#loro: storia senza senso su una scommessa (?)
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delle storie che fanno tete e thomas quando stanno insieme capisco: zero ma non mi interessa mi va bene tutto loro sono i miei figli stanno insieme si allenano si divertono si vogliono bene quindi è perfetto
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Bridgerton 3, Parte 1: un ritorno tra amori, segreti e scandali
Ah, la primavera! Con i suoi colori e i suoi profumi, è davvero la stagione perfetta per il debutto di una nuova tranche di episodi della romance saga che ormai dal 2020 appassiona gli abbonati Netflix: la prima parte della terza stagione di Bridgerton è infatti disponibile per lo streaming sulla piattaforma, così come l'attesissima storia d'amore tra Colin Bridgerton (Luke Newton) e Penelope Featherington (Nicola Coughlan)… Ma come se la sarà cavata lo show a questo giro? Scopriamo insieme cosa ci riservano Shonda Rhimes e i primi 4 episodi di Bridgerton 3.
Scelte mirate
Nicola Coughlan è Penelope
Dopo una lunga attesa carica di speculazioni di ogni tipo sul futuro dei protagonisti di Bridgerton, siamo finalmente di ritorno nella 'Ton più amata dagli spettatori Netflix, quella che, assieme ai suoi abitanti, ci regala sempre un turbinio di emozioni. Questa volta capitanata da Jess Brownell - nuova showrunner della serie dopo l'addio di Chris Van Dusen - che accompagna fedelmente la produttrice delle produttrici, Shonda Rhimes, la terza stagione di Bridgerton si mostra in tutto il suo sfarzo, la sua eleganza e la sua intensità, ma solo per quattro episodi… la seconda parte della stagione arriverà domani 13 giugno su Netflix. Una delle novità dell'adattamento televisivo dei romanzi di Julia Quinn per questa nuova stagione è stata la decisone di scindere in due parti la distribuzione degli episodi.
Ritorno a Bridgerton
Per il momento, è difficile valutare se una tale scommessa sarà vincente o meno e solo l’uscita della seconda parte di stagione c’è lo dirà, ma i presupposti sembrerebbero dar ragione alla produzione: dopotutto, anche per gli appassionati del genere, un binge-watching tutto d'un fiato di 8 episodi di una serie che fa un cospicuo uso di cliché e archetipi narrativi come Bridgerton, nonché assai affezionata a plot twist e cliffhanger ad effetto, potrebbe risultare più pesante da digerire, e nel tempo controproducente rispetto a una ripartizione in due blocchi. Così facendo, invece, non solo ci si assicura che un prodotto di grande interesse attirerà audience più a lungo termine, ma si dà anche modo a storia e spettatori di "respirare", e a questi ultimi di assimilare al meglio quanto visto sullo schermo. E in questa stagione, di certo non c'è da annoiarsi…
Dai Polin, con amore
Luke Newton e Nicola Coughlan
Fin dal termine della seconda stagione di Bridgerton, nella quale abbiamo visto nascere e concretizzarsi l'amore tra il primogenito di casa Bridgerton, Anthony (Jonathan Bailey), e la maggiore delle sorelle Sharma, Kate (Simone Ashley), ci si è chiesti a chi i due avrebbero passato il testimone e consegnato il titolo di "coppia dell'anno" nella stagione successiva. Se lo show avesse voluto seguire pedissequamente l'ordine dei libri, sappiamo che l'onere e l'onore sarebbe spettato a Benedict (Luke Thompson), alla cui storia è stato dedicato il terzo volume della saga letteraria, "La proposta di un gentiluomo". Tuttavia, l'amore era già nell'aria da tempo per i Polin, ovvero Colin e Penelope, gli amici di sempre il cui rapporto sembrava serbare qualcosa di più fin dal principio, sebbene avevamo visto un maggiore interesse in quel senso da parte di Pen (che ricordiamo, non leggere se non hai ancora visto la serie, è colei che si cela dietro il nom de plume di Lady Whistledown).
Luke Newton è Colin Bridgerton
E malgrado in ordine cronologico cartaceo il loro momento sarebbe dovuto arrivare più in là nel tempo, sullo schermo, complice la chimica tra i due attori e l'impostazione data dal team creativo alle loro interazioni sin dalla prima stagione, è stato possibile procedere in questa direzione, senza tuttavia dimenticarsi degli altri Bridgerton. Nella prima parte della terza stagione abbiamo comunque dei focus su Benedict, Francesca (Hannah Dodd), e la Eloise di Claudia Jessie (malgrado una curiosa assenza…).
Claudia Jessie è Eloise Bridgerton
Ma, come dicevamo, gran parte dell'attenzione in Bridgerton 3 è riversata sui Polin che, dopo gli accadimenti della stagione 2, si trovano ora in una fase di stallo: Penelope aveva infatti udito le parole di Colin che escludevano a priori un risvolto amoroso nel loro rapporto, e le frizioni nella sua amicizia con Eloise (che aveva scoperto la sua identità di Regina del Gossip) non avevano fatto che allontanarla dai Bridgerton. Adesso però la ragazza finisce con il ritrovarsi in una situazione, se vogliamo, ancora più scomoda, dato che, nel tentativo di recuperare la loro amicizia, Colin si offre di aiutarla a trovare marito, e cerca di impartirle "lezioni su come uscire dal guscio" ora che lui stesso, a seguito della sua estate in giro per il mondo, sente di aver trovato una nuova dimensione. Ma quando il suo aiuto finisce con creare più guai per i loro cuori che altro, cosa farà Colin? E come si comporterà Penelope? E non dimentichiamoci che Colin è ancora all'oscuro della doppia identità di Penelope…
Bridgerton non molla
Bridgerton: una foto di Benedict e Colin nella stagione 3
Arrivati dunque al nostro quarto appuntamento con il mondo di Bridgerton (se contiamo anche lo spin-off sulla Regina Carlotta) ci si potrebbe preoccupare di una fisiologica fatigue del prodotto che, solitamente con le serie, giunti a questo punto inizia già a fare capolino. Per quanto riguarda lo show targato Shondaland, a ogni modo, il tutto sembra "tenere botta", poiché, almeno in questi primi quattro episodi, non si rileva una pesantezza di fondo nel seguire le vicende (seppur in gran parte prone a stereotipi) dei vari personaggi, né viene da pensare di essere stufi del suo modus operandi.
Un ritorno tra amori, segreti e scandali
Le scenografie si fanno sempre più spettacolari, i dettagli visivi sempre più ricercati (guardate anche solo le parrucche della Regina!), il comparto musicale continua a regalare gioie con le sue versioni classiche di hit da classifica, da Dynamite dei BTS a Cheap Thrills di Sia, passando per Give Me Everithing di Afrojack, Ne-Yo e Pitbull, e nulla di tutto ciò risulta gratuito o fuori luogo. C'è solo da sperare che una tale cura possa continuare a essere tangibile anche nella costruzione di storie e personaggi, nello sviluppo delle dinamiche e tanto nella trasposizione del materiale già fornito dalla Quinn, quanto nell'incorporazione di elementi originali nel tessuto del racconto.
Conclusioni
In conclusione, si guarda con favore ai primi quattro episodi di Bridgerton 3, che con la sua Parte 1 ha già fatto approdo su Netflix. La tanto attesa storia d’amicizia che si trasforma in amore tra Colin Bridgerton e Penelope Featherington sta finalmente prendendo piede, e non resta che augurarsi che i due non finiscano con l’inciampare e divenire protagonisti di una rovinosa caduta. Per ora, tuttavia, non sembra questo ciò che è scritto nelle carte. Possiamo fidarci?
👍🏻
Coerenza formale e attenzione ai dettagli.
Focus sui vari personaggi, non solo sui protagonisti dichiarati.
👎🏻
Rischio esagerazione e saturazione.
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The K-Drama Book Tag
È quasi Pasqua, le giornate si stanno allungando e il sole splende sulle nostre teste e io davanti al pc lavoro, o cerco di lavorare, con una soglia dell’attenzione che si abbassa sempre di più. Leggo poco e male, la sera mi sparo drama su drama in call appassionate con le mie amiche del Team Drama Club e insieme a loro abbiamo anche organizzato una challenge su IG (seguitemi sul mio profilo, @anncleire per vedere le meraviglie create da Chiara). Mentre cercavo ispirazione per un post qui sul blog, perché non leggendo non ho al momento tantissime recensioni da scrivere, mi è venuto in mente di unire le passioni del momento, in un’unica soluzione: un book tag, è da un po’ che non ne faccio uno e mi divertono sempre un sacco. Speravo di trovarne uno già messo in piedi, in realtà, ma dopo una breve ricerca in quel di Google non ho trovato quello che stavo cercando, un Book Tag che unisse i kdrama con i libri, sostanzialmente le categorie definite tramite i drama coreani di cui ormai sono ossessionata (si, ho un problema, lo so, ma sorvoliamo) e quindi sono finita a costruirmelo a mia immagine e somiglianza il mio THE K-DRAMA BOOK TAG con alcuni dei miei drama preferiti.
Enjoy!
Her private life
Un libro o una saga che ti ha reso una completa fangirl
Vi sorprenderò probabilmente con questa risposta, ma capitemi, sono un po’ folle. L’ultimo libro che mi ha reso una fangirl è sicuramente La storia delle api di Maja Lunde che mi ha portato addirittura al Festivaletteratura di Mantova per due giorni per incontrarla. Oramai chi mi segue da tempo sa che ho una leggerissima ossessione per i libri che parlano di api e anche questo non fa eccezione, è un racconto straordinario che lega epoche diverse in un passaggio avvincente e incredibilmente ben costruito, che pone l’attenzione su tante problematiche che affliggono la società moderna e che potrebbero distruggere il mondo così come lo conosciamo. Un lucido disegno di un mondo distopico fin troppo reale. Il meraviglioso intreccio di tre vite, indissolubilmente legate dal fil rouge delle api e della vita, in un racconto organico e variopinto, che esce dagli schemi e urla la premura di non distruggere un ecosistema e un mondo con l’avventatezza di migliaia di piccoli gesti. Un mondo fugace e irresistibile, che non è solo intrattenimento, ma anche monito, per una storia vividissima e indimenticabile.
Because This is My First Life
Un libro di narrativa contemporanea in cui riconoscerti
Probabilmente non è il mio libro preferito, anzi, probabilmente una certa parte di me lo ha odiato profondamente, però Parlarne tra amici di Sally Rooney fotografa bene in pieno un’intera generazione ancorata perfettamente al mondo dell’internet, nerd, con un mare di passioni, proiettata verso il futuro, fortemente tecnologica e allo stesso tempo con chiaro in testa il senso dell’analogico. Il ritratto di una intera generazione, quei millennials precari e contraddittori che cercano di sopravvivere come meglio possono, incostanti e provocatori, e allo stesso tempo incredibilmente fragili e confusi. Leggendo di Frances mi sono resa conto di quanto il nostro vissuto sia universale, come i miei dubbi e le mie paure sono gli stessi dei miei coetanei, di quanto sia difficile superare certi schemi mentali, di quanto sia facile cadere vittime dell’insoddisfazione e di comportamenti meschini e di egoismi tutti umani.
Are You Human Too?
Un libro o una saga sci-fi piena di colpi di scena
Ho pensato molto a cosa mettere in questa categoria e non posso non citare La Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer (Annientamento – Autorità – Accettazione). Io me ne sono invaghita dopo aver visto diverse recensioni positive e la parte sci-fi unita a quella post-apocalittica mi hanno convinta che fosse il libro giusto per me. Una storia pazzesca, consumante, che tiene desta l’attenzione, arzigogolata, dal ritmo incalzante, un vortice di informazioni e descrizioni accuratissime, che sconvolge e inquieta, lasciando a bocca aperta il lettore, incredulo e sconcertato. Tantissime domande che non hanno ancora risposta, per un primo volume stupefacente. Bramo gli altri volumi, per immergermi ancora nei segreti dell’Area X. Per chi vive di scienza e per chi di scienza non capisce niente.
Goblin
La perfetta bromance su cui fangirlare
Dovevo infilare in un TAG la mia adorata, ma lo farò evitando di citare sempre il mio Divino. Una delle bromance che più mi piacciono è quella che troviamo ne La spia del mare di Virginia de Winter. Cassian ha il fascino del maledetto e i modi da nobile d’altri tempi, un uomo di cui innamorarsi senza possibilità di scampo. Nonostante il suo essere scorbutico e un solitario votato al masochismo di mesi trascorsi a rincorrere un sogno, Cassian non è solo, ma accompagnato da tre fedelissimi amici e compagni di missione, un gruppo di spavaldi giovani alla ricerca di gloria e passatempi per sfuggire alla noia. El Cid, Manuel, un giovane nobile spagnolo scappato da uno scandalo innominabile, accompagnato sempre da una schiera di Mori pronti a sfoderare rinfreschi in qualunque posto e in qualunque condizione. Un giovanissimo e impertinente Casanova, pronto a sfoderare il suo fascino per piegare la volontà di chiunque, e il mio preferito del trio, Monsieur un elegantissimo giovane francese, sempre accompagnato dai suoi spiriti, da sussurri, da modi galanti e da quella superiorità tipica dei cugini d’oltralpe che irretisce e inganna.
The Legend of the Blue Sea
Un libro o una saga dal finale perfetto
Non potrei immaginarmi nessun altro finale per Vani Sarca di quello racchiuso in quello racchiuso in Un caso speciale per la ghostwriter di Alice Basso. niziata nel 2015, ma scoperta da me solo nel 2017 perché sono un po’ scema, la serie segue le avventure di una ghostwriter, come da titolo, in una Torino contemporanea e ricco, e i legami che crea con le persone che la circondano. Alice Basso ha il dono di costruire con ironia e sagacia un intero mondo, a cui è davvero difficile dire addio. Per fortuna che c’è la rilettura. La fine perfetta insomma per un’avventura intensa, in cui le risate si accompagnano agli abbracci. Alice Basso è riuscita a coniugare una storia speciale in cui perdersi, per cercare il mistero e la commedia, il sarcasmo e le lacrime, la forza e la determinazione, perché in fondo la vita è un mix di esperienze in cui “né uragani né tormente ci potranno fare niente”.
Healer
Un protagonista dalla doppia vita
Ho solo un libro chiaro in mente per questa categoria. I cieli di Sandra Newman e non ve lo posso neanche spoilerare troppo. Kate, la protagonista, è una ragazza come potrebbero essercene tante in mondo che si sta affacciando nel nuovo millennio, quel 2000 che nella nostra epoca è stato infestato dal mostro del Millennium Bug, ma che per Kate si affaccia in un mondo migliore. Sembra un’utopia, un miraggio, un sogno. Ma poi Kate si addormenta e si risveglia nel corpo e nelle intenzioni di Emilia, una giovane artista italiana trapiantata nell’Inghilterra di fine Cinquecento. Una storia incerta e assoluta, la sovrapposizione di così tanti layer, di così tante decisioni, che è il risultato probabilmente anche delle interpretazioni del lettore. A tratti angosciante e a tratti illuminante, I Cieli è una storia da leggere in un fiato.
Search WWW
La perfetta protagonista da amare
Avrei la protagonista perfetta per questo libro, ma non posso dirvela ancora. Perciò mi tocca ripiegare su Ead una delle protagoniste de Il priorato dell’albero delle arance di Samantha Shannon. Entrare nel mondo della Shannon è una scommessa perché non sai di preciso se ne uscirai tutto intero, si tratta di una storia lunga ottocento pagine e potrebbe intimidire da più punti di vista. Le immagini che la scrittrice riesce ad evocare entrano dentro e superano le barriere della pagina scritta per fagocitare completamente il lettore. È un fantasy di vecchio stampo, con un mondo completamente estraneo al nostro, ma che allo stesso tempo lo richiama vuoi per usanze, vuoi per cibi, vuoi per i luoghi. Le leggende si intrecciano per creare una storia nuova, un mondo immenso e terribile minacciato da forze oscure in cui alchimia, magia, e lotte per il potere si combattono per la supremazia. Eadaz du Zāla uq-Nāra si nasconde sotto i falsi abiti di Ead Duryan alla corte della regina Sabran. Ma Eadaz non è chi dice di essere, infatti è una delle ancelle del Priorato dell’Albero delle Arance, una comunità antichissima del regno di Lasia, da sempre votata ad uccidere i wyrm, gli sputafuoco, con un compito molto importante, proteggere a tutti i costi l’ultima erede della Madre o Donzella, a seconda del culto di cui ci si riferisce, Cleolind Onjenyu ultima che ha combattuto contro il Senza Nome e l’ha gettato nell’abisso. Ead è più coraggiosa di qualunque altra ancella, e ha anche un dono particolare. Lontana dalla sua casa Ead si adatta come può e soprattutto deve farsi forza per rinnegare il suo credo. La storia ha una forte matrice femminile, molte sono infatti le protagoniste femminili che emergono, ma Ead è sicuramente la mia preferita.
Fight for my way
Una storia d’amore su cui fantasticare
Ormai lei è diventata una delle mie scrittrici salva vita per le romance e non vedo l’ora di mettere le mani sul suo prossimo volume. Notte numero zero di Rebecca Quasi è una di quelle storie che neanche credi che esistano ma ti scaldano il cuore. Costanza e Mario si incontrano per caso in un aeroporto, ma sono destinati ad incontrarsi di nuovo. Sembra impossibile che due come loro riescano ad innescare una tale reazione, ma si sa la chimica è imprevedibile e la Quasi accompagna il lettore in un viaggio affascinante e una storia d’amore emozionante.
E, voi quali sono i vostri drama preferiti? E con che libri avreste risposto?
Fatemelo sapere in un commento.
#Book Tag#kdrama#favorite#rebecca quasi#virginia de winter#alice basso#sandra newman#samantha shannon#maja lunde#sally rooney
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Scleri sulle "Imagine/FF" dei BTS su IG
Buonsalve a tutti! Mi piacerebbe "parlare" un po' delle imagine/ff che trovo di tanto in tanto su Instagram. Io non sono una gran scrittrice (anche se scrivo storie di tanto in tanto), ne scriverei volentieri una ma poi dovrei farla in inglese ed io con lei non ci vado tanto d'accordo, ops! È da anni che le leggo, era partito come un semplice passatempo per poi diventare una grande curiosità. Adesso che sono passati degli anni, però, mi sono accorta di quante cose strane e senza senso vengono scritte in queste storie. Ci sono così tanti cliché che ormai sono diventata un'indovina: il 94% delle volte so già come andrà a finire. Il che è frustrante. Premetto una cosa: io scriverò dei cliché che trovo spesso in queste storie, ma non dico che tutte sono così. Alcune hanno dei plot twist che mi piacciono, altri sono realisti e questo mi fa piacere perché significa che hanno fatto ricerche. Altre volte hanno storie originali che mi portano ad aspettare con impazienza il prossimo capitolo.
Parliamo dei nostri cari BTS (che io adoro, quindi ogni cosa che scriverò è dettato da quello che leggevo nelle imagine/ff).
Sono tutti senza cervello, non riescono a ragionare o riflettere di testa propria senza era trascinati o ingannati da una terza persona. Seriamente... non riuscite a fare un calcolo senza la mamma?
A volte vengono visti come dei traditori seriali che non riescono a rimanere leali alla propria compagna. Se non siete in grado di mandare avanti una relazione in maniera stabile, non entrateci proprio ok? Senza contare che molte volte tradiscono perché danno retta alla persona sbagliata senza chiedersi se fosse effettivamente vero o no. Mah...
Sono compagni di scuola/classe che scommettono su di lei, e puntualmente finiscono in tre modi: lui si innamora di lei, qualcuno rivela alla lei che era solo una scommessa, lei si arrabbia e lo lascia a marcire nel pentimento assoluto; lui si innamora di lei, qualcuno rivela alla lei che era solo una scommessa, lei si arrabbia e lui versa lacrime che Niagara spostati, lei lo perdona e tornano insieme più forti che mai; lui non si innamora di lei, qualcuno rivela alla lei che era solo una scommessa e... liberate il kraken!
... il resto lo potete immaginare: caos a ore dodici :)
Magari sono mafiosi e quindi tutto quanto deve essere drammatico fino all'ultimo secondo, per poi vivere una vita felice una volta che riescono a debellare il villain di turno. Ciccio... nel mondo della mafia, la vita sarà sempre uno schifo. Non esiste un "per sempre felici e contenti" per voi :)
Oh già! Come dimenticare i futuri padri. Sono tutti quanti senza cuore. Sul serio. Sei donna? Bene, sfornami un bambino! E che sia maschio, altrimenti ti picchio per bene. Oh, sei infertile? Allora ti tradirò con la tua migliore amica/sorella/cugina/amica d'infanzia! Non sei donna se non puoi rimanere incinta. Ottimo insegnamento! :D Senza contare che danno la colpa a lei se subisce un aborto spontaneo. Non ho parole per questo, mi verrebbe solo la voglia di sterminarli con un bazooka.
Potrebbero essere dei boss/CEO, che hanno sempre quella rompiballe di segretaria/collega che sparge false dicerie sulla nostra povera protagonista. E come reagiscono? Ovviamente ascoltando tutte le dicerie senza accertarsi della veracità. I miei complimenti, boss!
