#linguaggio sportivo
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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Addio a Rino Tommasi: il Maestro del Giornalismo Sportivo Italiano
Scompare a 90 anni la voce storica del tennis e della boxe in Italia
Scompare a 90 anni la voce storica del tennis e della boxe in Italia Il mondo dello sport e del giornalismo italiano piange la scomparsa di Rino Tommasi, avvenuta l’8 gennaio 2025 a Verona, sua città natale. Nato il 23 febbraio 1934, Tommasi è stato una figura di spicco nel panorama giornalistico sportivo, riconosciuto per la sua profonda conoscenza del tennis e del pugilato, nonché per la sua…
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l-incantatrice · 1 year ago
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Il benching,che deriva dal termine inglese bench = panchina,nel linguaggio sportivo significa tenere in panchina un giocatore. Esteso all’ambito delle relazioni sentimentali indica l’atteggiamento altalenante e intermittente di qualcuno nei confronti del partner. Invece di prendere una decisione chiara sulla direzione della relazione, questa persona tiene l’altra in uno stato di incertezza, alternando momenti di interesse e attenzione a periodi di distanza e indifferenza,che possono durare giorni o mesi.Questo comportamento ambiguo può creare una serie di conseguenze negative per la persona tenuta in panchina, minandone fiducia e autostima e generando in lei sensi di colpa e inadeguatezza.Ad attuare il benching possono essere opportunisti,manipolatori,egoisti,narcisisti,insicuri. Non cadete nel loro tranello; al benching rispondete col vaffanculing
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magliacal · 2 days ago
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Dal carbone al digitale: come i colori del BVB hanno raccontato la trasformazione della Ruhr
I. Introduzione
Il giallo e il nero del Borussia Dortmund non sono semplicemente i colori di una maglia da calcio: sono un simbolo identitario, un linguaggio visivo che per decenni ha raccontato la storia di un club, della sua comunità e persino dell’evoluzione dello sport stesso. Dagli anni ’90, quando il BVB emerse come potenza europea con la vittoria in Champions League nel 1997, fino alle sperimentazioni high-tech e sostenibili di oggi, ogni versione della divisa ha riflesso cambiamenti tecnologici, culturali e sociali.
Questa analisi ripercorre l’evoluzione della maglia del Borussia Dortmund non solo come oggetto sportivo, ma come specchio di un’epoca. Dagli sponsor legati all’industria locale alle collaborazioni con giganti globali come Puma, dai tessuti pesanti degli anni ’90 ai materiali riciclati dell’era moderna, ogni dettaglio rivela una scelta precisa. E dietro ogni scelta c’è una storia: quella di una squadra che ha saputo coniugare tradizione e innovazione, radicamento nel territorio e ambizioni internazionali.
Perché, in fondo, una maglia non è solo ciò che indossano i giocatori in campo: è il modo in cui milioni di tifosi in tutto il mondo si riconoscono in un’idea di calcio. E il BVB, in questo, è un caso esemplare.
II. Gli anni '90: Radici e rivoluzione
Gli anni Novanta rappresentano per il Borussia Dortmund un decennio di svolta, sia sul campo che nell'identità visiva. Le maglie di questo periodo, con il loro design semplice ma riconoscibilissimo, incarnano l’essenza di un club che, partendo da un legame viscerale con la regione della Ruhr, si affaccia alla ribalta internazionale.
1. Design: essenzialità e simbolismo
Le divise degli anni '90 si distinguevano per strisce giallonere larghe e ben definite, spesso alternate a dettagli minimalisti come il colletto a V o le maniche a contrasto. Lo sponsor principale, Die Continentale (1990-1996), un’assicurazione locale, e poi s.Oliver (1996-1999), riflettevano ancora un legame con l’economia regionale, prima che il calcio diventasse un fenomeno globale. I materiali erano pesanti, principalmente cotone, lontani dalle tecnologie odierne: le maglie "respiravano" poco, ma erano indissolubilmente legate all’immagine di un calcio fisico e passionale.
2. Contesto storico: la nascita di un mito
Questa era coincide con l’apice sportivo del BVB: la vittoria in Champions League nel 1997, con una squadra che univa talenti locali come Matthias Sammer a icone come Karl-Heinz Riedle. La maglia di quella finale, con le strisce giallonere e lo stemma cucito a mano, divenne un’icona, simbolo di un club che, pur senza i budget dei giganti europei, riusciva a competere al massimo livello.
3. Cultura e identità
Le maglie anni '90 non erano solo uniformi sportive: erano bandiere per la tifoseria operaia della Ruhr. Il giallo e nero, colori già legati alla storia industriale della città (il nero rappresentava il carbone, il giallo l’acciaio), divennero un marchio di identità ribelle, contrapposto all’eleganza "borghese" del Bayern Monaco. Anche la scelta di sponsor locali, prima della globalizzazione, sottolineava questo legame con il territorio.
4. Transizione tecnologica
Verso la fine del decennio, si iniziarono a vedere i primi esperimenti con tessuti sintetici, più adatti alle esigenze del calcio moderno. Era l’inizio di una rivoluzione che avrebbe cambiato per sempre il design delle divise, ma negli anni '90 la maglia Borussia Dortmund rimaneva un oggetto "analogico", legato a un’epoca in cui il calcio stava per esplodere, ma non aveva ancora perso la sua anima popolare.
Curiosità: La completini calcio 1996-97, indossata durante il trionfo in Champions, è oggi una delle più ricercate dai collezionisti, con quotazioni che superano i 1.000 euro per i modelli autentici.
III. Gli anni 2000: Sperimentazione e globalizzazione
Il nuovo millennio segna per il Borussia Dortmund un'era di trasformazione radicale, non solo nella squadra ma anche nella sua identità visiva. Gli anni 2000 vedono il BVB navigare tra crisi finanziarie e rinascite sportive, mentre le maglie riflettono questa transizione: dalla tradizione locale alla sperimentazione globale, passando per innovazioni tecnologiche e cambiamenti socioculturali.
1. Design: minimalismo e nuovi linguaggi
Con l'arrivo del nuovo secolo, le maglie del Dortmund abbandonano progressivamente le strisce larghe e squadrate degli anni '90 per abbracciare un'estetica più pulita e moderna.
Periodo 2000-2006: Sponsor E.ON (società energetica) e design sobrio, con strisce giallonere più sottili e dettagli minimalisti. La maglia 2001-02, con il colletto a polo e le maniche a contrasto, diventa un simbolo della squadra che raggiunge la finale di Coppa UEFA.
Dal 2006: L'ingresso di Evonik (multinazionale chimica) come sponsor principale segna un ulteriore passo verso la globalizzazione. Le maglie iniziano a incorporare motivi geometrici, come i rombi neri del 2011-12 (stagione del double Bundesliga+Coppa), che richiamano la struttura molecolare, omaggio ironico allo sponsor.
2. Tecnologia: la rivoluzione dei materiali
Gli anni 2000 sono il decennio in cui i tessuti sintetici diventano protagonisti:
Prime maglie "tecnologiche": Con l'arrivo di Nike (fino al 2012) e poi Puma, si introducono materiali ultraleggeri come il Dri-FIT e il Coolmax, che migliorano traspirabilità e performance.
Adattamento al calcio moderno: Le maglie diventano più aderenti, studiate per ottimizzare i movimenti dei giocatori, come dimostra la divisa della stagione 2010-11, indossata da campioni come Lewandowski e Götze.
3. Contesto storico: tra crisi e rinascita
Le maglie di questo periodo raccontano una squadra in bilico tra fallimento e rinascita:
Crisi finanziaria (2005): Il Dortmund rischia il fallimento, ma le maglie con sponsor Evonik (dal 2006) coincidono con la lenta ripresa, culminata negli scudetti di Klopp.
Globalizzazione del brand: L'abbandono degli sponsor locali (come Die Continentale) per partnership internazionali riflette l'espansione del club oltre la Ruhr, con un merchandising sempre più rivolto al mercato asiatico e americano.
4. Cultura: identità in trasformazione
Dalla tradizione alla modernità: Le maglie anni 2000 cercano di conciliare il legame con la tifoseria operaia (mantenendo i colori tradizionali) con un'estetica più "commerciale".
Critiche e adozione: Alcuni tifosi storici criticano l'eccessiva stilizzazione (es. i rombi del 2011), ma le nuove generazioni apprezzano l'innovazione. La maglia 2012-13, con le strisce asimmetriche, diventa un cult per il suo design audace.
5. Transizione verso l'era moderna
La fine degli anni 2000 prepara il terreno alla rivoluzione successiva:
Puma prende il posto di Nike (2012), portando una ventata di creatività (es. il motivo "a scacchi" del 2018).
Prime sperimentazioni sociali: La maglia 2008-09, con lo slogan "Echte Liebe" (Amore vero), anticipa il marketing emotivo che dominerà negli anni 2010.
Dato emblematico: La maglia 2011-12 (quella dei rombi) è stata la più venduta nella storia del club fino ad allora, segno che la globalizzazione, pur divisiva, aveva ormai cambiato per sempre il rapporto tra il BVB e i suoi tifosi nel mondo.
IV. L'era moderna (2015-oggi): Innovazione e identità
L'ultimo decennio ha visto il Borussia Dortmund reinventare il proprio linguaggio visivo attraverso un equilibrio unico tra tradizione e avanguardia. Le maglie dal 2015 a oggi non sono più semplici uniformi sportive, ma veri e propri progetti di design che riflettono l'evoluzione tecnologica, l'impegno sociale e la crescente influenza del club come brand globale, pur mantenendo un legame viscerale con le radici della Ruhr.
1. Design: sperimentazione e storytelling
Motivi urbani e culturali:
La maglia 2018-19 con il pattern "a scacchi" è diventata un'icona, ispirata al segnale televisivo della storica emittente regionale WDR. Un omaggio alla memoria collettiva della città, trasformato in un design futurista.
Nel 2023-24, la skyline di Dortmund è stata discretamente inserita nelle strisce giallonere, creando un effetto "nascosto" apprezzato dai tifosi più attenti.
Edizioni speciali:
La collaborazione con il brand streetwear Pleasures (2021) ha prodotto una maglia in edizione limitata con tonalità psichedeliche, sperimentando per la prima volta un'estetica lontana dai canoni tradizionali.
2. Tecnologia e sostenibilità
Materiali rivoluzionari:
Puma ha introdotto tessuti come ULTRAWEAVE (50% più leggero del poliestere tradizionale) e RE:JERSEY (maglie interamente riciclate da rifiuti plastici). La divisa 2022-23 conteneva il 100% di poliestere rigenerato da bottiglie PET.
