fu mortale. Fallito il tentativo di suicidio, Moretti non offrì a Salvotti alcuna collaborazione andando incontro alla condanna con grande dignità e compostezza.
Le ampie e circostanziate rivelazioni di Ducco furono particolarmente apprezzate da Salvotti poiché vanificarono la tardiva ritrattazione da parte di Pallavicino e di Borsieri delle accuse rivolte contro Confalonieri. Lo scaltro Salvotti considerò subito sospetta la simultaneità delle ritrattazioni e giunse alla conclusione che i due imputati dovevano essere riusciti ad aggirare la sorveglianza dei secondini ed a concordare una versione comune. Non tardò ad accertare che Borsieri e Pallavicino avevano comunicato usando un ingegnoso sistema: “…un picchio denota la lettera A, due picchii la lettera B, tre la C, e così progressivamente. Quantunque l’uso di questo linguaggio sia lento e poco atto a lunghi discorsi, esso basta però per far conoscere i rispettivi nomi, e il sostanziale tenore dei propri costituti (interrogatori). Un detenuto può in questo modo corrispondere con due suoi vicini e con quello che fosse custodito nel carcere sottoposto, perocché si picchia e nelle pareti di divisione e nel pavimento.”.
Informato nella periodica relazione del 21 novembre 1822, l’imperatore manifestò il proprio disappunto e raccomandò una vigilanza più stretta dei detenuti. Al tempo stesso si rallegrò della notizia che Salvotti riteneva di essere in possesso, nonostante le ritrattazioni concordate di Borsieri e di Pallavicino e la mancata confessione di Confalonieri, degli elementi per preparare una dura requisitoria contro gli imputati ed invocare pene severissime.
Mentre Salvotti era impegnato a tirare le fila dell’inchiesta, affinché la commissione speciale di prima istanza potesse pronunciarsi, il 18 gennaio 1823 fu arrestato a Milano un giovane cittadino francese, provvisto di passaporto ginevrino, di nome Alexandre Andryane. Quel viaggiatore così ansioso di visitare l’Italia da valicare le alpi nel cuore dell’inverno, munito di un passaporto rilasciato dalle autorità di una città che ospitava numerosi latitanti, condannati o ricercati per il reato di alto tradimento, non era passato inosservato alla polizia asburgica. Per fugare i suoi sospetti, il direttore generale di polizia Torresani aveva quindi disposto l’intercettazione della corrispondenza dell’Andryane, che, pur avendo dichiarato, prima all’ambasciata austriaca di Berna e poi ai funzionari doganali, di essere diretto a Firenze, non mostrava alcuna fretta di lasciare la capitale lombarda. Una lettera proveniente dal canton Ticino in cui si accennava all’imminente consegna di merci da tempo attese aveva convinto Torresani ad ordinare una perquisizione nella camera presa in affitto dal francese. Forse, più ancora del testo, lo aveva messo in allarme la firma in calce alla missiva: Mitridate. Quel nome altisonante poteva appartenere soltanto al re del Ponto di classica memoria, oppure ad un cospiratore non troppo abile nell’arte della dissimulazione.
Con il pretesto di verificare la presenza di merci di contrabbando, gli agenti della finanza si erano presentati all’appartamento di Andryane. Tra di essi si celava un esperto funzionario di polizia, il conte Bolza, che aveva subito riconosciuto come assai compromettente un fascio di carte, molte delle quali in codice, contenuto in un portafoglio di cuoio nascosto sotto i cuscini di un sofà. Il vano quanto goffo tentativo di Andryane di strappargli dalle mani quelle carte e distruggerle un attimo prima che fossero sequestrate, aveva offerto a Bolza una conferma alla sua prima impressione.
Il voluminoso portafoglio conteneva una trentina di documenti: fogli con annotazioni misteriose, cifre e segni iniziatici, tabelle alfabetiche, pezzetti di carta su cui erano annotati nomi ed indirizzi, diverse lettere di presentazione indirizzate a destinatari sparsi in tutta Italia dal contenuto così anodino e fumoso da apparire senza ombra di dubbio comunicazioni settarie, nonché regolamenti, statuti e rituali di una società segreta denominata dei Sublimi Maestri Perfetti.
Tradotto in carcere ed interrogato, Andryane mostrò di non essere “…troppo provetto in materia…” di cospirazione, esprimendo il proprio pentimento per gli atti “imprudentissimi” ai quali si era abbandonato. Per vincere le reticenze del francese, Torresani gli fece intravvedere la possibilità, in caso di piena ed incondizionata collaborazione, di un perdono imperiale e forse persino di un rimpatrio a breve termine. Andryane disse di aver ricevuto le carte in suo possesso a Ginevra da due individui di cui si rifiutò di fare il nome, anche a costo della vita. Non tacque invece i nomi dell’astronomo Massotti e dell’ex colonello napoleonico Varese con cui si era incontrato durante il suo soggiorno milanese, affrettandosi a specificare di non aver scambiato con loro opinioni politiche.
Dopo i primi interrogatori, in cui il francese appariva già sul punto di sgravarsi la coscienza, l’inchiesta, data la grande rilevanza riconosciuta alle carte sequestrate, fu affidata alla commissione speciale ed al giudice Salvotti.
Nelle sue memorie Andryane fornì una descrizione sulfurea di Salvotti al cui “…sguardo scrutatore, pieno d’intelligenza, d’orgoglio … di malignità … di doppiezza e di malvolere…” non seppe opporre a lungo resistenza. Svelò di essere un emissario di Filippo Buonarroti, il cospiratore di ideali egualitari più temuto ed esecrato dai governi della restaurazione, intenzionato a riorganizzare la rete settaria italiana scompaginata dai recenti processi. Raccontò di aver conosciuto Buonarroti a Ginevra, dove era stato costretto a cercare riparo per sottrarsi ai suoi numerosi creditori. Dopo la sconfitta a Waterloo dell’armata napoleonica, in cui aveva fatto appena in tempo a guadagnarsi i galloni da ufficiale, Andryane per consolarsi dei sogni di gloria infranti si era lasciato risucchiare dal vortice della mondanità parigina, sperperando una quota rilevante del cospicuo patrimonio di famiglia. A Ginevra aveva cercato di rimettere ordine nella propria vita dedicandosi allo studio. Come docente di musica e di italiano aveva incontrato l’anziano Buonarroti e non aveva tardato a subire il fascino di un “..repubblicano indomabile…” che “…le persecuzioni e l’avversità non avevano potuto abbattere né mutare…”. Era stato perciò profondamente lusingato dalla proposta di essere iniziato alla setta dei Sublimi Maestri Perfetti, fondata dallo stesso Buonarroti, ed ancor più di essere innalzato in breve tempo al rango di “Diacono straordinario e territoriale del Gran Firmamento”, il misterioso consiglio direttivo della setta. Il suo entusiasmo giovanile, il suo spirito d’avventura, la convinzione di essere destinato a grandi impese, l’amore per l’Italia e per i sacri principi della rivoluzione francese, le capacità seduttive ed affabulatorie di un grande vecchio dell’estremismo politico – che aveva esordito sulla scena europea nel 1796 con la “congiura degli eguali”, ordita insieme a Babeuf contro la deriva moderata e borghese del Direttorio – avevano finito per convincerlo ad accettare l’ardua missione di fare nuovi proseliti alla causa della libertà e dell’indipendenza italiana e di ricostruire in tutta la penisola una vasta ed efficace rete cospirativa. A Tale scopo, prima di lasciare Ginevra, Buonarroti lo aveva provvisto di un diploma, che attestava il suo alto rango nella setta, di documenti iniziatici come statuti, regolamenti e rituali, oltre ad un buon numero di lettere di presentazione a confratelli, a massoni in sonno, a patrioti un tempo determinati ad impegnarsi nella lotta contro lo straniero, a superstiti del settarismo italiano da coinvolgere nella sua nobile impresa.
Tra i referenti segnalati da Buonarroti comparivano anche personaggi ben noti a Salvotti come Antonio Dossi, implicato nell’inchiesta sui federati bresciani ed altri già da anni tenuti sotto sorveglianza dalle autorità. Si trattava nel complesso di personalità minori, prive di uno spessore politico rilevante. Proprio sull’inconsistenza dei suoi contatti italiani, Andryane, probabilmente limitandosi soltanto ad enfatizzare a proprio vantaggio la realtà, tentò costruire la propria linea difensiva.
Se il primo contatto a Bellinzona con Mitridate, un patriota piemontese di nome Malinverni a cui aveva consegnato le sue preziose carte affinché questi gliele recapitasse a Milano, aveva acceso in Andryane la speranza di poter felicemente portare a termine la sua missione, i successivi incontri milanesi con Massotti, con il colonnello Varese ed altri lo avevano invece deluso amaramente. Né nei patrioti a cui si era rivolto, né tanto meno nell’opinione pubblica aveva riscontrato i segnali di un fermento rivoluzionario in cui la società dei Sublimi Masestri Perfetti potesse prosperare. Lo sconforto nell’apprendere che la situazione italiana era ben diversa da quella prospettatagli a Ginevra era stato così grande da spingerlo a scrivere a Buonarroti, già alla fine di dicembre, per rifiutare l’incarico che con giovanile leggerezza aveva accettato. A questo improvviso voltafaccia era seguita una lettera da parte di Buonarroti, conservata tra le carte sequestrate, in cui rimproveri ed esortazioni si mescolavano.
Per molte ragioni la ricostruzione offerta da Andryane non persuase affatto Salvotti. Il testo della lettera attribuita dal francese a Buonarroti era tutt’altro che esplicito e cristallino, per di più la firma in calce al documento non era quella del rivoluzionario toscano, ma di un misterioso Richard. Inoltre, anche ammettendo che Andryane nell’arco di pochi giorni fosse passato dall’entusiasmo al più nero pessimismo, constatando che il governo austriaco non era così odiato come gli avevano fatto credere e gli italiani non così ansiosi di liberarsi dal giogo straniero, restava inspiegabile la sua rinuncia a proseguire il suo apostolato rivoluzionario in altri stati italiani, dal momento che i suoi contatti si estendevano ben oltre i confini dei domini austriaci. Infine, la reazione più ovvia alla delusione difronte al carattere del tutto velleitario ed improvvisato del disegno politico di Buonarroti sarebbe stata la distruzione delle carte che gli erano state affidate, tanto inutili quanto compromettenti.
Le considerazioni di Salvotti sfavorevoli all’attendibilità della ricostruzione di Andryane furono ulteriormente rafforzate dall’esito contradditorio dei riscontri effettuati dalla polizia. Interrogato, il colonnello Varese confermò di essere stato avvicinato dal giovane francese e risultò convincente quando dichiarò di averlo diffidato dal ripresentarsi a casa sua, prima ancora che potesse orientare la conversazione verso temi eversivi. L’astronomo Massotti invece riparò a Ginevra, offrendo così a Salvotti ottimi argomenti per ritenere che restassero ancora molti segreti da svelare.
Dal canto suo Andryane, avendo esaurito le informazioni da rivelare su di una rete cospirativa che non aveva fatto in tempo a creare, per conquistarsi la fiducia di Salvotti, e quindi la speranza di ottenere clemenza, non ebbe altra scelta che raccontare tutto quanto conosceva sui segreti iniziatici della setta dei Sublimi Maestri Perfetti. Senza farsi pregare troppo, fornì la chiave di decifrazione degli statuti, dei regolamenti e dei rituali che gli erano stati sequestrati. Ne sortì un quadro che dovette far fremere d’orrore Salvotti e tutti gli altri fedeli servitori della monarchia asburgica che esaminarono le carte processuali. Nei simboli, negli emblemi, nelle parole mistiche, nelle formule rituali abbondavano i riferimenti alla rivoluzione francese ed all’esaltazione del regicidio come catarsi dei popoli. Il senato lombardo-veneto nella sua relazione conclusiva all’imperatore sul processo Andryane così sintetizzò le finalità della setta: “…sconvolgere tutti i governi attuali e tutte le religioni … abbattere e trucidare tutti i principi regnanti … coprire la superficie della terra di sangue e stragi, ed infine di repubbliche popolari.”.
