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PRIMA PAGINA Il Quotidiano Del Sud di Oggi domenica, 28 luglio 2024
#PrimaPagina#ilquotidianodelsud quotidiano#giornale#primepagine#frontpage#nazionali#internazionali#news#inedicola#oggi gravo#quadro#come#pagina#muro#storia#della#risata#quelli#hanno#saputo#sorridere#marcetta#nera#mussolini#vagone#letto#pregiudizio#artificiale#sapiens#condannato
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Ieri a S.Anna di Stazzema molte parole, già sentite mille volte, dai rappresentanti delle istituzioni sul palco. Difficile per loro rinunciare all'occasione di sottolineare l'assenza di un rappresentante del governo. Difficile per noi trovare quale differenza abbia determinato questa assenza nel nulla politico dei discorsi.
Se fosse stato installato un filtro antiretorica al microfono, che avesse cancellato le frasi fatte e i buoni propositi da copertina mai diventati azione politica, il silenzio avrebbe accompagnato la manifestazione. Se avessimo potuto non vedere le persone in divisa e con le armi sul piazzale, lo avremmo svuotato della metà. Una manifestazione militare a commemorare centinaia di vittime di militari.
Avremmo sentito solo marce di guerra accompagnare l'ingresso di gonfaloni. Avremmo sentito una serie di ordini di attenti e riposo, Avremmo sentito ripetere decine di volte la parola onore, un balletto di movimenti agli ordini di una voce stentorea per rendere omaggio a donne, uomini e bambini trucidatə. Alla medaglia d'oro al valor - indovinate - militare (!) conferita al comune di Stazzema si rende onore con un minuto di silenzio. Ma prima avremmo sentito echeggiare la marcetta della Leggenda del Piave. Quella del 24 maggio, quella che "non passa lo straniero", ma nessuno sembra trovare fuori luogo la celebrazione guerriera di una vittoria davanti all'ossario delle vittime di S.Anna. Non eroici fanti, se mai ne sono esistiti: solo donne uomini bambine e bambini. Avremmo sentito un coro di voci bianche, bambinə dai 6 ai 12 anni, cantare l'inno nazionale, bambinə che cantano "siam pronti alla morte" davanti alle ossa delle decine di bambini e bambine uccise dai nazisti. Anna Pardini, la più piccola, nata da venti giorni. Avremmo sentito due volte, rabbrividendo, orrore inedito alla commemorazione, il sorvolo di due jet militari, coordinato da un gruppo radio appositamente preparato all'ingresso del piazzale.
Non siamo stati in silenzio. Abbiamo cantato "Bella ciao" come contrappunto alla Canzone del Piave. Abbiamo ricordato con slogan che la Costituzione ripudia la guerra. Abbiamo gridato forte "Vergogna!" dopo il passaggio dei jet militari. E chi ci era amico ed era sul palco ci ha sentito, forte e chiaro. Ci ha ringraziato. E i suoi ringraziamenti, l'aver cercato di dare una dimensione di umanità a questa orribile esaltazione della guerra sotto mentite spoglie, ci ripagano delle critiche ricevute.
Non siamo noi a mancare di rispetto alla memoria.
Marco Frigerio, Facebook
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Ricordiamoci poi spalletti al napoli che ha fatto la mezza epurazione di tutti i vecchi titolari in spogliatoio tra cui insigne (probabile su spinta di adl dopo l'ammutinamento ancelotti), lui è draconiano così
cioè oddio, ha vinto uno scudetto così, ma manco fare terrorismo psicologico a quattro scappati di casa 💀
gestione spalletti: collegio anni '30, marcetta intorno al cortile, esercizi col bastone e quadro svedese (magari urlano 'italia!!' tra un movimento e l'altro)
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Benazzo-Francalanci: Il Grappolo indica la strada verso la Finale Nazionale del Lanterna
🔴 🔴 Benazzo-Francalanci: Il Grappolo indica la strada verso la Finale Nazionale del Lanterna
It’s a Long Way to Tipperary è una marcetta cantata dai soldati britannici durante le marce nel corso della prima Guerra Mondiale. Oggi nessuno se la ricorderebbe se non fosse la canzoncina preferita dal brachetto Snoopy dei Peanuts. E se così non fosse, di Tipperary, villaggio irlandese di qualche migliaio di anime nessuno ne saprebbe nulla. Tutti invece sanno che è lunga la via che porta alla…
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Anniversario della Liberazione
Dodici Aprile a Castello, settantanove anni dopo rimangono pochi testimoni, banda e scolaresche vanno a ritmo di marcetta dopo aver ascoltato storie da chi non le ha vissute. . Il mercato in piazza è pieno, non ha sensi di colpa se la merce acquistata non si cambia. Qualcuno getta la mattina sui banchi dove tutto costa un euro soltanto. . L’impiegata di banca, denti affilati e tutti a posto, fa…
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Be' dai, questa marcetta militare a Eurovision ci starebbe meglio di Ultimo.