(Ne sto sicuramente dimenticando qualcuno, ma sono davvero troppi i cliché riguardo a loro. Se ne avete altri potete aggiungerlo nei commenti, così tanto per scambiarci qualche parola :D)
Passiamo alla "terza persona", ovvero un essere umano di sesso femminile che entra in scena per mettere una secchiata di drammaticità alla storia (già piena di suo).
Le ex, le sorellastre, le cugine lontane, le vicine, le "cape" (volevo mettere boss, ma dato che non c'è il femminile uso quello, abbiate pazienza), le segretarie, le ragazze popolari, le finte nerd, le migliori amiche, le amiche d'infanzia, il pesce rosso, il cane del vicino, le pec- ok scusate, ora la smetto... sono tutte delle psicopatiche pronte a tutto pur di avere il ragazzo tutte per sé. Sono sempre capaci di assumere degli assassini (che non costano quanto un pacchetto di cicche, sia chiaro) per eliminare di mezzo la protagonista, oppure saranno loro stesse che attraverso le minacce (o con l'aiuto di qualcuno) riusciranno ad allontanare i due "amanti". Sia chiaro, è assolutamente vietato parlarsi per risolvere la situazione insieme come una vera coppia, ma sei scema!? Rischi di mandare a cagare tutta la storia! Non essere frettolosa! Seriamente... a nessuno viene in mente di chiamare la polizia? Solo a me?
Provano gusto nel rovinare la vita della protagonista perché le odiano (spesse volte per una ragione a dir poco stupida), e se sono le sorelle/sorellastre è perché "mamma e papà ti adorano, ti coccolano, ti amano e a me no!". Se sono gemelle sono due le cose: o la tradiranno perché "innamorate" del loro ragazzo, o sono nuovamente delle psicopatiche che tutti credevano "morta" ma che in realtà riappare manco quel ragno che perdi di vista per due secondi trovandolo poi dall'altra parte della stanza. Di nuovo, il numero della polizia lo conosciamo tutti quanti.
E i genitori? Con questo apro un libro!
Sono dei pozzi assetati di soldi senza fondo, venderebbero l'anima al diavolo pur di avere il portafoglio più pesante. Sono pronti a mandare a quel paese la felicità e il benessere dei figli, ma l'importante è avere più soldi! E cosa succede quando il figlio rischia le penne o si fa un tantino più intelligente? Subito si pentono e chiedono perdono in ginocchio versando il Niagara al posto delle lacrime. Sono adulti, non riuscivano a capire da soli che ogni azione porta ad una conseguenza? Devono sempre aspettare che succeda il finimondo per capire che non dovevano farlo?
Ah, a volte potrebbero essere dei genitori che odiano le protagoniste perché preferiscono l'altra, che nel frattempo ha distrutto la vita del loro bambino ma sono futili dettagli.
Le protagoniste... ah, le mie preferite!
Sono di due tipi: o sono delle cool che riescono a mandare giù il boccone amaro a testa alta, o sono delle frignone che senza un uomo non vanno avanti.
Poi ci sono io, che se il fidanzato mi fa una bravata simile lo castro.
A parte gli scherzi, spesse volte le protagoniste sono delle macchine di vendetta che si fermeranno solo quando otterranno quello che vogliono. Altre volte piangono tantissimo e sono inconsolabili fino a quando non apparirà il loro salvatore di turno. Solo io riesco ad andare avanti senza un uomo?
Spesso sono madre single (avete tutta la mia stima!) che mandano avanti la baracca sudando camice e sputando sangue. Raramente le ho viste rimanere single per il resto della vita, il 98% delle volte incontrano un altro uomo e si sposano con lui. E l'ex ragazzo/fidanzato/marito? Eh sì, in un angolo a spiarla come un maniaco a pentirsi di tutto quanto.
Ultimo argomento e poi la chiudo qua prima di arrivare a scrivere un'Odissea: le storie in generale.
Alcune le ho evitate perché non mi interessavano un granché, ma di alcune le so ormai a memoria.
Quando sono ambientate nella scuola, si ha sempre: la protagonista che ha un/a nemico/a pronti a romperle le scatole dalla mattina alla sera; il bullo di turno; il professore (che potrebbe essere il ragazzo/marito) che la umilia davanti alla classe; il playboy che ci prova con lei per portarla a letto; il nerd; ecc... Senza contare che la scuola viene gestita dal mafioso di turno o da un adulto troppo scemo per capire che deve essere imparziale con tutti (pure con tuo/a figlio/a). Il massimo di drammatico avuto quando andavo a scuola era quello di essere stata vittima di bullismo e di una professoressa che mi ha fatta piangere per una cosa, punto. Mai avuto altri problemi come quelli citati sopra. Voi che problemi avete avuto a scuola?
Se sono ambientati nel posto di lavoro: il boss/CEO che prova qualcosa per lei, ma che viene puntualmente ingannato da qualcuno; sempre lui che la tratta da cane per poi redimersi verso la fine; raramente è un lui che non prova nulla e la tratta da schifo per una ragione "x"; ecc...
Arrivano i miei preferiti: i matrimoni combinati. Non sono un esperta, ma ho letto che la Corea del Sud non ha degli indici così alti di matrimoni combinati oggigiorno. Eppure nelle imagine/FF i matrimoni vengono combinati con la stessa frequenza con cui ti cambi le mutande. Lui ha già una ragazza, che per ovvi motivi la nasconde agli occhi dei genitori, ma non si fa problemi a sbatterla in faccia alla "moglie". Così, tanto per denigrarla. Perché è colpa sua se il matrimonio è stato combinato, non dei genitori sanguisughe. Ora, l'amante ha sempre un brutto caratteraccio, è una "gold digger" pronta a rovinare la vita della protagonista (credo di aver letto una sola storia con l'amante che è una bravissima persona e che si tira indietro). La storia la conoscete: si rivela per quella che è, lui la lascia e diventerà un marito leale. Oppure lui non ha nessuna amante, ma è comunque scontroso e freddo nei confronti di lei. Porella, nessuna pensa a lei che si trova nella stessa identica situazione. Alla fine finisce in due modi: si amano e rifanno il matrimonio, oppure divorziano e ognuno prende la propria strada.
A proposito di divorzi... Viene visto come l'unico mezzo per porre fine ai problemi matrimoniali. Non pensano mai che c'è un altro modo, che ne so... parlarne? Nah, troppo difficile!
Direi che posso pure finirla qui. Ci sono tante altre cose che volevo scrivere, ma così farei un post chilometrico. I figli che non portano rispetto alla madre, promesse infrante, lui che le parla male alle spalle, lui che messaggia all'amante senza rendersene conto che in realtà sta scrivendo alla ragazza/fidanzata/moglie, lui che la accusa di qualcosa per poi scoprire la verità ma ormai è troppo tardi, mariti violenti, lei che viene toccata in maniera inappropriata da un altro, e tanto altro... Potete aggiungere voi altri cliché che vi sono capitati sotto mano :3 Detto ciò, io ho scritto tutto questo solo per sfogarmi un pochino, ma non ho mai detto che sono brutte da leggerle: sono solo ripetitive, tutto qua.
Auguro a tutti voi una buona giornata!
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ARTICOLO 21
PERIODICO D ‘ INFORMAZIONE DEL LICEO DA VINCI - N. 2 A.S. 2019/20
“Homo doctus in se semper divitias habet” - Fedro
INNO ALLA BELLEZZA
Il numero di questo mese vuole affrontare un argomento spesso sottovalutato: il piacere che deriva dal contemplare un'opera d'arte o dal leggere un testo d'autore. Si tratta di qualcosa che non ha "utilità" materiale e non si traduce in profitto immediato, pertanto non ci si sofferma a considerarne l'importanza, nella vita di oggi. La bellezza ci circonda e spesso neanche ce ne accorgiamo: è nel sorriso di un bambino, nel volo di un uccello, nel rombo di un tuono... Chi, con il suo genio ha saputo trasmettere su una tela, su di un foglio o semplicemente su di un muro, tali emozioni, merita il nostro grazie più sincero, poiché ha lasciato ai posteri un'eredità culturale peculiare della specie umana. Anche vicino a noi vivono artisti e scrittori: ne conosceremo due molto bravi, attraverso alcune loro opere recenti. La loro creatività vi stupirà piacevolmente e vi farà riflettere su temi importanti e delicati che solo la penna di uno scrittore o il pennello di un pittore sanno trattare, con il dovuto rispetto. Buona lettura!
INVITO ALLA LETTURA
Il ritratto di Dorian Gray
Buongiorno cari lettori! Il giornalino è tornato, con un nuovissimo numero tutto da leggere. Ho scelto, per la sezione di invito alla lettura, il romanzo di uno dei più criticati e geniali scrittori dell'Ottocento: Oscar Wilde. Il ritratto di Dorian Gray è uno dei romanzi più belli che abbia mai letto. Oltre che un quadro impietoso della società vittoriana, è una vera allegoria dell'arte come veicolo di espressione illimitato e portatore di bellezza. Wilde infatti afferma che “ l'artista è il creatore di cose belle" e che “l'artista può esprimere qualsiasi cosa”. Ora però si pone un problema non indifferente, qual è l'utilità pratica di una cosa bella? Nessuna. Perciò l'arte sarebbe una forma di ozio; sorge quindi un' altra domanda: come si può tollerare, in una società come la nostra,incentrata sulla produttività, l'inutilità dell'arte? Ecco la risposta di Wilde: “ possiamo perdonare a un uomo l'aver fatto qualche cosa di utile purché non l'ammiri. L'unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente. Tutta l'arte è perfettamente inutile.” Lascio a voi lettori la riflessione su questa pragmatica citazione. Questo libro narra la storia del giovane Dorian Gray e della sua trasformazione, ad opera dell'amico Lord Henry Wotton. La loro amicizia scaturisce da un incontro a casa del loro amico comune, il pittore Basil Hallward, nonché l'autore del magnifico ritratto che conferisce all'opera il suo titolo. Al centro dell'intreccio troviamo tre personaggi organici, agli antipodi l'uno dell'altro. Al mio occhio di lettrice il soggetto più criptico e importante – escludendo ovviamente il protagonista e il suo ritratto – è Lord Henry Wotton. Infatti è proprio a lui che l'autore affida i numerosi paradossi ed aforismi, che contraddistinguono il suo stile tagliente e cinico, e per i quali è largamente citato, criticato e lodato. Nella trama Lord Henry è il diavolo tentatore, che spinge Dorian verso una strada senza ritorno, la quale lo trasformerà in una persona spietata, sempre alla morbosa ricerca di nuovi piaceri ossessionato dalla bellezza. Al contrario, possiamo definire Basil Hallward la personificazione della ragione. Il pittore, infatti, aveva predetto fin dall'inizio che l'influenza di Lord Henry non avrebbe giovato al ragazzo e che l'avrebbe trasformato irrimediabilmente. Dorian Grayinvece è un personaggio estremamente dinamico che subisce una profonda trasformazione durante la narrazione, tanto che è possibile identificarne tre facce: il Dorian di cui è infatuato Basil, dolce, innocente e inconsapevole; il beniamino di Henry e sua cavia personale che comincia ad aprirsi la strada nell'immoralità; infine, il peccatore ternamente giovane, ossessionato dalla bellezza e privo di coscienza. L' aspetto più degno di nota però, è senza dubbio il suo ritratto, che è la rappresentazione delle paure di Dorian e dei suoi numerosi peccati. Il quadro è allo stesso tempo la realizzazione dei suoi desideri e la sua condanna. Infatti è proprio la tela a condurlo alla pazzia. Spero che le mie parole siano state all'altezza del genio che mi ha ispirata e che questa recensione vi abbia invogliati non solo a leggere il romanzo, ma anche a fare dell'arte la vostra passione.
Matilde Ruffa
INVITO ALLA LETTURA (2)
“Kafka comprende il mondo con una chiaroveggenza che stupisce, e che ferisce come una luce troppo intensa”.
Primo Levi
Ein Hungerkünstler
È questo il titolo in lingua tedesca di uno degli ultimi racconti dello scrittore Franz Kafka.
L'autore de La Metamorfosi lascia sempre al lettore la possibilità di interpretare le sue narrazioni in senso piuttosto libero e soggettivo, poiché chi legge comprende fin dalle prime righe di trovarsi di fronte a metafore e allegorie, ma non vi è nessun tipo di aiuto per "sciogliere" tali simboli che, pertanto, si possono considerare forme di "allegorismo vuoto" ovvero aperti a diverse interpretazioni.
Ein Hungerkünstler esce nel 1922,appena due anni prima della morte dello scrittore.
Ein Hungerkünstler viene tradotto nelle diverse edizioni italiane "Un digiunatore" oppure "Artista del digiuno".
Racconta con una prosa molto asciutta la triste storia di un uomo che lavora in un circo e si esibisce praticando l'astinenza dal cibo.
Inizialmente, egli gode di uno straordinario successo, ma in seguito il pubblico inizia ad annoiarsi di fronte alla sua esibizione, preferendo altro.
Come interpretare, dunque, questo racconto?
Cosa dovrebbe rappresentare il digiunatore?
Come abbiamo già premesso non possiamo che fornire una delle molteplici chiavi di lettura:
è l'artista, in generale e soprattutto lo scrittore che forse si può identificare con questo personaggio, perché colui che si rifiuta di produrre un'arte finalizzata a compiacere esclusivamente il pubblico pagante va incontro anche alla delusione, infatti non sempre la gente comune o la critica sono disposte a sostenere una forma di arte che non dia profitto.
"Io sono costretto a digiunare[...] perché non sono riuscito a trovare il cibo che mi soddisfacesse. Se l'avessi trovato, credimi, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e come tutti ".
Ecco queste sono forse le parole più intense e drammatiche di tutto il racconto e suonano come l'eco di ciò che lo straordinario scrittore di Praga andava sostenendo: "sono soltanto letteratura e non posso e non voglio essere altro".
Alberto Esposito
INVITO ALL’ASCOLTO
Alla ricerca di China Town
In questo artistico numero del giornalino, avrei piacere di parlarvi di una canzone a me molto cara, tratta dall'album "Museica" del cantante italiano Caparezza: mi riferisco a "China Town", nella quale il cantante si rivolge a inchiostro, matite, penne, piume d'oca... insomma, a tutto ciò che orbita intorno alla scrittura e all'arte, personificandoli e ringraziandoli di tutti i benefici che hanno portato all'umanità, dal momento che, prima dell'avvento degli anni 2000, la cosiddetta "epoca digitale", la massima ambizione per l'uomo comune era quella di esprimere le proprie idee attraverso carta e inchiostro, in modo che tutti quanti potessero avere l'opportunità di leggerle e diffonderle. L'autore racconta di come la scrittura e la composizione siano in grado di rapirlo e trasportarlo in universi lontani e città nascoste, tra le quali proprio China Town (va letto come china, intendendo l'inchiostro nero e non come China, nome inglese della Cina) un luogo mistico, ubicato nella mente di ognuno di noi, dove risiedono la creatività e l'immaginazione, insieme alla voglia di scrivere ed esprimersi.
Con versi come: "Il luogo non è molto distante L'inchiostro scorre al posto del sangue Basta una penna e rido come fa un clown A volte la felicità costa meno di un pound",
Caparezza vuole farci capire che spesso la felicità, la soddisfazione, non risiedono in gesti eroici ai quali tutti miriamo, in cerca di una spesso impossibile popolarità, bensì in atti ritenuti da molti inutili o semplicemente trascurati per la loro semplicità, come sedersi, alla sera, dopo una giornata ricca d'impegni, e scrivere, sfogarsi, liberarsi di tutti ciò che ci affligge o ci ha ferito, raccontare tutto il bene e il male che abbiamo ricevuto, semplicemente per noi stessi, in modo da trovare un qualche ristoro che ci sollevi da ciò che in precedenza ci ha fatto soccombere.
Se vi capiterà perciò di avere tre minuti e cinquantacinque secondi di libertà e non saprete cosa fare, vi consiglio vivamente di ascoltare questa canzone, non solo per il testo, ma anche per le forbite similitudini e giochi di parole tipici dell'autore, in grado di lasciare qualcosa anche in seguito all'ascolto.
Alessandro Cauda
LA PAROLA AGLI ESPERTI
Intervista alla scrittrice albese Giulia Marengo
Immagine pubblicata per concessione dell’artista
Quando è nata la tua passione per la scrittura?
Da bambina sognavo di fare la scrittrice. Ma anche l’astronauta, l’archeologa e il Nobel per la medicina, quindi prima o poi dovevo azzeccarci. Ho sempre amato scrivere, però i miei temi erano sempre un po’ troppo fantasiosi, un po’ sopra le righe, difficili da imbrigliare nelle redini strette dei saggi rigorosi e degli articoli di giornale che tanto erano in voga al Liceo Classico in quegli anni. Perciò la passione è rimasta dormiente per qualche anno, fino a che ho deciso di partecipare a un gioco di narrazione a tema fantascientifico – su Star Wars, per la precisione, un’altra delle mie passioni. Da quel momento, si sono rotti gli argini e tutte le storie che avevo represso negli anni sono defluite su pagine e pagine, inarrestabili. A 19 anni, per scommessa, ho inviato un racconto a un concorso letterario nazionale – proprio “Anatomia di un paradosso”, che poi, anni dopo, è stato incluso nella raccolta “32 frammenti dell’anima”. Inaspettatamente, ho vinto. Così ho preso coraggio e mi sono lanciata in un progetto più corposo, poi un altro. E così è cominciata. Ma la passione? Quella è sempre stata lì.
Quanto tempo ti occorre per elaborare e scrivere un racconto?
Il tempo, quando si scrive, è relativo. La “sindrome della pagina bianca” può giocare brutti scherzi ma, quando le condizioni sono propizie, sono molto prolifica, e riesco a scrivere circa un racconto al giorno. Come è ovvio, il seme dell’idea deve essere già lì, annidato da qualche parte nella confusione della mia mente, ma poi sono le voci dei personaggi che prendono il sopravvento, e raccontano la loro storia. Io ci metto solo le dita, e qualche virgola qua e là.
Durante la stesura di “32” ero sotto contratto, quindi avevo delle tempistiche molto stringenti. In tre mesi – nonostante un lavoro a tempo pieno - ho consegnato al mio editore la raccolta completa.
In "32 frammenti dell'anima" spazi dal genere realistico all'umoristico al fantastico, quale di questi senti di incarnare meglio?
La sfida di “32” è stata proprio giocare con in generi e mettermi alla prova. Arrivavo da un discreto successo con il fantastico, che è molto nelle mie corde, ma volevo cimentarmi con qualcosa che mi venisse meno naturale. In tutta sincerità non riesco a giudicare da me quali siano stati i risultati, ma i lettori hanno molto apprezzato i racconti più noir e, con mia sorpresa, quelli umoristici. Nelle mie preferenze c’è sicuramente una vena tragica, come ahimè ben sanno i miei personaggi… nessuno di loro è al sicuro quando mi metto alla tastiera.
C'è un racconto "Anatomia di un paradosso" che affronta un tema molto delicato, ma lascia un po' scioccato il lettore nel finale, perché hai pensato ad un epilogo così?
"Anatomia di un paradosso" è un racconto che amo molto (vi si affronta il tema dell'omosessualità N. D. R.). Originariamente ambientata a San Francisco e poi ricondotta in Italia, è una storia che si è scritta da sé. È volutamente provocatoria per un Paese come il nostro, dove stentano a essere superati alcuni pregiudizi. L’epilogo è scioccante, è vero, ma non poteva essere diversamente. Fa pensare, quando la diversità – qualunque tipo di diversità – è così tanto temuta da dover essere taciuta a ogni costo, persino a quello della vita stessa.
In altri racconti come "Masca" ad esempio ti fai interprete delle tradizioni popolari e della storia del tuo territorio, quanto conta per te l'attaccamento alle tue origini?
Durante i miei primi anni di scrittura ho avuto il piacere di collaborare con Donato Bosca a un progetto, per Araba Fenice, che raccoglieva le storie delle masche, raccontate a voce dagli anziani dei paesi di Langa e poi da me ricondotte alla pagina scritta. Alcuni di questi racconti mi sono rimasti nel cuore, ma più di tutto vi occupa un posto speciale la mia bellissima terra. Ho avuto il privilegio di studiare e vivere all’estero, ma le colline, quella luce speciale che incendia le vigne solo nei pomeriggi più limpidi di metà ottobre, le pennellate di colore dei petali di rosa che occhieggiano fra il verde dei pampini, mi mancavano troppo. Così, sono tornata a casa. Amo viaggiare, tantissimo. Ma alla fine, le mie radici sono qui, e amo pagarne tributo nei miei lavori.
Il racconto "L'uomo della polvere" è molto poetico, avresti voglia di raccontare la genesi di questa particolare narrazione?
Anni fa avevo un collega molto peculiare. Silenzioso, modesto, laborioso. Un’acqua cheta, come si suole dire. Poi ogni tanto cominciava a parlare, e raccontava storie meravigliose di viaggi esotici e avventurosi. Come spesso succede, queste informazioni sono sedimentate lentamente e poi sono tornate a galla, e “l’uomo della polvere” ha preso forma sulla carta. Nella raccolta ci sono tantissimi riferimenti a persone che conosco nella vita reale, magari distorte, combinate un po’ a casaccio, rielaborate, abbinate e poi di nuovo spaiate come le perline di una collana. Se vi capiterà di leggere anche il racconto “il cervello di uno scrittore”, beh, è tutto spiegato lì.