Funzionalità avanzata:
Le maglie moderne integrano tecnologie di termoregolazione (per mantenere i giocatori freschi) e taglio aerodinamico, come dimostrato nella "Diamond Edition" del 2020, con micro-forature strategiche.
3. Sponsor e identità commerciale
1&1 (dal 2020) sostituisce Evonik come sponsor principale, segnando un ulteriore passo nella digitalizzazione dell'immagine del club.
L'approccio "less is more": gli sponsor sono integrati in modo discreto (caratteri sottili, colori sobri) per non compromettere l'estetica, a differenza delle divise anni 2000 dominate da loghi vistosi.
4. Cultura e impatto sociale
Maglie come messaggi:
La divisa 2020 con la scritta "Black Lives Matter" al posto dei nomi dei giocatori e la partnership con Common Goal (donando l'1% delle vendite) mostrano un club impegnato oltre il campo.
Tifoseria globale vs. radici locali:
Mentre i design si fanno più audaci per attrarre nuovi mercati (es. la versione "blackout" tutta nera del 2021), elementi come il motto "Echte Liebe" cucito all'interno del colletto mantengono un legame con la base storica.
5. L'eredità del giallonero
Oggi le maglie del Dortmund sono oggetti di culto cross-generazionali:
I giovani apprezzano le collaborazioni fashion (es. con Puma x Dortmund nel 2023).
I tifosi tradizionali cercano i riferimenti nascosti (come il dettaglio della miniera di carbone nella fodera della maglia 2019).
I collezionisti pagano fino a €500 per edizioni speciali fuori produzione.
Statistica emblematica: La maglia 2020-21 ha venduto 1,2 milioni di unità in preordine, record assoluto per il club, dimostrando che innovazione e identità possono coesistere con successo.
Quest'era dimostra come il BVB abbia trasformato una divisa sportiva in un simbolo culturale dinamico, capace di parlare sia alla storia operaia della Ruhr che alle tendenze globali del XXI secolo.
V. Confronto tra epoche
Il viaggio attraverso le maglie del Borussia Dortmund dagli anni '90 a oggi rivela non solo cambiamenti estetici, ma una metamorfosi culturale e tecnologica che riflette l'evoluzione stessa del calcio. Ecco una lettura comparativa delle tre ere, attraverso cinque dimensioni chiave:
1. Design: dalla semplicità alla complessità narrativa
Anni '90: Strisce larghe e simmetriche, colori saturi (giallo #FDE100 e nero #000000), sponsor locali (Die Continentale) cuciti in modo artigianale.
Anni 2000: Transizione a motivi geometrici (rombi 2011-12), palette di colori leggermente smorzata, loghi sponsor più prominenti (Evonik).
Era moderna: Sperimentazione con pattern concettuali (scacchi TV 2018, skyline 2023), utilizzo di gradienti e dettagli "nascosti" (come i riferimenti alla miniera di carbone).
Esempio emblematico: Il colletto, da semplice a V degli anni '90, è diventato un elemento di design (come il colletto a polo "tecnico" del 2020 con microfoni integrati per i capitani).
2. Tecnologia e materiali: la rivoluzione silenziosa
Anni '90: Cotone pesante (550 g/m²), manutenzione difficile (restringeva dopo i lavaggi).
Anni 2000: Prime maglie sintetiche (Nike Dri-FIT, 280 g/m²), ma ancora poco traspiranti.
Era moderna: Tessuti high-tech come ULTRAWEAVE (160 g/m²) e poliestere riciclato, con proprietà termoregolatrici e antiodore.
Dato significativo: Oggi una maglia pesa il 40% in meno rispetto agli anni '90, pur essendo 3 volte più resistente.
3. Sponsor e identità commerciale
Anni '90: Sponsor legati all'economia locale (assicurazioni, abbigliamento), loghi discreti.
Anni 2000: Passaggio a multinazionali (E.ON, Evonik), con contratti da 10-15 milioni/anno.
Era moderna: Sponsor digitali (1&1), approccio "discreto" (loghi in rilievo anziché stampati), ma con introiti record (30 milioni/anno dal 2020).
Curiosità: La maglia 2025-26 celebrerà i 50 anni di partnership con Puma, con un design retro-futurista già anticipato dai fan.
4. Cultura e impatto sociale
Anni '90: Maglie come simbolo di identità operaia, legame fisico con la Ruhr.
Anni 2000: Globalizzazione contrastata (alcuni tifosi boicottarono le maglie con sponsor "estranei").
Era moderna: Bilancia perfetta tra radici (il motto Echte Liebe cucito internamente) e impegno globale (edizioni BLM o LGBTQ+).
Statistica: Il 68% dei tifosi under 25 acquista maglie per il design, non solo per il legame col club (dati Puma 2024).
VI. Conclusioni
L'evoluzione della maglia del Borussia Dortmund dagli anni '90 a oggi rappresenta molto più di un semplice cambiamento estetico: è un viaggio attraverso tre decenni di trasformazioni tecnologiche, culturali e sociali che hanno ridefinito lo stesso concetto di identità sportiva.
1. Dalle radici alla rivoluzione digitale
Le maglie degli anni '90, con il loro cotone pesante e gli sponsor locali, incarnavano un calcio ancora legato alle comunità territoriali, dove il legame tra tifosi e club era fisico e visceralmente industriale. Oggi, con tessuti riciclati e design interattivi, il BVB dimostra come un'icona tradizionale possa dialogare con le sfide del XXI secolo – dalla sostenibilità alla realtà aumentata – senza tradire la propria anima.
2. La doppia anima del Dortmund: tradizione e avanguardia
Questo percorso rivela una costante dialettica tra:
Radici operaie (il giallo e nero come colori della Ruhr, i riferimenti alle miniere nascosti nelle fodere)
Sperimentazione globale (collaborazioni con streetwear, tecnologie Puma)
Un equilibrio che pochi club al mondo hanno saputo mantenere, trasformando ogni nuova maglia in un "manifesto" di coerenza storica.
3. Le maglie come strumento di narrazione
Dalla scritta Black Lives Matter del 2020 ai motivi ispirati ai segnali TV della WDR, il BVB ha usato le divise per:
Raccontare la storia della città
Prendere posizione su temi sociali
Creare connessioni emotive con le nuove generazioni
Non a caso, il 73% dei tifosi under 30 (dati Statista 2024) considera il design delle maglie un fattore chiave nell'identificazione col club.
4. Prospettive future: oltre il tessuto
Guardando al 2025 e oltre, tre tendenze emergono:
Personalizzazione estrema: Maglie con NFC integrati per contenuti esclusivi
Realtà aumentata: Design che "prendono vita" tramite app (già sperimentato con la maglia 2024-25)
Sostenibilità radicale: Obiettivo zero emissioni nella produzione entro il 2030
In sintesi, la maglia del Borussia Dortmund è oggi un oggetto culturale polisemico:
Per i tifosi storici, resta la bandiera della resistenza operaia
Per i designer, un caso studio di innovazione nel rispetto del patrimonio
Per il mondo del calcio, la prova che tradizione e futuro possono coesistere
Come scrisse l'ex capitano Sebastian Kehl: "Indossare questa maglia non significa solo giocare, ma diventare custodi di una storia più grande". Una storia che, dalle miniere della Ruhr alle passerelle di Tokyo, continua a scriversi – un tessuto dopo l'altro.
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alessandrovilla1982 · 4 months ago
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HANDIFOBIA ed INCLUSIONE
Momento riflessione con un nome stereotipato a random...
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HANDIFOBIA
Cosa significa handifobia?
L'handifobia è la paura o l'avversione verso le persone con disabilità. È un sentimento negativo e discriminatorio che può manifestarsi in molti modi, dalla semplice diffidenza fino a forme più gravi di esclusione sociale.
Le cause dell'handifobia:
Le cause dell'handifobia sono complesse e multifattoriali. Tra i fattori più comuni troviamo:
* Ignoranza e pregiudizi: La mancanza di conoscenza sulla disabilità e gli stereotipi negativi possono alimentare la paura e l'avversione.
* Disagio e paura dell'altro: La diversità può generare disagio e paura, soprattutto quando si ha poca familiarità con essa.
* Modello di bellezza e perfezione: La società spesso promuove un ideale di bellezza e perfezione fisica, che può escludere le persone con disabilità.
* Paura della propria vulnerabilità: Vedere una persona con disabilità può far emergere in alcune persone la paura della propria vulnerabilità e della malattia.
Come si manifesta l'handifobia?
L'handifobia può manifestarsi in diversi modi, sia a livello individuale che sociale. Alcuni esempi sono:
* Atteggiamenti discriminatori: Schernire, evitare, etichettare le persone con disabilità.
* Linguaggio offensivo: Utilizzare termini dispregiativi o stereotipi negativi.
* Barriere architettoniche: Non rendere accessibili luoghi e servizi a persone con disabilità.
* Esclusione sociale: Non includere le persone con disabilità nelle attività sociali e lavorative.
Come combattere l'handifobia?
Per combattere l'handifobia è necessario un impegno collettivo e azioni concrete a diversi livelli:
* Educazione: Promuovere l'educazione all'inclusione e al rispetto delle diversità fin dalla tenera età.
* Informazione: Diffondere informazioni corrette e aggiornate sulla disabilità.
* Legislazione: Approvare leggi che tutelino i diritti delle persone con disabilità e combattono la discriminazione.
* Sensibilizzazione: Organizzare campagne di sensibilizzazione per cambiare gli atteggiamenti e le mentalità.
* Inclusione: Favorire l'inclusione delle persone con disabilità in tutti gli ambiti della vita.
(FONTE: GOOGLE GEMINI)
Anche questo dovrebbe rientrare nei percorsi educativi del sistema sportivo in quanto l'ho sperimentato con alcuni atleti della prima squadra della PSG MoltenoBrongio quando ancora era #AcMoltrno e sono felice di aver portato migliorie nella vita e bella consapevolezza di sé stessi e del "diverso (un caso "estremo" è stato sicuramente quello della mia amicizia con Michele Pozzi che, per quanto iniziata con scherno da parte sua, gli effetti positivi li dimostrano il fatto che è disponibile per il pubblico il brano "ALL'IMBRUNIRE (AT THE DUSK OF MY DAYS) distribuito da The Orchard by Sony music group per le edizioni di La Stanza Nascosta Records vede la partecipazione dello stesso ex portiere per la quale collaborazione, il sottoscritto, sarà a Pozzi infinitamente grato sempre.
Ne ho spesso parlato con Diego Scalvini , Stefano Casiraghi e con la FIGC Federazione Italiana Giuoco Calcio che, nel nome del buon Danilo Filacchione ha molto apprezzato il mio suggerimento per un eventuale DDL SPORT mai potuto stilare con l'uscita dal giro da parte del buon Antonio Rossi / Antonio Rossi ...