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Messina, al Teatro dei 3 Mestieri andrà in scena lo spettacolo “Ah!”
Messina, al Teatro dei 3 Mestieri andrà in scena lo spettacolo “Ah!”. Prosegue a Messina il cartellone di dicembre di EPIC (Esperienze Performative di Impegno Civile), il progetto di promozione del teatro nelle periferie realizzato a Messina da Mana Chuma Teatro in partenariato con Rete Latitudini e Teatro dei 3 Mestieri. Prossimo appuntamento venerdì 16 dicembre alle ore 21.00 al Teatro dei 3 Mestieri con “Ah!” (Produzione ALDES) che ha la regia di Roberto Castello e con protagonisti in scena Erica Bravini, Mariano Nieddu, Alessandra Moretti. “Ah!” È uno spettacolo di clown dal sapore futurista. Un lavoro patafisico, fra il signor Bonaventura, Alfred Jarry e il teatro musicale di Brecht, che privilegia gestualità marionettistiche e stilizzate per creare un mondo bidimensionale in cui avvengono cose buffe e bizzarre sostanzialmente senza senso. Un tuffo in un nobile stile di intrattenimento comico che ha le sue radici nella cultura italiana di un secolo fa. Uno stile consapevolmente puerile che, proprio grazie a questo espediente, riesce a toccare anche i colori del tragico e ha ispirato il teatro di avanguardia di tutta Europa producendo artisti come Petrolini, Totò e Macario. Ma qui, a differenza loro, a parte alcuni strampalati distici di ottonari in rima baciata che compaiono di tanto in tanto accompagnati da una marcetta militarista, le parole sono del tutto assenti perché il gioco e il divertimento nascono solo dalla gestualità degli interpreti e dalle loro danze bislacche. I successivi appuntamenti in programma, sempre al Teatro dei 3 Mestieri alle ore 21.00 sono: - Martedì 20dicembre con Via del popolo di e con Saverio La Ruina (Produzione Scena Verticale); - Giovedì 22 dicembre con 4x25Di e con Lorenzo Praticò (Produzione Teatro Rossosimona di Rende). Gli spettacoli di EPIC proseguiranno fino alla fine di dicembre 2022. Il calendario completo è consultabile a questo link: https://manachumateatro.it/epic-tour-messina/ PROGRAMMA EPIC Acquista biglietti: https://www.liveticket.it/manachumateatro Info e prenotazioni: +39 346 123 1116, [email protected] ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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FAIR è una marcetta, ci sta.
italiammerda but the anthem fucking slaps
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Clara Jaione - I Cadetti di Guascogna
#clara jaione#orchestra armando fragna#i cadetti di guascogna#traditional pop#pop orchestrale#marcetta#canzone popolare#canzone italiana#radio roma#1949#Youtube
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Iniziarono a canticchiare piano, come fanno gli hobbit mentre se ne vanno in giro, specie di sera quando si avvicinano a casa. Per la maggior parte degli hobbit si tratta di una canzone da cena o da letto; ma questi hobbit cantavano una canzone da viaggio (sebbene, ovviamente, non priva di accenni al letto e alla cena).
La compagnia dell'Anello, Capitolo III, prima parte (mia traduzione)
*
Traduzione di Ottavio Fatica:
Attaccarono a canticchiare sommessamente, com’è tipico degli hobbit quando sono in marcia, specie quando a sera si avvicinano a casa. I più intonano un canto conviviale o una ninnananna; ma quella canticchiata dai nostri tre hobbit era una marcetta (non senza accenni, beninteso, alla cena e al letto).