Stai lavorando ad un nuovo progetto letterario?
Ahimè, no. Mi sono presa quello che è partito come un anno sabbatico – sono diventata mamma – ma scrivere, per me, significa lavorare anche dodici ore di seguito, chiusa da sola dentro a una stanza. Conciliare la scrittura con un lavoro a sua volta molto impegnativo e con la mia famiglia è diventato al momento troppo difficile. Ho comunque almeno due romanzi nel cassetto, che prima o poi vedranno la luce. Di certo la mia storia d’amore con la pagina scritta non è finita.
Cosa suggeriresti a chi, come noi, frequenta ancora il Liceo e avrebbe tanto desiderio di fare della letteratura un progetto di vita?
Leggete. Leggete, leggete, leggete. Qualsiasi cosa, di qualsiasi genere. L’importante è che vi piaccia, senza leggere non è possibile imparare a scrivere. Perché è solo attraverso la lettura che si assorbe il ritmo, quella melodia armonica e perfetta che poi verrà riarrangiata sulla carta.
E poi scrivete, cancellate, riscrivete, correggete, buttate via tutto e ricominciate. Scrivere è difficile, è un lavoro infinito di lacrime e sangue. Ma se vi piace, l’unico consiglio che posso dare è “non mollate”. Anche se i vostri scritti rimanessero inediti, ne sarà valsa la pena.
Intervista condotta dalle alunne Martina Borgogno e Chiara Calissano
LA PAROLA AGLI ESPERTI (2)
Intervista al pittore Mauro Rosso
Immagine pubblicata per concessione dell’artista
Mauro Rosso è nativo della città di Alba dove vive e lavora e nonostante i fitti impegni è stato così gentile da concederci un po' del suo tempo.
Da quanto tempo coltiva questa sua passione?
"Ci sono PASSIONI con le quali hai a che fare da quando apri gli occhi la prima volta, per fortuna poi la curiosità che ho oggi è la stessa di quando ero piccolissimo."
Da cosa è ispirato?
"Mi è sempre piaciuto osservare, badare alle sfumature... Mi piacciono le persone che - dicono qualcosa- e che sanno ascoltare e ragionare con la propria testa. Mi piace il battito di ciglia o il sorgere leggero di un sorriso, la voce musicale. Mi piace ascoltare musica, non potrei farne a meno, mi piace guardare le mie dita muoversi sulla tela, stanno bene insieme... Io parlo tanto, ma ci sono momenti in cui resto in silenzio ad ascoltarmi. È in quei momenti che fabbrico i miei pensieri più veri, mentre cammino per le strade, osservando la gente che passa... O assaporando il sole che mi scalda dentro... Amo le cose belle, le belle storie che dicono qualcosa, mi piace tutto ciò che fa palpitare il cuore "
Nella collezione Hero, il soggetto prediletto è Batman, perché?
Per quale motivo ha, inoltre, deciso di inserire i supereroi all'interno di contesti di vita quotidiana?
"... Una notte, senza prender sonno, mi è tornato in mente il mio eroe preferito di quando ero bambino... Sotto un'altra luce... Vestito dei problemi di tutti i giorni: la spesa, la famiglia, le bollette. Tutto questo mi ha suggerito la collezione Hero, la trasposizione dal fumetto alla vita reale.
Le tele - si presentano - come frame di un vecchio film, immagini di un uomo normale. Un uomo normale vestito da eroe".
Intervista condotta da Marta Caffa e Yasmine Hijji
LA FUCINA DELLE IDEE
L’arte della poesia
Io sono come il re di un paese piovoso,
ricco ma impotente, giovane e però vecchissimo,
che, sprezzando gli inchini dei suoi precettori,
s'annoia coi suoi cani come con ogni altra bestia.
Nulla può farlo gioire, né preda, né falcone,
né il popolo che muore in faccia al suo balcone.
Del buffone favorito la grottesca ballata
non distrae più la fronte di questo crudele malato.
Il suo letto gigliato si trasforma in sepolcro,
e le dame d'intorno, per le quali ogni principe è bello,
non san più che impudica toilette trovare
per cavare un sorriso a quel giovane scheletro.
Nemmeno il sapiente che gli fabbrica l'oro è stato in grado
di estirpare dal suo essere l'elemento corrotto;
e in quei bagni di sangue ereditati dai romani
che gli uomini potenti rimembrano nei loro vecchi giorni,
egli non ha saputo riscaldare quest'ebete cadavere
in cui non scorre il sangue, ma l'acqua verde del Lete
L’arte è la voce delle nostre anime. La musica sfama il nostro bisogno di emozioni. La letteratura e la poesia sono la voce della nostra società, una voce spesso scomoda che denuncia un disagio generazionale o sociale. E’ stata spesso la voce di proteste, rivoluzioni, di idee o sentimenti. Spesso l’arte è un veicolo con il quale condividere emozioni, energie.Ho sempre pensato che la poesia fosse meravigliosa perché la si può interpretare come il cuore accoglie le parole che modellano la poesia stessa e il pensiero di ognuno non potrà essere criticato poiché l’arte è libera e così deve rimanere. Ho deciso di citare una nota poesia di Baudelaire perché nella sua espressione geniale,atratti macabra, che può piacere o no, è un esempio di protesta. Premetto che, oggettivamente, l’idea artistica dello spleen baudelaireiano ha posto le basi della letteratura moderna, trasportando con séil suo disagio, la sua apatia e il suo ribrezzo per il mondo industrializzato in una realtà che mescola storia con mondi fantasiosi. Il poeta si sente impotente, mutilato da una società che valorizza il prodotto, non le persone, non le idee. In molte delle sue poesie appare un elemento comune ovvero l’umiliazione a cui la società lo sottopone e il poeta sceglie, non a caso, la parola spleen, che indica la nausea per la nuova società modellata dalle industrie. Per questo motivo, il poeta inizia a condurre una vita alternativa, sull’onda dell’eccesso. La poesia è mistero, la poesia è un’arte che seduce l’anima con giochi di parole perfetti, spesso poco precisa o enigmatica,appare come un paesaggio annebbiato, dove i contorni non sono ben delineati. Tutto questo dovrebbe farci riflettere: l'arte e tutti i suoi mezzi per esprimersi sono un bisogno primordiale di comunicare… più potente delle armi, più potente della violenza.
Stefan Huru
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di Ramon Luque* Per cercare di capire che cosa sta succedendo in Catalogna occorre guardare oltre la cronaca di questi giorni. Non si tratta di andare indietro nella storia per spiegare che il popolo della Catalogna rivendica da molto tempo la propria realtà nazionale. Voglio riferirmi al presente e al passato prossimo. Che cosa è successo negli ultimi tempi in Catalogna? In sintesi si sono incrociati tre elementi: la profonda crisi economica che colpisce la Spagna dal 2008 e che ha avuto, sulla mobilitazione cittadina dei catalani, un impatto determinante; una grave crisi della politica e del sistema costituzionale spagnolo nato nel 1978; e infine una crisi istituzionale, senza precedenti in 40 anni di democrazia, fra i governi e le istituzioni di Spagna e Catalogna. Un cocktail esplosivo che non poteva che sfociare nella situazione incandescente di questi giorni. La crisi economica ha spinto nelle strade di Catalogna, a rivendicare diritti democratici di base, centinaia di migliaia di persone che non sono necessariamente indipendentiste, ma che vogliono decidere democraticamente sui temi che le riguardano. Azione di empowerment popolare non reversibile. Rivendicazioni nazionali e lotta per i diritti sociali si sono intrecciate strettamente. D’altro canto, il governo del Partito popolare (Pp) di Mariano Rajoy persegue una politica di involuzione democratica che sta scavando un fossato non solo fra destre e sinistre, ma anche fra reazionari e democratici. E infine ci sono stati l’errore politico di Junts pel Sí (Uniti per il sì), la coalizione che governa la Catalogna, di orientarsi verso l’indipendenza unilaterale, senza l’appoggio maggioritario della popolazione, e la reazione autoritaria di Rajoy che ne è derivata. Le due cose hanno portato al maggiore scontro istituzionale dai tempi del ritorno alla democrazia. Due errori politici che pagheremo cari: perché non c’è governo che possa imporsi ai catalani nella loro aspirazione a decidere del proprio futuro e perché l’indipendenza unilaterale non è un orizzonte che in Catalogna abbia un’ampia maggioranza democratica; dunque la divisione non è solo fra Catalogna e Spagna, ma anche fra catalani. Ecco le correnti di fondo del conflitto. Ma ovviamente la politica, la piccola politica in realtà, ha giocato le proprie odiose carte. Di fronte a centinaia di migliaia di persone che si mobilitano ininterrottamente dal 2012 in modo pacifico, per esigere in primo luogo il diritto a decidere e poi direttamente l’indipendenza, alcuni petits politiciens (in primis Artur Más, presidente della Generalitat) hanno cercato di trasformare la propria maggioranza precaria in maggioranza parlamentare assoluta, convocando elezioni e adottando la tattica di nascondere dietro una bandiera la corruzione del partito; tutto ciò senza ottenere alcun risultato, se non la radicalizzazione del processo. Sull’altro lato c’è Mariano Rajoy, che ha sistematicamente rifiutato l’apertura di canali di dialogo con il governo catalano. Ha lasciato marcire la situazione alimentando un nazionalismo spagnolo rancido e cavernicolo, con l’obiettivo di consolidare il proprio consenso elettorale e mantenere in stato di crisi costante il Partito socialista (Psoe). Un irresponsabile? No. Un piromane reazionario. Ma ora siamo dove siamo. La Catalogna ha smesso di essere un tema catalano. C’è un prima e un dopo il 1 ottobre. La Catalogna ormai non può più essere cancellata dall’agenda politica spagnola, anzi – forse – da quella europea. Usciamo da un «processo» ed entriamo in uno scenario politico nuovo. Il grande dibattito che si intravede sarà fra rottura o ripresa della democrazia, in Catalogna quanto in Spagna. L’aspirazione a una Repubblica catalana si collegherà all’aspirazione democratica dei popoli di Spagna che vorranno lasciarsi alle spalle il regime del 1978, che ha avuto nel bipartitismo spagnolo la massima espressione. Probabilmente il 1 ottobre non vincerà nessuno. Sarà il perfetto «catastrofico pareggio» (Gramsci). Quello che delinea una crisi: la quale consiste proprio nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non riesce a nascere. Dunque, che cosa accadrà? Prima di tutto occorre sperare che le mobilitazioni siano democratiche e pacifiche come è sempre stato in Catalogna. E a partire da questo, che arrivi il tempo della Politica, del dialogo, della democrazia. Sono percepibili alcuni movimenti in questo senso. Domenica scorsa, a Zaragoza, forze politiche che divergono su molti punti – convocate da Unidos Podemos – hanno firmato la Dichiarazione di Zaragoza, che sarà un elemento decisivo nel futuro della politica spagnola. Vi si affermano tre punti che inevitabilmente finiranno per imporsi: l’impegno democratico al dialogo come unica strada per risolvere i conflitti; l’avvio del dialogo diretto fra il Govern de la Generalitat e il governo di Spagna; la fine delle misure di emergenza repressive da parte di Rajoy. Tutto questo con l’obiettivo che le catalane e i catalani possano esprimersi liberamente alle urne. Quando lo faranno, i legami di fraternità fra i popoli della Spagna si imporranno nei confronti di chi vuole la separazione, e i veri separatisti (il Pp e Rajoy) saranno sconfitti. La politica della Dichiarazione di Zaragoza diventerà maggioritaria, in Catalogna e presso strati molto ampi della popolazione spagnola. È una scommessa per il futuro. Noi di Catalunya en Común ci impegniamo in tal senso. Il popolo catalano, maturo, democratico e politicamente responsabile, e le sue formazioni politiche, sapranno trovare la strada. Prima o poi la Catalogna voterà democraticamente in un referendum riconosciuto, con tutte le garanzie istituzionali e dal carattere vincolante. A questo scopo avremo bisogno di politici di maggiore spessore. Il futuro non avrà come protagonisti né Puigdemont né Rajoy. E nessuno ne sentirà la mancanza. (*) Segretario per l’Europa di Esquerra unida i alternativa (Euia) e della Commissione esecutiva per Partito della Sinistra Europea. Euia aderisce al nuovo soggetto unitario della sinistra radicale catalana Catalunya En Comu rifondazione.it
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La triste storia di Ted, il Drunk Bunny
This is for the Italian folks here on Tumblr
Buonasera miei cari amici e care amiche italiani di Tumblr. Recentemente io e alcuni miei amici abbiamo aperto un fantastico gruppo su facebook (Scattered Pictures) con lo scopo di raccogliere e condividere le storie che i fan dei Green Day hanno il piacere di raccontare. Ebbene, cari amici, quella che oggi vorrei condividere con voi, è proprio una di queste storie. Le peripezie e le emozioni collegate a questa straordinaria vicenda non si riferiscono, tuttavia, a una mia esperienza personale, ma riguardano un qualcuno che si è guadagnato tutto il mio rispetto.
Questo qualcuno, si chiama Ted (per ragioni di privacy non divulgherò il cognome).
[ehm… piccolo avvertimento: se per caso l’occhio vi è caduto su questo post e avete già sprecato 9 secondi per leggere fino a qua… bhé… sappiate che state per sprecare altri 8 minuti del vostro tempo per leggere qualcosa di altamente nonsense, frutto del troppo tempo libero, di livelli di cazzeggio esagerati e di 30 euro investiti a cuor leggero per questo tanto ambito (e francamente, abbastanza bruttino) peluche del Drunk Bunny, per il quale necessitavo di trovare una qualche utilità. Questo è stato quello che ne è venuto fuori. Se siete cazzoni quanto me e volete comunque continuare a leggere, fatelo pure, ma non si dica che non vi ho avvisati]
Quella che sto per raccontarvi è la triste avventura di Ted, il mio piccolo, costoso e altrimenti inutile Drunk Bunny. Ora, mi sembra corretto fornirvi qualche (ulteriore) consiglio prima di farvi addentare nella lettura:
1. Se siete amanti del lieto fine, passate oltre: questa storia è brusca e crudele come la realtà.
2. Se avete meno di 18 anni, passate oltre: riferimenti sessuali e linguaggio talvolta troppo esplicito potrebbero urtare la vostra sensibilità.
3. Se avete le patate nel forno, passate oltre: questa storia potrebbe prendervi a tal punto da farvi dimenticare delle patate e condannarvi a una cena bruciata.
4. Se non avete le patate nel forno… andatele subito a mettergliele (a chi non piacciono le patate al forno?).
5. Se avete tempo da perdere… perdetelo in un altro modo e non assecondate questo delirio venefico.
6. Se vi chiamate Rosa/Rosalba/Rosetta o alterati vari, vi prego di non leggere, molto razzismo viene impiegato nei confronti di questi nomi.
7. Se vi chiamate Alessandro… avete un nome bellissimo. Mi sono sempre piaciuti gli Alessandri. Voi leggetela pure.
8. Se vi chiamate Fiorenzo, potete cortesemente spiegarmi che cavolo di nome sia Fiorenzo? Ma siete seri?
9. Se avete di meglio da fare, per carità: FATELO. A meno che non siate lagnusi (meraviglioso termine siciliano che non ha equivalenti in lingua italiana, quindi vi prego d’intuirne il senso). Se siete lagnusi, dicevo, e non vi va di fare niente salvo stare a cazzeggiare su facebook, allora leggete pure.
10. Se volete rileggere le istruzioni daccapo, fate liberamente, male non fa e tanto lo scopo era comunque quello di perdere tempo.
11. Se avete caldo accendente il condizionatore.
12. Se avete caldo e non avete il condizionatore, aprite la finestra.
13. Se avete caldo e non avete né un condizionatore né una finestra… dove cavolo vivete?
14. Se avessi avuto tempo e non fossi stata così occupata con il gruppo avrei finito i tutti i compiti di geometria. Tutti i congiuntivi azzeccati.
15. Se non avete i Green day di sottofondo, correte a mettere Last Ride in. Questa storia si legge molto meglio con quella track di sottofondo.
16. Se non avete viso Ordinary World correte subito a vederlo… è un film troppo grazioso.
17. Se avete ben chiare tutte queste istruzioni, possiamo cominciare con la storia.
18. Se non avete chiare le istruzioni, ve le ripeto.
19. Se siete amanti del lieto fine, passate oltre: questa storia è brusca e crudele come la realtà.
- …
E ora, senza ulterior indugio, direi di cominciare.
Capitolo 1 – Ted & la vita di campagna
Dopo aver passato gran parte degli ultimi due anni in tour con la band (un famoso gruppo Punk Rock che resterà anonimo per motivi di privacy e copyright), Ted si era finalmente ritagliato un po’ di tempo per sé e aveva deciso di dedicarsi alla sua vera passione: la campagna.
Aveva acquistato un piccolo lotto di terreno che usava per coltivare le sue amate carote.
La vita scorreva serena e tranquilla, immersa in una piacevole monotonia che per Ted rappresentava un toccasano dopo le estenuanti giornate passate in giro per il mondo, all’insegna dell’imprevedibilità (come quella volta in cui lui e il batterista si erano ritrovati per via di una qualche scommessa a dover rubare delle galline da far gareggiare tra loro).
Stanco di quella vita, che comunque ricordava sempre con un sorriso vagamente malinconico sulle labbra, Ted accoglieva di buon grado la noia e la monotonia che la campagna gli offriva.
Capitolo 2 – Ted e il cane perplesso
Ted trascorreva le lunghe giornate in compagnia di un cane perplesso (che per motivi di privacy chiameremo Cane Perplesso). Cane Perplesso, un individuo pigro come la pigrizia, non sembrava infastidito dalle continue attenzioni di Ted, ma era restio a dargli troppa confidenza. Si limitava a fissarlo con sguardo triste, indeciso se mangiarlo o starlo semplicemente a sentire. Considerando che la storia di Ted deve ancora entrare nel pieno della sua trama, posso già spoilerarvi che Cane Perplesso decisi di non mangiarlo, ma di restare a fissarlo con sguardo triste e inerme, contribuendo così alla monotonia delle sue giornate. Ma la pace non può durare per sempre. E subito dopo questo capitolo INUTILISSIMO ai fini della storia, la vita del nostro Ted sarebbe stata presto sconvolta da un avvenimento straordinario.
Capitolo 3 – Drunk Who?
L’avvenimento straordinario in questione fu la comparsa di una Cabina inglese della polizia… Ted si avvicinò incuriosito, per apprendere poco dopo che ciò che aveva di fronte era niente poco di meno che la TARDIS, la macchina del tempo del Dottore (spero vivamente che qui ci sia qualche Whovian/nerd)che gli avrebbe concesso di visitare qualsiasi luogo in qualsiasi periodo storico. Ma in quel momento, Ted era parecchio nel mood “Bilbo Beggins”: avventure e viaggi nello spazio-tempo erano ciò che meno desiderava. Purtroppo… un orecchio gli rimase incastrato nella porta della Tardis, trascinandolo così nel vortice spazio-temporale.
Capitolo 4 - The mexican Bunny
Appena la Tardis terminò il suo viaggio, Ted si rese conto di essere atterrato in Messico. Un luogo che aveva sempre sognato visitare.
S’immerse così tanto nell’atmosfera che ben presto fu invaso dalla voglia di vedere nuovi posti e nuove epoche.
Capitolo 5 – the Hippy Bunny
E via allora nel periodo Hippy. Ted s’immedesimò alla perfezione coi figli dei fiori dell’epoca. Capello lungo e non lavato, coroncina di fiori, un po’ d’erba per gradire, qualche idea rivoluzionaria sull’amore libero ed ecco che visse la settimana più bella della sua vita.
Fu lì che incontrò Geremia, un roditore del Sud Dakota che gli fece perdere la testa.
Fu un fulmineo turbinio di passione. Passarono sette giorni a scopare come conigli (…Capito il doppio senso??….eh? eh? XDDD) e alla fine, Geremia chiese a Ted di sposarlo.
Capitolo 5 – La bellissima sposa coniglio
Ted era una sposa bellissima, raffinata ed elegante, motivo d’invidia per tutte le dame dell’altra società che si complimentavano civettevuole, ammirando il suo vestito Armani. Il giorno del suo matrimonio Ted versò lacrime di gioia e felicità. Era felice di unirsi per sempre a quello che era sicuro sarebbe stato l’amore della sua vita, ma si rammaricava del fatto che i suoi genitori non potessero essere lì, testimoni di quel momento per lui così importante. Avevano tragicamente perso la vita durante il naufragio di una nave merci diretta in Australia, quando Ted era solo un coniglietto. L’incidente stradale che li aveva uccisi era avvenuto proprio allo stesso orario del catastrofico naufragio, in cui, grazie al fulminio intervento della guarda costiera, nessuno aveva perso la vita.