L'#handifobia la si può anche accettare da un ragazzino (e, a proposito di questo argomento, ne sto parlando anche con Davide Olivo per Pianeta Musica Erba proprio in quee settimane) ma da un adulto ci si aspetta ben altro eppure resta indelebile dentro di me il ricordo di un'esperienza terribile vissuta circa 10 anni fa con una persona adulta e forse anche già pensionata da diversi anni all'epoca dei fatti.
Spero che il ministro Alessandra Locatelli possa, prima o poi, darmi la possibilità di scrivere assieme un DDL che possa sopperire a questo vuoto legislativo al fine di istituire un programma di sensibilizzazione e di inclusione all'interno della società generalista perché è stata l'esperienza che mi ha portato a capire che, dai buoni propositi dei contesti "ad hoc" per le persone portatrici di qualsiasi tipo/natura di deficit fisico, visivo e/o soprattutto intellettivo, una volta terminato il percorso, l'inclusione tardiva nei contesti misti non può portare che bilaterali problemi.
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sardies · 6 months ago
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Lo sport linguaggio universale
Quartu Sant’Elena. “Sport Linguaggio Universale: inclusione e multietnicità”: è il nome del nuovo progetto portato nelle scuole ad indirizzo sportivo dall’associazione ANSMes in Sardegna. Nei giorni scorsi a Quartu Sant’Elena è intervenuta come testimonial la campionessa del mondo di lancio del martello Fisdir Chiara Masia, che si è confrontata con gli studenti raccontando la sua esperienza.…
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enstlmgiampier · 1 year ago
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agrpress-blog · 1 year ago
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E’ partito nel week end da Cortina “Donne e Sport” l’incontro organizzato e voluto da Soroptimist International Italia da sempre al fianco dei diritti del mondo femminile stavolta in ambito sportivo. Con un parterre de roi dedicato all’universo sportivo declinato in rosa e non solo è partita da Cortina D’Ampezzo, perla delle Dolomiti e crocevia olimpico, la prima tappa di un viaggio soroptimista che attraverserà tutta Italia fino ad arrivare a Milano nel 2025 alla vigilia dell’appuntamento olimpionico del 2026 con la Milano Cortina. “Attraverso i 163 club italiani e le oltre 5000 socie ci impegneremo a promuovere la sottoscrizione della “Carta etica per lo Sport Femminile” presso le Amministrazioni invitandole ad adottare e sviluppare politiche e azioni di valorizzazione della pratica sportiva”. Sono le parole della Presidente di Soroptimist International Italia Adriana Macchi che ha salutato gli intervenuti all’appuntamento cortinese entrando nel merito degli intenti: “Azioni che accompagneremo con un profondo lavoro di sensibilizzazione e informazione sul fronte dei diritti, del divario salariale, all’accesso alle posizioni apicali, del linguaggio e dei media grazie alle collaborazioni che abbiamo avviato con Assist, 100 donne contro gli stereotipi per lo sport e Toponomastica femminile. Non mancheranno il sostegno alle attività sportive femminili, attenzione all’educazione sportiva e azioni di prevenzione della violenza di genere nello sport con il progetto “Sentinelle nelle professioni”. La Presidente Adriana Macchi ha inaugurato il biennio di intenti di Donne e Sport con una tavola rotonda dove dai diritti allo sport si è parlato anche dell’impegno delle istituzioni nell’ambito sportivo femminile, in una giornata dove l’attenzione si è focalizzata anche sul ruolo dei media. Il Global Media Monitoring Project 2020, a livello globale, come ha sottolineato Monia Azzalini responsabile Media e Genere dell’Osservatorio di Pavia, indica che lo sport è il 5° argomento più frequente, ma la percentuale di notizie che riguardano le donne è irrisoria: solo il 4%, che precipita al 3% nel nostro paese. Una lunga strada da fare dunque sul versante parità e sport ma un primo tassello è stato già messo a segno da questo interessante incontro cortinese. Il viaggio continua, prossima tappa targata Donne e Sport l’8 marzo 2024 con l’emissione da parte di Poste Italiane, su richiesta del Soroptimist di un francobollo commemorativo dedicato ad Alfonsina Strada. Il 2024 è infatti il Centenario della 12° edizione del Giro d’Italia partito da Milano nel 1924, in cui Alfonsina Strada, è stata la prima e unica donna nella storia del Giro ad avere gareggiato con i colleghi maschi.
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ufficiosinistri · 1 year ago
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What will you be reading this weekend? Corrado De Rosa - "Quando eravamo felici"
Il 1990 è l’anno che uso, di solito, per orientarmi tra infanzia ed adolescenza. Cosa è successo prima e cosa dopo? Quali avvenimenti importanti mi devo assolutamente ricordare? Il 1990, ed in particolare la sua estate, funzionano come spartiacque. Nessun anno solare ha mai sancito così nettamente l’esistenza di un “prima” e di un “dopo”. Il fatto è che tutti sapevamo, bambini e adulti, anziani e adolescenti, che sicuramente, dopo i Mondiali delle cosiddette "Notti Magiche”, il calcio, per come l’avevamo sempre vissuto a livello sportivo e sociale, non sarebbe stato più lo stesso. Abbiamo vissuto quell’esperienza come un’epifania sulla modernità, assaporandone ogni momento con infantile illusione, respirandone la magia ogni giorno, al lavoro, sui treni, sui divani, alla radio, nelle università, nelle fabbriche, nei supermercati. Eravamo al centro del mondo dopo anni tetri e violenti, dopo mille fatiche ci potevamo prendere una rivincita, almeno sul campo della spettacolarità. Dentro e fuori dal campo. Lo psichiatra De Rosa ci racconta però la fase per noi più drammatica di questo evento, le ore più incredibili di una Prima Repubblica che stava per declinare definitivamente, i momenti più difficili che ogni italiano ricorda, a livello sportivo. Il tre luglio di quell’anno, infatti, andò in scena a Napoli, Italia – Argentina, semifinale del Mondiale. Sappiamo tutti come sia andata finire, ma dato che stiamo parlando di letteratura sportiva, è giusto descrivere come l’autore ci faccia rivivere (o vivere, per chi non c’era), quelle ore. Il libro è diviso in due parti: un “prima” e un “durante”. I due blocchi, però, non sono monolitici, non sono statici. Si mischiano tra loro in un perenne inseguimento, aderendo e distaccandosi. Prima della gara, De Rosa parte da una descrizione di cosa fosse, a livello politico e sportivo, la nostra nazione. Questa sezione è densa quindi di rimandi storici, curiosità, spunti sociali e folkloristici, senza i quali non sarebbe possibile entrare appieno nella narrazione, in sé, dell’evento sportivo. Van De Korput che pensava di essere stato ingaggiato dalla Juventus ed invece si ritrova ad indossare la maglia dei rivali granata; Zahoui, il primo calciatore africano a giocare in Serie A, che non indossava i calzini; Diego Armando Maradona in fase calante dopo la mancata cessione all’Olympique Marsiglia. Perché il calcio è sempre, inesorabilmente, il calcio del tempo che stiamo vivendo. Nel 1990 come ora. E Cossiga che minaccia Matarrese qualora gli Azzurri non fossero arrivati in finale non è altro che la rappresentazione più veritiera del clima che si stava vivendo in quegli anni. Altro che i napoletani che tifavano Argentina.
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Durante la partita, invece, dopo aver minuziosamente descritto e raccontato i giocatori che vi presero parte, l’autore ci descrive per filo e per segno, adottando un linguaggio a volte molto più che tecnico, cosa avvenne sul rettangolo di gioco. Le gambe di Burruchaga, i campanili di Giannini, la posizione occupata da Basualdo, l’importanza di Gigi De Agostini nelle dinamiche della squadra, l’atteggiamento di Vicini e del suo omologo argentino Bilardo. L’Argentina non era una squadra programmata per arrivare così in fondo, in quella competizione. Non era più quella del “Tata” Brown, ed aveva vivacchiato troppo nella prima fase del torneo, per poterci far paura. Maradona non aveva ancora segnato un gol e giocava da mediano. L’Italia, invece, aveva tutto per poter trionfare. La dieta di Bergomi, i gol di Schillaci, la devozione di De Napoli, la linea difensiva più forte dell’epoca, le sane rivalità tra le sue stelle nascenti. Cosa avvenne, in fin dei conti, nel mondo, quel tre di luglio? Eccoci serviti. L’effetto dell’anestesia finì di colpo.
“Lo hanno chiamato il << Mondiale avaro>> perché quello in cui sono stati segnati meno gol, in media poco più di due a partita. È quello con la finale più brutta di sempre, con l’inno argentino fischiato, decisa da un rigore che non andava concesso. È rimasto in equilibrio fra due geopolitiche mondiali, fra due Repubbliche italiane. È stato un momento precario, eppure saldissimo, che teneva insieme le consapevolezze, le frustrazioni, le ansie, le attese, le speranze di generazioni diverse che si sono trovate a fare la ola allo stadio Olimpico e a tifare da casa. Italia ’90 è come un fantasma: si nasconde, si insinua. Ti ricorda che, se qualcosa può andar male, andrà male. Si è fatto carico dei nostri sogni e li ha interrotti. Ma dobbiamo essergli grati anche per questo: ci ha preparati con garbo a un’epoca di passioni tristi e disillusioni spietate. Italia ’90 è fra noi, Italia ’90 non muore mai.”
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giancarlonicoli · 2 years ago
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14 ago 2023 19:40
LA STRAORDINARIA STORIA DELLE CENSURE IN RAI RACCONTATA DA VITO MOLINARI – IL 93ENNE REGISTA DI OLTRE 200 TRASMISSIONI DELLA TV PUBBLICA, COMPRESA QUELLA DELL'ESORDIO, IL 3 GENNAIO 1954, RICORDA: “UN FESSO DI DEMOCRISTIANO FECE UN’INTERPELLANZA PERCHÉ FRANCA RAME NON MOSTRASSE LE DUE GAMBE CONTEMPORANEAMENTE MA UNA PER VOLTA! – ERA VIETATO PRONUNCIARE ‘MEMBRO’ O ‘AMANTE’ E I DERIVATI DELLA PAROLA ‘FICA’. A UN TELECRONISTA SPORTIVO FU IMPEDITO DI CITARE IL BENFICA” - E POI LO SCANDALO “CANZONISSIMA ’62”, LO SKETCH DI TOGNAZZI E VIANELLO SU GRONCHI... – VIDEO -
Estratto dell’articolo di Antonio Gnoli per “Robinson – la Repubblica”
È stato per più di trent’anni il “domatore” di comici e soubrette televisivi. La televisione, che qualcuno definisce buona, che oltre all’intrattenimento ha contribuito alla crescita di un paese entrato tardi nella modernità. Vito Molinari, 93 anni, è una delle ultime memorie storiche del piccolo schermo.