Testo originale di Tolkien:
They began to hum softly, as hobbits have a way of doing as they walk along, especially when they are drawing near to home at night. With most hobbits it is a supper-song or a bed-song; but these hobbits hummed a walking-song (though not, of course, without any mention of supper and bed).
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No, il catcalling non è affatto un complimento Di Selvaggia Lucarelli Sono nata e cresciuta in un posto in mezzo alla campagna che si chiama Borgata Aurelia. Un piccolo villaggio – all’epoca erano poche case di tufo – a qualche chilometro da Civitavecchia, in cui c’erano tre cose: una piazzetta con un bar, una tabaccaio e delle aiuole di cemento, un grande arco all’ingresso nel villaggio, un campo da calcio sgangherato e una caserma. La caserma 1° Battaglione Bersaglieri La Marmora Civitavecchia. Per me la presenza della caserma a 100 metri da casa, significava molte cose: intanto, la mia sveglia della mattina tutti i giorni alle 7,10 in punto era la fanfara. Una marcetta allegra, troppo allegra per quell’ora, che mi costringeva a un risveglio senza decompressione. La sentivo, e sapevo che era ora di prepararmi per la scuola. Ingrid, la mia vicina di casa e migliore amica, era figlia del maresciallo più noto (e temuto) in caserma. Ogni tanto lo vedevo rientrare a casa, mentre giocavamo, col suo cappello piumato, e mi sembrava una specie di eroe severo e impenetrabile. E poi c’erano, appunto, i militari (quando il servizio militare era obbligatorio). Arrivavano da tutte le regioni d’Italia, in particolare dalla Sicilia e dalla Sardegna, ma non solo. Erano, ovviamente, ragazzi molto giovani che un po��� come me, diventata ormai adolescente, godevano di una libera uscita con poche possibilità: al massimo, una passeggiata in piazza o un bus per Civitavecchia. Le nostre vite, dunque, si incrociavano quasi tutti i giorni, più volte al giorno, anche perché la fermata del bus più vicina alla caserma era esattamente di fronte casa mia, che era la prima a destra entrando dall’arco. Parto da qui, per spiegare cosa sia il catcalling, perché quella fermata, quel bus, quella caserma sono stati passaggi indimenticabili dell’adolescenza. Perché non ricordo il singolo episodio (che già comunque sarebbe abbastanza), ma quel disagio costante e imbarazzato nel trovarmi al centro di sguardi, gomitate, battute (spesso in dialetto) che non capivo o, purtroppo, capivo. É stato il mio imprinting col branco, con il cameratismo volgare, con le attenzioni maschili. Ero una ragazzina rimasta più o meno invisibile fino alle medie, poi diventata improvvisamente florida e appariscente intorno ai 14 anni. Quelli in cui cominciavo a prendere il bus per uscire con gli amici, con i primi amori. Quelli in cui mettevo le prime gonne, un po’ di trucco. Quelli in cui mi vestivo, anche, per piacere al ragazzino che piaceva a me. Io quei viaggi in bus o anche la semplice camminata verso la piazza per andare a comprare un gelato o la farina a mia mamma me li ricordo bene. Ricordo la vergogna nel sentire ridacchiare quei ragazzi al mio passaggio, le parole fuori posto, gli inseguimenti, le battute sulle tette, i “sei carina” viscidi, quelli che mi venivano vicino chiedendomi come mi chiamavo e talvolta gli insulti perché non rispondevo. Ricordo le guance che mi si infiammavano, io che guardavo dritta davanti a me fingendo che quei ragazzi non esistessero, che fossero dei fantasmi, delle voci nelle orecchie. Il sollievo quando mi mollavano e li sentivo allontanarsi, il sollievo quando magari mi passavano accanto e non dicevano