Poco importava che lo sprovveduto Andryane di fatto non avesse potuto causare gravi danni al governo austriaco, le finalità ultime della setta, in cui egli occupava comunque un grado elevato, come attestavano i documenti, erano così esecrabili da rendere inopportuno qualsiasi atto di clemenza, a meno che l’imputato non mostrasse un genuino e profondo pentimento, rivelando ai giudici fino all’ultimo segreto di cui era depositario. In questo senso si espresse Salvotti nella sua requisitoria, chiedendo la pena di morte per Andryane, e consigliando al tempo stesso all’imperatore di considerare la possibilità di concedere la grazia a condizione che il reo fornisse “più ampie propalazioni”.
Ad irritare Salvotti era soprattutto l’ostinazione del francese ad essere reticente sulla composizione del Gran Firmamento, il cervello direttivo della setta. Il solo nome di Buonarroti, per quanto luciferino, non poteva certo soddisfare pienamente la sua curiosità. Tanto più che fin dai primi interrogatori Andryane aveva affermato di aver ricevuto le istruzioni ed i materiali per la sua missione italiana da due soggetti, e non da uno solo. Pertanto, oltre al decano dei cospiratori europei dovevano esserci ai vertici della setta altri pericolosi nemici dell’ordine costituito.
Tra maggio ed agosto del 1823, la commissione speciale di prima e di seconda istanza, così come il senato lombardo-veneto sottoscrissero la requisitoria di Salvotti: Andryane meritava la pena capitale per alto tradimento e la grazia imperiale poteva essere concessa soltanto sub condicione. Il giovane francese, più volte sollecitato a guadagnarsi la clemenza imperiale, non seppe aggiungere nulla di rilevante a quanto aveva già confessato. I giudici e lo stesso Francesco I scambiarono l’esaurimento delle informazioni in possesso di Andryane per ostinata e colpevole reticenza. Nel dicembre del 1823, Francesco I commutò la pena capitale inflitta a Pallavicino e Borsieri in vent’anni di carcere duro da scontare allo Spielberg. Altri condannati a morte come Tonelli, De Castillia ed Arese beneficiarono di una clemenza ancora più larga: dieci anni di carcere duro per i primi due ed appena tre per il terzo. Riguardo al destino di Confalonieri e di Andryane, l’imperatore fu invece irremovibile, attenendosi alle conclusioni dei suoi giudici, confermò per entrambi la pena capitale. Il conte milanese si era rifiutato di rendere una piena confessione ed il giovane francese non aveva saputo allontanare da sé il sospetto di essere reticente.
L’influente famiglia Confalonieri non si rassegnò ad un verdetto così severo, fece appello a tutte le sue reti di relazioni per strappare all’imperatore un atto di clemenza. L’anziano padre di Federico, sua moglie, Teresa, e suo cognato Gabrio Casati si precipitarono a Vienna ed ottennero un’udienza presso l’imperatrice, che si impegnò ad intercedere a favore dello sventurato conte. Forse gli inviti alla clemenza rivolti dall’imperatrice a suo marito, uniti a quelli della figlia Maria Luisa, che governava con mano sicura il ducato di Parma, sortirono qualche effetto, ma non nell’immediato.
Dietro l’arcigna severità imperiale, si nascondeva tuttavia il tarlo del dubbio, fortificato dalle pressioni familiari, su come i sudditi lombardi avrebbero accolto l’esecuzione di un personaggio così illustre come Confalonieri. Per sincerarsi di non essere sul punto di creare un martire politico che avrebbe potuto nuocergli più da morto che da vivo, Francesco I inviò da Vienna nel lombardo-veneto numerosi funzionari con l’incarico di raccogliere informazioni in vari ambiti sociali sulle reazioni dell’opinione pubblica alla prospettiva di una esecuzione di Confalonieri. Quasi tutti i rapporti furono concordi nel descrivere come pessima l’impressione degli italiani a proposito della condanna capitale. Anche al direttore della polizia milanese Torresani fu richiesto di esprimere un’opinione in merito. All’inizio di gennaio del 1824 la sua ben argomentata relazione fu determinante per ispirare nell’imperatore un atteggiamento più clemente. Torresani non nascose che la notizia della corsa della contessa Confalonieri a prostrarsi ai piedi dell’imperatrice era stata accolta dai milanesi con sincera costernazione. Fece poi notare che la pubblica opinione avrebbe forse accettato di buon grado un’esecuzione che fosse avvenuta a breve distanza dall’arresto. Al contrario, dopo due anni di indagini, culminate con l’annientamento di ogni rete cospirativa nel lombardo-veneto, in un contesto politico del tutto mutato in cui i fuochi rivoluzionari apparivano spenti in tutta la penisola, togliere la vita al conte avrebbe suscitato sdegno ed ispirato vendetta, soprattutto nella cerchia dell’aristocrazia, a cui la famiglia Confalonieri apparteneva da generazioni.
Alle ponderate parole di Torresani si unirono quelle più accorate del governatore Strassoldo che si fece portavoce della “costernazione indescrivibile” dei milanesi e della loro trepidante attesa della grazia imperiale.
Francesco I non osò deludere i suoi sudditi lombardi rischiando di indebolire il suo trono, l’8 gennaio 1824 commutò la pena di Confalonieri nel carcere duro a vita. Lo stesso fece con Andryane, dal momento che sarebbe stato assurdo e controproducente accanirsi nella punizione di un gregario, per giunta poco più che ventenne e straniero, dopo aver concesso clemenza ad un cospiratore blasonato, a cui i milanesi non stentavano a riconoscere il carisma del capo.
Secondo le relazioni della polizia, i milanesi assiepati nella piazza difronte al tribunale ascoltarono la pubblica lettura della sentenza senza manifestare proteste per la sorte dei condannati, gli unici fischi furono rivolti all’eccesso di zelo mostrato dalla cavalleria nel tentativo di contenere la folla. Senza incidenti si svolse anche l’esecuzione in effigie dei condannati a morte in contumacia, come, tra gli altri, Pecchio ed Ugoni.
Neppure dopo la concessione della grazia, le insistenze dell’imperatore affinché Confalonieri facesse luce sui punti oscuri delle sue deposizioni cessarono. Nelle settimane precedenti la partenza dei condannati per lo Spielberg, il direttore Torresani ebbe almeno un paio di incontri con Confalonieri che, ansioso di dimostrare la propria riconoscenza per la grazia ricevuta e di conquistarsi nuovi meriti per attenuare la propria condanna all’ergastolo, ammise finalmente di essere stato il capo della cospirazione dei federati e di aver personalmente iniziato alla setta Ludovico Ducco. Aggiunse inoltre, stando a quanto riportato da Torresani, di “…detestare pienamente il suo delitto…” e di essere “…del tutto rinsavito dalla sua politica esaltazione…”, avendo maturato la convinzione che “…ogni miglioramento nella forma di governo debba giungere al popolo dall’alto, cioè dal sovrano, e che qualsiasi innovazione impresa dal popolo contro la dinastia legittima non sia altro che una chimera apportatrice di malanni…”. Riconobbe infine “…essere una vera aberrazione ogni sorta di idee di popolare libertà, di indipendenza, ovvero di costituzione popolare, aberrazione per cui verrebbe propagata la più grande calamità sopra interi paesi e popoli.”.
Tale abiura del proprio credo liberale dovette costare uno sforzo immane allo spirito fiero di Confalonieri, ma non bastò tuttavia a rassicurare completamente l’imperatore, che volle addirittura deviare sino a Vienna il viaggio di trasferimento del conte allo Spielberg, affinché il suo cancelliere, il principe Metternich, potesse tentare per un’ultima volta di ottenere confessioni ancora più larghe sulla cospirazione europea. L’incontro avvenne in gran segreto nel marzo del 1824 presso il palazzo della direzione generale di polizia . Dopo un paio d’ore di colloquio, in cui Confalonieri, per ammissione dello stesso principe non mendicò sconti di pena né si lasciò andare a nuove rivelazioni, Metternich si accomiatò dicendo di essere atteso ad un ballo. Confalonieri invece si rassegnò a riprendere la sua strada verso lo Spielberg.
  BIBLIOGRAFIA
ALDO MOLA, Silvio Pellico. Carbonaro, cristiano e profeta della nuova Europa, Milano, Bompiani, 2005
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FRANCO DELLA PERUTA, Storia dell’Ottocento. Dalla restaurazione alla “belle époque”, Firenze, Le Monnier, 1996
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ALEXANDRE ANDRYANE, Memorie di un prigioniero di stato nello Spielberg, Milano, 1861 ANNA KOPPMANN (a cura di), Memorie di Giorgio Pallavicino, pubblicate per cura della moglie., Torino, Loescher, 1882-1895
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freedomtripitaly · 5 years ago
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Turku non è sicuramente la prima città che ci viene in mente pensando alla Finlandia. Si tratta di una città attraversata dal fiume Aura, nel sud-ovest della Finlandia, ancora molto sottovalutata dai turisti. In realtà, Turku, è una cittadina che ha molto da offrire, senza dimenticare che è la quinta città più popolosa in tutta la Finlandia. Turku: storia, clima e cosa vedere Anche la città di Turku, in Finlandia, ha una storia che merita di essere raccontata per poter capire e vivere al meglio il vostro viaggio: i primi insediamenti umani in questa zona risalgono alla preistoria e, benchè la prima citazione di questa città risalga al lontano 1154, spesso la fondazione della stessa viene fatta risalire al 1229 quando, a Koroinen, venne fondato un insediamento cattolico e Turku venne nominata sede vescovile. In questa epoca venne anche costruito il castello di Turku, del quale andremo a parlare in seguito, e la maestosa cattedrale consacrata nel 1300. Molto interessante è ricordare come Turku sia stata, in antichità, la capitale politica della Finlandia, nonché principale centro culturale del Paese. Oggi, Turku, è sede dell’Arcivescovado finlandese. Turku è chiaramente una città medievale: lungo il fiume Aura, si può passeggiare sugli antichi viottoli quattrocenteschi. Questo fiume è il cuore della città di Turku e, specialmente in estate, le rive dello stesso diventano una grande festa in cui le persone si riuniscono per mangiare, bere, ascoltare musica e, più in generale, trascorrere del tempo insieme nel bel mezzo della natura incontaminata. Sempre in estate, poi, la città pullula di eventi e festival: musica, arte design, tango e molto altro. Spesso potrete vedere, attraccate al porto del fiume, alcune barche a vela e diverse navi da crociera che partono verso l’arcipelago o la vicina Naantali; queste navi, ogni giorno, salpano dalla baia di Turku e attraversano il Mar Baltico, in direzione della Svezia. La riva est è caratterizzata da diverse attrazioni da poter visitare: la cattedrale di Turku, il museo Sibelius, il museo della Casa Ett Hem, il museo Aboa Vetus&Ars Nova, il museo artigianale Luostarinmäki, il museo d’arte Wäinö Aaltonen, la città vecchia ed il teatro municipale. Potrete raggiungere la riva est attraversando il ponte o prendendo un traghetto completamente gratuito: qui potrete ammirare le altre meraviglie di Turku, quali il castello dell’omonima città, il centro marittimo Forum Marinum, il museo della Farmacia e la Casa di Qwensel. Vicino alla Piazza del Mercato si trovano la meravigliosa biblioteca principale, le hall del mercato ed il museo d’arte della città di Turku. Il clima di Turku è caratterizzato da inverni molto freddi e da estati brevi e miti. A partire da novembre, poi, le temperature possono scendere sotto lo zero, con forti nevicate che fanno la loro comparsa all’inizio del mese. Se avete in mente un viaggio nella meravigliosa città di Turku, dunque, vi consigliamo fortemente di organizzarvi per i mesi estivi, in cui potrete godere di un clima, non certo tropicale, ma comunque mite e piacevole. Infine, non è necessario essere un esperto marinaio per godersi completamente la meraviglia dell’arcipelago di Turku: uno tra i più belli ed estesi al mondo, raggiungibile anche a piedi, in bici, in traghetto, in auto o addirittura in pullman acquatico. Questo arcipelago è caratterizzato da una natura incontaminata, ma nasconde anche meravigliose oasi dove potersi riposare e, perché no, praticare anche dello sport come il golf o, ancor meglio, rilassarsi in una spa. La cattedrale di Turku La cattedrale di Turku è una delle meraviglie che meritano almeno una visita. Essa è simbolo indiscusso della città e del cattolicesimo e, come abbiamo già detto in precedenza, ha origini molto antiche: risale, infatti, al XIII secolo ed è stata costruita completamente in pietra. Questo edificio, nel corso dei secoli, ha subito diversi cambiamenti; in precedenza era molto più piccolo rispetto all’attuale ed il suo confine occidentale era in corrispondenza del pulpito, mentre la volta era molto più bassa rispetto a quella che conosciamo oggi. La cattedrale di Turku aveva acquisito la sua forma attuale già in epoca moderna; l’unico cambiamento davvero significativo, infatti, fu il campanile costruito e ricostruito più volte in seguito a diversi incendi che distrussero la città. La torre attuale, dopo il gravoso incendio, è divenuta uno dei simboli di maggiore importanza insieme alla chiesa stessa. Se entrerete all’interno della cattedrale, potrete ammirare una maestosa Trasfigurazione di Cristo dipinta nel 1836 da Fredrik Westin, così come il meraviglioso soffitto decorato in stile romantico da Robert Wilhelm Ekman. Questi affreschi raccontano da vicino la vita di Gesù e di due importanti eventi riguardanti la chiesa finlandese: il battesimo dei primi cristiani e la presentazione della prima traduzione in finlandese del Nuovo Testamento al re Gustavo I di Svezia. L’ingresso alla cattedrale di Turku è completamente gratuito, eccetto per il museo, ed è accessibile tutti i giorni. Se dunque siete degli appassionati di arte e pittura, questo piccolo gioiellino non potrà mancare sul vostro itinerario! Il castello di Turku Altra tappa fondamentale, oltre alla cattedrale di Turku, è sicuramente il maestoso castello della città. Esso, ancora oggi, è uno dei più antichi ed importanti edifici della Finlandia, senza dimenticare che è tuttora in uso. È molto interessante sapere