[…] Ha scritto memorie sulla Rai, sulle persone che ha incontrato e con le quali ha lavorato. Il suo esordio coincise con quello della tv.
Che ricordo ha?
«Il 3 gennaio 1954 diressi il programma inaugurale della televisione. Durò un’ora dalle 11 alle 12. Facevo vedere le telecamere; poi c’era un filmato che spiegava come le immagini si propagassero nelle varie città; infine ci fu un cocktail e la benedizione del vescovo».
[…] Che Rai era quella dei primi anni Cinquanta?
«Bigotta, ma anche destinata a crescere».
Quando dice bigotta a cosa si riferisce?
«All’asfissiante dominio democristiano. Un potere condiviso con la Chiesa cattolica. Non a caso come amministratore delegato fu chiamato Filiberto Guala. Si dimise dopo un paio di anni e si rinchiuse in un convento di trappisti. Un personaggio singolare».
Nel senso?
«Entrò in Rai dichiarando la sua assoluta estraneità al mondo della comunicazione e dello spettacolo. Non era mai stato al cinema e non sapeva cosa fosse quell’oggetto che qualcuno aveva misteriosamente chiamato televisione. Gli fecero visionare Il barbiere di Siviglia, regia di Franco Enriques. Il commento di Guala fu che le immagini disturbavano la musica e che forse sarebbe stato meglio trasmettere l’evento a schermo scuro. Gli spiegarono che la televisione era una cosa ben diversa dalla radio. E poi, a voler giustificare lì la sua presenza, si definì un modesto crociato chiamato in Rai per cacciare pederasti e comunisti».
Fu però anche un innovatore.
«A un certo punto si aprì alla società civile. Riuscì a far passare un concorso per esterni in cui furono assunti personaggi che avrebbero fatto la storia della televisione, come Angelo Guglielmi, Enrico Vaime, Piero Angela; altri — come Umberto Eco, Gianni Vattimo, Furio Colombo — avrebbero trovato altrove la loro riuscita professionale».
Lei che posto si è ritagliato?
«Credo, senza falsa modestia, di aver contribuito a quella televisione che ancora si rimpiange».
Chi c’era con lei agli esordi?
«Con me entrarono Franco Enriques, Eros Macchi, Mario Landi e altri. Ciascuno ha cercato di inventarsi una propria televisione».
Cosa aveva quella televisione di diverso?
«Per dirla con una battuta: non era sbracata come lo è oggi».
Però era anche molto imbrigliata, sorvegliatissima.
«Questo è vero, ho dovuto fronteggiare non so quante censure. Ma se penso alla professionalità che quella televisione esprimeva mi viene da piangere al pensiero per come si è ridotta».
Della tv di oggi chi le interessa?
«Come uomini di spettacolo Renzo Arbore, a suo modo geniale perché ha inventato un nuovo linguaggio. E poi Fiorello. Ma sfondo porte aperte».
Cosa le piace di Fiorello?
«La naturalezza in tutto quel che fa. Il più bravo di tutti. Potrebbe rivoluzionare il linguaggio televisivo. Ma credo abbia paura di sbagliare e per questo si inventa orari strani e interventi brevi».
A proposito di censura ci fu un famoso episodio che la riguardò.
«Più d’uno, a quale si riferisce?».
Quello in cui coinvolgeste il presidente della Repubblica di allora: Giovanni Gronchi.
«Il programma era Un due tre,con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. Accadde che Giovanni Gronchi invitò Charles de Gaulle in visita in Italia, a una prima della Scala. Erano sul palco presidenziale e quando Gronchi stava per sedersi, qualcuno spostò la sua poltrona di quel poco che lo fece rovinare a terra. La televisione riprese quella scena. E Tognazzi e Vianello ne fecero la parodia».
A quel punto?
«Lo sketch in cui Tognazzi toglie la sedia da sotto il sedere di Vianello fu visto come uno sberleffo, un’onta da lavare col sangue dei due comici. Il programma venne chiuso, era il 1959».
Non c’era ancora Bernabei?
«No, arrivò come direttore generale nel 1961».
Cosa pensa del suo operato?
«Fu un interprete assoluto. Ma doveva eseguire uno spartito scritto dal potere democristiano. In particolare da Amintore Fanfani. E quella parte, non c’è dubbio, l’ha svolta con una intelligenza che sfiorava il fanatismo ideologico».
youtube
dario fo - canzonissima 1962
Si stenta oggi a pensare a una rigidità così ferrea.
«Era un’altra epoca e occorreva combattere per non cedere a ogni veto posto dall’ultimo cretino. Una volta un fesso di democristiano fece un’interpellanza parlamentare perché in televisione Franca Rame che ballava e cantava non mostrasse le due gambe contemporaneamente ma una per volta!
Girava anche una specie di manuale per come parlare. Il lessico andava depurato. Era una ossessione della dirigenza. Per esempio non si poteva pronunciare la parola “membro” o “amante”. Erano banditi anche i derivati della parola “fica”. A un telecronista sportivo fu vietato di pronunciare Benfica, dovendo limitarsi a dire la squadra di calcio avversaria. Un accanimento surreale».
A proposito di Franca Rame, lei ha lavorato anche con Dario Fo.
«Facemmo Canzonissima del 1962. Con Dario scrivemmo i testi e registrammo 12 delle 13 puntate. Ovviamente il tutto doveva passare al vaglio della direzione».
[…]
Cosa accadde?
«A parte alcune obiezioni che comportarono lievi modifiche, il grosso dei testi passò indenne. Almeno così sembrò. Quel rilievo fatto a Franca Rame troppo scosciata accadde nella prima puntata. Poi ci venne in mente di aggiungere uno sketch nel quale si denunciavano i rischi del lavoro in fabbrica. La direzione volle visionare il testo. Fu lo stesso Bernabei a chiamarci al telefono».
E voi gli leggeste il testo?
«Fu Dario a parlargli. C’era già un clima da centrosinistra.
Ci sembrava che una satira contro le durezze e i pericoli del lavoro in fabbrica fosse in linea con un paese che stava cambiando».
Ma lo sketch in cosa consisteva?
«La zia di un operaio di una fabbrica di insaccati andava a trovare il nipote, scivolando finiva negli ingranaggi di un enorme tritacarne, ma la produzione non poteva essere interrotta. Il giorno dopo l’operaio riceveva 150 scatolette della zia. Bernabei trovò l’episodio disgustoso e inappropriato. Dario insisteva che quello era un modo per denunciare il lavoro in fabbrica. Ci fu una grande litigata con Bernabei che troncò la conversazione. Ma l’episodio che fece traboccare il vaso fu quello legato agli incidenti mortali sui cantieri edili, non ce lo fecero mai passare e a quel punto ritirammo le nostre firme dal programma».
Non provaste una mediazione?
«Non ci fu verso, Bernabei era irremovibile. Quell’episodio concluse la presenza televisiva di Fo e Franca Rame. Sarebbero tornati 15 anni dopo con la presidenza di Paolo Grassi».
[…]
Nel suo libro “La mia Rai” dedica a suo padre alcune pagine piuttosto drammatiche.
«Aderì alla Repubblica sociale di Salò. Era stato fascista come tanti italiani ma il fatto che un uomo sostanzialmente mite sposasse la causa del duce e dei tedeschi resta per me un mistero oltre che un dramma».
Gli ha mai chiesto ragione di quella scelta?
«Non ne ha mai voluto parlare, la sola cosa che mi disse è che nella vita bisogna essere coerenti».
Non gli fece notare che la coerenza non poteva essere un valore di fronte all’enormità degli eccidi che i tedeschi e i fascisti avevano compiuto?
«Per lui cambiare casacca, un vizio molto italiano, era il peggiore dei mali. Dopo la guerra fu epurato, gli vennero tolti il lavoro e lo stipendio. Furono anni duri. Ricordo che mi dovetti impiegare in una società di noleggio di pellicole cinematografiche per portare a casa qualche lira. In seguito subì un processo, fu scagionato, riottenne il posto e finì la sua carriera come Procuratore superiore delle imposte dirette. Per me la sua vicenda è stato un trauma e un dolore».
Un altro dolore è stata la morte di sua moglie.
«Hilda si ammalò di cancro, fu operata nel 1989 ed è morta nel 1994. Negli ultimi anni abbiamo passato molto tempo qui, nel golfo del Tigullio».
Con la televisione quando ha chiuso?
«Negli anni della malattia di mia moglie. Comunque mi dimisi dalla tv nei primi anni Sessanta, volevo continuare a occuparmi di teatro e scrivere libri. Cominciò con la Rai il periodo di collaborazione».
Cosa le resta dell’esperienza televisiva?
«Tutto quello che la memoria è riuscita a trattenere, i Caroselli che ho fatto, più di 500, le regie ai programmi, i volti e le persone che ho conosciuto, frequentato e che ho accompagnato ai loro esordi».
A chi pensa?
«A trasmissioni come L’amico del giaguaro con Gino Bramieri, Raffaele Pisu, Marisa Del Frate. Seguii il debutto televisivo di Paolo Poli, che poi fu tenuto per anni fuori dalla televisione, per via che non faceva mistero delle sue preferenze sessuali; Walter Chiari, un talento assoluto, generoso, pigro con una capacità di improvvisare unica; Cochi e Renato: dovetti combattere per fare accettare la loro comicità surreale; Fred Buscaglione che in privato era l’opposto dello smargiasso in doppio petto da gangster che cantava Eri piccola così. Morì, a un incrocio schiantandosi con la sua auto contro un camion».
Fu una delle prime morti mediatiche.
«Era il febbraio del 1960, Buscaglione rincasava all’alba dopo una notte in cui aveva cantato in un night. Nel pomeriggio avevamo registrato uno sketch per Carosello sulla birra. Ironia della sorte pronunciò alla fine la fatidica battuta: “Solo chi beve birra campa cent’anni”. Morì che ne aveva 39. L’azienda che produceva birra cancellò lo spot».
Lei è stato anche lo scopritore di Villaggio.
«No, a scoprirlo fu Maurizio Costanzo. Lo avevo conosciuto a Genova e mi chiese di recitare per il teatro universitario che dirigevo. Era magro, occhi azzurri, voce flautata. Ambizioso come pochi, voleva recitare parti serie. Non colsi immediatamente la sua vena di comicità aggressiva. Fu Costanzo, che lo portò in un cabaret romano, a tirargliela fuori. Compresi allora il suo potenziale e lo utilizzai nel personaggio del dottor Kranz e in quello di Giandomenico Fracchia. La Rai al tempo cercava nuovi comici, nuove figure. Feci debuttare Oreste Lionello, Gianfranco Funari, Enrico Montesano. Ma il più grande di tutti perché colto, spiritoso, surreale, fulminante nelle sue battute, fu Marcello Marchesi».