nulla, il sollievo quando uno di loro diceva: lasciala stare. Ricordo che alle volte guardavo dal terrazzo di casa se fosse il momento buono per uscire, se la strada fosse libera o ci fossero gruppi di ragazzi. Se ne scorgevo qualcuno prendevo la strada laterale, allungavo il percorso ma ero certa che nessuno mi avrebbe notata. Alle volte, quando il bus si avvicinava alla mia fermata e vedevo che tanti, troppi ragazzi erano già saliti in piazza, rinunciavo. Tornavo a casa. Salire su un bus con 30 sconosciuti uomini mi provocava un’ansia insostenibile. Non c’erano neppure i cellulari, neppure la possibilità di fingere di non vedere o sentire, di chiamare qualcuno, di isolarsi dalle attenzioni moleste. Il periodo estivo poi, prendevo il bus per andare al mare, quindi pochi vestiti e il costume sotto, un inferno. Mi vergognavo, tantissimo. E questo, qui sta il nodo fondamentale, nonostante io all’epoca fossi entusiasta di piacere ai ragazzi. Era una sensazione nuova, che mi faceva sentire apprezzata e importante. Peccato che quella sensazione non avesse nulla a che fare con ciò che provavo sul bus o per strada quando ricevevo attenzioni feroci, invasive e mortificanti. Non mi sentivo apprezzata, ma aggredita. Sentivo che la mia femminilità provocava reazioni morbose, che il mio spazio non era più mio. Ecco, se dovessi spiegare il catcalling ai tanti analfabeti emotivi (e alle tante analfabete emotive) che ho sentito parlare a sproposito in questi giorni, direi che chi fa catcalling non fa un complimento. Occupa uno spazio non suo. Si appropria di una familiarità che non gli è stata concessa, annulla le giuste distanze, commenta ad alta voce ciò che pensa di una sconosciuta che gli passa accanto perché quella sconosciuta in quel momento è un semplice oggetto. Nessuno, di norma, commenta ad alta voce il suo pensiero su qualunque essere umano gli passi accanto. Si commentano le cose – una macchina, un paesaggio, la facciata di un palazzo, le vetrine di un negozio – non le persone e non in modo che possano sentire. Il discorso vale per tutti tranne che per le donne, costrette a subire attenzioni e commenti non richiesti, non desiderati perché, appunto, in quel momento sono oggetti. Oggetti sessuali. Chi parla di “complimenti” salta un passaggio fondamentale. Il complimento è una parola gentile, detta in un’atmosfera di momentanea o prolungata familiarità, in cui esistono scambio e reciprocità. Il complimento non è tale se prevede invasioni e l’abbattimento, a senso unico, delle distanze. E le distanze sono un diritto, sanciscono il grado di confidenza e lo spazio che intendiamo concedere all’altro. Il fatto che le donne, purtroppo, fatichino spesso anche ad ottenere un diritto così elementare, dovrebbe essere oggetto di indignazione, non di minimizzazione. E passino le battute idiote di Pio e Amedeo (“Cioè, ‘che bel vestito a fiorellini, ce lo aggiungiamo il gambo?’ non si può più dire?’) o le idiozie del Faina, ma che tante persone dotate di strumenti e perfino tante donne non comprendano quanto un fischio o una qualsiasi attenzione non richiesta siano lontani dal concetto di complimento è disarmante. Disarmante soprattutto perché il commento indesiderato è considerato gradito e legittimo se la donna lo subisce da sola. Se la donna è in compagnia di marito o fidanzato, l’apologeta del catcalling, probabilmente ringrazia l’artefice del fischio con una manata in faccia. Perché sia chiaro: in un modo o in un altro, la donna resta sempre un oggetto. Del marito, del fidanzato o, in assenza del maschio alfa accanto, del maschio dotato di fischio polifonico.