come, inizialmente, il castello di Turku venne costruito su un’isola, ma a causa dei sedimenti, ora si trova sulla terraferma. I lavori di costruzione dell’edificio, iniziarono nel lontano 1280; nei due secoli successivi le difese vennero rafforzate e furono aggiunti nuovi quartieri abitativi. Molti incendi hanno purtroppo danneggiato il castello, in particolar modo vogliamo ricordare quello del 1614, quando durante una visita di re Gustavo II Adolfo di Svezia, le fiamme distrussero quasi del tutto la struttura principale in legno; a causa di ciò, il castello venne prontamente abbandonato ed utilizzato solo in parte per le attività commerciali. Le vere e proprie opere di ristrutturazione, in seguito alle tragedie accadute, iniziarono durante la seconda guerra mondiale: oggi, questa struttura, è di proprietà dello Stato finlandese e la sua gestione è affidata alla città di Turku. Nella parte principale del castello, sono presenti diverse maestose sale, oltre ad alcuni ristoranti e ad una chiesa dedicata alla comunità locale. Dunque, cosa state aspettando? Adorate le storie di dame e cavalieri? Allora non potete non visitare questa antica meraviglia! I musei di Turku da non perdere Turku racconta la propria storia attraverso i numerosi musei presenti in città. Se adorate l’arte, la pittura, la musica, le navi e, più in generale la storia, allora dovete assolutamente visitare alcuni famosi musei del luogo. Vogliamo iniziare con il museo Sibelius, dedicato prettamente agli amanti della musica: esso è situato vicino alla cattedrale, dunque in posizione davvero strategica, ed è l’unico museo dedicato alla musica in tutto il Paese. Proprio qui, inoltre, potrete ammirare una vasta e straordinaria collezione di strumenti musicali, antichi e non, provenienti da tutto il mondo. Nell’archivio del museo, poi, sono presenti numerosi documenti, quali manoscritti, registrazioni, fotografie e molto altro, a testimoniare la lunga ed intensa storia della musica. Questo museo conta con due principali esposizioni: la prima, dedicata agli strumenti musicali e la seconda, chiamata anche “Sibelius exhibition”. Qui è possibile prendere parte a diverse esibizioni e concerti, il cui programma varia a seconda della performance, anche se la musica principalmente suonata presso il museo è di genere jazz e folk. Aboa Vetus&Ars Nova è un altro fra i più importanti musei della città di Turku. Questo museo è ospitato all’interno di un edificio denominato Rettig Palace, originariamente costruito nel 1928. Si tratta di un museo che ospita una bellissima collezione di arte contemporanea, seppur custodisca anche alcune opere risalenti al Medioevo e scoperte solamente successivamente. Non potete assolutamente perdervi questa meraviglia! Molto particolare e meritevole di una visita, è il museo Luostarinmäki: uno dei pochissimi musei a cielo aperto in Finlandia. Esso è il museo dell’artigianato ed è situato nell’antico quartiere del legno della città di Turku: sono presenti più di trenta laboratori specializzati in diversi settori artigianali e, specialmente nel periodo estivo, è possibile ammirare gli artigiani all’opera. L’evento più importante si svolge durante i Giorni dell’antiquariato nel mese di agosto, un’occasione davvero unica per ammirare gli operai al lavoro. Fra i punti di maggior interesse della città di Turku, vogliamo menzionare anche il Museo della Farmacia e Casa Qwensel. Pur essendo molto piccolo, vi porterà attraverso le tappe della storia della medicina: potrete ammirare una vasta collezione di antichi utensili usati nelle vecchie farmacie in Finlandia, i costumi utilizzati al tempo e molto altro. Insomma, questo luogo vi permetterà di tornare indietro nel tempo e mostrarvi come si operava nell’antichità. Inoltre, le didascalie di ogni stanza, sono tradotte in lingua inglese, oltre ad essere parecchio intuitive. Vi consigliamo di concludere la vostra visita nell’ottimo e caratteristico caffè che sorge all’interno dell’edificio. Attraverso la nostra breve e veloce guida, speriamo di avervi stimolato alla scoperta di questo piccolo paradiso finlandese ancora oggi troppo sottovalutato: siamo certi che, se mai decideste di intraprendere questo viaggio alla scoperta di Turku, non rimarrete delusi! https://ift.tt/2vllXD9 Tutte le meraviglie di Turku, in Finlandia Turku non è sicuramente la prima città che ci viene in mente pensando alla Finlandia. Si tratta di una città attraversata dal fiume Aura, nel sud-ovest della Finlandia, ancora molto sottovalutata dai turisti. In realtà, Turku, è una cittadina che ha molto da offrire, senza dimenticare che è la quinta città più popolosa in tutta la Finlandia. Turku: storia, clima e cosa vedere Anche la città di Turku, in Finlandia, ha una storia che merita di essere raccontata per poter capire e vivere al meglio il vostro viaggio: i primi insediamenti umani in questa zona risalgono alla preistoria e, benchè la prima citazione di questa città risalga al lontano 1154, spesso la fondazione della stessa viene fatta risalire al 1229 quando, a Koroinen, venne fondato un insediamento cattolico e Turku venne nominata sede vescovile. In questa epoca venne anche costruito il castello di Turku, del quale andremo a parlare in seguito, e la maestosa cattedrale consacrata nel 1300. Molto interessante è ricordare come Turku sia stata, in antichità, la capitale politica della Finlandia, nonché principale centro culturale del Paese. Oggi, Turku, è sede dell’Arcivescovado finlandese. Turku è chiaramente una città medievale: lungo il fiume Aura, si può passeggiare sugli antichi viottoli quattrocenteschi. Questo fiume è il cuore della città di Turku e, specialmente in estate, le rive dello stesso diventano una grande festa in cui le persone si riuniscono per mangiare, bere, ascoltare musica e, più in generale, trascorrere del tempo insieme nel bel mezzo della natura incontaminata. Sempre in estate, poi, la città pullula di eventi e festival: musica, arte design, tango e molto altro. Spesso potrete vedere, attraccate al porto del fiume, alcune barche a vela e diverse navi da crociera che partono verso l’arcipelago o la vicina Naantali; queste navi, ogni giorno, salpano dalla baia di Turku e attraversano il Mar Baltico, in direzione della Svezia. La riva est è caratterizzata da diverse attrazioni da poter visitare: la cattedrale di Turku, il museo Sibelius, il museo della Casa Ett Hem, il museo Aboa Vetus&Ars Nova, il museo artigianale Luostarinmäki, il museo d’arte Wäinö Aaltonen, la città vecchia ed il teatro municipale. Potrete raggiungere la riva est attraversando il ponte o prendendo un traghetto completamente gratuito: qui potrete ammirare le altre meraviglie di Turku, quali il castello dell’omonima città, il centro marittimo Forum Marinum, il museo della Farmacia e la Casa di Qwensel. Vicino alla Piazza del Mercato si trovano la meravigliosa biblioteca principale, le hall del mercato ed il museo d’arte della città di Turku. Il clima di Turku è caratterizzato da inverni molto freddi e da estati brevi e miti. A partire da novembre, poi, le temperature possono scendere sotto lo zero, con forti nevicate che fanno la loro comparsa all’inizio del mese. Se avete in mente un viaggio nella meravigliosa città di Turku, dunque, vi consigliamo fortemente di organizzarvi per i mesi estivi, in cui potrete godere di un clima, non certo tropicale, ma comunque mite e piacevole. Infine, non è necessario essere un esperto marinaio per godersi completamente la meraviglia dell’arcipelago di Turku: uno tra i più belli ed estesi al mondo, raggiungibile anche a piedi, in bici, in traghetto, in auto o addirittura in pullman acquatico. Questo arcipelago è caratterizzato da una natura incontaminata, ma nasconde anche meravigliose oasi dove potersi riposare e, perché no, praticare anche dello sport come il golf o, ancor meglio, rilassarsi in una spa. La cattedrale di Turku La cattedrale di Turku è una delle meraviglie che meritano almeno una visita. Essa è simbolo indiscusso della città e del cattolicesimo e, come abbiamo già detto in precedenza, ha origini molto antiche: risale, infatti, al XIII secolo ed è stata costruita completamente in pietra. Questo edificio, nel corso dei secoli, ha subito diversi cambiamenti; in precedenza era molto più piccolo rispetto all’attuale ed il suo confine occidentale era in corrispondenza del pulpito, mentre la volta era molto più bassa rispetto a quella che conosciamo oggi. La cattedrale di Turku aveva acquisito la sua forma attuale già in epoca moderna; l’unico cambiamento davvero significativo, infatti, fu il campanile costruito e ricostruito più volte in seguito a diversi incendi che distrussero la città. La torre attuale, dopo il gravoso incendio, è divenuta uno dei simboli di maggiore importanza insieme alla chiesa stessa. Se entrerete all’interno della cattedrale, potrete ammirare una maestosa Trasfigurazione di Cristo dipinta nel 1836 da Fredrik Westin, così come il meraviglioso soffitto decorato in stile romantico da Robert Wilhelm Ekman. Questi affreschi raccontano da vicino la vita di Gesù e di due importanti eventi riguardanti la chiesa finlandese: il battesimo dei primi cristiani e la presentazione della prima traduzione in finlandese del Nuovo Testamento al re Gustavo I di Svezia. L’ingresso alla cattedrale di Turku è completamente gratuito, eccetto per il museo, ed è accessibile tutti i giorni. Se dunque siete degli appassionati di arte e pittura, questo piccolo gioiellino non potrà mancare sul vostro itinerario! Il castello di Turku Altra tappa fondamentale, oltre alla cattedrale di Turku, è sicuramente il maestoso castello della città. Esso, ancora oggi, è uno dei più antichi ed importanti edifici della Finlandia, senza dimenticare che è tuttora in uso. È molto interessante sapere come, inizialmente, il castello di Turku venne costruito su un’isola, ma a causa dei sedimenti, ora si trova sulla terraferma. I lavori di costruzione dell’edificio, iniziarono nel lontano 1280; nei due secoli successivi le difese vennero rafforzate e furono aggiunti nuovi quartieri abitativi. Molti incendi hanno purtroppo danneggiato il castello, in particolar modo vogliamo ricordare quello del 1614, quando durante una visita di re Gustavo II Adolfo di Svezia, le fiamme distrussero quasi del tutto la struttura principale in legno; a causa di ciò, il castello venne prontamente abbandonato ed utilizzato solo in parte per le attività commerciali. Le vere e proprie opere di ristrutturazione, in seguito alle tragedie accadute, iniziarono durante la seconda guerra mondiale: oggi, questa struttura, è di proprietà dello Stato finlandese e la sua gestione è affidata alla città di Turku. Nella parte principale del castello, sono presenti diverse maestose sale, oltre ad alcuni ristoranti e ad una chiesa dedicata alla comunità locale. Dunque, cosa state aspettando? Adorate le storie di dame e cavalieri? Allora non potete non visitare questa antica meraviglia! I musei di Turku da non perdere Turku racconta la propria storia attraverso i numerosi musei presenti in città. Se adorate l’arte, la pittura, la musica, le navi e, più in generale la storia, allora dovete assolutamente visitare alcuni famosi musei del luogo. Vogliamo iniziare con il museo Sibelius, dedicato prettamente agli amanti della musica: esso è situato vicino alla cattedrale, dunque in posizione davvero strategica, ed è l’unico museo dedicato alla musica in tutto il Paese. Proprio qui, inoltre, potrete ammirare una vasta e straordinaria collezione di strumenti musicali, antichi e non, provenienti da tutto il mondo. Nell’archivio del museo, poi, sono presenti numerosi documenti, quali manoscritti, registrazioni, fotografie e molto altro, a testimoniare la lunga ed intensa storia della musica. Questo museo conta con due principali esposizioni: la prima, dedicata agli strumenti musicali e la seconda, chiamata anche “Sibelius exhibition”. Qui è possibile prendere parte a diverse esibizioni e concerti, il cui programma varia a seconda della performance, anche se la musica principalmente suonata presso il museo è di genere jazz e folk. Aboa Vetus&Ars Nova è un altro fra i più importanti musei della città di Turku. Questo museo è ospitato all’interno di un edificio denominato Rettig Palace, originariamente costruito nel 1928. Si tratta di un museo che ospita una bellissima collezione di arte contemporanea, seppur custodisca anche alcune opere risalenti al Medioevo e scoperte solamente successivamente. Non potete assolutamente perdervi questa meraviglia! Molto particolare e meritevole di una visita, è il museo Luostarinmäki: uno dei pochissimi musei a cielo aperto in Finlandia. Esso è il museo dell’artigianato ed è situato nell’antico quartiere del legno della città di Turku: sono presenti più di trenta laboratori specializzati in diversi settori artigianali e, specialmente nel periodo estivo, è possibile ammirare gli artigiani all’opera. L’evento più importante si svolge durante i Giorni dell’antiquariato nel mese di agosto, un’occasione davvero unica per ammirare gli operai al lavoro. Fra i punti di maggior interesse della città di Turku, vogliamo menzionare anche il Museo della Farmacia e Casa Qwensel. Pur essendo molto piccolo, vi porterà attraverso le tappe della storia della medicina: potrete ammirare una vasta collezione di antichi utensili usati nelle vecchie farmacie in Finlandia, i costumi utilizzati al tempo e molto altro. Insomma, questo luogo vi permetterà di tornare indietro nel tempo e mostrarvi come si operava nell’antichità. Inoltre, le didascalie di ogni stanza, sono tradotte in lingua inglese, oltre ad essere parecchio intuitive. Vi consigliamo di concludere la vostra visita nell’ottimo e caratteristico caffè che sorge all’interno dell’edificio. Attraverso la nostra breve e veloce guida, speriamo di avervi stimolato alla scoperta di questo piccolo paradiso finlandese ancora oggi troppo sottovalutato: siamo certi che, se mai decideste di intraprendere questo viaggio alla scoperta di Turku, non rimarrete delusi! Turku è una città finlandese ricca di attrazioni tutte da ammirare, dai musei ai monumenti religiosi passando per le bellezze paesaggistiche.