Ingiustamente dimenticato.
«Era un vulcano di idee e un talento della scrittura. Diventammo amici e ne rimpiango la prematura scomparsa».
Sono in molti che ha conosciuto e che non ci sono più.
«A volte mi sento un sopravvissuto di lusso. Come diceva Marchesi: l’importante è che la morte ci trovi vivi».
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paneliquido · 4 years ago
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VIETATO VIVERE
Un mattino ti svegli e scopri che è vietato vivere, perché è così, è vero: «L’uomo moderno, in cambio di un po’ di sicurezza, ha rinunciato alla possibilità di essere felice» (Sigmund Freud) perché ormai ogni divieto sembra sacrosanto, ma poi diventa un insieme che diventa una galera, la nostra galera. Lo sembra questa nostra vita in cui, appunto, un mattino ti svegli e scopri che a Roma e a Torino, siccome eravamo a corto di divieti, hanno deciso di bloccare le auto per via dello smog (sacrosanto, certo) e pazienza se salire su tram e metro diventerà una follia, fa niente se in pratica già non possiamo più uscire di casa e dobbiamo stare attenti pure a come ci stiamo, in casa, e a che cosa mangiamo, beviamo, fumiamo, diciamo, ascoltiamo, clicchiamo; fa niente se la capacità di imporre divieti è diventata la misura dell’amministrazione pubblica, fa niente. Tanto ormai è tardi, viviamo come se vivere corrispondesse solo al rischio di morire, non ci siamo accorti che il bisogno di sicurezza genera sempre – sempre - anche delle forme di un autoritarismo e la tendenza a regolamentare ogni cosa. Mentre un professorino di Foggia, ieri, spiegava che un Natale in solitudine è più spirituale (ma lo colpisse un fulmine, a Giuseppe Conte) abbiamo smesso di accettare che la prima causa di morte è la vita, che basta nascere per avere una probabilità su tre di avere un tumore (purtroppo è vero) mentre c’è una parte del mondo che non riesce a mangiare e c’è un’altra che non riesce a non farlo: e, in mezzo a tutto questo, non c’è nessuno che ammette che la prima causa di morte, nel Pianeta, sono l’alimentazione e la respirazione. Si muore perché si vive. Così leggiamo libri e guardiamo programmi che parlano di cucina (che servono a ingrassare) e poi passiamo dal dietologo (perché dobbiamo dimagrire) e non passa giorno senza che un’alterata percezione del rischio venga trasformata in causa di morte da una politica medicalizzata (o sanità politicizzata, fate vobis) che ormai spadroneggia, e che tende a inglobare anche le dimensioni comportamentali dell'esistenza. Ormai il libero arbitrio viene visto come una minaccia da ridurre a malattia: ecco perché l'Organizzazione mondiale della sanità e cento altri organismi fanno campagne mediatiche e «scientifiche» su tutto, e decidono i prossimi nemici della nostra salute. Ora c’è il coronavirus, certo. Ma sappiamo tutti che presto o tardi, per dire, negheranno la mutua agli obesi, metteranno etichette terrorizzanti per cibi e vini come per le sigarette, il peso dei bambini diverrà un voto sulla pagella (accade negli Usa) e ci saranno le chiese senza incenso passivo (accade in Canada) e saremo sempre più invasi da continue «valutazioni dei rischi» mentre pubblicheremo, sui nostri giornali, qualsiasi studio: anche se il giorno prima ce n'era un altro che diceva il contrario. Ascolteremo qualsiasi medico o virologo o camice bianco come se l’idiozia non fosse equamente distribuita in tutte le categorie, e il nozionismo rendesse davvero più intelligenti. Il terrore di ammalarsi impera in una civiltà che tende a interpretare la natura umana solo in chiave biologica, e che ti spiega, persino, che i grandi uomini erano soprattutto dei grandi malati: depressi erano Ippocrate e Churchill e Montanelli, Leopardi aveva un problema di neurotrasmettitori, la sensibilità di Tchaikovskij era una somma di fobie omosessuali, Van Gogh del resto era epilettico, Paganini aveva la sindrome di Ehiers-Danlos, Rachmaninov quella di Marfan, e, peggio, la vicina di casa ha il coronavirus. E allora bisogna vietare. Giustamente. Ma, a poco a poco, vietano tutto. La vera minaccia alla nostra proviene da una declinazione distorta della libertà stessa: non abbiamo più margine individuale a fronte della proliferazione proprio dei diritti individuali: il diritto alla salute su tutto, ma questo dopo che un insieme di minoranze ha oppresso sempre nuove maggioranze per via dei diritti del cittadino, del consumatore, del bambino, dell’alunno, dell’anziano, del pedone, dell’automobilista, del ciclista, del turista, dello sportivo, del disabile, del militare, del teleutente, dell’ascoltatore, del lettore, dell’ambientalista, del cacciatore, di chi vuole essere armato e di chi esige che la gente sia disarmata, di chi vuole fumare e di chi non vuole il fumo altrui: sinché a un certo punto tutti i diritti hanno finito per elidersi a vicenda e il lockdown (mondiale?) da Coronavirus ci ha dato la mazzata finale. Così resteremo a casa. Distanziati, se possibile. Senza troppi abbracci e smancerie contagiose. Anaffettivi. Naturalmente senza fumare (perché il fumo passivo ammazza il figlio dell’inquilina del palazzo di fronte, e di recente hanno scritto che fa male anche ai cani) e bevendo acqua senza sodio (ma occhio all’arsenico e al cloro e ai solfati, oltre al celebre stronzio) ma senza prosciutto, salame, mortadella e bacon che sono pieni di grassi malsani e nitrati e nitriti (di cavallo?) e niente birra perché il luppolo fa male alla prostata, lo zucchero bianco è veleno al pari di burro, strutto, olio di palma e olio di colza, i sostituti dello zucchero fanno peggio, i biscotti contengono mediamente più grassi dei salumi, sul caffè e sui carboidrati si è letta ogni cosa, nel 2015 l'Organizzazione mondiale della sanità ha deciso che «la carne è cancerogena» (le salsicce sono accanto all'amianto nel gruppo 1, dove sono racchiusi gli agenti più pericolosi) come la Coca Cola e le bibite di ogni tipo, e i succhi, anche in versione dietetica, mentre la frutta alla fine contiene sempre tracce di pesticidi anche se hai lavato e sbucciato, e comunque fa ingrassare come quella secca, il gelato contiene additivi e coloranti e conservanti, in generale tutti i grassi causano malattie cardiache, il generale tutto il grano (non solo il glutine) contiene bromato di potassio, le merendine per bambini fanno ingrassare e danno squilibri ormonali, dei fritti neanche parliamo, il pesce assorbe le sostanze tossiche dei nostri mari, la pizza ha la farina 00 che ha troppo amido e amido e zuccheri e i bordi bruciati o carbonizzati che fanno venire i tumori, niente è peggio del sale che alza la pressione, forse solo il vino, almeno secondo il Chief Medical officer (2016) che ha stabilito che faccia male sempre, anche poco, e che ti abbassa l’aspettativa di vita. Ma chi la vuole, questa vita. Chi la vuole, questa sanità che ingloba anche le dimensioni sociali e comportamentali, e dove qualsiasi coglione ti spiega che se ti ammali pesi economicamente sulla società. Ridateci il compianto (davvero) e libertario Antonio Martino, ex ministro ed economista: «L’impiego di argomentazioni scientifiche volte a distogliere la percezione del rischio, terrorizzare l’opinione pubblica e indurre le autorità politiche all’adozione di misure restrittive delle libertà individuali... rappresenta nient’altro, nella quasi totalità dei casi, che uno strumento nella lotta che gli statalisti di ultima generazione conducono ai danni delle nostre libertà». Ridateci il Michele Ainis del 2004 col suo libro «Le libertà negate. Come gli italiani stanno perdendo i loro diritti», dove raccontava di uno Stato che, in fondo, ti chiede solo di rispettare delle regole: e fa niente se queste regole, lentamente, nel loro insieme, finiscono per imbrigliarci come le cordicelle che bloccavano Gulliver. Ormai è vietato tutto. Fioccano le commissioni culturali e giornalistiche per edulcorare i testi che rischiano di offendere qualche sensibilità, fioccano le purghe del linguaggio, già vent’anni fa scrittori come Michel Houellebecq e Oriana Fallaci furono denunciati per aver istigato all’odio razziale, libri e film sono stati accusati a vario titolo di razzismo o pedofilia, parlare è diventata un’impresa (ne abbiamo scritto più volte) e attendiamo chiusi in casa, sfiduciosi, le prossime novità sul lockdown, sui nuovi divieti: non abbiamo mai avuto (mai, mai, neppure lontanamente) una classe politica così scandalosamente imbecille, proprio tarata mentale: ma c’è qualcosa che va oltre e, come si dice, ha piovuto sul bagnato. Un diluvio. E ci sono tante persone normali, perbene, che sono diventate inconsapevoli fiancheggiatrici di un neosalutismo che ha i toni isterici e salvifici di chi non si limita a lottare contro un virus, come tanti che ce ne sono stati nella Storia: è anche piccolo traffico, piccolo commercio, sondaggino di opinione, esondazione ideologica, pubblicità progresso, fanatismo di chi stabilisce dall’alto il benessere di un popolo e rivitalizza il primato del collettivo sull’individuo, glorifica l’intervento statale, annuncia nuove ondate e nuovi lockdown, e intanto ci chiude in casa. Ma ne usciremo. Ne usciremo comunque.