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Storia Di Musica #149 - Bob Dylan, Blonde On Blonde, 1966
Per questo ultimo mese di storie musicali, un po’ per esorcizzare il periodo che stiamo vivendo, ho pensato a 4 dischi leggendari per la loro bellezza. Quello di oggi è uno dei dischi più influenti e rivoluzionari della storia: Bob Dylan pochi mesi prima della sua pubblicazione, durante un concerto al Festival Folk di Newport, nel 1965, si presentò sul palco accompagnato dai The Hawks (futura The Band, il gruppo di Robbie Robertson, Helm e gli altri) per suonare con strumenti elettrici pezzi del suo repertorio. Dopo sole quattro canzoni, fu duramente contestato, scappò dal palco con il suo gruppo e ritornò poco dopo, “sfidando” il pubblico solo con la sua chitarra cantando, profeticamente, It’s All Over Now, Baby Blue. La svolta elettrica, che già aveva preso vita nell’altrettanto leggendario Highway 61 Revisited, imperniato sull’organo Hammod di Al Kooper e la chitarra elettrica di Mike Bloomfield, diviene completa e dirompente nel disco di oggi. Dylan è febbrile, pieno di idee, emotivo, e scrive moltissimo: inizia a New York a registrare con gli Hawks nell’ottobre del 1965 e con Bob Johnston in cabina di produzione, ma non è affatto soddisfatto, nonostante la mole di materiale. Nel frattempo, a Novembre, sposa in gran segreto la sua fidanzata Sara Lownds, che diventerà la musa per le canzoni che registrerà a Nashville, insieme al fido Al Kooper e ad un gruppo di straordinari musicisti sessionisti, tra cui il chitarrista e bassista Charlie McCoy, i chitarristi Wayne Moss e Joe South, e il batterista Kenny Buttrey. Dylan è entusiasta, scrive le canzoni in studio, mentre i musicisti ingannano il tempo giocando a carte, le prova una o due volte e poi passa le idee ai musicisti per registrarle. Il risultato è che registra così tanta roba, con canzoni che spesso superano i 5 minuti, che non basta un solo 33 giri, e la Columbia, con sprezzo del pericolo per i costi commerciali e con totale fiducia in Dylan, pubblica addirittura le 14 canzoni scelte su un doppio LP, il primo della storia del Rock: Blonde On Blonde. Oltre il dato storico (che anticipa di qualche mese un altro doppio disco storico, Freak Out! di Frank Zappa e i Mothers Of Invention) è il lato simbolico che è dirompente: il disco non è più un riempitivo di brani che accompagnano un singolo di successo, ha una sua natura organica, una sua dimensione artistica, diviene un oggetto che ambisce anche ad un valore artistico. Blonde On Blonde a distanza di decenni stupisce per molti fattori: la qualità incredibile dei testi dylaniani, che per la prima volta mettono da parte la natura di denuncia folk e si concentrano di più sulle dinamiche private, sulla confusione personale sul lavoro, sull’amore (tema forse centrale), sui comportamenti interpersonali, sui riferimenti letterari, da Shakespeare ai filosofi greci. Dylan prende dal blues, dal country (la scelta di andarsene a Nashville è decisiva) lo trasforma e ne esce fuori una scaletta di brani uno più famoso dell’altro: dalla marcetta da circo Barnum di Rainy Day Women # 12 & 35 (dall’oscura leggenda che fosse una canzone sulla droga, per il titolo cripitico e anche per il testo che gioca tutto sul doppio significato di “stoned”), ai blues sarcastici di Stuck Inside The Mobile With The Memphis Blues Again, o Leopard Skill Box Hat, all’armonica lancinante di Pledging My Time, a canzoni gioiello come Absolutely Sweet Mary o One Of Us Must Know (sulla fine di un amore, dove lui dice a lei “sooner or later, one of us must know\That you just did what you're supposed to do\Sooner or later, one of us must know\That I really did try to get close to you ed è l’unica canzone tenuta dalle sessioni di New York). Dylan è perfetto anche quando è più “pop”, nella splendida I Want You, uno dei brani più orecchiabili del suo intero repertorio e singolo del disco. Ma sono almeno tre i gioielli immensi di questo disco, che restituiscono la dimensione del Dylan poeta: Visions Of Johanna è uno dei suoi apici assoluti, una serie straordinaria di immagini e sensazioni, uno dei testi definitivi della musica popolare del ‘900; Just Like A Woman, che per anni fu accusata di misoginia per le “frecciatine” che Dylan puntella in questa dolce ballata probabilmente ad una sua ex amante, la diva della Factory di Warhol Edie Sedgwick (a cui l’anno dopo i Velvet Underground dedicarono Femme Fatale); ma forse il momento più “sconvolgente” è Sad-Eyed Lady Of The Lowlands, 14, ipnotici