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uomoallacoque · 5 years ago
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Il ristorante il Fagiano è uno dei ristoranti all’interno del lussuoso e incantevole Gran Hotel Fasano (articolo dettagliato a questo link).
La sala è classica e romantica, legno agli angoli e sul soffitto ad impreziosire l’atmosfera calda e importante. Luci soffuse e mise en place impeccabile.
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Lo chef è Matteo Felter, nativo del Garda, la sua idea di cucina con piatti che hanno come punto di partenza la tradizione gastronomica del lago, rivisitata e resa contemporanea da un sottile e abile gioco di sapori e consistenze, che incanta e conquista.  Quando alla tradizione si uniscono materie prime eccezionali, ottima tecnica e idee interpretative che non stravolgono ma impreziosiscono i piatti… beh il risultato è per forza vincente.
Tre i menu degustazione tra i quali scegliere oltre ovviamente alla carta, prezzi perfettamente centrati per la location, la proposta e la qualità, anzi li definirei molto vantaggiosi, il menù da me provato (quello dell’entroterra ) con abbinamento vini è proposto a 100 euro, i vini abbinati dal bravissimo e professionale sommelier sono grandi etichette, perfetti in ogni portata.
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Dopo un bicchiere di ottimo Franciacorta che accompagna sfoglie di mais e due finger food (taco di spada e un cubotto di vitello e porcini…altri 4 grazie!) di benvenuto molto molto graditi si inizia con il vero e proprio percorso studiato dallo chef.
Lumache di vigna in tempura su fondo di porri e bacon con spuma all’aglio: semplicemente perfetto! La spuma all’aglio il vero  valore aggiunto del piatto, il fondo di porri e bacon contrasta a meraviglia con le lumache, ottimo ottimo inizio.
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Animelle di vitello con gocce di Yuzu e puree di patate, mi tolgo il cappello davanti a questo piatto: interpretazione perfetta di questa proteina sottovalutata per molti anni e che sta tornando (fortunatamente) di “moda”. Cottura dell’animella: perfetta! Contrasti di sapori e acidità super! Grande piatto!
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Come primo piatto Tagliolini al formaggio Bagoss con pomodoro fresco e rosmarino: il sapore forte, pungente e aggressivo del Bagoss è bilanciato ottimamente dagli altri ingredienti in maniera splendida, l’abbinamento del Sauvignon fa il resto creando un’esplosione di sapori in bocca.
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Dopo le lumache, le animelle e il Bagoss poteva esserci un piatto banale come secondo? No, infatti Rack di pecora marinato e cotto alla brace con cuori di carciofi, carne saporita e tenerissima, portata persino abbondante ma che si finisce senza nessun problema
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  Pre-dessert scenografico con cannolo e ananas flambato al momento al tavolo e dessert composto da una creazione di sfoglie di caramello, gelato, arachidi e scaglie di cioccolato, che come fine pasto ci sta tutto perché addolcisce e allo stesso tempo rinfresca il palato.
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Non manca ovviamente la piccola pasticceria finale, elegante e…cioccolatosa!!
Personalmente ritengo il Fagiano un ristorante di livello molto alto che non ha nulla da invidiare a nomi più rinomati (e stellati) sul territorio. Grande parte del merito è di chef Matteo Felter che con la sua interpretazione di cucina riesce a conquistare i palati della clientela esigente e internazionale presente nell’hotel. Il rapporto qualità prezzo è eccellente, i piatti sono buonissimi,la presentazione fascinosa,  l’atmosfera calda ed elegante, l’elegante combinazione di questi elementi  fa si che entri di diritto tra i migliori ristoranti del Garda e non solo.
Ristorante il Fagiano
Corso Zanardelli, 190
25083 Gardone Riviera (BS)
Telefono: 0365 290220
https://www.ghf.it/restaurants/ristorante-il-fagiano
Ristorante il Fagiano (Gardone Riviera – BS) Il ristorante il Fagiano è uno dei ristoranti all’interno del lussuoso e incantevole Gran Hotel Fasano (articolo dettagliato a questo link).
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pangeanews · 5 years ago
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“Alla ricerca, nei meandri dei sogni, nelle lotte dei nostri Io frammentati, del nucleo incandescente, opportunità di un’altra vita”: William Blake come maestro spirituale
L’intera opera di William Blake è una sfida al ricatto. Il ricatto che per essere vivi si debba cedere in spiritualità per la proporzione di peso carnale che ci portiamo inevitabilmente addosso. La grande battaglia dell’autore è una poesia che vada contro quella resa degli uomini, quella loro triste vergogna.  Che per convivere tra uomini debbano essere le regole reprimende e non gli appellativi di speranza a essere vincenti.  E che la ragione debba essere contemplata, o meglio ammessa, solo nella sua funzione di repressione, obolo dovuto al compromesso, e non come via suprema di condivisione, grande potenza di breccia sul mistero, e mezzo primario di apertura alla visione.
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Blake sorride nella rabbia, e piange nella gioia, perché sa che tutta la sua opera, arte di cui lui si sente solo il tramite, sarà una percezione stravolta, perché la vita è una percezione stravolta; nel tentare di comprimere gli opposti, di sedare gli eccessi, di dare logica all’impossibile e non accettare l’infinito senza l’attesa della morte come liberazione, se l’unica liberazione possibile è nella vita, che è già aldilà, semplicemente vedendosi, stralciando il terrore e l’oppressione, nell’opportunità dell’essere che si libera del dover essere, passaggio supportato dalla ragione, e reso possibile dall’unica dimensione di verità concessa: noi stessi, ritrovati prima della spirale di manipolazioni che ci porta a essere ciò che non siamo. Lì c’è la nostra tragedia, ma anche l’eroica dimensione di nuovo umanesimo.
La freschezza di Blake, la sua modernità assoluta, la risposta che lui dà, per chi sa leggere, alle ansie ormai incontenibili del presente, parte da qui: la speranza è in vita, come la salvezza e soprattutto come l’altrove, la dimensione di risposta, freschezza, possibile, per cui attendere la morte è solo un’ingiustificata perdita di tempo.
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I Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza (e I Quattro Zoa) sono il grande flusso della poetica di Blake, avamposto sul Freud e sul Baudelaire che verranno, alla ricerca nei meandri dei sogni, nelle lotte dei nostri Io frammentati, del nucleo incandescente, opportunità di un’altra vita, che non sia costruzione di impalcature più o meno sbilenche, più o meno opprimenti, certamente svianti e destrutturate, ma visione sulla risposta, sulla meraviglia che ci svela come noi potremmo essere solo un potente accoglierci, e ritrovare. L’Innocenza non è infantile in quanto non consapevole o banale, tantomeno ingenua, ma è semplicemente mancanza di scissione, di sgretolamento da imposizioni razionali, che la mineranno invece giorno dopo giorno nell’inferno di Esperienza, che se insegna a sopravvivere, è manchevole proprio laddove non ha mai compreso l’importanza del vivere. La fanciullezza è il simbolo del candore in quanto ancora scevra dell’obbligo di una visione distorta, orba di vita, che sbrana proprio il nucleo della vita stessa. Il dappertutto concesso alla nostra anima nella visione del tutto, viene delimitato in continuazione, con pervicace centellinare, o violento travolgere; ogni giorno è un paletto, una circoscrizione, un limite in più che se ci permette di stare in questa vita, ci allontana dalla vita stessa.
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L’Uno interiore, il globo, la compattezza di mente e visione, ci è proprio nella dimensione infantile, che non significa una necessaria perdita nell’accrescimento o nell’apprendimento, ma un’imposta perdita laddove una parte, o più parti, a lui necessarie per esprimersi in potenza spirituale e artistica, siano utilizzati, e di conseguenza diventino, strumenti di controllo e repressione.
L’Innocenza è superiore all’Esperienza in quanto non tenera per riduzione, ma divina per completezza. La domanda è: si può restare innocenti, quindi divini, pure nell’esperienza, ossia esiste un modo altro, un’altra via, un fianco distinto, per fare esperienza?
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Blake è poeta complesso ma non oscuro come potrebbe apparire: è un poeta determinato e grandioso nell’apprendimento del vivere, che ancora, o magari soprattutto, oggi ha talmente tanto da insegnare, da stupirci.
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L’Eden è il ricongiungimento, non è altro, e non si può attuare nello sfruttamento, nell’incomprensione, nella deriva materiale che ai suoi tempi si iniziava a evidenziare per i pochi che, con voce più attenta e profonda, previdero precisamente il luogo dove stavamo andando e dove oggi siamo arrivati: il nulla interiore.
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L’anima si perde nel peso del mondo che cede al ricatto della necessità di farci materiali perché siamo materia, non distinguendo tra opportunità in materia di accedere allo spirito, e obbligo di rinnegare lo spirito per non offendere la carne.
È opportuno cogliere un elemento che a Blake non sfuggì, in una dimensione di precocità che impressiona. La rivoluzione industriale attraversò tutta la vita dell’artista e lui ne intuì come pochi la portata in termini di interiorità. Se tutti guardavano fiduciosi all’esterno, lui capì che non solo si stava andando verso un uomo completamente nuovo, di cui mai prima si era visto simile, ma che il ruolo della poesia e dell’arte tutta da quel momento in poi sarebbe cambiato per sempre: si apriva una lotta, di cui non solo erano chiarissime le parti, ma anche e soprattutto i soccombenti.