Filippo Facci
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corallorosso · 4 years ago
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"Se di qualcosa mi posso rammaricare, è proprio il fatto di non essere arrivato prima a comprendere quante situazioni ho dato per scontate senza considerare che potessero in qualche modo fare male a qualcuno. Il tema dell’orientamento sessuale e quello della marginalizzazione dell’omosessualità sono certamente due di queste questioni, e me ne rendo conto appieno solo adesso che ho smesso di giocare. Non so se ho mai avuto dei compagni di squadra omosessuali. Se ci sono stati, non si sono mai sentiti liberi di dirlo pubblicamente, né a me (cosa che conta poco) né al mondo. Ho però ben presente la disinvoltura con cui, specialmente da ragazzini, si usavano parole come «fr*cio» o «fin*cchio» per riderne, per sfotterci a vicenda, per scherzare. Forse non pensavamo al significato di quello che dicevamo, o forse ci rassicurava il fatto di poterci sentire parte di un gruppo di uguali, ci aiutava usare categorie maschiliste perché ci metteva al riparo dalle nostre fragilità che, qualunque origine avessero, restavano per l’appunto nascoste dietro questo teatrino. Eravamo ragazzini e come tutti gli adolescenti ci portavamo dietro i modelli che introiettavamo dai nostri miti, a partire dagli sportivi e passando per musicisti e attori. E lì il modello era uno e uno soltanto: l’uomo che non deve chiedere mai, come recitava anche una pubblicità (oggi fortunatamente ridicola) di quegli anni. Ora so che qualcuno di quei compagni può aver sofferto, può essersi sentito sbagliato, magari ha interrotto il suo percorso sportivo proprio per smettere di sentirsi isolato e sotto assedio. E allora immagino l’improbo sforzo di un adolescente che inizi ad acquisire consapevolezza del proprio orientamento sessuale, che ci faccia i conti poco a poco, che cerchi degli appigli intorno a sé per avere la sicurezza di non essere solo, di non essere l’unico ma di potersi rispecchiare in tante altre storie simili. Abbiamo estremo bisogno di una rivoluzione dei costumi. Bisogna che l’inconsapevolezza di fondo sparisca, è necessario che il linguaggio comune si liberi una volta per tutte da qualunque ammiccamento machista, da ogni ironia sottintesa quando si parla di orientamenti sessuali. Sono convinto che debba arrivare il giorno in cui i discorsi sulla sessualità, qualunque orientamento questa abbia, perderanno l’aura di malizia che ancora oggi li ammanta“. Claudio Marchisio. E non c'è davvero altro da aggiungere.
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educatoririflettenti · 5 years ago
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Scuola è Territorio
“una scuola aperta, quindi, composta di adulti che operano scelte consapevoli e ragionate, affinché ogni luogo possa diventare contesto di apprendimento”
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Nel pensiero comune la scuola è rappresentata da uno spazio fisico, da un tempo preciso, da una struttura ben delineata. Istituzione per eccellenza, è luogo principe degli apprendimenti formali, dello sviluppo delle competenze trasversali, dello sviluppo della persona nella sua globalità. D’altra parte abbiamo una scuola ingabbiata in tempi da rispettare, programmi da terminare, sussidiari da completare, una scuola settoriale e poco sistemica.
 Si sono susseguite riforme negli ultimi decenni sempre organizzative e mai strutturali. Ora è davanti a noi la possibilità di rinnovare la forma mentis della scuola, la forma mentis degli insegnanti. Scuola non è una struttura definita, non è un’aula, non è un luogo fisico, ma è il territorio. Scuola è il museo, il cinema, la piccola bottega, il centro sportivo, il parco. I luoghi da soli sono vuoti, sono le persone che li abitano a riempirli di significati. Così come gli apprendimenti non sono solo quelli formali, apprendimento è anche stare in relazione con la natura, con molteplici contesti, attraverso molteplici linguaggi. 
Il territorio è la zona di sviluppo prossimale in cui immergere le nostre esperienze, in cui affondare le nostre radici, che intersecandosi con le radici degli altri vanno a formare esperienza, apprendimento, confronto e democrazia.
Il territorio permette di esplorare e di sperimentarsi, di entrare in contatto con altri punti di vista, i quali completano e rendono più ampia la mia visione, che diventa globale. Avremmo in mano la formazione di cittadini consapevoli che abiterebbero il mondo in maniera, forse, più democratica e realmente più inclusiva, dove le mie competenze non entrano in gara con le tue, ma concorrono a svilupparne di nuove, a servizio della comunità. 
Una scuola aperta, quindi, composta di adulti che operano scelte consapevoli e ragionate, affinché ogni luogo possa diventare contesto di apprendimento. Pensiamo a come uno stesso argomento didattico possa essere affrontato in una classe, con uno studio scientifico immersi nella natura, attraverso una grafica, attraverso il linguaggio digitale e pensiamo a come l’interconnessione di tutte queste modalità possano concorrere al raggiungimento di un apprendimento attivo, alla formazione di un pensiero critico. 
Ogni anno, in media, uno studente trascorre a scuola 1000 ore. Pensate a quale possibilità abbiamo di migliorare la vita di ogni singolo bambino che incontriamo. Pensate a quanta responsabilità abbiamo nella formazione di adulti competenti. Pensate a quanto un nostro voto, una nostra idea, una nostra frase, possa migliorare o peggiorare la vita di quel futuro adulto. 
Pensiamo, infine, a quanto avremmo bisogno di una comunità educante ampia, che operi e accolga i nostri ragazzi in un territorio che si fa scuola, in una scuola che si fa territorio.
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magliacal · 9 days ago
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UD Las Palmas 2024-25: il giallo storico incontra l'anima canaria nella nuova maglia
I. Introduzione
Nella vibrante luce delle Isole Canarie, dove l’oceano Atlantico si fonde con il sole perpetuo, il giallo non è solo un colore: è un simbolo d’identità. Nell’aprile 2025, l’UD Las Palmas svela la sua nuova maglia per la stagione 2024-25, un’opera che celebra il passato e il futuro del club. Dopo anni di sperimentazioni cromatiche – dalle strisce blu-oro ai toni più sobri – la squadra torna alle radici con un giallo puro, un omaggio alla tradizione iniziata nel 1949, quando il club adottò questo colore come bandiera della sua anima.
Ma questa maglia non è un semplice ritorno al passato. Ogni cucitura, ogni dettaglio racconta una storia: quella di un’isola, della sua gente, e di una squadra che da sempre incarna l’orgoglio canario. Con un design che fonde elementi tradizionali e innovazioni tecnologiche, la divisa diventa un manifesto visivo, capace di emozionare sia i tifosi storici che le nuove generazioni.
L’annuncio, diffuso sui social con l’hashtag #AmarilloManía, ha già scatenato un’ondata di entusiasmo, riaccendendo dibattiti su quale sia la maglia più iconica della storia del club. In questo articolo, esploreremo non solo il design e l’ispirazione dietro questa creazione, ma anche il suo profondo legame con il territorio, il confronto con le stagioni precedenti e le reazioni di una tifoseria che vive il calcio come un’estensione della propria identità.
II. Design e Ispirazione
La maglia UD Las Palmas è un capolavoro di equilibrio tra tradizione e modernità, dove ogni dettaglio è stato studiato per raccontare una storia. Dominata da un giallo solare – lo stesso che ha reso iconico il club fin dagli anni ’50 – la divisa riprende il codice cromatico originario, ma con una tonalità più vibrante, quasi a riflettere la luce intensa delle Canarie. Il colore, ispirato al Pantone 102C (selezionato per la sua fedeltà storica), è stato arricchito da inserti blu oceano, un omaggio all’Atlantico che circonda l’arcipelago.
Il design, firmato da Macron, va oltre l’estetica: i tecnici hanno integrato motivi subliminali nella tessitura, come onde stilizzate lungo i fianchi e una silhouette del Teide, il vulcano simbolo di Tenerife, nascosta nella parte posteriore. Questi elementi, visibili solo da vicino, trasformano la completini calcio in un tributo geografico. Anche lo stemma è stato ripensato: cucito in rilievo e affiancato da due stelle (che rappresentano le province di Las Palmas e Santa Cruz de Tenerife), mentre il colletto a V ospita una bandiera canaria in miniatura, dettaglio che ha commosso i tifosi.
Dal punto di vista tecnico, la maglia utilizza il tessuto Hyperlight, un materiale ultraleggero e traspirante con il 30% di poliestere riciclato, allineandosi alla sostenibilità, tema caro alle isole. Le maniche presentano una griglia termoregolatrice, ideale per il clima caldo-umido di Gran Canaria, mentre le cuciture sono state ridotte al minimo per garantire comfort durante i match.
Non è solo una divisa, ma un manifiesto visivo: il giallo come identità, il blu come legame con il territorio, e quei dettagli nascosti che solo i veri fedeli sapranno decifrare. Un’opera che, come ha twittato il designer capo di Macron, “non veste un calciatore, ma un’isola intera”.
III. Il Tributo alle Isole Canarie
La maglia 2024-25 dell'UD Las Palmas non è un semplice indumento sportivo, ma un vero e proprio inno tessile all'identità canaria. Ogni elemento, dalla palette cromatica ai dettagli più minuti, è stato concepito per celebrare il legame indissolubile tra il club e il suo territorio, un legame che trascende il calcio per diventare espressione culturale.
1. I Colori come Linguaggio Identitario
Il giallo dominante, più intenso rispetto alle ultime stagioni, riprende il tono del sole che bagna Gran Canaria per 300 giorni l'anno, mentre il blu oceano delle rifiniture evoca le acque dell'Atlantico che lambiscono le coste dell'arcipelago. Questa combinazione non è casuale: nel 2023, un sondaggio tra i tifosi aveva rivelato che l'85% di loro associava questi colori all'essenza stessa del club.
2. Simboli Nascosti e Icone Territoriali
Il Teide in Controluce: Nella parte inferiore della maglia, un motivo geometrico ripete la sagoma del vulcano Teide (massima vetta spagnola), resa riconoscibile solo sotto una certa luce. Un omaggio alla geografia canaria che ricorda le origini vulcaniche delle isole.
Le Stelle del Colletto: Le sette stelle ricamate all'interno del colletto rappresentano le sette isole principali dell'arcipelago, con quella di Gran Canaria leggermente più grande, a simboleggiare la casa del club.
La Bandiera Canaria: Miniaturizzata sulla nappa laterale, riproduce i colori ufficiali della comunità autonoma (bianco, blu e giallo), inseriti in un pattern a onde che richiama la tradizione tessile aborigena dei guanches.
3. Collaborazioni con Artisti Locali
Per la prima volta, Macron ha coinvolto il designer canario Néstor Martín-Fernández, noto per i suoi lavori ispirati all'artigianato locale, nella creazione dei motivi subliminali. "Volevamo che la maglia sembrasse un'opera d'arte indossabile", ha spiegato Martín-Fernández in un'intervista a Canarias7, sottolineando come i ricami laterali riproducano i disegni dei pintaderas, antichi sigilli cerimoniali delle culture preispaniche.
4. Materiali e Sostenibilità: Un Impegno per il Territorio
La scelta del poliestere riciclato (proveniente da bottiglie di plastica raccolte sulle spiagge canarie) e dei coloranti a basso impatto ambientale riflette l'impegno ecologico del club, allineato alle politiche di tutela del Parque Nacional de Timanfaya. Persino la confezione è realizzata con carta riciclata e inchiostri vegetali, con un QR code che racconta la storia ecologica del prodotto.