Il matrimonio di Ted e Geremia fu l’evento dell’anno, sfarzoso ma non eccessivo, con la crème de la crème della città. Gli sposi erano pronti a vivere felici e contenti. E Vorrei potervi dire che andò proprio così… che dopo il matrimonio trascorsero sereni loro anni successivi, coltivando carote in una piccola tenuta in campagna, vorrei potervi parlare della loro prole, una settantina di dolci coniglietti batuffolosi pronti ad esplorare il mondo. Vorrei potervi dire che i saggi nonni Ted e Geremia riempirono le centinaia di orecchie dei nipoti con storie eroiche e coraggiose. Vorrei potervi dire che la vostra affezionatissima autrice vinse alla lotteria o comprò delle azioni talmente produttive da consentirle di diventare un’inquietante groupie dei Gree…ehm… della band anonima di cui sopra… Ma ahimè, come vi accennavo, questa non è una storia a lieto fine. Quindi non vi dirò nulla di quanto avrei voluto, ma vi narrerò i crudi fatti che avvennero dopo quella notte.
Capitolo 6 – La battaglia medievale
Senza alcun motivo se non quello di far proseguire la trama, Ted, dopo la prima notte di nozze, si ritrovò catapultato nel medioevo, dove scoprì che la popolazione di un piccolo villaggio locale contava su di lui per sconfiggere il terribile Zurg: un mostro metà Drago e metà schifo il cui unico scopo nella vita era quello di distruggere e di cucire (sarebbe poi diventato un famoso sarto medievale). La battaglia si svolse all’ombra dell’Etna, in un epico scenario di fiamme e rocce.
Alla fine Ted risultò vincitore, ma a caro prezzo: senza ben capire perché o cosa c’entrasse questa cosa con la battaglia, avrebbe dovuto rinunciare all’amore della sua vita: Geremia.
Lo spirito di sacrificio e l’amore verso gli altri diedero a Ted la forza di lasciare il suo amato spezzandogli il cuore.
Epilogo – The Drunk Bunny
Si dice che i conigli siano esseri forti, ma nulla avrebbe potuto preparare Ted al dolore di perdere l’amore della sua vita, e il suo piccolo lotto di terra, che fu confiscato qualche giorno dopo dalla finanza che lo riteneva un “terreno sottratto alla mafia”, da utilizzare per costruirci o un museo o un asilo. Non so bene quali dei progetti alla fine vinse l’appalto, quel che so per certo è che in quel terreno non crebbe mai più neanche una delle tanto amate carote di Ted.
Nessuno sa bene cosa sia successo a Ted dopo il divorzio. Chi lo conosceva meglio sostiene che si sia dato al bere. Come giudicarlo?
Altri sostengono che si sia unito a un qualche gruppo rock… i Green day qualcosa, suscitando l’ira della sua precedente band: i Greenbandebald (ora che la storia è finita posso finalmente rivelarvi il nome. Non ha senso. Lo so.). Ubriaco e disfatto, gira il mondo con queste rock star, recitando il ruolo della mascotte: un triste e patetico coniglio ubriaco. Nessuno si sofferma a chiedersi perché questo coniglietto rosa abbia scelto una vita di sbornie anestetiche. Nessuno sospetta che ci sia di più dietro quegli occhioni annebbiati. Nessuno sa che al di là di quei fiumi di alcol c’è una creatura che ha amato. Ha amato tanto da soffrire troppo. E ha sofferto troppo… da bere tutto.
fine
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George R.R. Martin: "Avrei voluto Lady Stoneheart nello show"
George R. R. Martin ha rilasciato una lunga e rara intervista a TIME, in occasione dell’articolo di copertina su Game of Thrones. Ecco qui la versione intera.
Scrivere è ancora un’improvvisazione? Anche se ha già in mente un finale, continua a scoprire cose nuove sul mondo di Westeros?
Sì. Non è solo per Westeros o Game of Thrones. È solo il modo in cui lavoro e in cui ho sempre lavorato.
In ognuno dei miei romanzi, so da dove partire e so dove voglio finire, più o meno. Conosco già alcuni dei punti di svolta, alcuni eventi che si verificheranno, ma lungo la strada si scoprono un sacco di cose. I personaggi evolvono e diventano più importanti, poi arrivi a quello che pensavi sarebbe stato un grande punto di svolta e… quello che avevi immaginato due anni prima non funziona più così bene, e poi ti viene un’idea migliore! Per me ci sono sempre questo tipo di scoperte. So che non tutti gli scrittori lavorano così, ma io l’ho sempre fatto.
È la serie TV Game of Thrones a contribuire alla nascita di queste nuove idee? Cerca di rendere più complesso o di allontanarsi da quello che c’è in TV, o magari cerca di approfondire alcuni personaggi che nello show non sono così presenti?
Non è mia intenzione. Lo show è lo show e a questo punto ha sviluppato una vita propria. Sono coinvolto nello show, naturalmente, sin dall’inizio, ma la mia concentrazione sono i libri. Bisogna ricordare che ho iniziato a scrivere questa storinel 1991 e ho incontrato David e Dan nel 2007. Ho vissuto con questi personaggi e con questo mondo per 16 anni prima che iniziassimo a lavorare sullo show. Sono ben stabili nella mia mente e non cambierò nulla per lo show, o per i commenti allo show, o per ciò che pensano i fan. Semplicemente continuerò a scrivere la storia che ho cominciato negli anni ’90.
Oltre alla Guerra delle Due Rose, a quali altri eventi reali si ispirano i libri?
Ho letto molta storia, molta narrativa storica, molto fantasy. C’è un certo tipo di dialogo che si instaura fra le diverse generazioni di scrittori, in particolare quelli di fantascienza e di fantasy, perché facciamo parte di questa sottocultura. Quando leggo le opere fantasy di altri autori, soprattutto di Tolkien e di alcuni dei suoi seguaci, nella mia testa vorrei rispondergli: “Sì, è buono, ma io avrei fatto diversamente”, oppure “No, penso che tu abbia sbagliato”.
Non sto criticando Tolkien – non voglio essere visto come un detrattore. La gente vuole sempre creare questo conflitto fra me e Tolkien, che trovo molto frustrante dato che io lo venero, è il padre del fantasy moderno, e il mio mondo non esisterebbe mai se lui non fosse venuto prima! Comunque, io non sono Tolkien, e faccio le cose in modo diverso, anche se credo che Il Signore degli Anelli sia uno dei grandi libri del XIX secolo. Ma c’è questo dialogo continuo fra me e Tolkien, e fra me e gli altri seguaci di Tolkien.
Quando ha cominciato a scrivere questa saga, il presidente era George H. W. Bush. Da allora le cose sono cambiate molto. Ci sono stati dei momenti in cui si è fatto influenzare dalla politica contemporanea oppure in cui ha fatto dei commenti?
Penso probabilmente di sì, fino a un certo punto. Non era la mia intenzione quando ho cominciato. Come Tolkien, che detestava che la gente pensasse che avesse scritto un’allegoria, e si irritava quando suggerivano che Il Signore degli Anelli fosse basato sulla Seconda guerra mondiale, o anche sulla Prima guerra mondiale, nella quale ha combattuto. Nemmeno io sto scrivendo un’allegoria, ma vivo nel mio tempo, ed è inevitabile che finisca per influenzarmi. Ma durante la scrittura di questi libri, probabilmente ero molto più immerso nella politica del Medioevo, delle Crociate, della Guerra delle Due Rose e della Guerra dei Cent’Anni.
I suoi personaggi femminili si distinguono per la loro forza e la loro complessità, ma il modo in cui i personaggi maschili le trattano, spesso rendendole vittime di violenza sessuale, ha causato del risentimento nel corso degli anni. Questa reazione l’ha sorpresa?
In realtà sì. E non sono d’accordo con alcune delle critiche. Non credo che quello che dicono sia tutto vero o giusto. So che tutti hanno diritto a un’opinione, ma… pazienza. In sostanza, io sto scrivendo la storia di una guerra – la Guerra delle Due Rose. La Guerra dei Cent’Anni. La parola “guerra” fa parte di tutto ciò a cui mi sono ispirato. E quando ho letto i libri di storia, lo stupro era parte di tutte queste guerre. Non c’è mai stata una guerra senza degli stupri, e parlo anche delle guerre di oggi. Secondo me scrivere una storia di guerra e non parlare di queste cose sarebbe incredibilmente disonesto.
In un certo senso, tutto questo è anche molto intrecciato, tragicamente e sfortunatamente, con la storia dei personaggi. Daenerys non sarebbe mai diventata ciò che è ora se non fosse stata venduta come sposa bambina, come schiava, a tutti gli effetti.
E dovrei sottolineare, e probabilmente chi ha letto i libri e guardato lo show lo sa, che la prima notte di nozze di Daenerys è molto diversa da come è descritta nei libri. In effetti, nel pilot originale l’attrice che interpretava Daenerys era diversa, e quello che abbiamo girato la prima volta con Tamzin Merchant era molto più simile ai libri. Era la scena così come è scritta nel libro. Poi è stato cambiato nel nuovo pilot. Dovreste chiedere a David e Dan.
Il fatto di non poter muovere i personaggi liberamente è un bel vincolo, dato che ora i fan ci sono molto affezionati.
Voglio che ai lettori importi dei miei personaggi – se non è così, allora non c’è alcun coinvolgimento emotivo. Ma allo stesso tempo, voglio che i miei personaggi siano sfaccettati, ambigui, che siano degli esseri umani. Penso che tutti gli esseri umani abbiano delle sfaccettature. C’è questa tendenza a idealizzare le persone come eroi o come cattivi. E io credo che nella vita ci siano degli eroi e ci siano dei cattivi. Ma anche i grandi eroi hanno dei difetti e fanno cose brutte, e anche i peggiori cattivi sono capaci di amare e soffrire, e a volte ci sono occasioni in cui si può provare compassione per loro. Per quanto io ami la fantascienza e le storie fantastiche, ci si deve sempre rivolgere alla vita reale e chiedersi: Com’è la realtà?
Autorizzare questo adattamento deve essere stato un grande passo, sapendo che non sarebbe mai stato esattamente come i romanzi.
Sicuramente c’era del rischio. Praticamente a partire da metà degli anni ’80 fino a metà degli anni ’90, ho lavorato in televisione. Ogni volta che consegnavo la prima bozza di un copione, la reazione era sempre “George, ci piace tantissimo, ma è cinque volte il nostro budget, quindi… Puoi tagliare qualcosa? Non possiamo permetterci gli effetti speciali per quello che hai scritto, e quell’enorme battaglia con 20mila soldati, falla diventare un duello fra l’eroe e il cattivo”, e io tornavo a lavorarci e facevo tutte le modifiche, perché era il mio lavoro. Ma ho sempre preferito le mie prime bozze, anche se non erano perfette – i veri contenuti erano lì.
E quando finalmente ho lasciato la televisione e a metà degli anni ’90 ho iniziato con la prosa, mi sono detto, non mi importa più niente, scriverò tutto quello che la mia fantasia mi suggerisce, con tutti i personaggi che voglio, castelli enormi, draghi, metalupi, centinaia di anni di storia e una trama complessa, e andrà bene perché sarà un libro. Non si deve adattare. Poi invece, ironicamente, è successo. Ma quando il libro è entrato nella classifica dei best-seller, e i film del Signore degli Anelli di Peter Jackson hanno cominciato a uscire, ho immediatamente ricevuto attenzioni da Hollywood. Ho avuto diversi incontri prima di conoscere David e Dan, con delle persone che mi dicevano che sarebbe stato il nuovo Signore degli Anelli. Ma non riuscivano a gestire la grande quantità di materiale, che invece era precisamente ciò che io volevo. In ogni incontro mi dicevano: “Ci sono troppi personaggi, la storia è troppo complessa – Jon Snow è il personaggio principale. Elimineremo tutti gli altri personaggi e concentreremo tutto su Jon Snow”. Oppure “Daenerys è la protagonista. Elimineremo tutti gli altri e faremo un film su Daenerys”. E ho rifiutato tutte quelle offerte.
Quindi ho cominciato a pensarci, e mi sono detto: “Non so ancora se potrà essere adattato. È troppo complesso. Ma se lo faremo, non potrà essere un semplice film”. È troppo complesso, e si facesse in forma cinematografica, dovrebbero essere dieci film. Tutti dicevano: “Oh, faremo un film, e se avrà successo, ne faremo altri”. Beh, non sempre funziona, come saprà chi conosce Queste oscure materie di Philip Pullman [una trilogia che è stata adattata in un film nel 2007, La bussola d’oro, che però non ha mai avuto un seguito]. Se il primo non ha successo, il resto della storia non si farà mai. La televisione può fare di più. Ma non si può fare sulla televisione di stato, perché c’è troppo sesso, troppa violenza, è troppo complesso. Non è facile farsi piacere questi personaggi. Non puoi metterci un incesto.
Ho deciso che l’unico modo per farlo era con HBO, o con un network simile – Showtime, Starz, o altri canali a pagamento – come una serie, con un libro per stagione. Era il modo migliore. E quando il mio agente ha organizzato il pranzo con David e Dan, loro all’epoca erano perlopiù sceneggiatori di film, e avevano iniziato i libri con in mente dei film. Ma quando li hanno letti sono giunti alla stessa conclusione: non si può fare un film. Quindi quando abbiamo avuto quel famoso pranzo che poi è diventato una cena, perché siamo stati insieme per quattro o cinque ore, mi sono piaciuti molto e siamo andati d’accordo fin dall’inizio. Le cose avrebbero potuto cambiare nel tempo, a volte alcune persone vengono licenziate e vengono sostituite, quindi per me era come una scommessa. E fortunatamente, abbiamo vinto.
Come è cambiato il suo coinvolgimento nello show?
Nello show sono un produttore esecutivo; David e Dan sono gli showrunners. Sin dal primo momento, abbiamo saputo che loro avrebbero fatto il grosso del lavoro, ma io volevo comunque essere coinvolto. Inizialmente, ero coinvolto nei casting – non ero presente fisicamente – ero qui a Santa Fe. Ma grazie ai prodigi di internet, potevo vedere le audizioni di tutti gli attori, scrivere lunghe lettere e discutere quali attori mi piacevano e quali no via telefono. E nelle prime stagioni, scrivevo un episodio per ciascuna. Avrei fatto di più volentieri, ma non c’era tempo. Devo ancora continuare i libri. Mi ci vuole circa un mese per scrivere un copione e non avevo un mese da buttare via, quindi mi sono detto, salterò la quinta stagione. Ho saltato anche la sesta e la settima stagione, sto provando a concentrarmi su questo libro, che come sapete è incredibilmente in ritardo. Quindi in questo senso, il mio coinvolgimento nello show è diminuito, però sono sempre disponibile per qualsiasi cosa, e sono sempre felice di intervenire. David e Dan sono venuti a Santa Fe e abbiamo discusso molti degli ultimi sviluppi, il traguardo del percorso che abbiamo fatto insieme. Quindi non c’è bisogno che io sia così coinvolto come all’inizio.
Quando vi siete incontrati a Santa Fe avete avuto la sensazione che fosse un addio, oppure avete provato una malinconia per il tempo passato?
Beh, di certo per me il tempo è passato molto velocemente. So che quel primo incontro è stato anni fa, ma a me sembra la settimana scorsa. La televisione va molto veloce, e sfortunatamente io non scrivo così alla svelta i miei libri. Quindi quando ci siamo incontrati la prima volta, non mi sarei mai sognato che lo show si sarebbe messo in pari con i libri, ma così è stato e adesso siamo giunti qui. E spero che la nostra destinazione sarà la stessa, anche se abbiamo preso due strade diverse.
La consapevolezza che sono due cose diverse deve essere un conforto nella scrittura – il fatto che ciò che scrive sarà solo opera sua.
Ci provo! Non posso lasciarmi influenzare dallo show. Lo show è fantastico, ma una serie televisiva e un romanzo sono cose diverse. Lo show ha dei problemi pratici di cui io non devo occuparmi. C’è un budget molto grosso, uno dei più notevoli nel mondo televisivo, ma è comunque un budget, non possono continuare ad aggiungere personaggi. Io invece sì! Loro devono tenere in considerazione i contratti degli attori, le tempistiche delle riprese, le locations, tutte quelle preoccupazioni concrete che io non ho.
Il fatto che negli anni lo show abbia ricevuto sempre più attenzione l’ha resa un perfezionista nella scrittura? Ora scrivere è più difficile?
Sì! E non è solo per via dello show. Anche se lo show potrebbe, in effetti, essere un motivo. I libri hanno avuto un enorme successo. Credo che siano stati tradotti in 47 lingue, che è sbalorditivo. Anche i miei primi lavori sono stati tradotti però, ragazzi, ora sono tradotto in lingue che non ho mai sentito prima, in ogni angolo del mondo. I libri sono stati nominati per molti premi importanti e hanno delle recensioni eccellenti. È tutto fantastico, ma mette anche una certa pressione. Invece di scrivere semplicemente una storia, c’è un tizio nella mia testa che dice: “No, deve essere perfetto! Deve essere fantastico! Stai scrivendo uno dei più grandi fantasy di tutti i tempi! Quella frase è perfetta? Questa decisione è perfetta?” Quando ho cominciato nel 1991, stavo solo provando a scrivere una storia nel miglior modo possibile. Non credevo che sarebbe diventato una pietra miliare del genere. Il fatto che abbia ricevuto tutte queste attenzioni positive e tutti questi elogi, recensioni meravigliose, nomination per vari premi, aumenta le pressioni e il desiderio di fare sempre meglio.
Il fatto che la serie TV sia iniziata nello stesso momento in cui è stato pubblicato A Dance with Dragons è stata una perfetta coincidenza. Se prima il suo lavoro aveva un’ampia base di lettori e delle buone recensioni, poi è diventato una delle saghe più famose di sempre.
In realtà il successo non è arrivato subito. Quando lo show è iniziato, alcune delle recensioni erano negative, e altre erano molto positive, certo, ma non eravamo nemmeno vicini al successo del miglior show di HBO. True Blood aveva molti più spettatori. Ma con la prima, la seconda e la terza stagione, c’è stato un passaparola, la sua popolarità si è diffusa e anche il grande successo è arrivato. Quando è stato pubblicato nel 1996, A Game of Thrones non è affatto diventato un best-seller. Per niente. Il secondo libro, A Clash of Kings, quando è uscito nel 1999, è entrato a far parte di qualche classifica, penso che fosse quella del Wall Street Journal, al #13 per una settimana, e poi è sparito. Un anno dopo, A Storm of Swords era più in alto nella classifica e ci è rimasto per un paio di settimane. Ogni libro ha avuto risultati migliori di quello prima, e così è stato anche per ogni stagione dello show. Che per me è un grande complimento – tutto il passaparola.
Ogni post-it corrisponde ad un personaggio morto…
Quando cammini per le strade di Santa Fe, ti vengono in mente nuovi dettagli sui personaggi o sulla storia?
A volte mi capita quando devo guidare per un tragitto lungo. Quando ero più giovane mi piacevano un sacco i viaggi per strada, prendevo la macchina e guidavo per due giorni fino a Los Angeles o Kansas City o Saint Louis o fino in Texas. E per strada, ci pensavo molto. Nel 1993, mi sembra, sono stato in Francia per la prima volta. Avevo iniziato Game of Thrones due anni prima, nel ’91, e avevo dovuto metterlo da parte per via del mio lavoro in televisione. E per qualche motivo, avevo noleggiato un’auto, guidavo in giro per la Bretagna e le strade francesi per visitare dei piccoli villaggi medievali, e vedere tutti quei castelli in qualche modo ha riportato la mia attenzione sul libro. Pensavo a Tyrion, Jon Snow e Daenerys e nella testa avevo solo Game of Thrones.
Lei si trova in un territorio insolito: i personaggi sono perlopiù ancora nelle sue mani, ma sono anche in TV, interpretati da attori. È in grado di stabilire dei confini, in modo che, ad esempio, la sua Daenerys sia la sua Daenerys, e la Daenerys dello show sia quella di Emilia Clarke?
Ci sono riuscito. I confini ci sono. Non credo, però, che ci siano stati fin dall’inizio. A volte, quando David, Dan e io discutevamo sul da farsi, io preferivo sempre rimanere fedele ai libri, mentre loro preferivano fare alcuni cambiamenti. Credo che uno dei più grandi sia stata la loro decisione di non riportare indietro Catelyn Stark nei panni di Lady Stoneheart. Probabilmente è stato il primo grande cambiamento dello show rispetto ai libri e, come sapete, io non ero d’accordo, ma David e Dan hanno preso questa decisione.
Nella mia versione della storia, Catelyn Stark riprende vita e diventa una creatura piena di rancore al comando di un gruppo di uomini, che cerca di avere la sua vendetta nelle Terre dei Fiumi. David e Dan hanno deciso di non prendere quella direzione, e di percorrere altre strade. Ma penso che entrambe le versioni siano allo stesso modo valide, perché Catelyn Stark è un personaggio di finzione e non esiste. Si possono raccontare entrambe le storie su di lei.
Qual è stata la scena più difficile da scrivere?