L’avvento dell’uomo faber è alle porte, l’apoteosi di una virulenta filosofia razionalista è incontenibile, inafferrabile, inevitabile, da qualsiasi lato si guardi la trasformazione sociale ed economica, sono ovvie le conseguenze, almeno per Blake. L’assassinio dell’uomo spirituale sta avvenendo in modalità massiccia e priva di qualsiasi pietà, e da essa deriverà un’ineluttabile perdita di speranza, così tragica per l’uomo contemporaneo. E non solo si uccide lo spirito, l’immaginazione e la creatività, ma se ne pretende una morte subdola, perpetrata con il più infido dei metodi, che si dipana dalla più vigliacca asserzione: la vergogna.
Il massacro è in atto, senza che sia mai stato dichiarato, ma si tiene nascosto dietro a una cortina di necessità ed evidenza: l’uomo nuovo ha il dovere di partecipare alla produzione, al lavoro materiale, concreto, e solo su questa sua capacità, connessa alla realizzazione di denaro, sarà valutato il suo valore.
È una rivoluzione di natura epocale, sottovalutata in termine di impatto sulla vita spirituale e immaginativa dell’uomo. A soccombere senza scuse, è il diritto alla ricerca della felicità nell’interiorità invece che all’esterno, nella contemplazione invece che nell’azione, nella condivisione invece che nell’accaparramento.
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Si è trattata di una stretta talmente forte della condizione umana da non farci più ammettere una visione altra, se non confinandola a macchietta o pigrizia, nel migliore dei casi, o vera e propria sfida all’ordine costituito nei peggiori, con conseguenze in molti casi drammatiche, nell’ubicazione a reietto, nel rifiuto assoluto del diverso, ossia dell’uomo “immaginativo” nella compagine sociale.
La catalogazione psichiatrica di follia moderna, nasce non a caso in conseguenza a questa devastazione psichica, non c’entrano più il sacro o il demonio, ma la non accettazione del ruolo di macchina da produzione.
Chi è fuori dallo schema produttivo è folle, perfino la sua immaginazione è perdonata solo se inventa un bene che spinga il produrre, altrimenti sarà sempre guardata, nel migliore dei casi (ossia se arriva a produrre denaro), come un baco perdonabile, o sarà repressa con le forme più violente compagine sociale abbia mai potuto coniare.
In effetti il folle moderno, generalizzando ma tentando un approfondimento, è a tutti gli effetti dotato di una personalità che tenta un’appropriazione di diversità, il diritto, negato, alla spiritualità, non è colui, come spesso si fa credere, che sfalda, ma colui che tenta proprio il ricongiungimento, fuori dai parametri del materiale ordine costituito della ragione.
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La più profonda sofferenza della modernità è tutta in Blake: la svendita della propria anima. L’analisi di questa castrazione, e resa all’incomprensione, rappresenta forse il perno più importante dell’urlo di buona parte dell’arte moderna in ogni sua forma, dopo quasi tre secoli di umana cultura occidentale ancora ci distinguiamo nell’immagine che diamo, come fosse l’elemento principale della nostra natura, proprio perché svuotata della sfera dell’interiorità, in nome dell’apoteosi della prigione del produrre, il peggior mezzo di coercizione sia mai stato inventato a discapito del diritto più innegabile alla vita, o all’umanità dell’esistenza.
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Il disegno di Blake che introduce ai canti dell’Innocenza contiene in sé già alcuni elementi che non abbandoneranno il grande flusso dei suoi canti, anzi ne saranno l’asse portante, ossessiva nel messaggio di chi crede il disegno sia, insieme alle parole, strumento fondante di passaggio alla beatitudine o ricongiungimento, non perché scevri di ragione, ma perché in grado di riformare le emozioni nei grandi poteri dell’immaginazione, e quindi delle arti.
L’uomo già caduto è ancora legato a una spiritualità salvifica. È protetto dall’albero, simbolo che apparirà in ogni disegno dei Canti, e che quindi riveste un’importanza e un significato fondante nell’intera opera.
L’albero è storicamente un simbolo dalla portata unica: niente come l’albero ha attraversato le culture tingendosi di potenza spirituale e capacità divina di salvare o distruggere, sollevare o abbattere, punire o diffondere misericordia, simbolo di vita, con le sue radici che si innestano nelle profondità della terra, e i rami che raggiungono il cielo, e di morte, basti pensare al legno della croce. Tutti i personaggi dei disegni dei Canti ne ricevono protezione, è l’ossigeno che ci permette di respirare, non solo per la sopravvivenza della carne, ma anche e soprattutto per il muto messaggio del ritorno alla verità, al potere della vita come armonia, protezione che ci offre il rifugio nella ribellione alle imposizioni, nel cedimento alla rabbia per liberazione, mano paterna e culla materna che scompaiono, pur restando in ogni disegno, se acquisite dentro di noi.
Pare davvero che Blake con questa insistenza determinata voglia ricordarci che il Paradiso è a portata di mano, ogni istante, in ogni modo, in ogni disegno.
Nel disegno un giovane uomo guarda verso l’alto stringendo il suo strumento musicale, il piffero, completando l’egemonia artistica, con disegno e poesia, che potrebbe ribaltare la concezione di potenza umana. Lo sguardo che si apre all’alto è incredulo, anche se vi si scorge un acuto di speranza, e forse, di consapevolezza. L’angioletto che sovrasta il pifferaio non solo è circonfuso di luce e sorriso, ma si apre a un’altitudine ancora maggiore, alzando le braccia, quasi a chiedere di guardare oltre, anzi attraverso, di lui.
*
L’immagine racchiude l’intero segreto dei Canti: tutti noi abbiamo il potere di trovare una risposta, di smettere di vagare alla cieca, di stordirci di nevrotiche ragioni, ineluttabile strada di tristezza e devastazione interiore, monito che scorgiamo chiaramente nella depressione che funesta l’ego moderno, o meglio, ne dilapida la parte migliore, divenuta, per chiaro calcolo opprimente, la parte più fragile.
Guardare attraverso i confini, le iconografie, significa ricercare proprio la trasparenza che ci permette il salto, combattendo quell’opacità che per Blake è Satana stesso.
Il pifferaio richiama lo sterminatore di ratti di Hamelin, favola ambientata circa nel 1200, che vendicò l’ingratitudine degli uomini per averli salvati dall’invasione dei ratti, rapendo tutti i bambini sani della città, nello stesso modo in cui si era liberato dei ratti: suonando. Nella versione originale della storia, con un probabile fondo di verità anche se mai è stata scoperta con certezza la ragione, i bambini furono tutti sacrificati nelle grotte non distanti dalla città.
*
Il monito è chiaro, gli uomini si meritano i bambini, quindi l’Innocenza, quindi la concentrazione purificata verso la felicità, solo se si liberano della loro parte meschina, ragionata per interesse, costruita sulla furbizia, e votata allo sfruttamento. Se soggiaceranno a queste parti, i bambini, e quindi la possibilità del paradiso in terra, ci sarà negata per sempre.
Blake vede l’uomo moderno andare inesorabilmente sulla strada del calvario dei bambini, e ne grida il pericolo. Stupisce quanto avesse già compreso di un futuro che travolse proprio lui, dal momento che sarà il primo a restare spesso incompreso, e quasi sempre dichiarato pazzo, quando la lucidità del suo messaggio è esemplare.
Introduzione
Suonavo il flauto per vallate selvatiche intonando canzoni di festa ed allegria quando su una nuvola scorsi un bimbo che mi disse:
“Soffia un’aria su un Agnello” E io suonai esultando di gioia “Suonalo ancora con il tuo flauto” E mentre suonavo lui piangeva ad ascoltare
“Ora abbandona il flauto, il tuo flauto scintillante e canta tutta la tua felicità” E io intonai quell’ode ancora mentre lui piangeva per l’emozione di ascoltare
“Ora invece Pifferaio siediti e scrivi in un libro tutto ciò io possa mai leggere” Detto così svanì al mio sguardo e io strappai una vuota canna
Costruii una penna in legno e la intinsi in limpide acque e scrissi i miei poemi sulla felicità in modo che ogni animo infantile potesse gioirne
L’angioletto chiede al pifferaio di redigere un libro per i bambini, o meglio per tutte le anime che sapranno restare immaginative e prolifiche, che contenga il segreto della felicità. E Blake, il pifferaio Blake, ha ubbidito.
Gli agnelli lo circondano, nessun altro simbolo al mondo può rappresentare con altrettanta forza la purezza, e la contrapposizione con i ratti non può sfuggire.
*
Il disegno successivo, che accompagna la prima poesia dei Canti dell’Innocenza, The Shepherd, incornicia proprio due bambini che leggono il libro, infinito supponiamo, custodito in grembo alla Madre, che difende la loro purezza immergendoli nella lettura come principale porta per l’aldilà terreno, per salvare, nel compito assoluto di qualsiasi anima materna, la loro anima. La protezione dell’albero è avvolgente e la poltrona in cui siede la madre sembra stridere così immersa nella campagna, ma non può che richiamare alla casa, proprio perché in essa Blake svolgerà l’intera epica e creazione della sua vita, come se le mura della protezione fossero le stesse mura della nostra carne, necessarie e insieme superabili, abbattibili, con la forza del pensiero creativo. È lì che si nasconde il mistero, è da lì che dobbiamo iniziare la nostra ricerca, se vogliamo sperare di trovare l’eternità nella nostra casa, e l’evidenza nel mistero. Sulle lettere forgiate per il titolo si muovono piccole persone, che non sono angeli, piuttosto sembrerebbero anime, appollaiate proprio sopra ai rami da cui pendono le mele che paiono provocarci alla scelta, possiamo cogliere il rigore di una pantomima di ragione, o piuttosto muovere le nostre anime sulle “lettere simboliche” dell’Innocenza che ci salverà nell’opportunità di attraversarci.
*
Intravediamo il viaggio nei Canti. Se il Pifferaio è Blake, l’evoluzione che comincia dalla più pura Innocenza e gioia, e termina nella più cupa disperazione per la delusione dell’Esperienza, è l’evoluzione proprio dello spirito del poeta. Il viaggio dell’uomo moderno.
The Shepherd
Quanto è armonioso Il dolce destino del Pastore Da mattina a sera lui va a spasso Per tutto il giorno deve seguire il suo gregge E la sua lingua si colma di lodi Nell’udire l’innocente chiamata degli agnelli E la dolce risposta delle pecore Lui è vigile mentre loro sono in pace Perché sanno che il loro Pastore è vicino
*
L’uomo pastore, il poeta pastore, è ancora potente, è il simbolo dell’apertura dei Canti. È ancora nella sua dimensione più vera e profonda, è ancora colui che salva, piuttosto che salvarsi, e colui che rispecchia la divina protezione che tanto cerca l’uomo perduto. È un uomo ricolmo, che contiene in sé il Dio, la risposta, la visione, che dir si voglia, o meglio il segreto, e quindi offre amore, e non l’uomo svuotato, narciso, che tenta di farsi Dio nelle categorie esteriori di una ragione al soldo del reprimere nelle categorie della distruzione, e del prosciugamento di amore.
Blake è forse uno dei poeti che crede di più nella potenza umana. Che non si rivolge all’esterno, convinto che tutto si celi, e si potenzi, ineluttabile, in noi.
Francesca Ricchi
*In copertina: un’opera di William Blake tratta dal ciclo di illustrazioni dalla “Divina Commedia” cominciate nel 1824
L'articolo “Alla ricerca, nei meandri dei sogni, nelle lotte dei nostri Io frammentati, del nucleo incandescente, opportunità di un’altra vita”: William Blake come maestro spirituale proviene da Pangea.
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aneddoticamagazinestuff · 4 years ago
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Roberto Poggi: UNA GENERAZIONE ALLO SPIELBERG - parte seconda
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Roberto Poggi: UNA GENERAZIONE ALLO SPIELBERG - parte seconda
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La distruzione della rete cospirativa creata da Maroncelli non indusse la polizia asburgica ad abbassare la guardia. Mentre i “cugini” languivano nel carcere sull’isola di San Michele di Murano in attesa di conoscere la loro sorte, alcuni rassegnandosi al peggio, altri confidando nella clemenza imperiale, i “lupi”, come erano chiamati i poliziotti nel gergo carbonaro, tornarono ad azzannare nuove prede.