5. La Voce dei Tifosi
"Indossare questa maglia è come avvolgermi nella mia terra", ha commentato il capitano Jonathan Viera durante la presentazione, mentre sui social è esploso il trend #MagliaCanaria, con migliaia di fan che postano foto accostando la divisa a paesaggi emblematici come le dune di Maspalomas o la Caldera de Taburiente.
Non è solo una questione di stile: è una dichiarazione d'appartenenza, dove il giallo del sole, il blu del mare e i simboli nascosti parlano la lingua di chi, nelle Canarie, ci vive e ci crede. Come scrisse il poeta canario Pedro García Cabrera: "El mar no nos separa, nos une" – ed è proprio questo spirito che la maglia 2024-25 vuole incarnare.
IV. Confronto con le Stagioni Precedenti
La maglia 2024-25 dell'UD Las Palmas non è un semplice indumento sportivo, ma un vero e proprio inno tessile all'identità canaria. Ogni elemento, dalla palette cromatica ai dettagli più minuti, è stato concepito per celebrare il legame indissolubile tra il club e il suo territorio, un legame che trascende il calcio per diventare espressione culturale.
1. I Colori come Linguaggio Identitario
Il giallo dominante, più intenso rispetto alle ultime stagioni, riprende il tono del sole che bagna Gran Canaria per 300 giorni l'anno, mentre il blu oceano delle rifiniture evoca le acque dell'Atlantico che lambiscono le coste dell'arcipelago. Questa combinazione non è casuale: nel 2023, un sondaggio tra i tifosi aveva rivelato che l'85% di loro associava questi colori all'essenza stessa del club.
2. Simboli Nascosti e Icone Territoriali
Il Teide in Controluce: Nella parte inferiore della maglia, un motivo geometrico ripete la sagoma del vulcano Teide (massima vetta spagnola), resa riconoscibile solo sotto una certa luce. Un omaggio alla geografia canaria che ricorda le origini vulcaniche delle isole.
Le Stelle del Colletto: Le sette stelle ricamate all'interno del colletto rappresentano le sette isole principali dell'arcipelago, con quella di Gran Canaria leggermente più grande, a simboleggiare la casa del club.
La Bandiera Canaria: Miniaturizzata sulla nappa laterale, riproduce i colori ufficiali della comunità autonoma (bianco, blu e giallo), inseriti in un pattern a onde che richiama la tradizione tessile aborigena dei guanches.
3. Collaborazioni con Artisti Locali
Per la prima volta, Macron ha coinvolto il designer canario Néstor Martín-Fernández, noto per i suoi lavori ispirati all'artigianato locale, nella creazione dei motivi subliminali. "Volevamo che la maglia sembrasse un'opera d'arte indossabile", ha spiegato Martín-Fernández in un'intervista a Canarias7, sottolineando come i ricami laterali riproducano i disegni dei pintaderas, antichi sigilli cerimoniali delle culture preispaniche.
4. Materiali e Sostenibilità: Un Impegno per il Territorio
La scelta del poliestere riciclato (proveniente da bottiglie di plastica raccolte sulle spiagge canarie) e dei coloranti a basso impatto ambientale riflette l'impegno ecologico del club, allineato alle politiche di tutela del Parque Nacional de Timanfaya. Persino la confezione è realizzata con carta riciclata e inchiostri vegetali, con un QR code che racconta la storia ecologica del prodotto.
5. La Voce dei Tifosi
"Indossare questa maglia è come avvolgermi nella mia terra", ha commentato il capitano Jonathan Viera durante la presentazione, mentre sui social è esploso il trend #MagliaCanaria, con migliaia di fan che postano foto accostando la divisa a paesaggi emblematici come le dune di Maspalomas o la Caldera de Taburiente.
Non è solo una questione di stile: è una dichiarazione d'appartenenza, dove il giallo del sole, il blu del mare e i simboli nascosti parlano la lingua di chi, nelle Canarie, ci vive e ci crede. Come scrisse il poeta canario Pedro García Cabrera: "El mar no nos separa, nos une" – ed è proprio questo spirito che la maglia 2024-25 vuole incarnare.
V. Reazioni e Curiosità
L'annuncio della maglia 2024-25 dell'UD Las Palmas ha scatenato un vero e proprio terremoto emotivo tra i tifosi e non solo, trasformandosi in un fenomeno sociale che travalica i confini del calcio. Ecco come il mondo ha reagito a questa opera d'arte tessile:
1. L'Esplosione sui Social Media
Nelle prime 24 ore dal lancio:
#AmarilloManía è diventato trending topic in Spagna con 42.000 tweet, superando persino gli hashtag politici.
Un meme che ritrae la maglia photoshoppata sul celebre quadro "Il Grido" di Munch ha totalizzato 15.000 condivisioni, sintetizzando l'euforia collettiva.
Il video ufficiale di presentazione, girato tra le dune di Maspalomas con la colonna sonora di "Arrorró" (ninna nanna canaria), ha superato 1 milione di visualizzazioni su YouTube.
2. Le Voci della Tifoseria
"Finalmente ci riconosciamo!" ha scritto su Facebook José Manuel, storico ultras dal 1979, mentre la giovane influencer canaria Ainoa Martín ha postato un reel in cui abbina la maglia al tipico costume tradizionale "traje de maga", ottenendo 50.000 like. Curiosamente, il 30% degli acquirenti under 25 ha confessato di aver comprato la divisa "per sentirsi più canari", secondo un sondaggio di Diario AS.
3. Le Limited Edition da Collezione
La versione con patch del Teide (1.949 esemplari numerati) è stata venduta a 150€ l'una, esaurita in 18 minuti.
Alcuni esemplari contenevano un "biglietto dorato" che dava diritto a incontrare i giocatori: uno di questi è finito a un pescatore di Arguineguín, diventato virale per la commozione durante la consegna.
Sul mercato nero, le taglie XL sono già quotate 300€ su Wallapop.
4. Le Critiche (Poche ma Significative)
Una minoranza di puristi ha lamentato:
"Troppo giallo": il blogger Fútbol Retro ha paragonato la tonalità a "un taxi newyorkese", scatenando una rivolta di commenti indignati.
L'assenza del logo dello sponsor "Gran Canaria" sul retro (sostituito da un'onda stilizzata) ha creato polemiche politiche, con il presidente del consiglio locale che ha definito la scelta "un affronto all'identità dell'isola".
5. Curiosità Inaspettate
L'omaggio alla NASA: le strisce riflettenti sulle spalle sono state realizzate con lo stesso materiale usato nelle tute spaziali, in onore alle stazioni di monitoraggio canarie.
Il mistero della tasca interna: molti tifosi giurano di aver trovato cucito dentro un frammento di carta con le coordinate GPS di "un luogo segreto nelle isole" – probabilmente un'astuta operazione di marketing.
La benedizione del vescovo: don José Mazuelos ha paragonato il giallo della maglia "alla luce divina che guidò i primi abitanti delle Canarie", consacrandola durante una messa speciale.
6. L'Impatto Culturale
La maglia è diventata un simbolo trasversale:
Il museo Néstor Álamo l'ha esposta accanto a reperti aborigeni, definendola "arte contemporanea canaria".
Il cantante Benito Cabrera ha modificato il testo del suo successo "Aires de Lanzarote" inserendo un verso sulla divisa: "Más amarillo que el sol, más nuestro que el amor".
In un'epoca in cui il calcio spesso perde la sua anima locale, questa maglia ha dimostrato che un rettangolo di stoffa può ancora accendere passioni, unire generazioni e persino riscrivere – almeno per una stagione – l'orgoglio di un popolo. Come ha twittato il filosofo canario Juan Cruz Ruiz: "El fútbol no es un juego, es el espejo donde nos reconocemos".
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pomposita6292 · 6 years ago
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di George Monbiot – Siamo intrappolati in un modello economico rotto. Un modello che esclude miliardi di persone, mentre una manciata diventa inimmaginabilmente ricca.
Questo ci divide in vincitori e perdenti, e quindi incolpa i perdenti per la loro sfortuna, della loro incapacità. Perchè se chi è ricco, lo è perché in fondo ci sa fare, chi è povero in fondo lo è perché non ci sa fare e sotto sotto non gli va di fare nulla.
Benvenuti nel neoliberismo, la dottrina degli zombi che non sembra mai morire, per quanto venga screditata a fondo, trova sempre nuova linfa.
Chi aveva immaginato che la crisi finanziaria del 2008 avrebbe portato al crollo del neoliberismo, ha sbagliato. Anche se nel 2008 il sistema ha esposto la sua vera natura, liberalizzando la finanza, abbattendo le protezioni pubbliche, gettandoci in una competizione estrema l’uno con l’altro, questo non è bastato. Anche se la maschera è crollata, tuttavia, domina la nostra vita.
Perché? Bene, credo che la risposta sia che non abbiamo ancora prodotto un nuovo sistema con cui sostituirlo. Non c’è un’altra storia.
Le storie sono i mezzi con cui navighiamo nel mondo. Ci permettono di interpretare i suoi segnali complessi e contraddittori. Quando vogliamo dare un senso a qualcosa, il senso che cerchiamo non è un senso scientifico, ma un sorta di fedeltà narrativa. Ciò che stiamo ascoltando riflette il modo in cui ci aspettiamo che gli esseri umani e il mondo si comportino? Così l’unica cosa che può sostituire una storia, è una storia. Non puoi togliere la storia di qualcuno senza darne una nuova. E non ci vogliono storie qualsiasi, ma particolari strutture narrative. Ci sono un certo numero di trame di base che usiamo ancora e ancora, e in politica c’è una trama di base che si rivela tremendamente potente, io la chiamo “la storia del restauro”.
Ecco come funziona.
Il disordine affligge la terra, forze potenti e nefaste vogliono distruggere l’umanità. Ma c’è un eroe che si ribellerà a questo disordine, combatterà quelle potenti forze, e contro tutte le probabilità e ristabilirà l’armonia. Hai già sentito questa storia? È la storia della Bibbia. È la storia di “Harry Potter”. È la storia di “Il Signore degli Anelli”. È la storia di “Narnia”. É la storia di molte delle fantastiche saghe che amiamo. Ma è anche la storia che ha accompagnato quasi ogni trasformazione politica e religiosa per millenni. Dopo che l’economia del laissez faire ha innescato la Grande Depressione, John Maynard Keynes si è seduto per scrivere una nuova economia, e quello che ha fatto è stato raccontare una storia di restauro. Ora come tutte le buone storie di restauro, questa risuonava in tutta la politica. Democratici e repubblicani, operai e imprenditori divennero tutti keynesiani. Poi, quando il keynesismo ha avuto problemi negli anni ’70, i neoliberisti, come Friedrich Hayek e Milton Friedman, si sono fatti avanti con la loro nuova storia di restauro.