e formidabili minuti di seduta sentimentale, dedicati a Sara (sia per assonanza con il cognome) sia perchè in Desire, anni dopo (nel 1976), Dylan canta: Stayin' up for days in the Chelsea Hotel,\Writin' Sad-Eyed Lady of the Lowlands for you (il brano è Sara). Blonde On Blonde rimane un capolavoro dalla forza intatta, dai segreti ad ogni ascolto, dalla forza immaginifica forse inarrivata, rappresenta il culmine creativo della svolta elettrica, che in 2 anni fece pubblicare a Dylan tre pilastri fondamentali della musica rock (gli altri due sono il già citato HIghway 61 e l’altrettanto magico Bringing It All Back Home, sempre del 1965). Due ultime curiosità: la foto scattata da Jerry Schatzberg, altro gigante della fotografica americana e futuro grande regista, lo ritrae con il solito sguardo di sfida in un voluto “sfocato”; all’interno Dylan personalmente volle una foto di Claudia Cardinale, che fu tolta subito dopo la prima stampa per problemi di diritti (e le copie con la foto della Cardinale valgono un capitale oggi). Dopo il Tour che intraprese, anche in Europa, Dylan ebbe un tragico e misterioso incidente in motocicletta, tanto che si susseguirono voci sulla sua morte: durante la riabilitazione nello scantinato della sua villa di Woodstock suonerà con la Band, creando quel tesoro che furono i Basement Tapes, e ritornerà “diverso” con John Wesley Harding nel 1968 suonando acustico dopo che lui aveva incoraggiato tutti i musicisti del mondo a inserire la spina degli strumenti elettrici. Un genio controcorrente, sempre.
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Noto nei teatri d'avanspettacolo romani d'anteguerra con il suo personaggio di attaccabrighe litigioso, nella capitale il suo nome è divenuto sinonimo di sbruffone, tanto da aver dato origine al modo di dire "E chi sei, Cacini?" oppure "È arrivato Cacini!".
La sua caratteristica era quella di provocare la platea con un atteggiamento da sbruffone, con battute pesanti e doppi sensi; i più famosi e coloriti scambi di battute con il pubblico hanno ispirato Federico Fellini e Steno rispettivamente nei film Roma e Un americano a Roma. La notorietà della marcetta che accompagnava il suo ingresso in scena fu sfruttata da Mario Ruccione nella canzonetta Faccetta nera che ne plagiò il motivo.
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So we were watching The Rookie last night, right? And then it hit me. What are your thoughts on Cop/Feds or Auror AUs?
@pianistbynight That’s the entire plot of The Muggle-Worthy Excuse Committee, which is getting even more intricate as we speak, but oh well, this is the hill I will die on for my readers if I have to! 😂
Not that it’s anything like The Rookie, it is nothing like The Rookie except, you know, the inter-connected plots, rookie and training officer dynamics, and a whole lotta relationship drama, so in that way, yes, it is exactly like The Rookie.
Oh, and shootouts. Here’s a snippet!
“Lover’s quarrel?” Marcetta smiled silkily, tipping his white fedora at them.
“I was just leaving,” Draco attempted to get past, but one of his thugs grabbed him, divested him of his wand, and flung him back into the foyer.
“What’s this?” Marcetta received the wand from his thug. “Is this what you Britons call ‘carrying?’”
The others laughed, including Zabini, although his posture remained tense. Marcetta twirled Draco’s wand like a baton and angry red sparks shot out the end, breaking a lamp and bursting a couch cushion. One also knocked the white fedora off Marcetta’s head.
“Agh!” Marcetta dropped the wand. “What the fuck is that thing?”
“Stupefy!” Zabini fired from the hip and missed Marcetta, only knocking out his right-hand man. “Shit.”
“What the fuck, Zabini?” Draco picked up his wand and held it up at the Muggles, who were going for their own deadly weapons.
“I panicked, alright? Ju-just obliviate them!”
Draco sighed and focused, “Obli-”
Bang!
Marcetta drew and shot from the hip, but as close as he was standing to Draco, it was impossible to miss.
“Protego!” Zabini jumped forward and shielded them both from the hail of Muggle killing curses.
Before they could rebound on the mob, Draco summoned one of the finished sheet-metal shields to come between them. Then he aimed a spell at the fireplace. “Voca Harry Potter!”
Small, green flames soared out of the chimney.
“What the fuck was that for?” Zabini growled.
“He’s the only one stupid enough to let us off the hook for this.” He leveled his wand at Marcetta. “Stupefy!”
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