  Il 1° dicembre 1821, il conte Strassoldo, governatore di Milano, ordinò la perquisizione dell’abitazione di Gaetano De Castillia, un giovane avvocato sospettato da mesi di simpatie liberali e di aver intessuto relazioni con la corte di Torino in vista di una invasione del territorio lombardo da parte delle truppe piemontesi. A metter sull’avviso la polizia era stata la denuncia del fratello di Gaetano, Carlo, che nel mese di marzo aveva riferito di una riunione avvenuta in una casa di San Siro, sotto la direzione di Giuseppe Pecchio, al fine di preparare l’insurrezione a sostegno dell’esercito sardo. L’attendibilità dell’informazione, peraltro anonima, era stata inizialmente sottovalutata dalla polizia che aveva ritenuto più prudente raccogliere altre indiscrezioni prima di agire. Quando il governatore ordinò la perquisizione disponeva di indicazioni molto precise, come dimostra l’invito a ricercare in casa De Castillia un sigillo recante l’iscrizione sediziosa “Leggi e non re. L’Italia c’è”.
I poliziotti non si rammaricarono troppo di non aver scovato il sigillo, poiché rinvennero indizi ancora più pesanti di colpevolezza: corrispondenze che lasciavano trapelare il desiderio di “politiche novazioni”, implicandolo con gli avvenimenti rivoluzionari in Piemonte, ed una misteriosa lettre à jour. Tratto in arresto, De Castillia non seppe tacere, compromettendo il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio che fu interrogato, perquisito ed arrestato a sua volta. Il marchese fornì nelle sue memorie una versione piuttosto fantasiosa delle circostanze del suo arresto che non trova riscontro nei documenti: ”Un amico mi reca la dolorosa nuova soggiungendo: sussurrasi che io mi sia procacciata l’impunità col sacrificio del mio compagno. La circostanza dell’aver la polizia imprigionato il Castillia e non me, aveva dato origine all’indegna calunnia. Qual meraviglia che io, invece di cercar scampo nella fuga, attendessi a salvare la mia fama? Me ne vo di filato in polizia e mi consegno prigioniero dicendo: ‘Gaetano Castillia fu da me trascinato in Piemonte; se quel viaggio è riputato delitto, io solo sono il delinquente, io solo sono meritevole di pena!’. (…) Il direttore di polizia non mi ritenne quel giorno. E forse volle procacciarmi l’opportunità di mettermi in salvo, facendomi dire che potevo tornarmene a casa, ma non uscire dalla città… . Passò quel giorno, ed il seguente. Venuta la sera, io me ne andai al teatro Re…”, dove la polizia lo arrestò.
Risulta assai poco credibile che sapendo di rischiare la testa per una accusa di alto tradimento il marchese si sia spontaneamente consegnato alla polizia solo per tutelare il suo buon nome. Ancora più falsa suona l’affermazione secondo cui la polizia, che già aveva avuto sentore delle trame tra cospiratori lombardi e piemontesi, lo abbia rilasciato dopo aver udito una aperta e provocatoria ammissione del suo viaggio a Torino. De Castillia era stato arrestato sulla base di indizi molto più vaghi al confronto. Certamente il prestigio sociale del Pallavicino potrebbe aver fatto la differenza, i documenti ufficiali non offrono però alcuna conferma in merito.
Lasciando da parte le circostanze del suo arresto, quando fu interrogato Pallavicino non esitò a coinvolgere il conte Confalonieri e ad indicarlo come ideatore del suo viaggio a Torino per strappare a Carlo Alberto una promessa di intervento militare. Dichiarò inoltre di far parte della società segreta dei federati italiani e di esservi stato introdotto da Confalonieri. L’ampiezza e la rapidità di tali ammissioni stridono con l’immagine, costruita a posteriori dallo stesso Pallavicino, dell’aristocratico intrepido ed imperturbabile, disposto anche a sacrificare la propria vita pur di allontanare da sé l’ombra di una calunnia infamante.
Immediatamente fu spiccato un ordine di cattura per il conte, che, in violazione delle procedure, fu incriminato per alto tradimento prima ancora di poter presentare elementi a sua discolpa. La testimonianza di Pallavicino fornì finalmente consistenza legale ai sospetti che, soprattutto durante il processo Maroncelli-Pellico, si erano accumulati sul fondatore del “Conciliatore”. Confalonieri rappresentava tutto ciò che il governo asburgico odiava e temeva, un aristocratico che impiegava il proprio denaro in attività economiche innovative, come l’acquisto del battello “Eridano”, che implicitamente mettevano in evidenza quanto gli artificiosi confini imposti dal congresso di Vienna fossero un ostacolo allo sviluppo della valle del Po; un intellettuale liberale che non perdeva occasione per scuotere le coscienze assopite degli italiani, rinsaldare i legami con la cultura riformista europea e sbeffeggiare l’ottusa censura imperiale, lasciando vuoti sulle pagine azzurre del “Conciliatore” gli spazi degli articoli soppressi; un pericoloso cospiratore che non si accontentava di gingillarsi con riti iniziatici e messaggi in codice, ma guardava al Piemonte ed alla sua forza militare per liberare il lombardo-veneto dall’occupazione straniera.
Nel pomeriggio del 13 dicembre 1821, una squadra di poliziotti, al comando dell’attuario Cardani, si presentò a palazzo Confalonieri e fu introdotta nella camera da letto del conte, sorprendendolo mentre questi si stava vestendo assistito da un domestico. La stanza fu rovista da cima a fondo, numerose carte furono sequestrate e stipate in un sacco. Al termine della perquisizione, Confalonieri, come ci informa il verbale redatto dal Cardani, “…addusse un forte bisogno, ed indicando una piccola latrina all’inglese che sta in un piccolissimo stanzino contiguo alla sua stanza da letto chiese di ivi recarsi. Io prima di permettergli l’accesso, sebbene (avessi) già osservato lo stanzino all’atto della perquisizione, entrai in esso per vedere se vi era qualche segreta uscita, ma le indagini (mi) persuasero che non ve ne esisteva sembrando tutto di muro circondato.”. Lasciato alla sua intimità, il conte aprì un passaggio segreto da cui sgattaiolò nel solaio. Cardani ed i suoi uomini impiegarono qualche minuto ad accorgersi della fuga, poi, superato lo stupore iniziale, reagirono con prontezza, nonostante il trambusto inscenato dai domestici e dai familiari per rallentare e forviare le ricerche. Cardani corse a cercare rinforzi con cui circondare il palazzo, mentre i suoi sottoposti frugavano ogni stanza. Il nascondiglio del conte fu ben presto trovato in una nicchia del solaio. Confalonieri cercò goffamente di giustificarsi, dicendo di “…essersi dato alla fuga non con decisa intenzione di evadersi, ma per mettersi per il momento al sicuro, e per presentarsi poi lui medesimo a giustificarsi alla commissione speciale di Milano…”, senza tuttavia riuscire a convincere il Cardani, che considerò la scoperta di un secondo passaggio segreto dietro il letto come la prova che il conte si era da tempo attrezzato per sfuggire ad un ordine di cattura.
Il governatore Strassoldo, pur rallegrandosi per la cattura, non risparmiò a Cardani ed ai suoi agenti una dura reprimenda per i modi rudi e villani con cui avevano trattato la moglie del conte, Teresa, il suo anziano padre, Vitaliano, ed i domestici. In particolare l’epiteto di “donna di malaffare” rivolto da uno degli agenti alla contessa indignò il governatore. A difesa dell’operato di Cardani intervenne il direttore generale di polizia Goehausen che esaltò la prontezza di spirito ed il coraggio del suo funzionario, esecrando al tempo stesso la condotta del conte, degna di uno “scellerato” e non di un “cavaliere”.
Il giorno dopo la brillante operazione condotta dal Cardani, la polizia fornì nuovi argomenti a chi la accusava di eccessi e di mancanza di tatto, procedendo senza un mandato legale all’arresto di un amico cremonese di Confalonieri, il barone Sigismondo Trecchi, menzionato dal Pallavicino nelle sue deposizioni.
Strassoldo condannò con fermezza il mancato rispetto delle procedure, enfatizzando come simili abusi fossero lesivi dell’immagine pubblica del governo. L’arresto di Trecchi fu prima confermato ex post dalla commissione speciale, con grande soddisfazione di Goehausen, poi revocato dopo poco più di un mese per insufficienza di prove.
Mentre le autorità asburgiche battibeccavano tra loro, delineando il contrasto tra i sostenitori della cautela e della moderazione e quelli della più sbrigativa repressione, le deposizioni di Pallavicino furono confermate dal De Castillia, rendendo difficilissima la posizione di Confalonieri, che si difese opponendo il silenzio alle domande del giudice De Menghin.
Soltanto nella primavera del 1822, pur senza ammettere di aver preso parte attiva alla congiura di cui era accusato, Confalonieri iniziò ad abbandonare il suo mutismo, fornendo vaghe informazioni sulle sue relazioni con personalità d’oltralpe di sentimenti liberali.
L’idea che la Federazione, una setta diversa dalla Carboneria, ormai quasi annientata, minacciasse i domini austriaci in Italia tormentava gli inquirenti, inducendoli a moltiplicare le pressioni per strappare una piena confessione a Confalonieri, considerato, alla luce delle deposizioni di Pallavicino, come capo della cospirazione, nonché custode del nascondiglio segreto dei documenti più preziosi per sgominare l’intera rete dei federati in Lombardia ed altrove.
Nell’aprile del 1822, l’imperatore Francesco I sciolse le commissioni speciali di prima di seconda istanza di Venezia e ne costituì due analoghe a Milano. Contestualmente trasferì da Venezia a Milano il magistrato che più di ogni altro aveva dato prova di esemplare abnegazione nella lotta contro la Carboneria: Antonio Salvotti, che con la consueta tenacia riuscì a fare breccia nella difesa di Confalonieri, costringendolo ad ammissioni incriminanti. Anziché affrontare di petto il suo avversario, Salvotti agì d’astuzia, cercando di ottenere ulteriori accuse a carico del conte dagli altri congiurati. La prima vittima della sua tortuosa, ma efficace, strategia fu un collaboratore del “Conciliatore”, incarcerato in base alle deposizioni di Pallavicino, Pietro Borsieri che, indotto subdolamente a credere che Confalonieri avesse già reso un’ampia confessione, non si rifiutò di confermare quanto riteneva fosse già noto a Salvotti. Dichiarò di essere stato affiliato alla Federazione dall’amico Confalonieri e di essere al corrente sia delle trame con i liberali piemontesi, sia dell’esistenza di una rete cospirativa a Brescia. Per compiacere Salvotti, Borsieri non si trattenne dal puntare l’indice contro un giovane bresciano, Andrea Tonelli.
Alle rivelazioni di Borsieri seguirono quelle del barone Francesco Arese Lucini, ex colonnello delle armate napoleoniche, nonché ministro della Guerra in pectore del governo provvisorio vagheggiato dai federati, e quelle di Tonelli, tutte concordi nell’assegnare a Confalonieri un ruolo eminente nella cospirazione.
Difronte al moltiplicarsi degli elementi a suo carico, Confalonieri finì per lasciarsi andare a parziali ammissioni. Continuò a negare di essere associato alla Federazione e di aver iniziato Borsieri, e tutti gli altri che lo accusavano, ammise tuttavia di aver riconosciuto in Giuseppe Pecchio, già latitante, un cospiratore in relazione con i liberali piemontesi. Non seppe fornire convincenti giustificazioni al versamento di denaro effettuato a favore di Filippo Ugoni, sospettato di essere il capo della ramificazione bresciana della Federazione. Si sforzò senza successo di convincere Salvotti che quel denaro non aveva finalità rivoluzionarie, ribadendo il proprio rifiuto dei mezzi violenti e rivoluzionari. Senza preoccuparsi di sfidare il ridicolo, si ostinò a dipingersi come un “passivo contemplatore dei progressi” dei federati in Lombardia, lasciò intendere di conoscere l’estensione della cospirazione a Milano, Brescia, Pavia e Mantova, limitandosi però a citare personaggi come Pecchio ed Ugoni che sapeva essere già al sicuro dalle spire della polizia asburgica. Incalzato da Salvotti, quanto mai irritato dalla maschera inverosimile del “passivo contemplatore”, Confalonieri confessò di essere stato informato del progetto della creazione di una guardia civica e di un governo provvisorio, a garanzia dell’ordine, in attesa dell’invasione delle truppe piemontesi, invasione che egli stesso aveva sollecitato scrivendo al generale dell’esercito sardo San Marzano. Nell’ingenuo tentativo di discolparsi affermò che le trame di cui era venuto a conoscenza non avevano altro fine che quello di scongiurare l’anarchia nel caso in cui il governo austriaco si fosse trovato minacciato da repentini mutamenti politici. Salvotti non si sognò mai di considerare Confalonieri un uomo d’ordine alieno da ogni passione rivoluzionaria antiaustriaca, né di accettare come attenuante il fatto che il conte nel marzo del 1821 si trovava gravemente malato e quindi nell’impossibilità di prendere parte attiva alla cospirazione, il disegno di cui era venuto a conoscenza era palesemente eversivo e violento, la mancata denuncia di esso configurava senza mezzi termini il reato di alto tradimento. L’ostinazione di Confalonieri nel respingere l’accusa di essere a capo della setta dei federati irritava Salvotti, impedendogli di far luce su tutti gli aspetti della vicenda, ma non di ritenerlo reo di alto tradimento.