Le Nozze Rosse, senza dubbio. Sapevo che le Nozze Rosse sarebbero arrivate e le avevo pianificate sin dall’inizio, ma quando sono giunto a quel capitolo, a due terzi di A Storm of Swords, mi sono reso conto di non riuscire a scriverlo. Ho saltato quel capitolo e ho scritto le centinaia di pagine seguenti. Il libro era finito, eccetto la scena delle Nozze Rosse, e tutte le conseguenze. Era troppo difficile scrivere quella scena, perché mi ero immedesimato in Catelyn per così tanto tempo, e ovviamente ero molto affezionato anche a Robb, nonostante non fosse mai stato un personaggio POV, e anche ad alcuni dei personaggi minori. Sono personaggi minori ma si instaura un rapporto anche con loro, e io sapevo che sarebbero morti tutti. È stata una delle scene più difficili che io abbia mai scritto, ma anche una delle più forti.
Ha introdotto Lady Stoneheart perché era difficile dare l’addio definitivo a Catelyn?
Sì, forse. Probabilmente in parte è questo il motivo. In parte era anche il tipo di dialogo di cui parlavo prima. E qui devo ritornare a Tolkien. E sembrerà che io lo stia criticando, anche se forse è così. Mi ha sempre dato fastidio che Gandalf ritorni in vita. Per me le Nozze Rosse sono come le miniere di Moria del Signore degli Anelli, e quando Gandalf muore – è un momento devastante! A 13 anni non me lo aspettavo, mi ha colto completamente di sorpresa. Gandalf non può morire! Lui sa tutto quello che succederà! È uno degli eroi principali! Oddio, cosa faranno senza Gandalf? Adesso ci sono solo gli hobbit?! E Boromir, e Aragorn? Beh, forse Aragorn va bene, ma è comunque un momento importantissimo. Un coinvolgimento emotivo enorme.
E poi nel libro successivo, rieccolo di nuovo, e in America i libri sono stati pubblicati con un intervallo di sei mesi, che per me sono sembrati un milione di anni. Quindi per tutto quel tempo ho pensato che Gandalf fosse morto, poi è tornato ed era Gandalf il Bianco. E, meh, era più o meno quello di sempre, a parte il fatto che era più potente. In un certo senso, stavo parlando con Tolkien nel nostro dialogo, dicendogli: “Sì, se qualcuno torna dal regno dei morti, soprattutto se ha avuto una fine traumatica e violenta, non sarà tanto buono come prima.” Questo è quello che ho provato, e che sto ancora provando a fare con il personaggio di Lady Stoneheart.
E anche Jon Snow, nello show, ne esce distrutto dopo essere tornato in vita.
Giusto. E il povero Beric Dondarrion, che è stato creato come anticipazione di tutto questo, ogni volta è un po’ meno Beric. I suoi ricordi stanno svanendo, ha tutte queste cicatrici, fisicamente diventa sempre più orribile, perché non è più un essere umano vivente. Il suo cuore non batte, il sangue non scorre nelle sue vene, è un non morto, ma è un non morto animato dal fuoco invece che dal ghiaccio; qui torniamo alla questione del ghiaccio e del fuoco.
C’è qualcosa di cui non abbiamo parlato?
Suppongo che ci siano alcune cose che avremmo potuto esplorare più a fondo riguardo la questione della violenza sessuale e delle donne – è un discorso complicato e insidioso. Per tornare un attimo sull’argomento, vorrei dire che tengo molte sessioni di autografi, e penso probabilmente di avere più lettrici femmine che maschi. Solo per poco, probabilmente è un 55 contro un 45 per cento, ma a questi eventi vedo molte lettrici e adorano i miei personaggi femminili. Sono molto orgoglioso di avere creato Arya, Catelyn, Sansa, Brienne, Daenerys, Cersei e tutte le altre. È una delle cose che mi dà più soddisfazione, il fatto che siano state così apprezzate come personaggi, specialmente dalle lettrici donne, che spesso non vengono rappresentate a dovere.
In futuro, quando Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco saranno concluse, spera di tornare a lavorare su generi diversi?
Sì… ma per finire questi libri mi ci vorranno ancora degli anni, e io ne ho già 68, perciò… Al momento ho abbastanza idee per scrivere libri fino a 168 anni. Ma probabilmente non vivrò 168 anni. Quindi quanto tempo mi resta? Mi vengono sempre delle idee nuove, perciò potrei non scrivere mai nulla su quelle vecchie. Quindi chissà? Scrivo ciò che voglio scrivere.
Sono stato fortunato con il successo di questi libri e di questo show. Per il momento voglio finire questi romanzi; credo di doverlo al mondo e ai miei lettori. È ciò per cui verrò ricordato. Ma dopo scriverò qualcos’altro, spero. Potrei ricominciare a scrivere racconti brevi. Mi piaceva un sacco. Non ne scrivo da molti anni, ma ho qualche idea in proposito. Non scriverò mai più un’enorme storia di sette libri che dura 30 anni!
Traduzione: Chiara B. Editing: Alex A. Fonte: TIME
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Questa Sono io! Grandi occhi marroni, sopracciglia folte, colori di capelli originali ed inusuali. Voglia di vivere e tanta voglia di scrivere! Nasco il 26 febbraio in Sardegna vivo una vita abbastanza avventurosa prendendo il mio primo aereo a 20 giorni di vita! Arrivo a Firenze, emblema culturale ed artistico che mi porterò per sempre nel cuore tra la fiorentina di mio padre e il buonissimo ristorante dei miei zii. A circa 5 anni arrivo poi stabilmente in Emilia-Romagna dove vivo tutt'ora. Frequento il Liceo Artistico avendo grande passione per le opere letterarie e per la storia dell'arte e in prima liceo decido di scrivere il mio primo libro! (La Draikirj Ribelle) Un po' per gioco e un po' per scommessa inizio su Wattpad ed esso cresce! Cresce a dismisura e senza controllo passo da 1K visualizzazione a 100K quando lo termino per poi continuare la sua crescita fino ad oggi dove sfioriamo i 150K (148 per l'esattezza) sono felice, anzi FELICISSIMA ma la mia ambizione non si placa ed infatti continuo a scrivere e a pensare a nuovi libri pubblicandone e portandone a termine molti altri. Adesso ho deciso di aprire una pagina perchè voglio provarci davvero a inseguire il mio sogno, voglio trovare una casa editrice che decida di pubblicare i miei scritti, voglio poter sfondare in qualche modo. Voglio poter lasciare qualcosa a chi li legge che sia solo per 10 righe o per 100 pagine. Voglio impressionare e sbalordire. Voglio dimostrare a tutti di farcela perchè è ciò in cui loro non sperano. Voglio dimostrare di essere forte e che ciò che scrivo ha senso per voi ma soprattutto per me. Per tutti quelli che vorranno seguirmi iscrivetevi pure al mio profilo Wattpad: erika26mocci (per i nuovi progetti) GioErika (per i primi libri). Ringrazio tutti per l'attenzione di essere arrivati fino a questo punto e vi auguro buona giornata. BACI <3 https://www.instagram.com/p/BpZi4_ag1v3/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=175o1ukx1rx2m
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“Tu non hai scommesso niente dal primo momento. Non sei un uomo capace di scommettere”. Yasushi Inoue, il vetraio della parola: “La lotta dei tori”
Yasushi Inoue è un vetraio della parola. Le sue parole sono vetri sabbiati. Come nelle migliori vetrerie Yasushi prende il vetro doppio, ci stende sopra una carta adesiva su cui per sottrazione si estrae il disegno col bisturi. Dal taglio si ha la forma. A questo punto avviene la sabbiatura, il pezzo di vetro ora pare non avere senso, è solo un insieme di tensioni e tagli. Inserisce la lastra nella cabina, il compressore spara la sabbia. Tolta la carta adesiva si può vedere il disegno: la sabbia rende morbido persino il taglio nel vetro.
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Leggere La lotta dei tori è esattamente come stare in una vetreria. Tutta la scrittura è tensione silenziosa, non sai chi si sta tagliando. È il romanzo d’esordio di Yasushi pubblicato nel 1949, ha per titolo la tauromachia ma nel testo si vedrà ripetersi solo come parola, continuamente, una lotta come una ossessione. La vera lotta tra i tori è relegata a poche righe in una visione offuscata, annebbiata dalla miopia delle passioni e dell’amore disperato. La lotta di questo libro non è quella tra gli animali, che pare pure annoiare perché alla fine le bestie sono semplici, ma quella tra gli uomini e le loro pulsioni, le loro segrete ossessioni. Tsugami è un giovane direttore di giornale, siamo nel dopo guerra di un Giappone che tenta di risollevarsi in tutti i modi, un giorno incontra Tashiro – un tale spuntato dal nulla – che inserisce nella testa di Tsugami il desiderio di portare la tauromachia nella loro città. Che sia però il suo giornale a promuovere questo evento, ad organizzare questa scommessa della lotta animale in pieno gennaio all’aperto.
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La lotta è quella della tensione delle molecole del vetro, si credono piene di verità nel loro immobilismo ma basta un piccolo colpetto a farle piangere in aria. Yasushi riesce con una delicatezza che è propria quasi solo della letteratura giapponese a farci scivolare nell’arena dell’uomo senza che percepiamo odore di sangue. Siamo costretti a continuare questo libro, una volta aperto, a scivolare nel labirinto delle passioni e delle paure di questi uomini d’affari che tentano tutto il loro buonumore, i loro soldi, su una lotta tra due animali. L’ansia di Tsugami, di Tashiro e degli altri personaggi è sempre l’ansia dei soldi, del riuscire in una impresa brandendo il denaro.
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La tauromachia non serve più a far espiare la rabbia dal cuore di chi guarda, non serve più a trasferire il male dell’uomo nelle urla date all’animale. Tutto si riconduce a una fredda contesa per il successo. “Il protrarsi dello scontro cominciava ad annoiare la gente e qualcuno suggerì di dividerli e dichiararli pari”. Nemmeno due animali che si scannano sono più interessanti se la lotta dura troppo, se l’animale non cede. Perché forse ci piace vedere quello che cede, quello che stramazza al suolo e manda suoni disperati. “Tutti stanno scommettendo” è forse la chiave di questo romanzo. La tensione gira attorno a questa parola, scommessa. Lasciare che a decidere del nostro destino sia l’animale fuori da noi.
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Nel sottofondo di questa narrazione c’è un’altra storia. Una storia d’amore clandestino destinata, come accade per gli amori nati nell’ombra, a essere mangiata dall’ombra. Questa relazione tra Sakiko e Tsugami si apre nel ventre della guerra o di quel che ne rimane dopo, dove chi chiede rifugio a una casa forse lo sta chiedendo anche al cuore e a tutta la persona. Tsugami è un uomo teso, affascinante, che svolge un ruolo di potere e come tale è imprendibile, non si fa avvicinare da nessuno, le sue voragini sono soltanto sue, puoi al massimo osservarle, scorgerne il precipizio. E poi c’è Sakiko, questa donna che ama Tsugami dall’ombra e dall’ombra però vuole uscirne. Il suo taglio sarà proprio la luce, uscire nelle ore che non le competono, andare nei luoghi dove può essere vista, nei luoghi che non le appartengono.
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“Tu non hai scommesso niente dal primo momento. Non sei un uomo capace di scommettere”. “E tu, allora? Cosa fai?” Tsugami aveva pronunciato queste parole meccanicamente, ma Sakiko sussultò e trattenne il respiro. Sentendosi impallidire, rise con una smorfia. “Certo. Anch’io sto scommettendo”, disse articolando con provocatoria chiarezza ogni parola. E aveva scommesso davvero. Nell’istante in cui Tsugami le aveva detto: “E tu, allora? Cosa fai?”, Sakiko aveva affidato al combattimento di tori che in quel momento si stava svolgendo sul ring lo sbocco della questione che la stava tormentando da tanto tempo: la sua separazione da Tsugami. Si era detta: “Se vince il toro rosso, lo lascerò”.
*
Alla fine l’amore è sempre una lotta, per sfinimento ci lasciamo convincere che a deciderne l’esito sia una sorta di destino. Oppure invece decide per noi l’animale più debole tra i due. Tra i due tori quello che muore è sicuramente quello che non ha scelto, quello che può restare in pace con la sua incapacità, nel perimetro sicuro delle canne di bambù.
Clery Celeste
*In copertina: Pablo Picasso, “Scene dalla tauromachia”, 1960
L'articolo “Tu non hai scommesso niente dal primo momento. Non sei un uomo capace di scommettere”. Yasushi Inoue, il vetraio della parola: “La lotta dei tori” proviene da Pangea.
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Purchè non si pensi: utilizzare la libertà per instaurare il totalitarismo dei desideri indotti
Se vogliamo essere tranquilli, siamo invitati a metterci tutti in divisa, ad essere senza volto. Scriveva Karl Jaspers: «E’ possibile spiegare tutto, senza nulla comprendere». Proprio quanto ci sta accadendo. Crediamo di sapere tutto senza comprendere nulla.
Viviamo in tempi stranissimi che, oltre ad un volgare conformismo, non ci consigliano di andare. E chiamiamo questo conformismo “buon senso”, “saper vivere” e persino lealtà alla patria, o addirittura “fede”. Così siamo giunti al punto che manifestare un desiderio di conoscere e riflettere, di pensare, oppure dichiarare di avere un punto di vista diverso da quanto ogni autorità ci propone, significa candidarsi al sospetto. Come minimo, si rischia di trovarsi ai margini del proprio gruppo. L’attuale sistema ha come presupposto che qualcuno pensi e giudichi per tutti. Ed allora, l’ordine interiorizzato e che nessuno verbalizza, ma che scivola indisturbato nelle pieghe di ogni coscienza è: «Non pensate, gente, non pensate, ricordatevi di non pensare, pensare stanca, è inutile, pensa uno per tutti e vi protegge dal vostro stesso pensiero…». Così viviamo tempi di conformismo coatto. Se vogliamo essere tranquilli, siamo invitati a metterci tutti in divisa, ad essere senza volto. Scriveva Karl Jaspers: «È possibile spiegare tutto, senza nulla comprendere». Proprio quanto ci sta accadendo. Crediamo di sapere tutto senza comprendere nulla. Da ciò ne discende uno stile di vita che rifugge quasi per istinto dalla complessità dei problemi. Tutto è semplice, tutto ha una soluzione, purchè non si pensi e non si dica a nessuno che la vita è rischio, scommessa, impegno, progetto di costruire insieme qualcosa di bello e sensato. Le società occidentali hanno fatto della libertà la loro bandiera. Nessun valore è stato tanto esaltato, in questi ultimi trecento anni, e nessuno appare, anche oggi (almeno in Occidente), tanto indiscutibile. E’ stato in nome della libertà che si sono sviluppate le grandi rivoluzioni della storia moderna. Ed è sempre appellandosi ad essa che ci si è battuti, nel secolo scorso, contro la potenza soffocante dei totalitarismi. Ma cosa significa, realmente, essere liberi? L’esperienza insegna che è più facile battersi per la libertà, che non individuarne l’effettivo significato. Ma è facile rendersi conto che dal concetto di libertà che si adotta dipende anche il tipo di liberazione per cui ci si deve battere. Se consideriamo la libertà come quella condizione nella quale non si è costretti da niente e da nessuno a fare o non fare qualcosa, poniamo l’accento esclusivamente sugli ostacoli esteriori che spesso limitano l’azione del soggetto e ne mortificano l’autonomia. A questa idea si sono ispirate e si ispirano molte battaglie per la liberazione da condizionamenti politici, economici, sociali e culturali. E certo il poter fare senza ostacoli ciò che si desidera costituisce una condizione necessaria della libertà. Ma è anche sufficiente? A farcene dubitare potrebbe essere il fatto semplicissimo che di una libertà così intesa si può parlare anche a proposito di animali non umani. Un cane è “libero” se non è attaccato al guinzaglio. In realtà, c’è da chiedersi se una persona realizzi veramente la sua libertà quando può fare ciò che desidera. E’ possibile, infatti, porre una questione più a monte, e cioè se questa persona sia libera di desiderare quello che desidera. In una società come la nostra, dominata dai meccanismi della pubblicità, questo dubbio si impone con particolare evidenza: è veramente libero che, subendo un bombardamento quotidiano di messaggi più o meno subliminali, si trova a desiderare un prodotto di cui non avrebbe alcun reale bisogno, anche a costo del sacrificio di altre cosa, ragionevolmente assai più utili? L’esempio più eclatante di tale fenomeno è il clamore suscitato dal lancio dell’ultimo modello di Iphone, che rispetto ai suoi predecessori ha veramente poche novità. Eppure, il martellamento mediatico ha generato in numerosi giovani il desiderio di acquistarne uno, ad un prezzo è estremamente elevato e senza nessuna reale utilità rispetto ad un telefono cellulare “normale”. La domanda è: sono realmente io a desiderare, o c’è qualcun altro che mi spinge a desiderare? Il fatto è che il desiderio, come tale, è facilmente condizionabile dall’esterno. Esso dipende dagli oggetti che ci si presentano e nei cui confronti siamo liberi di sentirci attratti o meno. Esiste, tuttavia, un livello in cui la libertà umana si manifesta nella sua peculiarità ed è quello della volontà. Qui non si tratta più di poter fare, ma di poter scegliere ciò che si vuole fare. Per questo, però, è essenziale il pensiero. Senza pensiero la libertà si appiattisce sul livello dei riflessi condizionati. Accennavamo prima ai meccanismi della pubblicità. Si pensi anche alle mode e all’omologazione che ne risulta in tutti i settori, da quello dell’abbigliamento a quello, ben più delicato, delle opinioni etiche, politiche o religiose. Oggi è molto difficile sfuggire a questa forma di dominio invisibile. Ed esso è tanto più pericoloso in quanto censura non le risposte, ma le stesse domande. Moltissimi uomini e donne, oggi, vivono alle prese con problemi che sono stati messi in “agenda” da altri. Ebbene, ciò è caratteristico dei totalitarismi che, a differenza degli antichi regimi assolutistici, mirano non a soffocare le opposizioni, ma a conquistare il cuore e la mente delle persone, plasmandole per così dire “dall’interno”, piuttosto che costringendole dall’esterno. È chiaro che se si adotta il concetto dominante di libertà, le nostre società, apparentemente, sembrano essere libere, senza nessun limite esteriore, ma sono minacciate da una forma di oppressione totalitaria che può essere individuata e denunziata solo se si adotta un concetto più ampio di libertà, che naturalmente non escluda il primo, ma lo collega al problema della scelta consapevole e non soltanto al comportamento esterno. A questo punto il problema del pensiero si rivela drammaticamente attuale. Se su di esso si gioca il valore della libertà, nel suo significato più pieno, vale la pena chiedersi perchè oggi sia così debole di fronte alle sfide della vita personale e sociale, e come sia possibile restituirgli la sua forza. Forse bisognerebbe cominciare dallo spegnere la nemica numero uno dell’umanità: la televisione! Preso da: http://ift.tt/2gppB7O http://ift.tt/2x4uE0t
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Il triste declino dei beni culturali
Il triste declino dei beni culturali di Claudio Meloni Se un merito dobbiamo attribuire alle riforme del Ministro Franceschini, certamente questo sta nel fatto che oggettivamente il tema della gestione pubblica del nostro patrimonio culturale è stato riportato al centro del dibattito politico. Possiamo aggiungere che purtroppo i meriti si esauriscono in questa premessa, nell’apparente rovesciamento dell’assunto neo liberista che identificava la spesa sulla cultura come socialmente improduttiva con un altro, dello stesso segno, che propone la messa a reddito del patrimonio come una sorta di panacea dello sviluppo, lo sfruttamento commerciale dei nostri siti come l’unico mezzo della loro valorizzazione. In realtà entrambi questi metodi stanno determinando un progressivo arretramento delle gestioni pubbliche, una certificazione dell’impossibilità da parte dei bilanci pubblici di provvedere alla manutenzione e conservazione del patrimonio, arrivando, in alcune ardite teorizzazioni, ad immaginare che il problema sia l’eccessiva concentrazione dei beni culturali nel nostro paese, e che questo determini appunto l’incapacità sostanziale da parte dello stato e delle istituzioni pubbliche a provvedere al loro mantenimento. I dati che malinconicamente l’Istat fornisce nelle sue relazioni annuali presentano una realtà ben diversa: la spesa per la tutela è ai livelli più infimi della storia, la spesa pubblica pro capite continua a diminuire, il paragone con gli altri paesi europei è vergognoso proprio nel suo rapporto tra spesa complessiva e dimensione del patrimonio posseduto. Dovrebbero essere questi i temi veri del dibattito, invece assistiamo ormai da troppo tempo ad una bolla mediatica fatta di prove muscolari sul numero di visitatori che aumentano in una sorta di battaglia immaginifica tra i conservatori, ovvero quelli che non prescindono dal binomio tutela/fruizione, e i cosiddetti innovatori, coloro che pensano che noi non abbiamo mai sfruttato adeguatamente le potenzialità che il nostro patrimonio offre a causa della eccessiva attenzione alla sua tutela. Anche in questo caso andrebbe avviata una operazione di demistificazione: i visitatori aumentano progressivamente da quando si sono adottate politiche di ampliamento degli orari, e sono aumentati in modo del tutto consistente persino sotto la gestione Bondi Galan. Politiche di ampliamento dovute esclusivamente agli accordi di produttività che sono in vigore dal 2000, per le quali noi rivendichiamo con orgoglio la paternità e che hanno prodotto questi risultati esclusivamente grazie allo sforzo reale e misurabile dei lavoratori pubblici. In quest’operazione verità non dovrebbero neanche essere trascurati i riflessi dello spostamento – verso il nostro Paese – di consistenti flussi turistici, deviati da altre mete mediterranee o europee per gli effetti degli attacchi terroristici di matrice islamista. In questo contesto si calano le riforme Franceschini, i cui segni distintivi sono la decontestualizzazione del sistema museale dal ciclo della tutela e il ridimensionamento pesante delle Soprintendenze e del ciclo archivistico-bibliotecario. Il tutto giocato sulla presunta scommessa della valorizzazione come idea estremizzata della fruizione. Questo ha comportato uno spostamento pesante di risorse umane e finanziarie a favore del sistema museale, ed oggi assistiamo, spesso sgomenti, al progressivo abbandono di un sistema di tutela diffusa del patrimonio che era esempio da seguire per tutta la comunità internazionale e all’introduzione di singolari esperimenti organizzativi, quali ad esempio i poli museali regionali, che si stanno rivelando disastrosi proprio nell’obiettivo di valorizzare il patrimonio diffuso. Ancora oggi un quarto dei visitatori si concentra sui siti e sui territori a maggiore richiamo e casomai in questi casi il problema che si sta ponendo è quello di limitare l’eccessivo afflusso, non di incrementarlo, ad esempio a Firenze e Venezia. Con il risultato che oggi ci troviamo i musei, che in Italia sono sempre espressione del territorio di appartenenza, sganciati dal contesto in cui si sono creati e divisi artificialmente dai cicli di tutela e conservazione che li hanno generati. E ancora ignorati persino dai cittadini che di quel territorio sono parte: su questo incide la mancata progettazione/attivazione dei percorsi integrati che dovevano essere l’obiettivo della Direzione Turismo, dei Poli Museali e anche dei Segretariati Regionali. Ci chiediamo inoltre che senso ha avuto lo spezzettamento dello straordinario tessuto archeologico di Roma, quando proprio l’unicitá della Soprintendenza aveva garantito i risultati di cui oggi il Ministro si fregia e quando proprio su questa unicità si immaginavano ardite progettazioni di ricomposizione sociale del tessuto urbanistico. E che senso avrà il previsto abbandono del modello di Soprintendenza a Pompei, quando è da tutti certificato che il problema di quel sito non è certo la scarsa fruizione ma la sua manutenzione. E ancora: che senso ha immaginare modelli di autonomia per i grandi musei, quando la scarsità strutturale delle professionalità necessarie al loro funzionamento impedirà per molti anni ancora la loro effettiva realizzazione. Pertanto anche le poche felici intuizioni che queste riforme, come ad esempio l’identificazione di standard organizzativi per i musei, rischiano di affogare nel mare magnum delle deficienze organizzative strutturali alle quali non si è voluto o saputo far fronte. E la nostra principale preoccupazione, anzitutto come cittadini, è quella che riguarda il destino dei settori applicati alla tutela del patrimonio, investiti da una serie di provvedimenti di deregolamentazione delle normative di tutela che riguardano sia le politiche paesaggistiche che quelle sul patrimonio e sulle esportazioni delle opere. Per finire alla previsione di assoggettamento delle Soprintendenze ai Prefetti, una operazione di accentramento politico-burocratico senza precedenti nella storia del nostro paese. Queste considerazioni caratterizzano il giudizio complessivo che abbiamo dato su questa riorganizzazione e ci hanno portato alla condivisione di un percorso critico che non si è limitato alla mera visione sindacale, tramite la ricerca di punti di contatto con il mondo associativo e intellettuale che ha espresso le nostre stesse preoccupazioni. Un percorso che ha avuto il suo momento più alto nella manifestazione del 7 maggio 2016 e nella coalizione di Emergenza Cultura il terreno privilegiato di iniziativa e analisi critica. Sarebbe però sbagliato imputare solo alle riforme di questo governo il profondo stato di declino organizzativo che vivono i cicli pubblici nei beni culturali, le cause sono più profonde e riguardano fattori strutturali, dai tagli che la spesa sulla cultura ha subito in misura molto maggiore degli altri settori al mancato ricambio generazionale dovuto al prolungato blocco del turn over, fino alla vera e propria deregolamentazione che ha subito il mercato del lavoro in tale ambito. Questi processi si sono accompagnati ad una mancanza di visione strategica rispetto ai processi di innovazione organizzativa nei servizi, ad una progressiva burocratizzazione delle strutture e procedure ministeriali, a processi di esternalizzazione produttiva che hanno avvolto tutti i cicli lavorativi, fino al raschiamento del fondo del barile rappresentato dalla diffusione incontrollata di forme di falso volontariato che non sono altro che sfruttamento mascherato del lavoro e lesione della dignità dei lavoratori coinvolti. La triste vicenda del falso volontariato alla Biblioteca Nazionale di Roma ne è esempio emblematico, ma anche l’abuso nel ricorso alla società in house Ales per sopperire a carenze di professionalità interne è indicatore di una governance che apparentemente taglia il costo del lavoro ufficiale, salvo poi ricorrere a veri inganni per coprire i fabbisogni professionali emergenti. Lo ricordiamo sempre: per i soloni del bilancio statale avere un lavoratore esternalizzato o comprare una fotocopiatrice è la stessa cosa, è una spesa per servizi e quindi la riduzione del costo del lavoro è solo apparente, serve solo per le statistiche ufficiali, mentre cresce, non censito, quello esterno, con caratteristiche penalizzanti per i lavoratori che hanno subito progressivi peggioramenti nelle condizioni salariali e normative. Lavoratori in gran parte giovani e grandemente professionalizzati, sacrificati dai tagli al bilancio e dalla logica del costo zero che ragioneristicamente si è imposta ai processi di riorganizzazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, un organico ufficiale del ministero che ha perso un quarto delle sue capacità occupazionali teoriche dal 1997 ad oggi, una età media del personale di ruolo di 55 anni, un impoverimento progressivo del suo tessuto professionale, una carenza che attualmente si aggira intorno alle 3000 unità complessive rispetto al pur ridotto organico teorico, un paradossale esubero determinato dalla riorganizzazione in alcuni territori strategici come ad esempio la Campania, addirittura un surplus di personale sancito dall’ultimo taglio del costo del lavoro nella prima area funzionale. In questi anni difficili abbiamo dovuto affrontare una situazione complessa dovuta ad un processo di ristrutturazione che via via ha stravolto la fisionomia organizzativa ministeriale, addirittura con interventi in successione, attuati tramite “normette” introdotte con leggi omnibus, che hanno radicalmente cambiato persino la prima riforma del Ministro Franceschini. Basti pensare alle modifiche subite dal sistema delle Soprintendenze, prima miste e poi uniche con conseguenti modifiche degli ambiti territoriali di competenza, o al trattamento riservato al sistema degli Archivi e delle Biblioteche, pesantemente ridimensionato nei suoi assetti organizzativi ma poi reso destinatario di pesanti competenze di tutela su tutto il patrimonio archivistico e bibliografico nazionale, sottratte con un colpo di mano normativo alle regioni. Fino alla vera e propria proliferazione di musei e parchi autonomi, con lo spezzatino delle aree archeologiche più importanti di Roma e Napoli. In questi anni non ci siamo certo sottratti al confronto, abbiamo tentato di mantenere condizioni accettabili di tutela dei lavoratori e di garantire i servizi, continuando a sottoscrivere accordi di produttività che garantissero orari di fruizione ampia in tutto il territorio nazionale. Abbiamo chiesto a gran voce che la riorganizzazione fosse accompagnata da investimenti organizzativi e occupazionali, abbiamo continuato a denunciare tutte le storture organizzative che le riforme hanno prodotto, ci siamo opposti alla deriva propagandistica della falsa valorizzazione tentando di rappresentare la condizione reale di caos sovrapposto al declino strutturale dei cicli lavorativi, siamo stati insieme a chi denunciava l’attacco al sistema di tutela del patrimonio e siamo stati protagonisti in una miriade di iniziative tese a difendere le condizioni di tutti i lavoratori, a partire da quelli che maggiormente hanno subito condizioni di sfruttamento. Non ci siamo limitati alla mera difesa di posizione, abbiamo cercato di essere propositivi e allo stesso tempo di governare le contraddizioni provenienti da scelte organizzative improvvisate e non condivise dai lavoratori. Abbiamo subito un grave attacco ai diritti costituzionali dei lavoratori, a cui è stato ignominiosamente limitato il diritto di sciopero con motivazioni pretestuose e tramite un decreto legge, e a cui viene oggi persino impedito la libera espressione di critica tramite la manomissione autoritaria del Codice Etico. Abbiamo combattuto la privatizzazione strisciante e denunciato il progressivo arretramento delle gestioni pubbliche a favore di quelle private, tramite le forme indirette che quasi sempre comportano benefici e profitti ai privati e costi di gestione a carico dell’erario pubblico. Abbiamo proseguito a fare la contrattazione integrativa e la abbiamo costantemente indirizzata al confronto sui processi riorganizzativi, mantenendo e addirittura potenziando condizioni di confronto che la norma ci voleva sottrarre. Ma tutto questo sforzo non è stato sufficiente: ancora oggi ci troviamo in mezzo al guado di una riorganizzazione incompleta ed in una situazione prolungata dì transitorietà che determina disorientamento e paura tra i lavoratori, soggetta alla mutevolezza di un quadro politico che, nel suo insieme, poco lascia intravvedere rispetto ad un reale e profondo mutamento di rotta. In questa situazione ci apprestiamo ad affrontare la campagna per il rinnovo delle Rsu, che è il nostro vero momento di verifica democratica con i lavoratori. La affrontiamo consci delle difficoltà ma anche con la consapevolezza di avere idee salde e una visione strategica su quello che possiamo fare e su quello che si deve cambiare. È quello che deve radicalmente cambiare passa attraverso un radicale ripensamento dei processi di riorganizzazione che parta dalla ricomposizione dei cicli di tutela con quelli della valorizzazione, che rinsaldi una frattura creata artificialmente e foriera di gravi danni per il futuro del nostro inestimabile patrimonio. La potenziale attrattivitá del patrimonio diffuso può essere foriera di sviluppo solo se legata al territorio di cui è espressione, anzitutto nella sua riconoscibilità come fattore di crescita culturale di una comunità e rispetto alle condizioni infrastrutturali che ne agevolino la fruizione e la capacità di offerta dei servizi. In questo senso a noi erano piaciuti molto gli indirizzi dati nella rimodulazione dei progetti POIN 2007/13 dall’allora Ministro Barca, e di cui troviamo purtroppo scarsa traccia nella nouvelle vague franceschiniana. Questo significa che il sistema delle Soprintendenze deve tornare ad essere il centro dell’azione pubblica tramite la soppressione dei Poli Museali regionali e l’estensione ad esse del modello di autonomia attualmente limitato ai grandi Musei. Se davvero si intende attuare il Piano strategico per il Turismo questa deve essere la chiave che superi le pastoie burocratiche che ancora oggi avvolgono l’azione della Direzione Generale del Turismo, un corpus tuttora avulso dalle dinamiche organizzative interne al Ministero. Il problema non è se le Soprintendenze devono essere Uniche o meno, ma quello della salvaguardia delle loro competenze tecnico scientifiche mortificate e depauperate dalle riforme e dai tagli. E significa che bisogna tornare ad investire sulla tutela dell’immenso patrimonio documentale che possediamo, riqualificando e ammodernando il sistema diffuso degli Archivi e delle Biblioteche pubbliche, sia nella capacità di offerta dei servizi che rispetto alla funzione di stimolo alla conoscenza ed alla crescita culturale dei cittadini. Occorre inoltre riprendere ad investire nella ricerca, riqualificando professionalmente il settore e gli Istituti Centrali, anch’essi ormai ridotti al lumicino, adeguando i processi organizzativi alle innovazioni tecnologiche, come ad esempio i processi di digitalizzazione del patrimonio documentale e librario. Dal nostro punto di vista sindacale tutto questo pone al centro la questione del lavoro, della sua riqualificazione sociale e della sua dignità, che in questo settore risulta particolarmente lesa. Non bastano le misure che ad oggi si stanno attuando, 1000 assunzioni sono appena sufficienti a coprire un terzo delle carenze attuali e il trend di uscite nel prossimo triennio sarà ancora più massiccio con il pensionamento degli ex 285, particolarmente incidente nei settori professionali più qualificati. Serve quindi un piano straordinario che deroghi al blocco del turnover e si ponga l’obiettivo di coprire l’intera dotazione organica entro il 2020. Un piano che qualifichi il fabbisogno professionale e lo leghi ai processi di innovazione organizzativa aggredendo i fattori di obsolescenza che caratterizzano il declino dei cicli produttivi. La questione professionale è centrale nei beni culturali, l’appiattimento professionale dei lavoratori interni e la deregolamentazione del mercato del lavoro ne sono i segni distintivi. Riconoscere percorsi professionali di crescita qualitativa degli apporti ed allo stesso tempo definire regole certe ed esigibili a tutela del lavoro esternalizzato. Non è possibile che a tre anni dalla legge che riconosce le professionalità nei beni culturali, inserendoli nel Codice, non abbiamo ancora i regolamenti attuativi e la vicenda dei riconoscimenti di qualifica professionale per i restauratori registrano vergognosi ed inammissibili ritardi. Occorre prevedere tariffari minimi per i professionisti e trattamenti economici e normativi minimi per tutti i lavoratori esternalizzati, rivedere radicalmente la politica delle concessioni, limitare l’utilizzo della società in house riconducendola entro corretti recinti normativi. La contrattazione integrativa deve essere potenziata nelle materie e nelle risorse e sempre più indirizzata alla incentivazione della reale produttività e della crescita professionale collegata ad investimenti su efficaci processi formativi e non certo a modelli meritocratici astratti. Occorre responsabilizzare la dirigenza tramite criteri di valutazione collegati alla effettiva realizzazione degli obiettivi assegnati, sollevandoli dal limbo dell’autoreferenzialitá dei trattamenti a pioggia a prescindere. Infine la sfida della rappresentanza: dobbiamo migliorare la nostra capacità di intervenire sulla complessità dei nostri cicli lavorativi, non dobbiamo farci rinchiudere nei recinti degli interessi specifici e combattere le sempre forti spinte corporative che sono state in parte causa delle derive autoritarie che hanno compresso i nostri diritti. La qualità degli ambienti di lavoro va misurata complessivamente ed il riconoscimento delle tutele e dei diritti di tutti coloro che a vario titolo contribuiscono al funzionamento dei servizi è componente essenziale del concetto di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, oltre che naturalmente linfa dei processi di affermazione dei loro diritti democratici e condizione per una ritrovata efficacia del lavoro al servizio dei cittadini. Cogliere la complessità dei cicli lavorativi rappresenta la nostra vera sfida culturale, fino al raggiungimento della piena consapevolezza della confederalitá come base fondante del nostro agire sindacale. Su queste idee costruiremo la piattaforma con la quale affronteremo la difficile campagna elettorale per il rinnovo delle RSU e ci confronteremo democraticamente con i lavoratori, nella concreta speranza di mantenere e rafforzare il ruolo forte che la CGIL ha avuto in questi anni complicati. Relazione tenuta all’iniziativa CGIL FP tenutasi a Palermo l’8 settembre us L’autore e’ Coordinatore nazionale CGIL FP MiBACT
di Claudio Meloni Se un merito dobbiamo attribuire alle riforme del Ministro Franceschini, certamente questo sta nel fatto che oggettivamente il tema della gestione pubblica del nostro patrimonio culturale è stato riportato al centro del dibattito politico. Possiamo aggiungere che purtroppo i meriti si esauriscono in questa premessa, nell’apparente rovesciamento dell’assunto neo liberista che…
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Ficarra, Picone e Kant
Dopo tre stagioni passate a Parigi, chi non sentirebbe nostalgia di quei tramonti con il mare, il fresco e gli oleandri che regala la Sicilia?
E così eccomi nei paraggi di Siracusa, dove sono venuto a seguire il 53° ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro Greco.
Le due tragedie sono già andate in scena, e fra due giorni, strabiliante novità di quest'anno, arriveranno Ficarra e Picone, che si cimenteranno con le Rane di Aristofane.
"Ma come?" ha storto il naso più di uno. "Che c'entrano Ficarra e Picone con la vetusta cultura aulica del Teatro Greco?"
Ma a ben vedere, nei testi di Aristofane, di aulico c'era ben poco: al contrario, le volgarità e le polemiche di attualità spicciola erano ben più diffuse e più pesanti di quanto lo siano in qualunque sketch dei pudicissimi Ficarra e Picone.
Non è un caso se nel festival siracusano la commedia rappresenta storicamente l'anello debole. Se infatti la tragedia greca è servita da modello al teatro "serio" di tutti i tempi, e dunque la riconosciamo subito come qualcosa di familiare, la commedia di Aristofane è talmente calata nel suo contesto (l'Atene di fine V secolo) che a stento riesce a dialogare col nostro senso dell'umorismo, formatosi su tutto un altro tipo di comicità.
"Rivitalizzare" la commedia, facendone il piatto forte della stagione, con l'aiuto di due artisti che in realtà, dietro le quinte, sono molto riflessivi e metodici, non è quindi una scommessa peregrina. Come non è stata peregrina l'altra scommessa di quest'anno, quella di mettere in scena due volte di seguito la stessa storia, cioè l'assedio di Tebe, vista prima da Eschilo e poi da Euripide.
(SPOILER!!!!! alla fine delle Rane, Eschilo e Euripide si sfideranno nel regno dei morti per decidere chi è il poeta migliore. Dal momento che gli spettatori avranno già fatto il confronto dopo aver visto le due tragedie, seguiranno la sfida col fiato sospeso...)
Comunque, tra un caffè espresso e una granita di mandorla, mi è venuta la curiosità di guardarmi anche l'ultimo prodotto di Ficarra e Picone per il grande schermo, e cioè L'ora legale.
Un film che rispetto ai precedenti fa meno ridere, ma fa più pensare.
E fa pensare inviando un messaggio abbastanza fastidioso ai benpensanti... più nel dettaglio, smontando il mito dell' "avida casta corrotta" contro la "povera gente onesta", e spiegando che le cose sono un tantino più complicate di così.
La storia è ambientata nel classico paesino siciliano come tutti se lo immaginano, dove da anni comanda sempre lo stesso sindaco arrogante e ammanicato. I paesani si lamentano giorno e notte perché non funziona niente. E all'improvviso, sull'onda della voglia di cambiamento, eleggono sindaco un severo professore di liceo (ma guarda un po': quando serve qualcuno affidabile...).
Il professore, come aveva promesso in campagna elettorale, governa con severità. Non fa più favoritismi, inizia a far timbrare i cartellini, manda i vigili a fare le multe ("Papà, che cosa sono i vigili?" "Minchia, quello è un carro attrezzi...mi pare di averne visto uno tanti anni fa a Palermo!!"), introduce la differenziata, abbatte le case abusive, chiude i negozi senza permesso, chiude le fabbriche inquinanti...
Risultato: nel giro di pochi mesi, tutti lo detestano e iniziano a tramare per spodestarlo, riunendosi di notte nella cripta del prete Leo Gullotta.
Qui smetto di svelare la trama, e inizio a dare qualche interpretazione. Così capirete finalmente anche che cosa c'entra Kant.
La prima, e più ovvia, lezione di questo film è che nessun disonesto arriva al potere in un mondo di onesti, a meno che non si serva della violenza armata. Siamo bravissimi a lamentarci dell'inefficienza generale e a puntare l'indice contro le imposture degli altri, ma siamo altrettanto veloci a perdonarci le nostre stesse inefficienze e le nostre stesse imposture.
Nella finzione di Ficarra e Picone, ogni cittadino aveva approfittato almeno una volta del vecchio sindaco ammanicone: chi per un abuso edilizio, chi per una raccomandazione, chi per fare il parcheggiatore abusivo, chi per un falso certificato d'invalidità. E la somma dei piccoli vantaggi ottenuti da ognuno si risolveva in una perdita per tutti.
Questo assioma avrebbe mandato in visibilio Kant, che con la sua dottrina dell'imperativo categorico, di fatto, sosteneva che non bisogna mai violare una norma morale nemmeno a fin di bene. Se io imbroglio, accampando una mia giustificazione, legittimo anche gli altri ad imbrogliare, accampando proprie giustificazioni che magari io non condividerei.
Al contrario, l'unico modo per far convivere gli uomini in pace è cominciare io stesso a non imbrogliare, nella speranza che gli altri mi seguano. "Agisci secondo quella massima di cui puoi volere che diventi una legge universale", scriveva Kant, e proprio questo pretendeva dai suoi cittadini il severo sindaco-professore.
Certo, un guastafeste potrebbe obiettare a Kant e al suo alter ego: "Ma in un contesto sociale dove tutti se ne approfittano, chi non se ne approfitta soccombe". Esempio classico: le raccomandazioni. O le tasse sulle imprese, che creano uno squilibrio nella concorrenza fra chi le paga tutte e chi le paga solo in parte (è il motivo per cui non riesco a farmi stare simpatici fino in fondo i centri sociali).