Con ogni probabilità, l’inefficace linea difensiva del conte fu ispirata da una conoscenza molto superficiale del codice penale asburgico. Se Confalonieri nel suo lungo duello con Salvotti avesse potuto avvalersi di una assistenza legale, non sarebbe certo scivolato, come tanti altri patrioti, lungo il pendio sdrucciolevole delle parziali ammissioni e dei tortuosi distinguo, avrebbe negato ogni contestazione, inceppando così l’apparato repressivo imperiale. La correttezza formale e l’indubbia abilità inquisitoria di Salvotti non devono far perdere di vista il carattere profondamente iniquo ed illiberale del sistema giuridico asburgico. L’assenza di limiti alla carcerazione preventiva, la negazione di ogni diritto alla difesa, il riconoscimento del valore di prova alla semplice delazione di due coimputati, il totale e minuzioso controllo esercitato dall’imperatore su ogni fase del processo, sulle condizioni della carcerazione, nonché sulla nomina e sulla carriera dei giudici, ponevano l’imputato in una posizione di tale inferiorità da renderne quasi inevitabile la condanna, se non la piena confessione, genuina o meno che fosse.
Anche in assenza di una piena e contrita confessione di Confalonieri il processo contro i federati continuò con inesorabile lentezza, arrivando a coinvolgere decine di indagati. Le imprudenti dichiarazioni di Tonelli consegnarono a Salvotti tutto il filone bresciano della cospirazione, tranne il capo, Filippo Ugoni, che sin dalle prime fasi dell’inchiesta si era messo in salvo in Svizzera. Il testimone chiave fu il conte Ludovico Ducco, un possidente bresciano menzionato da Tonelli. Inizialmente i sospetti a suo carico erano tanto vaghi che Salvotti dovette accontentarsi di convocarlo per un accertamento, anziché procedere al suo arresto. Interrogato a proposito dei suoi rapporti con Ugoni, Ducco confermò di essere stato informato dei suoi progetti rivoluzionari, aggiunse però di averli avversati, considerandoli folli. Commise lo stesso errore di valutazione di Confalonieri, ritenendo che la semplice conoscenza di un progetto eversivo non costituisse di per sé un grave reato. Salvotti ordinò immediatamente il suo arresto, non solo per le dichiarazioni incriminanti che aveva reso, ma soprattutto perché la sua lunga esperienza di inquisitore gli aveva suggerito che Ducco sapesse molto di più e non avesse la forza di carattere per resistere ad un interrogatorio serrato. Come scrisse nella sua relazione mensile all’imperatore, osservandolo Salvotti notò che: “…una cupa tristezza gli sedeva sulla fonte, e pareva che egli in quel momento tutta sentisse l’angoscia della sua posizione ed era evidente che egli sottaceva dei più importanti segreti.”. Non si sbagliava.
Dopo qualche debole resistenza, Ducco crollò, aggravando la posizione di Confalonieri. Confessò di essere stato iniziato alla Federazione dal conte in persona e lo indicò come capo indiscusso della cospirazione, rivelò inoltre i nomi di tutti gli aderenti alla rete bresciana. Il conte Vincenzo Martinengo, l’ingegner Pietro Pavia, l’avvocato Dossi e suo figlio Antonio e molti altri furono arrestati, tra questi anche l’ex colonnello napoleonico Silvio Moretti, che si era offerto nel marzo del 1821 di guidare un audace colpo di mano contro un convoglio incaricato di trasferire fuori da Milano le casse pubbliche. L’estrema prudenza dei congiurati bresciani gli aveva però impedito di passare all’azione.
Moretti diede prova del suo temperamento risoluto al momento dell’arresto, tentando di tagliarsi la gola con un coltello. La ferita, per quanto grave, non fu mortale. Fallito il tentativo di suicidio, Moretti non offrì a Salvotti alcuna collaborazione andando incontro alla condanna con grande dignità e compostezza.
Le ampie e circostanziate rivelazioni di Ducco furono particolarmente apprezzate da Salvotti poiché vanificarono la tardiva ritrattazione da parte di Pallavicino e di Borsieri delle accuse rivolte contro Confalonieri. Lo scaltro Salvotti considerò subito sospetta la simultaneità delle ritrattazioni e giunse alla conclusione che i due imputati dovevano essere riusciti ad aggirare la sorveglianza dei secondini ed a concordare una versione comune. Non tardò ad accertare che Borsieri e Pallavicino avevano comunicato usando un ingegnoso sistema: “…un picchio denota la lettera A, due picchii la lettera B, tre la C, e così progressivamente. Quantunque l’uso di questo linguaggio sia lento e poco atto a lunghi discorsi, esso basta però per far conoscere i rispettivi nomi, e il sostanziale tenore dei propri costituti (interrogatori). Un detenuto può in questo modo corrispondere con due suoi vicini e con quello che fosse custodito nel carcere sottoposto, perocché si picchia e nelle pareti di divisione e nel pavimento.”.
Informato nella periodica relazione del 21 novembre 1822, l’imperatore manifestò il proprio disappunto e raccomandò una vigilanza più stretta dei detenuti. Al tempo stesso si rallegrò della notizia che Salvotti riteneva di essere in possesso, nonostante le ritrattazioni concordate di Borsieri e di Pallavicino e la mancata confessione di Confalonieri, degli elementi per preparare una dura requisitoria contro gli imputati ed invocare pene severissime.
Mentre Salvotti era impegnato a tirare le fila dell’inchiesta, affinché la commissione speciale di prima istanza potesse pronunciarsi, il 18 gennaio 1823 fu arrestato a Milano un giovane cittadino francese, provvisto di passaporto ginevrino, di nome Alexandre Andryane. Quel viaggiatore così ansioso di visitare l’Italia da valicare le alpi nel cuore dell’inverno, munito di un passaporto rilasciato dalle autorità di una città che ospitava numerosi latitanti, condannati o ricercati per il reato di alto tradimento, non era passato inosservato alla polizia asburgica. Per fugare i suoi sospetti, il direttore generale di polizia Torresani aveva quindi disposto l’intercettazione della corrispondenza dell’Andryane, che, pur avendo dichiarato, prima all’ambasciata austriaca di Berna e poi ai funzionari doganali, di essere diretto a Firenze, non mostrava alcuna fretta di lasciare la capitale lombarda. Una lettera proveniente dal canton Ticino in cui si accennava all’imminente consegna di merci da tempo attese aveva convinto Torresani ad ordinare una perquisizione nella camera presa in affitto dal francese. Forse, più ancora del testo, lo aveva messo in allarme la firma in calce alla missiva: Mitridate. Quel nome altisonante poteva appartenere soltanto al re del Ponto di classica memoria, oppure ad un cospiratore non troppo abile nell’arte della dissimulazione.
Con il pretesto di verificare la presenza di merci di contrabbando, gli agenti della finanza si erano presentati all’appartamento di Andryane. Tra di essi si celava un esperto funzionario di polizia, il conte Bolza, che aveva subito riconosciuto come assai compromettente un fascio di carte, molte delle quali in codice, contenuto in un portafoglio di cuoio nascosto sotto i cuscini di un sofà. Il vano quanto goffo tentativo di Andryane di strappargli dalle mani quelle carte e distruggerle un attimo prima che fossero sequestrate, aveva offerto a Bolza una conferma alla sua prima impressione.
Il voluminoso portafoglio conteneva una trentina di documenti: fogli con annotazioni misteriose, cifre e segni iniziatici, tabelle alfabetiche, pezzetti di carta su cui erano annotati nomi ed indirizzi, diverse lettere di presentazione indirizzate a destinatari sparsi in tutta Italia dal contenuto così anodino e fumoso da apparire senza ombra di dubbio comunicazioni settarie, nonché regolamenti, statuti e rituali di una società segreta denominata dei Sublimi Maestri Perfetti.
Tradotto in carcere ed interrogato, Andryane mostrò di non essere “…troppo provetto in materia…” di cospirazione, esprimendo il proprio pentimento per gli atti “imprudentissimi” ai quali si era abbandonato. Per vincere le reticenze del francese, Torresani gli fece intravvedere la possibilità, in caso di piena ed incondizionata collaborazione, di un perdono imperiale e forse persino di un rimpatrio a breve termine. Andryane disse di aver ricevuto le carte in suo possesso a Ginevra da due individui di cui si rifiutò di fare il nome, anche a costo della vita. Non tacque invece i nomi dell’astronomo Massotti e dell’ex colonello napoleonico Varese con cui si era incontrato durante il suo soggiorno milanese, affrettandosi a specificare di non aver scambiato con loro opinioni politiche.
Dopo i primi interrogatori, in cui il francese appariva già sul punto di sgravarsi la coscienza, l’inchiesta, data la grande rilevanza riconosciuta alle carte sequestrate, fu affidata alla commissione speciale ed al giudice Salvotti.
Nelle sue memorie Andryane fornì una descrizione sulfurea di Salvotti al cui “…sguardo scrutatore, pieno d’intelligenza, d’orgoglio … di malignità … di doppiezza e di malvolere…” non seppe opporre a lungo resistenza. Svelò di essere un emissario di Filippo Buonarroti, il cospiratore di ideali egualitari più temuto ed esecrato dai governi della restaurazione, intenzionato a riorganizzare la rete settaria italiana scompaginata dai recenti processi. Raccontò di aver conosciuto Buonarroti a Ginevra, dove era stato costretto a cercare riparo per sottrarsi ai suoi numerosi creditori. Dopo la sconfitta a Waterloo dell’armata napoleonica, in cui aveva fatto appena in tempo a guadagnarsi i galloni da ufficiale, Andryane per consolarsi dei sogni di gloria infranti si era lasciato risucchiare dal vortice della mondanità parigina, sperperando una quota rilevante del cospicuo patrimonio di famiglia. A Ginevra aveva cercato di rimettere ordine nella propria vita dedicandosi allo studio. Come docente di musica e di italiano aveva incontrato l’anziano Buonarroti e non aveva tardato a subire il fascino di un “..repubblicano indomabile…” che “…le persecuzioni e l’avversità non avevano potuto abbattere né mutare…”. Era stato perciò profondamente lusingato dalla proposta di essere iniziato alla setta dei Sublimi Maestri Perfetti, fondata dallo stesso Buonarroti, ed ancor più di essere innalzato in breve tempo al rango di “Diacono straordinario e territoriale del Gran Firmamento”, il misterioso consiglio direttivo della setta. Il suo entusiasmo giovanile, il suo spirito d’avventura, la convinzione di essere destinato a grandi impese, l’amore per l’Italia e per i sacri principi della rivoluzione francese, le capacità seduttive ed affabulatorie di un grande vecchio dell’estremismo politico – che aveva esordito sulla scena europea nel 1796 con la “congiura degli eguali”, ordita insieme a Babeuf contro la deriva moderata e borghese del Direttorio – avevano finito per convincerlo ad accettare l’ardua missione di fare nuovi proseliti alla causa della libertà e dell’indipendenza italiana e di ricostruire in tutta la penisola una vasta ed efficace rete cospirativa. A Tale scopo, prima di lasciare Ginevra, Buonarroti lo aveva provvisto di un diploma, che attestava il suo alto rango nella setta, di documenti iniziatici come statuti, regolamenti e rituali, oltre ad un buon numero di lettere di presentazione a confratelli, a massoni in sonno, a patrioti un tempo determinati ad impegnarsi nella lotta contro lo straniero, a superstiti del settarismo italiano da coinvolgere nella sua nobile impresa.