"Chi prova a fare il puro si ritrova emarginato e impotente", prosegue il guastafeste, "per cambiare la società bisogna imbrogliare quel tanto che basta per sopravvivere, e poi provare a non andare oltre. Nello specifico, il sindaco-professore si è fatto troppi nemici tutti insieme, attaccando tutti in una botta gli irregolari, i raccomandati, gli oziosi, gli inquinatori e il resto delle Malebolge...se fosse stato più accorto, avrebbe potuto sistemare un problema alla volta, chiudendo momentaneamente un occhio sugli altri".
Già. Ma Kant, qui, passa al contrattacco. Infatti, una cittadina potrebbe dire al sindaco: "Tu mi hai fatto una multa perché ho parcheggiato sul marciapiede, e alla mia vicina che affitta casa in nero non dici niente? Pratichi la giustizia a targhe alterne? Che aspetti a punire anche lei?" e non avrebbe tutti i torti.
I casi sono due: se le regole valgono per tutti, valgono per tutti. Se invece valgono solo per alcuni, posso sempre supporre di far parte di quelli per cui non valgono...
Oltre al guastafeste fatalista, però, ce n'è un altro, che è quello pietista. "Ci sono persone così povere", sostiene, "che morirebbero se dovessero rispettare tutte le regole. È la vita che le costringe a delinquere, non posso biasimarle".
In alcuni casi questo ragionamento ha un senso. Di recente la Cassazione ha scagionato, con una sentenza che farà giurisprudenza, un disperato che aveva rubato un pacchetto di wurstel e un pezzo di formaggio, perché stava morendo di fame e non aveva il tempo di lanciare una campagna politica per una legge sul soccorso a chi muore di fame. Prima della legge c'è la vita, e su questo non ci piove.
Ma quanto si può essere discrezionali, con il pietismo? Sempre pochi mesi fa, tutti i partiti tranne i Verdi hanno approvato "sotto scroscianti applausi" una legge che introduce il concetto di "abusivismo di necessità". In pratica, alcuni edifici abusivi e fatiscenti sarebbero necessari per dare un tetto sulla testa alla povera gente, e dunque la loro esistenza viene legittimata.
Così, la legge consacra quel che è stato fatto illegalmente in tutti gli ultimi decenni: smistare la povera gente in quartieri sempre più abusivi, più fatiscenti e più periferici, con la scusa che doveva pur avere un tetto sulla testa, quale che fosse. Nessuno ha pensato che forse anche i poveri hanno diritto ad abitazioni belle, salubri e sicure, proprio come i benestanti. Nessuno ha pensato a fare una legge su questo.
Così, in alcune scene dell'Ora legale il sindaco-professore sembra davvero un uomo spietato che ha instaurato un regime del terrore, senza curarsi di chi rimane in mezzo alla strada per questa overdose di legalità. E lo spettatore, per istinto, si trasforma in "guastafeste pietista", cominciando in cuor suo ad invocare la cautela, il compromesso, la tolleranza...
Non so da quale delle due parti vi ritroverete alla fine del film. Ma una cosa è sicura. Col sorriso sulle labbra, Ficarra e Picone ci fanno interrogare su una questione molto seria, e cioè: la politica può essere kantiana, o è irriducibile a regole morali?
Non è detto che la risposta sia per forza incoraggiante per il sindaco onesto, che i due comici hanno scelto di chiamare Pierpaolo, ma che avrebbero potuto anche chiamare, che ne so, Ignazio.
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“Che cos’è il tuo amore?”. Da uno scambio tra Elisabetta Fadini e Franz Krauspenhaar, un dialogo lirico a più voci sull’indicibile
Questo è un dialogo sull’amore, non vuole essere un assoluto, non ha l’intento di colmarne il concetto, ma si tratta di un racconto lirico a più voci sui suggestivi rimandi che la parola amore comunica ed evoca. Un dialogo tra Elisabetta Fadini, Franz Krauspenhaar, Paola Veneto, Davide Brullo, Roberto Franco, Matteo Samuele Chamey.
Franz: Che cos’è per te l’amore?
Elisabetta: È l’eterna lotta tra Dio e Satana e del loro amore profondo, incolmabile, al punto di non poter esistere l’uno senza l’altro, come l’avevano capito Blake, Milton, Eliot e Yeats e molti altri.
E cos’è per te l’amore Franz?
Franz: Per me è una cosa di cui tutti parlano, ma che pochi professano, è come una religione con le chiese semivuote. Tutti lo cercano spasmodicamente, anche le persone peggiori, ma è qualcosa di scivoloso, a volte un serpente a sonagli; è come un animale mitologico che si trasforma, prima ti blandisce, poi ti rapisce, e nel momento più imprevisto ti azzanna alla gola. Il male è il bene che si è potuto realizzare. Elisabetta, prima mi hai risposto sinteticamente, mettendo insieme l’Ira di Dio e Satana come se fossero entrambi quasi elementi naturali, nello stesso paniere. Andresti più a fondo nel ragionamento? Quale è il rapporto che intercorre tra queste due forze, chiamiamole soprannaturali, che sono secondo te l’amore?
Elisabetta: L’amore è la resa, una sorta di sconfitta edificante, l’impersonificazione della realtà attraverso la confusione, è l’ascesa appunto, come la voleva vedere Lucifero, era il suo sogno. Di questo grande amore tra Satana e Dio, cercò di raccontare Milton nel suo Paradiso Perduto, che con attenta pazienza ci ha voluto raccontare dell’equilibrio tra le forze del male e del bene, un equilibrio giustificato dal desiderio infinito di un possesso, che non era altro che amore infinito, e questo amore non è mai stato perdonato, come se l’amore fosse condanna. Tu l’hai detto molte volte, che le guerre molto spesso sono necessarie e inevitabili, e certi amore anche, alcuni incontri non si possono evitare. L’amore è traguardo e sofferenza e in tutto c’è amore, anche nella lotta, la passione stessa ce lo racconta. Vuoi conquistare chi ami, chi stimi, chi assomiglia al tutto, una conquista di verità, della tua verità. È la missione più importante della vita, come il soldato si fa fucilare con onore. Marriage of Heaven and Hell il matrimonio del cielo e dell’inferno di Blake del 1790 lo spiega, è nell’unione e nell’equilibrio che avviene il miracolo dell’amore.
Franz: L’amore si trasmetta tramite una comunicazione non verbale, perché è soprattutto alchimia e suggestione; esso si trasmette anche attraverso le storie degli amanti, come conquista e imperfezione.
Elisabetta: Questo mi fa pensare alla telepatia che non è altro che amore, è una fusione eccelsa, senza spazi, dove il tempo però è fondamentale, perché la trasmigrazione di pensiero vince. “Un eroe ama il mondo finché il mondo non lo distrugge, il poeta finché non gli ha distrutto la fede”, “Il poeta trova e crea la propria maschera nella delusione, l’eroe nella sconfitta”, e Yeats ce lo racconta in Magia cercando di trovare una spiegazione attraverso l’antropologia culturale, la storia degli accadimenti, come mossa estatica di fusione tra richiamo e riconoscibilità. Tutto si cerca, tutto si trova, è così che l’amore si esprime attraverso l’appartenenza, è un richiamo, la magica storia delle coincidenze. È un esodo, una conquista del territorio tanto agognato, amando impari l’attesa, crei dei canali apparentemente inesistenti, ed è quel paranormale di cui tanta della letteratura inglese ha parlato, di quel desiderio che comunica e vince.
C’è una spiegazione per ogni cosa inspiegabile. Sta tutto nel lirismo della scommessa, nella dimensione incerta di una ricerca eterna, come l’esodo e la resurrezione.
È un patto d’estasi.
“Il primo bacio d’amore rende divini” questo era il titolo che Ugo Foscolo diede ad un suo racconto, come se la divinità avesse il potere dell’assoluto quindi aspirazione all’eterno. È l’infinito che aspiriamo, è l’immortalità, la parentesi immutata, nell’amore vediamo noi stessi proiettati nei secoli dei secoli e il frutto del nostro amore ci rende infiniti, ci vuole coraggio per amare e ancor di più per ricordare di aver amato. Siamo se abbiamo amato.
Le Dee Madri ce l’hanno insegnato, appaganti e generose nella loro protezione amorosa e sospesa, le ancelle dell’umanità, loro amavano chi le amava, indistintamente. Chi non ha bisogno di amore? Quale essere non vuole essere amato?
La Yourcenar nel suo “Il tempo grande scultore”, tocca una massima che mi fece capire il senso dell’esistenza attraverso la sua più grande rappresentazione, appunto l’amore, con l’immaginaria voce di Michelangelo Buonarroti racconta “Amiamo perché non siamo capaci di sopportare di essere soli, ed è per la stessa ragione che abbiamo paura della morte, quando mi è capitato di dire chiaro l’amore che un essere mi ispirava ho visto intorno a me strizzare d’occhi, e scrollate di capo, come se quelli che mi ascoltavano si ritenessero miei complici, o si permettessero di essermi giudici, quelli che non vi accusano vi cercavano delle scusanti, questo è ancora più triste, per esempio, ho amato una donna, quando dico di non aver amato che una sola donna, non parlo delle altre, quelle che passano, che non sono donne, ma soltanto la donna e la carne, non ho amato che una sola donna, che non desideravo, e non so quando ci penso, se perché non era abbastanza bella o lo era troppo, ma la gente non capisce che la bellezza è un ostacolo, e appaga già il desiderio, gli stessi che amiamo non lo capiscono e non vogliono capirlo, si stupiscono, soffrono, si rassegnano e poi muoiono, allora cominciamo a temere che la nostra rinuncia abbia peccato contro noi stessi e il nostro desiderio, senza sbocco, divenuto irreale e ossessivo come un fantasma assume l’aspetto mostruoso di tutto ciò che non è stato. Di tutti i rimorsi dell’uomo il più crudele forse è quello dell’incompiuto, amare qualcuno non è solo tenere alla sua vita ma anche stupirsi che non viva più, come se morire non fosse naturale e tuttavia l’essere è un miracolo più sorprendente del non essere. A ben riflettere proprio davanti a quelli che vivono bisognerebbe scoprirsi e inginocchiarsi come davanti a un altare”.
Franz: L’amore è un lungo fiume spesso non tranquillo che supera il sentimento. Il sentimento vive del proprio specchiarsi, nella consapevolezza della propria esistenza e quindi, in un certo senso, cresce affievolendosi, diventa abitudine e scopo intrinseco. L’amore invece si sostanzia di un passaggio successivo, diventa “seconda pelle”, ricongiungimento con l’altro che abbiamo ritrovato nell’enormità dell’universo, alla fine diventa tacito accordo, o patto. Il matrimonio è una sovrastruttura, e pertiene a un’unione che si scandisce nella vita quotidiana spesso priva di ascese. L’amore universale è una convenzione del sentire, una forzatura che è dunque presa in giro di se stessi e di quello che è al centro dell’uomo. L’amore genitoriale o filiale non è per forza il più puro, perché le famiglie spesso sono lager senza cella, all’aria aperta e malsana. L’amore compiuto può partire da qualunque punto, anche da punti ambigui e insani, ma, essendo esso stesso una cura efficace al male di vivere, secondo me è la vera consolazione a una sofferenza indomabile. Il vero amore è una grazia sempre sul punto di spezzarsi, una forza motrice in opposizione al male. L’amore nasce da un dolore universale, questo sì dentro ciascuno di noi, vita e controvita.
Roberto: L’amore è una distorsione del reale in quella immane indispensabile distorsione che noi chiamiamo Coscienza, caduto o rivelatosi in qualche punto della nostra evoluzione come un istinto di morte contenuto nell’istinto del dono di sé. Il darsi senza cautele di Sacher-Masoch è la nostalgia dello sfregio di Cristo. L’amore, nella sua violenza intrinseca e nella sua spiritualità necessaria, ci riporta a un noi che è esistito, esiste in qualche meandro dello spazio o del tempo. Può essere paragonato alle esperienze mistiche, che infatti spesso cercano una sorta di amore senza oggetto. È un improvviso senso di assoluzione che ci fa vedere come un baratro l’oceano delle nostre manchevolezze e ci fa odiare il tempo che gli rubiamo. È quindi è un eterno assoluto che invece di compiersi, in qualche maniera, muore di sé.
Paola: Chiedersi cos’è l’amore è un esame di coscienza. Il più spietato e necessario esame di coscienza quotidiano che conosca. Pensare lucidamente, ogni giorno, a cosa siamo stati e a cosa siamo oggi, per non parlare dei dubbi, delle speranze e delle paure su chi saremo domani, è esercizio necessario per tenere saldo il timone della nostra esistenza. Nessun sentimento come l’amore cambia a seconda della nostra età e soprattutto a seconda delle ferite e degli strappi che ci hanno reso quello che siamo. La natura prevede che il primo amore che sperimentiamo sia quello materno, quando siamo indifesi e fragilissimi e quando da quell’amore dipende la nostra stessa vita. Ad alcuni è negato anche questo sentimento/cura fondamentale e bisognerebbe pensarci qualche volta, davanti a esseri umani che di umano hanno davvero poco. Chi li ha amati? E in che modo? Quando avevano paura del buio, c’era qualcuno a stringer loro la mano? Da certe mancanze nascono mostri terribili, che accompagnano sino ad una età adulta in cui amare sarà spesso un massacro per sé e per gli altri, a causa di una incapacità congenita rispetto al sentimento. Quando ero ragazza nutrivo il mio ideale d’amore con letture “assolute”, che ritenevo definitive rispetto al mio acerbo desiderio di conoscenza multidimensionale. I romanzi francesi dell’Ottocento regalavano ritratti di uomini quadrati tutti da spettinare, da sognare mordendosi il labbro sotto le coperte. In seguito le disperate letture esistenzialiste hanno spalancato il cammino del tormento e dell’estasi lirica, puntualmente delusi dal confronto con la ben più banale realtà. Sul cuore della mia vita adulta oggi l’amore ha messo radici semplici ma essenziali. Certe volte è faticoso amare così, tutti protesi verso l’altro, ma la maternità ha spesso questa inoppugnabile conseguenza.
Sicuramente pronuncio più spesso la frase “hai mangiato?” di “mi ami davvero?”. Sto attenta a non farmi del male, sto attenta a tutto perché chi mi ama ha bisogno di me. Ben si riassume questo sentire in dei versi di Brecht che amo moltissimo.
“Quello che amo mi ha detto che ha bisogno di me Per questo ho cura di me stessa guardo dove cammino e temo che ogni goccia di pioggia mi possa uccidere”
Io amo, mentre servo la minestra calda a tutti e non mi siedo. Io amo, perché non ho dimenticato le letture appassionate e i sogni di mirabolanti avventure, che ancora mi tolgono il sonno. Perché io sono ancora quella ragazza, però oggi sono capace di guardare indietro per vedere se mentre corro, come è mia natura, qualcuno si è perduto.
Matteo Samuele: Frattali. Gli elementi essenziali della natura sovrastano da sempre quell’innata volontà umana di comprendere e trasalire ad ogni sussulto della scoperta, come se il nuovo fosse l’inedito. Non abbiamo inventato nulla, l’amore è. Il fanciullino interiore deve arrendersi, la chimica cerebrale scuote le membrane, azzera gli spazi del pensiero e lascia che le cellule danzino libere immerse in una piscina di frattali. Electricity direbbe qualcuno, e così avviene. La materia è una composizione algebrica dell’Io Universo, le sue distrazioni sono solo anfratti egocentrici che mutano al calar del sole. Annullarsi, questo è amore puro. Un frattale: si ripete nella sua forma allo stesso modo su scale diverse, e dunque ingrandendo una qualunque sua parte si ottiene una figura simile all’originale (cit. wikipedia). Qual è la figura simile all’originale se non il sé medesimo specchiatosi nell’altro? Queste alchimie si generano e autoproducono in ambienti liberi dalla forma-pensiero, sono il concepimento dell’unione di sinapsi tra loro affini per forma, sostanza, chimica in natura. Vivono dentro di noi perché ne siamo forma mutata e nocciolo succoso. Sospendersi ed agire in catarsi porta all’amore. Le affinità ancestrali di tatto, udito, olfatto e gusto fanno il resto perché ci dotano di quegli strumenti necessari per rendere possibile l’interconnessione tra i nodi della vita. L’amore è un fuoco di scintille.
Davide: Capire per chi morire è il carisma dell’amore, il crisma carnale – ma poi, cosa si capisce se non la migrazione dei denti in leggi? La carne è il principio del conoscere: bisognerebbe fare l’amore di continuo, con chi si è in affetto – perché è nella nudità e nella rabbia che conosci, senza altra promessa che l’atto – fino a spossessarsi di ogni percezione, dimentichi delle mani e di chi ha toccato chi, degli occhi, a verticale su una palafitta di fraintendimenti. Ma ciò che ami ammette solo la rinuncia. Rinuncia al corpo, al cibo, al vero. L’eremita che si trincera nella cella; il padre che si spoglia per vestire l’irriconoscenza del figlio; lei che scommette sulle accuse dei giorni pur di custodire alla carezza chi la tradirà; il prigioniero che sacrifica la grazia per uno sconosciuto. Nell’amare c’è la disparità che domanda: quanto ti ami, amando? Il moto dell’uomo è l’eccitazione di sconfiggersi, imparare la figura a quattro zampe, la scostante impazienza delle nuvole, e a piovere, tutto. Così, di fronte a un buio di silenzio, alle ginocchia di una straniera, a una icona dispari, non chiedi che abbatterti, uscire da te, ammazzare il sé, e che se evitano di raccoglierti, per lo meno ti dicano con il rapace di un nome nuovo. Di sé, si ama la possibilità che qualcuno muti il tuo nome; dell’altro questa violenza che ti ricapitola, facendoti capitolare.
*In copertina: Nastassja Kinski, 14 giugno 1981, Los Angeles; photo Richard Avedon
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“Stare nella poesia è un modo per stare al mondo senza essere del mondo”: dialogo con Antonio Prete
Qui, quindi, la poesia diventa cenacolo, celebra l’amicizia, il contatto con i morti, l’esattezza dell’adesso e il modo in cui il verbo puntualizza il divenire in destino. Tutto è sempre ora (Einaudi, 2019) ha certamente la cadenza dell’omaggio (And all is always now canta T.S. Eliot nei “Quartetti”), ma è, per lo più, credo, cifra verbale che è legge, norma poetica: il poeta è quello per cui il tutto è nel frammento (mimo von Balthasar), sul palmo di una mano; è quello per cui è sempre adesso, è sempre l’allerta dell’ora, è sempre il momento culminante, definitivo. “Il transito, la cenere, l’aurora,/ tutto è sempre nel respiro dell’ora”, è il distico che chiude Nel respiro dell’ora. Il poeta ammette, non annuncia, semmai si annienta nell’adesso, dando chiarore al creato, carisma al “tempo che è solco/ di conchiglia e fuga di comete”. Non c’è distanza di sguardo tra l’Antonio Prete studioso di cose letterarie (quello de Il pensiero poetante, Nostalgia. Storia di un sentimento, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità) e il poeta, grammatico della meraviglia: tenerezze, crisi, crismi, sono i medesimi. Così, questa raccolta puntellata di fraternità – da Celan a Wallace Stevens, da Edmond Jabès a Eliot – è nello stesso tempo – per competenza, tensione lirica, ricorrenza di temi – un asteroide del Novecento e un azzeramento, quasi che il secolo fosse un ago (“All’ombra// del menhir la ricordanza è aspra”: torna una parola-emblema, Menhir è la raccolta di Prete edita per Donzelli nel 2007, la ricordanza ci riarma a Leopardi). A poesie elette al vento della Storia (“La ferita ha memoria, e ha sapienza/ pareva dicesse una voce nel celeste/ del mattino domenicale a Harlem”), Prete ne alterna altre, presocratiche, dove si guarda tutto come mai prima, come al primo o all’ultimo giorno (ci sono alberi, cieli, la neve, le creature piccole e “sopra, invisibile, la corsa dei mondi/ lungo sperdute ellissi”), le più belle. E ci sono tante stelle, in questo libro, dappertutto (compresa la prosa Dire la stella), come se si desiderasse un altro cosmo, come se fosse il bene alzare gli occhi, perché, in fondo, poesia è enumerare gli astri, e narrarne l’estro, la storia, l’esito. (d.b.)
Fin dal titolo, l’annuncio di un ‘rapporto’ con i poeti che ama, immagino, che ha studiato, da Eliot a Celan al grande Jabès. Dunque la poesia è anche un contatto, un rapporto incessante con ciò che si è letto?
Sì, proprio come dice, la poesia è contatto – tutti i sensi sono chiamati a raccolta – con la poesia di altri poeti, ed è rapporto con una lingua che ha una storia, ha luoghi vertiginosi, abissi, estensioni estreme del dire e del sentire, del vedere e dell’immaginare. La poesia come amore della lingua. Mi viene in mente un aforisma appunto di Jabès, che certo non è stato un formalista, ma uno che si sporgeva sul tragico dell’epoca: “La poesia ha soltanto un amore: la poesia”. In questo, forse più che negli altri miei libri, è dichiarato il rapporto con i poeti, dico con i grandi nomi della poesia. Le imitazioni e alcuni versi usati come epigrafi sono per dir così la dichiarazione esplicita: una cifra visibile di un rapporto che è fatto, come accade sempre nella poesia, di dialoghi formali, di rispondenze, di riprese, di repliche.
D’altra parte, non mi pare che lei sia stato ‘vampirizzato’ dai poeti che con pazienza incessante studia. Come ha trovato, districandosi dal groviglio delle ‘fonti’, la sua propria voce?
In effetti, qui è il punto. Che è analogo al punto che mi è accaduto di osservare tante volte quando mi sono avventurato nella traduzione della poesia: come trovare nel dialogo un proprio timbro, nell’ascolto un proprio modo di sentire, come approdare a una propria lingua dopo la navigazione nella lingua di altri. Sono convinto che anche nella scrittura poetica a un certo momento accada una sorta di insorgenza quasi miracolosa, i cui passaggi è difficile spiegare e ripercorrere, perché appartengono al profondo del nostro sentire: la vocazione stessa alla poesia nasce dalla lettura della poesia, così la voce – la voce che chiama – diventa col tempo una propria voce. Credo che la familiarità stessa con la poesia a un certo punto chieda di essere come inverata in una sorta di distacco, un distacco che è insieme eredità e cominciamento.
La poesia Compianto è scritta, lo denuncia, dopo il naufragio “del peschereccio che era salpato dal porto libico di Misurata (3 ottobre 2013)”. Le chiedo, allora, come può misurarsi la poesia con la tragedia, senza cadere nel grottesco dell’occasionale, senza imbarbarirsi alla cronaca?
Ripenso spesso a quel che dice Hölderlin : “Quel che accade sia per te un’occasione”, dove occasione ha con sé il senso forte della partecipazione, il sentimento di un’appartenenza all’accadimento che è com-passione. Per questo non penso a un’opposizione tra poesia civile e poesia diciamo lirica o sperimentale: si tratta di formulette che usa chi vuol procedere per classificazioni e schieramenti. Per me il verso è la lingua che ospita l’accadere, e spesso questo accadere appartiene al tempo e allo spazio della propria interiorità, ma può anche venire dalla propria epoca, dal tragico della propria epoca. E il caso dei naufragi nel Mediterraneo è questo tragico.
Ha avuto rapporti particolari, vissuti, con poeti che l’hanno aiutata a precisare la sua poetica?
Ha già citato, all’inizio, Edmond Jabès. La sua frequentazione, la traduzione dei suoi libri, la sua amicizia, hanno avuto una grande importanza per me. Nel modo di porsi – libero, non legato a convenzioni – dinanzi alla parola, al senso, alla tradizione, all’ignoto, Jabès mostrava il legame forte che c’è tra meditazione e scrittura, tra interiorità e invenzione, tra etica e immaginazione. Questo, nella consapevolezza che la scrittura è sempre una scommessa, un azzardo, e coincide con la vita, con le sue pulsioni, con i suoi fantasmi, con le sue contraddizioni. Poeti come Mario Luzi e Yves Bonnefoy mi hanno fatto il dono della loro amicizia: con loro ho avuto incontri, conversazioni, confronti. La lettura e lo studio dei loro scritti, e la condivisione di alcuni loro amori – Leopardi, Baudelaire, tra questi – hanno fatto parte del mio cammino. Ma anche l’aver frequentato, dagli anni Settanta in poi, molti amici poeti italiani, ha certo influito sul mio lavoro. Ma, quanto al definirsi di una poetica, credo che poi agiscano sia le forme in cui le nostre esperienze sono preservate, custodite, rielaborate nella memoria sia i modi con i quali ci disponiamo dinanzi alle grandi domande sull’esistenza e sul cosmo sia infine le relazioni che intratteniamo attraverso i sensi con il visibile e con l’invisibile, con il qui e con l’altrove, con il tempo e la sue fuggitive parvenze. E tutto questo nella lingua, con la lingua, dunque con la materia sonora del dicibile.
Qual è il poeta che ha segnato la sua giovinezza, che le ha imposto lo stigma della poesia?
Fin dall’adolescenza ho letto molti poeti, la maggior parte stranieri in traduzione italiana. La lirica spagnola del Novecento mi coinvolgeva molto, da Jimenez a Machado a Lorca. Leopardi, certo, mi ha accompagnato nella giovinezza, e mi accompagna ancora. Insieme a Baudelaire. Ma della poesia nostra novecentesca è stato forse Ungaretti, più che Montale, a conquistarmi da adolescente. Poi sono sopravvenuti, più avanti, Mallarmé, Rilke, Valéry, Char, Celan. Tradurli, spesso, è stato il modo più bello, e più faticoso, per dialogare, per conoscere la tessitura intima della loro forma.
“Tradurre/ è prestare parola al desiderio,/ non colmare la sua pena”. Qui sembra aver colto in versi il senso della traduzione: è così? Tradurre è desiderio che ricama sulla pena?
Quei versi appartengono alla poesia che ho intitolato Traducendo Louise Labé. Tradurre alcuni sonetti della poetessa lionnese del Cinquecento, petrarchista autrice del breve e folgorante canzoniere d’amore, induce a pensare questa congiunzione tra traduzione e desiderio. Ma l’occasione si può allargare all’atto del tradurre in quanto tale. Si traduce un poeta perché si desidera preservare il respiro della sua poesia, l’essenza del suo dire poetico, in un’altra lingua, ma questo gesto non estingue il desiderio, perché si sa che c’è un nucleo – di vita, di legame tra vita e parola – che la traduzione non può raccogliere.
Che senso ha, ora, ostinarsi alla poesia? Le chiedo, infine, un pensiero sulla poesia italiana contemporanea: le interessa, è interessante?
La poesia stessa è ostinazione. In un mondo che non riconosce la poesia. Stare nella poesia è un modo per stare al mondo senza essere del mondo. La poesia, lo diceva Leopardi, non è mai contemporanea. Non è in sintonia con l’epoca. Vive d’altro, con altro. Questa alterità è l’ostinazione. Quanto alla poesia italiana del nostro tempo, mi piace molto la variabilità delle forme, degli stili, dei rapporti con la tradizione. Il ventaglio del Novecento è sorprendentemente ricco, la sua presenza è forte ancora, e attiva. Quanto all’oggi, credo sia superficiale scommettere su una tendenza o su un’altra, come credo sia solo un esercizio esteriore opporre alla lirica l’antilirica, alla poesia l’antipoesia o la postpoesia.
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Sia ode a Barbara Comyns (e all’editore che la pubblica): donna, bella, indipendente, scrittrice di romanzi gotici che piacevano a Graham Greene e anticipano Stephen King
“So che questo non sarà mai un vero libro e che gli industrialotti non se lo porteranno con loro per il viaggio in treno. Vorrei saperne di più in fatto di parole. Anche vorrei aver imparato di più sui banchi di scuola. Non l’ho mai fatto e da allora ho sempre trovato uno svantaggio alla partenza. Però, tutto considerato continuerò, a scrivere questo libro alla faccia degli industrialotti”.
Così la protagonista Sophia, maschera dell’autrice Barbara Comyns (1906-1992) in un libro dei primi anni Quaranta. Per capirci, quando da noi ancora eccitava Il piacere formato libro da portineria. Occorre saperne di più sull’autrice, a questo punto.
Viene facile. La casa editrice Safarà di Pordenone ha rilanciato la sua scommessa sulla Comyns. È facile oggi far valere i meriti di una donna che scriveva quando la cosa era guardata malissimo nonostante le varie Brönte e la Austen. Semplicemente, le donne potevano leggere ma “non toccare” la penna, non sia mai che la mano femminile inguantasse il mondo al posto degli ometti.
Risultato. Potete godervi in libertà Chi è partito e chi è rimasto (uscito l’anno scorso) e poi passare in libreria dal 18 luglio per trovare La ragazza che levita. Il titolo originale, Vet’s daughter, lascia intendere che si tratta di saga familiare: eccome, è la contro storia di Alice nel paese dei balocchi.
*
In effetti, il talento della Comyns è riconosciuto da una scrittrice contemporanea quale Jane Gardam che in Italia la leggete ora per Sellerio. Gardam ha conosciuto di persona la Comyns e ha speso per lei parole decisive su Spectator, parlando di La ragazza che levita: “Era donna dalle certezze sicure, impetuose. Anche nella profondità della solitudine, del rifiuto, le sue eroine sono come lei – prendono decisioni illuminanti e, spesso, ben poco saggie. Sembrano mosse da una curiosità inestinguibile mentre osservano con la pupilla interiore. La morte, e ci sono morti tremende nelle sue storie, non può conquistare questo sguardo interiore delle eroine”.
Il bello è che la Comyns sta tutta dentro a quel modo di fare che porta subbuglio nelle patrie lettere: il reverendo di Oxford aveva raccontato a fine Ottocento di una bambina che si perde nel mondo onirico e segue il coniglietto? Ebbene, la Comyns ribalta la storia. Fa letteratura con gli stessi ingredienti della tradizione gotica, ma il risultato è opposto, un’educazione poco serena alla maturità: posto che si arrivi vivi con la protagonista fino al fondo della storia, solo per ricevere una mazzata sui denti dalla narratrice.
“Il senso del racconto fiabesco non lasciava mai la Comyns” scrive giustamente la Gardam che di fiabe ne sa qualcosa, lei che ha esordito nel 1971 con una storia per ragazze, A long way from Verona, dove la città è solo pretesto, come per il vecchio William, mentre il cuore sta dentro le creature romanzesche.
La Gardam in questo è emula della Comyns: ma di successo, vivendo fortunatamente in anni dove la donna che scriva è riconosciuta con più onestà e, forse, più orgoglio rispetto al passato. Scrivere con piglio fiabesco, in ogni caso, non esime dal trovare tracce di sangue: con Il ginepro, una delle ultime cose sue, del 1985, la Comyns torna a bomba all’omonimo racconto dei fratelli Grimm. Il ginepro si apre col foglio di guardia che rinvia ai Grimm. Insomma, l’autrice vuol mostrare le sue carte da persona “studiata” per poi sfilacciare questa canzone macabra che sarebbe potuta comparire in esergo a La ragazza che levita: “Mia madre mi ha ucciso / Mio padre mi ha odiato / Mia sorella, piccola Marlinchen, / ha raccolto le mie ossa / e le ha poste in un fazzoletto di seta / sotto un ginepro, / mi chiamo Kywitt e ora sono / un uccellino favoloso”.
*
Bagno di realtà dopo la poesia. Quando la Gardam andò a trovare l’autrice de La ragazza che levita a metà anni Ottanta, la trovò bella come volevano i rumors (forse è questa sua bellezza dentro un’intelligenza semplice la chiave delle invidie). “Si considerava una pittrice più che una scrittrice ed era ancora bella come un’attrice, cosa che l’ha indotta a mettere la sua foto sul retro dell’ultimo lavoro, Casa per bambole. Libro piuttosto bruttino” (notare la coda perfida, molto brit). In quell’occasione le due scrittrici presero il tè insieme al secondo marito della Comyns: poi, scontenta per non essere stata ancora riconosciuta per quello che valeva, l’arzilla ottantenne esplose. “Immagino certamente tu abbia sentito dire che mio marito ha lavorato come spia, a Whitehall, con Kim Philby – ma che uomo delizioso che era! Davvero divertente, stava sempre qui da noi per giocare a carte. E né io né mio marito pensavamo che spiasse per l’Unione Sovietica. Così quando Kim se ne scappò dai Russi mio marito fu licenziato col pretesto che o sapeva della cosa e aveva protetto Philby, o proprio non se n’era accorto e allora era un trombone”.
Insomma la Comyns aveva pelo sullo stomaco, parlar bene di Philby in UK prima che cadesse il Muro di Berlino era un gesto un tantino suicida. Poi i cinici potranno partire e dire che va bene, allora l’elogio di Greene a La ragazza che levita era una sponda al collega spione…
Per fortuna la letteratura ha ragioni dorate che non sentono bene il cannone della politica: gli undici romanzi della Comyns stanno lì a dimostrarlo, con quei loro mondi dove la fortuna cambia più rapidamente di un istante, più veloce della vita perché almeno nella vita hai il colpo d’occhio, mentre coi libri devi voltare pagina per scoprire che male e bene sono adunati insieme con distacco, con calma, senza scossoni.
*
Qualche parola sulla vita della Comyns prima di assaggiare l’attacco de La ragazza che levita. Crebbe in una famiglia numerosa, erano in sei tra fratelli e sorelle e la madre, partorito l’ultimo, divenne sorda. Pare assurdo, è così. Entro la fine degli anni ’30, la nostra aveva già alle spalle un divorzio e, sulle spalle, due figli. Si trasferì a Londra e arrabattandosi tra impieghi l’uno più precario dell’altro (come allevatrice di cani francesi, sarta e rivenditrice di automobili) trovò la forza e l’energia per comporre Sorelle al fiume che apparve spezzato su rivista. E mica col titolo pulito, ma sotto il titolo cubitale Il Romanzo Che Mai Nessuno Pubblicherà. Cosa che invece puntualmente avvenne, nel 1947.
Passano dieci anni, la Comyns continua in queste peripezie londinesi – che lassù sono la norma, City e dintorni sono più stregati della rive gauche per tentare incantesimi letterari – e dà fuori una storia picaresca, I nostri cucchiai di Woolworths (1942). Trama asciutta, lui e lei entrambi artisti che non riescono a trovare la quadra perché come insegna zio Scrooge il denaro umano “ha potere fatto di parole e di sguardi, di cose tanto minime e fuggevoli che non è possibile addizionarle e contarle”. Ergo, no money no love, neanche col binocolo. Però il libro regge, accidenti se regge, oggi rientra nell’Olimpo della New York Review Books Classics.
Come scrive l’estensore del profilo della Comyns su Lithub: “il romanzo non soffre per errori di scrittura frutto di distrazione o disattenzione e dimostra una sua visione notevole mentre si dispiega, c’è proprio una scrittrice che incanta subito il lettore e lo porta in luoghi stregati. La Comyns ottiene questo racconto filato in modo poco consueto tracciando i suoi archi tra le pagine, facendo saltare i toni coi suoi passaggi. Tutto questo con leggerezza e facilità.”
A seguire verrà La bambina che levita (1959) con tanto di benedizione di Graham Greene che scrive “riesce a guardare le cose con lo sguardo infantile della prima volta”. Servirà tenere presente che con le fiabe avviene l’opposto che con la fantasia del genere di Pinocchio: mentre per Collodi c’è un cavo teso dall’inizio alla fine che dà senso razionale alle cose inventate per farle avvertire come reali, nella Comyns valgono le regole della tradizione romantica tedesca. A dire che all’inizio tutto è sospeso e trasognato. Così la lama affonderà come nel burro per raggiungere il finale, e farà male.
Andrea Bianchi
***
La ragazza che levita
Un uomo dagli occhi piccoli e dai baffi rossi si avvicinò e mi parlò mentre ero immersa in altri pensieri. Percorremmo insieme una strada costeggiata da siepi di ligustro. Mi disse che sua moglie apparteneva al Plymouth Brethren dei conservatori evangelici irlandesi, e io gli dissi che mi dispiaceva molto, perché sembrava fosse quello che aveva bisogno di sentirsi dire e io vidi che era davvero una creaturina malridotta. Se fosse stato un cavallo, le sue rotule sarebbero di certo state consunte. Raggiungemmo il grande arco rosso della ferrovia che fendeva la strada come un pesante arcobaleno; e in parte a questo arco c’era una casa con una lampada all’esterno, la casa di un veterinario. Dissi: «Mi dovete scusare» e lasciai il pover’uomo tra le siepi di ligustro.
Entrai nell’edificio. Era la mia casa e puzzava di animali, nonostante il pavimento fosse ricoperto di linoleum. Mia madre era in piedi nella sala scura e mi guardava con i suoi occhi tristi, per metà ricoperti dalle palpebre pesanti, ma non parlava. Se ne stava lì, immobile. Le sue ossa erano piccole e le spalle cadenti; anche i suoi denti non erano dritti; se fosse stata un cane, mio padre l’avrebbe senza dubbio abbattuta.
Dissi: «Madre, sento odore di cavolo. Dev’essere ora di pranzo».
Lanciò uno sguardo ansioso e spaventato verso la cucina, con le piccole mani raccolte al petto come fossero state le zampette di un gattino. Andai in sala da pranzo con l’intenzione di apparecchiare la tavola ma lei mi aveva anticipata e nonostante l’argenteria splendesse, sulla tovaglia c’erano delle macchie scure di salsa – e anche se vi misi sopra la saliera, non riuscii a nasconderle. Nei vasetti c’erano sottaceti di diversi colori. L’acqua nella caraffa di vetro aveva un aspetto stantio; ma c’era della birra per mio padre.
La sala da pranzo era immersa nell’oscurità perché un vecchio e sudicio albero di agrifoglio era cresciuto vicino alla finestra. Sarebbe stato impossibile dire che era estate se la griglia del camino non fosse stata piena di carta spiegazzata cosparsa di fuliggine. Ai piedi del camino c’era un tappeto fatto con la pelle di un alano, e sulla mensola intagliata del camino il teschio di una scimmia con una doppia collezione di denti che sembravano bisbigliare quando li fissavi intensamente.
Ci sedemmo tutti e tre a tavola a mangiare carne fredda. Era lunedì. Nessuno proferiva parola, e coltelli e forchette stridevano acuti. Mia madre fece cadere un cucchiaio pieno di purè di patate ed emise una debole risatina. Mio padre si morse i baffi. Erano neri, con le estremità lucide di brillantina. Sapevo che nell’armadietto del bagno c’era una bottiglietta di liquido incolore con un’etichetta francese che rendeva i suoi baffi e le sopracciglia di un nero brillante; e io avrei voluto che non lo usasse, perché lo faceva apparire malvagio.
Dopo pranzo aiutai mia madre in cucina. Attraverso la finestra potevo vedere il sole risplendere sui tetti e chiesi a mia madre il permesso di andare a fare una passeggiata al parco con la mia amica Lucy. Come d’abitudine mi disse di chiedere a mio padre, così andai nell’ambulatorio. La porta era tenuta aperta dallo zoccolo di un cavallo a cui mancava il resto del cavallo; lanciai un’occhiata all’interno. Mio padre suturava l’occhio di un pechinese. Stava utilizzando del cloroformio e tuttavia me ne andai, perché non sopportavo di vederlo cucire un cane in quel modo. L’odore di cloroformio sembrò rimanermi addosso anche quando incontrai la mia amica.
Passeggiammo per Battersea Park. I capelli di Lucy le ricadevano sulla schiena come l’acqua sgorga da un rubinetto, lunghi e liscissimi. La mia testa assomigliava a una campana di un giallo sbiadito. Parlavamo a gesti perché Lucy era sordomuta; sua madre le stava insegnando il mestiere di sarta perché la considerava un’occupazione adatta per chiunque fosse sordo e sciocco. Avevamo entrambe diciassette anni. Le madri sedevano sulle panchine verde scuro e guardavano i loro bambini giocare sull’erba fuligginosa, e lanciare in aria palloni e cerchi dai colori vivaci. Andammo a vedere gli uccelli; in lontananza un gruppetto suonava della musica. Alcuni soldati cercarono di conversare con noi, finché non si accorsero che parlavamo a gesti. Dopodiché ci sedemmo a guardare i battelli e le chiatte sul fiume. Grandi balle di carta multicolore e battelli carichi di paglia ci oltrepassavano a gran velocità e un uomo dalla faccia scura ci salutò con la mano da una chiatta a carbone, e noi ricambiammo il saluto perché sapevamo che non si poteva fermare. Vicino all’acqua, l’aria era incantevole; ma troppo presto venne l’ora di rincasare lungo le strade di edifici rossi e gialli, minacciosi e roventi. Non so cosa accadde a Lucy quando tornò a casa, però mio padre mi impartì uno schiaffone sulla nuca e fui spedita a pulire le gabbie dei gatti.
Quella sera mio padre uscì a giocare a biliardo e io e mia mamma ci sistemammo tranquille nel giardino sul retro, che era fatto di clinker ed era intrecciato di edera scura. Cucimmo i buchi che spuntano sempre sulle lenzuola, e mia madre mi raccontò della fattoria in Galles in cui aveva vissuto quando era ragazza. Mi raccontò di enormi capre di montagna, selvagge e con grandissime corna ricurve, e immobili laghi scuri che si ghiacciavano con l’arrivo dell’acqua dei fiumi di montagna, e della cascata vicino alla fattoria che era l’unica fonte di acqua che possedevano. Mi piaceva ascoltare mia madre parlare; ma sussurrava appena quando mio padre era in casa.
La giornata era quasi giunta al termine ed era stata come la maggior parte dei giorni che riuscivo a ricordare: tutti adombrati da mio padre e tutto un pulire gabbie di gatti e puzzo di cavolo, a fuggire le flatulenze e il profumo di mio padre. C’erano dei momenti di pace, e a volte il sole splendeva, là fuori.
Barbara Comyns
*traduzione di Cristina Pascotto
L'articolo Sia ode a Barbara Comyns (e all’editore che la pubblica): donna, bella, indipendente, scrittrice di romanzi gotici che piacevano a Graham Greene e anticipano Stephen King proviene da Pangea.
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