Tra i referenti segnalati da Buonarroti comparivano anche personaggi ben noti a Salvotti come Antonio Dossi, implicato nell’inchiesta sui federati bresciani ed altri già da anni tenuti sotto sorveglianza dalle autorità. Si trattava nel complesso di personalità minori, prive di uno spessore politico rilevante. Proprio sull’inconsistenza dei suoi contatti italiani, Andryane, probabilmente limitandosi soltanto ad enfatizzare a proprio vantaggio la realtà, tentò costruire la propria linea difensiva.
Se il primo contatto a Bellinzona con Mitridate, un patriota piemontese di nome Malinverni a cui aveva consegnato le sue preziose carte affinché questi gliele recapitasse a Milano, aveva acceso in Andryane la speranza di poter felicemente portare a termine la sua missione, i successivi incontri milanesi con Massotti, con il colonnello Varese ed altri lo avevano invece deluso amaramente. Né nei patrioti a cui si era rivolto, né tanto meno nell’opinione pubblica aveva riscontrato i segnali di un fermento rivoluzionario in cui la società dei Sublimi Masestri Perfetti potesse prosperare. Lo sconforto nell’apprendere che la situazione italiana era ben diversa da quella prospettatagli a Ginevra era stato così grande da spingerlo a scrivere a Buonarroti, già alla fine di dicembre, per rifiutare l’incarico che con giovanile leggerezza aveva accettato. A questo improvviso voltafaccia era seguita una lettera da parte di Buonarroti, conservata tra le carte sequestrate, in cui rimproveri ed esortazioni si mescolavano.
Per molte ragioni la ricostruzione offerta da Andryane non persuase affatto Salvotti. Il testo della lettera attribuita dal francese a Buonarroti era tutt’altro che esplicito e cristallino, per di più la firma in calce al documento non era quella del rivoluzionario toscano, ma di un misterioso Richard. Inoltre, anche ammettendo che Andryane nell’arco di pochi giorni fosse passato dall’entusiasmo al più nero pessimismo, constatando che il governo austriaco non era così odiato come gli avevano fatto credere e gli italiani non così ansiosi di liberarsi dal giogo straniero, restava inspiegabile la sua rinuncia a proseguire il suo apostolato rivoluzionario in altri stati italiani, dal momento che i suoi contatti si estendevano ben oltre i confini dei domini austriaci. Infine, la reazione più ovvia alla delusione difronte al carattere del tutto velleitario ed improvvisato del disegno politico di Buonarroti sarebbe stata la distruzione delle carte che gli erano state affidate, tanto inutili quanto compromettenti.
Le considerazioni di Salvotti sfavorevoli all’attendibilità della ricostruzione di Andryane furono ulteriormente rafforzate dall’esito contradditorio dei riscontri effettuati dalla polizia. Interrogato, il colonnello Varese confermò di essere stato avvicinato dal giovane francese e risultò convincente quando dichiarò di averlo diffidato dal ripresentarsi a casa sua, prima ancora che potesse orientare la conversazione verso temi eversivi. L’astronomo Massotti invece riparò a Ginevra, offrendo così a Salvotti ottimi argomenti per ritenere che restassero ancora molti segreti da svelare.
Dal canto suo Andryane, avendo esaurito le informazioni da rivelare su di una rete cospirativa che non aveva fatto in tempo a creare, per conquistarsi la fiducia di Salvotti, e quindi la speranza di ottenere clemenza, non ebbe altra scelta che raccontare tutto quanto conosceva sui segreti iniziatici della setta dei Sublimi Maestri Perfetti. Senza farsi pregare troppo, fornì la chiave di decifrazione degli statuti, dei regolamenti e dei rituali che gli erano stati sequestrati. Ne sortì un quadro che dovette far fremere d’orrore Salvotti e tutti gli altri fedeli servitori della monarchia asburgica che esaminarono le carte processuali. Nei simboli, negli emblemi, nelle parole mistiche, nelle formule rituali abbondavano i riferimenti alla rivoluzione francese ed all’esaltazione del regicidio come catarsi dei popoli. Il senato lombardo-veneto nella sua relazione conclusiva all’imperatore sul processo Andryane così sintetizzò le finalità della setta: “…sconvolgere tutti i governi attuali e tutte le religioni … abbattere e trucidare tutti i principi regnanti … coprire la superficie della terra di sangue e stragi, ed infine di repubbliche popolari.”.
Poco importava che lo sprovveduto Andryane di fatto non avesse potuto causare gravi danni al governo austriaco, le finalità ultime della setta, in cui egli occupava comunque un grado elevato, come attestavano i documenti, erano così esecrabili da rendere inopportuno qualsiasi atto di clemenza, a meno che l’imputato non mostrasse un genuino e profondo pentimento, rivelando ai giudici fino all’ultimo segreto di cui era depositario. In questo senso si espresse Salvotti nella sua requisitoria, chiedendo la pena di morte per Andryane, e consigliando al tempo stesso all’imperatore di considerare la possibilità di concedere la grazia a condizione che il reo fornisse “più ampie propalazioni”.
Ad irritare Salvotti era soprattutto l’ostinazione del francese ad essere reticente sulla composizione del Gran Firmamento, il cervello direttivo della setta. Il solo nome di Buonarroti, per quanto luciferino, non poteva certo soddisfare pienamente la sua curiosità. Tanto più che fin dai primi interrogatori Andryane aveva affermato di aver ricevuto le istruzioni ed i materiali per la sua missione italiana da due soggetti, e non da uno solo. Pertanto, oltre al decano dei cospiratori europei dovevano esserci ai vertici della setta altri pericolosi nemici dell’ordine costituito.
Tra maggio ed agosto del 1823, la commissione speciale di prima e di seconda istanza, così come il senato lombardo-veneto sottoscrissero la requisitoria di Salvotti: Andryane meritava la pena capitale per alto tradimento e la grazia imperiale poteva essere concessa soltanto sub condicione. Il giovane francese, più volte sollecitato a guadagnarsi la clemenza imperiale, non seppe aggiungere nulla di rilevante a quanto aveva già confessato. I giudici e lo stesso Francesco I scambiarono l’esaurimento delle informazioni in possesso di Andryane per ostinata e colpevole reticenza. Nel dicembre del 1823, Francesco I commutò la pena capitale inflitta a Pallavicino e Borsieri in vent’anni di carcere duro da scontare allo Spielberg. Altri condannati a morte come Tonelli, De Castillia ed Arese beneficiarono di una clemenza ancora più larga: dieci anni di carcere duro per i primi due ed appena tre per il terzo. Riguardo al destino di Confalonieri e di Andryane, l’imperatore fu invece irremovibile, attenendosi alle conclusioni dei suoi giudici, confermò per entrambi la pena capitale. Il conte milanese si era rifiutato di rendere una piena confessione ed il giovane francese non aveva saputo allontanare da sé il sospetto di essere reticente.
L’influente famiglia Confalonieri non si rassegnò ad un verdetto così severo, fece appello a tutte le sue reti di relazioni per strappare all’imperatore un atto di clemenza. L’anziano padre di Federico, sua moglie, Teresa, e suo cognato Gabrio Casati si precipitarono a Vienna ed ottennero un’udienza presso l’imperatrice, che si impegnò ad intercedere a favore dello sventurato conte. Forse gli inviti alla clemenza rivolti dall’imperatrice a suo marito, uniti a quelli della figlia Maria Luisa, che governava con mano sicura il ducato di Parma, sortirono qualche effetto, ma non nell’immediato.
Dietro l’arcigna severità imperiale, si nascondeva tuttavia il tarlo del dubbio, fortificato dalle pressioni familiari, su come i sudditi lombardi avrebbero accolto l’esecuzione di un personaggio così illustre come Confalonieri. Per sincerarsi di non essere sul punto di creare un martire politico che avrebbe potuto nuocergli più da morto che da vivo, Francesco I inviò da Vienna nel lombardo-veneto numerosi funzionari con l’incarico di raccogliere informazioni in vari ambiti sociali sulle reazioni dell’opinione pubblica alla prospettiva di una esecuzione di Confalonieri. Quasi tutti i rapporti furono concordi nel descrivere come pessima l’impressione degli italiani a proposito della condanna capitale. Anche al direttore della polizia milanese Torresani fu richiesto di esprimere un’opinione in merito. All’inizio di gennaio del 1824 la sua ben argomentata relazione fu determinante per ispirare nell’imperatore un atteggiamento più clemente. Torresani non nascose che la notizia della corsa della contessa Confalonieri a prostrarsi ai piedi dell’imperatrice era stata accolta dai milanesi con sincera costernazione. Fece poi notare che la pubblica opinione avrebbe forse accettato di buon grado un’esecuzione che fosse avvenuta a breve distanza dall’arresto. Al contrario, dopo due anni di indagini, culminate con l’annientamento di ogni rete cospirativa nel lombardo-veneto, in un contesto politico del tutto mutato in cui i fuochi rivoluzionari apparivano spenti in tutta la penisola, togliere la vita al conte avrebbe suscitato sdegno ed ispirato vendetta, soprattutto nella cerchia dell’aristocrazia, a cui la famiglia Confalonieri apparteneva da generazioni.
Alle ponderate parole di Torresani si unirono quelle più accorate del governatore Strassoldo che si fece portavoce della “costernazione indescrivibile” dei milanesi e della loro trepidante attesa della grazia imperiale.
Francesco I non osò deludere i suoi sudditi lombardi rischiando di indebolire il suo trono, l’8 gennaio 1824 commutò la pena di Confalonieri nel carcere duro a vita. Lo stesso fece con Andryane, dal momento che sarebbe stato assurdo e controproducente accanirsi nella punizione di un gregario, per giunta poco più che ventenne e straniero, dopo aver concesso clemenza ad un cospiratore blasonato, a cui i milanesi non stentavano a riconoscere il carisma del capo.
Secondo le relazioni della polizia, i milanesi assiepati nella piazza difronte al tribunale ascoltarono la pubblica lettura della sentenza senza manifestare proteste per la sorte dei condannati, gli unici fischi furono rivolti all’eccesso di zelo mostrato dalla cavalleria nel tentativo di contenere la folla. Senza incidenti si svolse anche l’esecuzione in effigie dei condannati a morte in contumacia, come, tra gli altri, Pecchio ed Ugoni.
Neppure dopo la concessione della grazia, le insistenze dell’imperatore affinché Confalonieri facesse luce sui punti oscuri delle sue deposizioni cessarono. Nelle settimane precedenti la partenza dei condannati per lo Spielberg, il direttore Torresani ebbe almeno un paio di incontri con Confalonieri che, ansioso di dimostrare la propria riconoscenza per la grazia ricevuta e di conquistarsi nuovi meriti per attenuare la propria condanna all’ergastolo, ammise finalmente di essere stato il capo della cospirazione dei federati e di aver personalmente iniziato alla setta Ludovico Ducco. Aggiunse inoltre, stando a quanto riportato da Torresani, di “…detestare pienamente il suo delitto…” e di essere “…del tutto rinsavito dalla sua politica esaltazione…”, avendo maturato la convinzione che “…ogni miglioramento nella forma di governo debba giungere al popolo dall’alto, cioè dal sovrano, e che qualsiasi innovazione impresa dal popolo contro la dinastia legittima non sia altro che una chimera apportatrice di malanni…”. Riconobbe infine “…essere una vera aberrazione ogni sorta di idee di popolare libertà, di indipendenza, ovvero di costituzione popolare, aberrazione per cui verrebbe propagata la più grande calamità sopra interi paesi e popoli.”.
Tale abiura del proprio credo liberale dovette costare uno sforzo immane allo spirito fiero di Confalonieri, ma non bastò tuttavia a rassicurare completamente l’imperatore, che volle addirittura deviare sino a Vienna il viaggio di trasferimento del conte allo Spielberg, affinché il suo cancelliere, il principe Metternich, potesse tentare per un’ultima volta di ottenere confessioni ancora più larghe sulla cospirazione europea. L’incontro avvenne in gran segreto nel marzo del 1824 presso il palazzo della direzione generale di polizia . Dopo un paio d’ore di colloquio, in cui Confalonieri, per ammissione dello stesso principe non mendicò sconti di pena né si lasciò andare a nuove rivelazioni, Metternich si accomiatò dicendo di essere atteso ad un ballo. Confalonieri invece si rassegnò a riprendere la sua strada verso lo Spielberg.
    parte prima
parte terza
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