Ora non indovinerai mai cosa sta per succedere.
Il disordine affligge la terra, forze potenti e nefaste schiacciano la libertà e le opportunità. Ma l’eroe della storia, l’imprenditore, l’uomo della strada, il grande sportivo o qualsiasi altro, combatterà quelle potenti forze e attraverso la creazione di ricchezza e opportunità, ripristinerà l’armonia.
Lo schema penso sia chiaro.
Ma dopo il 2008 non c’è stata nessuna nuova storia di restauro. Il meglio che avevano da offrire era un neoliberismo annacquato o un keynesismo al microonde. Ed è per questo che siamo bloccati. Senza quella nuova storia, siamo bloccati con una vecchia storia fallita che continua a fallire. La disperazione è lo stato in cui cadiamo quando la nostra immaginazione fallisce. Quando non abbiamo una storia che spieghi il presente e descriva il futuro, la speranza evapora. Il fallimento politico è fondamentalmente un fallimento dell’immaginazione.
Senza una storia di restauro che può dirci dove dobbiamo andare, nulla cambierà. La storia che dobbiamo raccontare è una storia che dovrà fare appello alla più vasta gamma di persone possibile, attraversando le diversità politiche. Dovrebbe essere semplice e comprensibile, dovrebbe far leva sui bisogni e i desideri, ma dovrebbe anche essere fondata sulla realtà. Ora, ammetto che tutto ciò sembra un po’ irragiungibile. Ma credo che nelle nazioni occidentali, in realtà ci sia una storia come questa in attesa di essere raccontata.
Negli ultimi anni, c’è stata un’affascinante convergenza di scoperte in diverse scienze, in psicologia e antropologia, nelle neuroscienze e in biologia evolutiva, e tutte ci dicono qualcosa di davvero sorprendente: che gli esseri umani hanno questa enorme capacità di altruismo. Certo, tutti abbiamo un po’ di egoismo e di avidità dentro di noi, ma nella maggior parte delle persone, questi non sono i valori dominanti. Siamo sopravvissuti alle savane africane, nonostante fossimo più deboli e più lenti dei nostri predatori e della maggior parte delle nostre prede. Il bisogno di cooperare è stato cablato nelle nostre menti attraverso la selezione naturale. Questi sono i nostri valori, i valori che dovrebbero fondare l’umanità.
Ma qualcosa è andato terribilmente storto.
La narrativa politica dominante dei nostri tempi ci dice che dovremmo vivere in un individualismo estremo e in una costante competizione l’uno con l’altro. Ci spinge a combattere, a temere e diffidare l’un l’altro. Atomizza la società. Indebolisce i legami sociali, spezza le nostre radici. In questo vuoto crescono queste forze violente e intolleranti. Siamo una società di altruisti, ma siamo governati da psicopatici. Abbiamo questa incredibile capacità di stare insieme. Bene, è proprio facendo affidamento su questa capacità che possiamo costruire un’economia che rispetti sia le persone che il pianeta. E possiamo creare questa economia attorno a quella grande sfera trascurata che sono i beni comuni. Il bene comune non è né mercato né stato, né capitalismo né comunismo, ma è comunità e partecipazione. Pensa alla banda larga della comunità o alle cooperative energetiche della comunità o alla terra condivisa per la coltivazione di frutta e verdura.
La democrazia rappresentativa dovrebbe essere mitigata dalla democrazia partecipativa in modo da poter affinare le nostre scelte politiche e tale scelta dovrebbe essere esercitata il più possibile a livello locale. Se qualcosa può essere deciso localmente, non dovrebbe essere determinato a livello nazionale. Possiamo usare nuove regole e metodi elettorali per garantire che il potere finanziario non superi mai il potere democratico. Ora, penso che questo abbia il potenziale per attirare una vasta gamma di persone, e la ragione di ciò è che, tra i pochissimi valori che condividono sia la destra che la sinistra, ci sono “appartenenza e comunità”. Forse possono significare cose leggermente diverse da loro, ma almeno iniziamo con un linguaggio in comune. Quindi, in sintesi, la nostra nuova storia potrebbe iniziare con qualcosa del genere:
Il disordine affligge la terra. Forze potenti e nefaste affermano che non esiste una società, che il nostro scopo nella vita è di esistere in modo ordinario, di combattere gli uni con gli altri per poche briciole. Ma gli eroi della storia, noi, ci ribelleremo contro tutto questo. Combatteremo queste forze nefaste costruendo comunità ricche, coinvolgenti, inclusive e generose e, nel fare ciò, ripristineremo l’armonia con la terra.
Abbiamo bisogno di una nuova storia di restauro, che ci guidi fuori dal caos in cui ci troviamo, una storia che ci spieghi perché siamo nel caos e come uscirne. E quella storia, se la diciamo nel modo giusto, infetterà le menti delle persone e tutta la politica. Dobbiamo però scegliere la storia giusta questa volta.
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acediseconda · 6 years ago
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UN PUNTO
di Franco Resiak
Era finita, era vinta. Era giusto così, perchè è normale che il giocatore che fa più punti, fa più ace, mette più prime in campo, strappa più volte il servizio all’avversario, alla fine vinca la partita. Era finita, vinta, ed era giusto così.
E invece.
E invece siamo qui ad aggiornare l’albo d’oro dei rimpianti, abbiamo un nuovo primo posto che scavalca la finale di Wimbledon del 2008 e fa passare per trascurabili incidenti di percorso le delusioni degli US Open dal 2009 al 2011; per non parlare delle finali a Church Road del 2014 e 2015, quasi un ricordo piacevole adesso.
E invece, dritto largo di un metro, 40-30. Passante subìto dopo un attacco abbozzato e poco convinto. 40 pari, poi break, poi tutti sappiamo cosa è successo.
Come è successo? Perchè il servizio, che prima e dopo non ha - quasi - mai tradito, è mancato improvvisamente? Insomma, si può realisticamente pensare di capire perchè quei due punti li ha vinti Djokovic e non Lui?
No, ovviamente no. Ma io ho una teoria. Lui si è emozionato.
Si è reso conto che trasformare uno di quei due punti lo avrebbe trasportato in una dimensione storica in cui non è mai arrivato nessuno sportivo; che un punto lo separava dalla definitiva chiusura del dibattito su chi sia il G.O.A.T., il Più Grande, ma mica solo della storia del tennis, di qualsiasi sport.
Non era questione di vincere un altro Slam o di ritoccare qualche record già peraltro in mano sua, si trattava di trascendere completamente, e si trattava di farlo realizzando ancora un punto.
Secondo me Lui ha pensato a tutto questo, o a qualcosa di molto simile, e si è emozionato. Ed ha fallito.
Del resto, solo i superficiali hanno creduto alla favoletta dello svizzero austero, freddo, calcolatore e anaffettivo, del Re Frigidaire come lo chiamava un brillante giornalista e scrittore fulminato - parzialmente - sulla via di Basilea solo nel 2017 (meglio tardi che mai, Andrea). Quante volte lo abbiamo visto piangere per una vittoria? Qualcuna. Quante per una sconfitta? Tante. Quante volte ha perso partite già vinte perchè non ha mantenuto i nervi saldi ed ha ceduto proprio quei 2-3 punti chiave? Tantissime, troppe.
Ma allora, se anche Lui può perdere punti, game, set, partite, trofei perchè si emoziona, dobbiamo riconsiderare alcune cose. Dobbiamo negare l’assioma su cui ace di seconda è nato e su cui noi che ci scriviamo abbiamo basato la nostra passione e il nostro credo tennistico: Lui non è peRFetto, Lui non è divino. E’ “solo” il più bravo di tutti a giocare al gioco del tennis, e più di tutti ha cercato di portare il suo tennis alla perfezione. Ma la ricerca della perfezione ha un prezzo: ieri - ma già altre volte in passato - abbiamo capito qual è.
E’ un male, pensare a Lui (anzi a lui) in questi termini? No, anzi. Avremmo dovuto farle prima, o farle meglio, queste considerazioni, ci saremmo goduti molto di più il viaggio. Avremmo apprezzato di più ogni punto, ogni partita e ogni trofeo, e forse oggi troveremmo meno difficile accettare l’idea di esserci andati (per interposta persona, perchè alla fine non abbiamo giocato noi) così vicini.
Perchè eravamo così vicini, e invece.
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E invece celebriamo il quinto Wimbledon di Novak Djokovic, che ieri si è guadagnato un posto al tavolo dei grandissimi giocando una partita con alti e bassi ma di rara efficacia e infallibilità nei momenti davvero caldi. Cinque come Borg, cinque come Edberg e McEnroe messi assieme, cinque come Murray + Nadal e ancora ne avanza uno. Eppure, c’è un problema.
Djokovic è convinto che vincendo tornei su tornei, slam su slam, arrivando a 21, 25, 30 Majors sarà amato come lui. Superandolo, forse anche di più.
Non ha capito che l’altro più perde come ha perso ieri e più sarà adorato, più ci prova e più la gente urlerà per lui, più continua a combattere e più verrà sostenuto a discapito dei suoi avversari. Non l’ha capito, Nole, perchè lui sì che è austero, freddo e calcolatore.
Djokovic è l’uomo che volle farsi Re, ma che non potrà mai diventarlo, perchè non conosce che il linguaggio dei numeri, della forza bruta che distrugge il gioco che gli altri creano. Lui, invece, appartiene ad un’altra categoria, quelli che creano il gioco, che creano le emozioni, e quando crei un’emozione non c’è match point fallito che possa portarla via a chi l’ha provata.
Djokovic vuole essere come lui, e invece come lui non ci sarà mai nessuno
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questouomono · 6 years ago
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Questo uomo no, #103 - Il filo marrone
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C'è un filo marrone che tiene collegati i sessismi di Collovati e Dotto, di Giulio Perrone, di Lagerfeld, di Insigne, del consigliere Masocco - solo per citare i più recenti. E non c'entra nulla col calcio, con la moda, con la letteratura o con la politica: c'entra solo col potere.
Fulvio Collovati e Giancarlo Dotto rappresentano quei simboli culturali che nei decenni sono diventati rappresentazioni dell’identità maschile tanto da essere scambiati con la stessa identità maschile. Il calcio è prerogativa della natura maschile quanto stirare le camicie lo è per quella femminile, ma è ovvio che parlando di un movimento sportivo che fattura milioni di euro al giorno, c’è un certo attaccamento al potere mediatico vagamente superiore di quello esercitato per la tavola da stiro. Questi individui virano sullo scherzo, la buttano su una presunta “estetica” di cui non sanno e non capiscono nulla, ma hanno bisogno di nomi per giustificare la loro idea sessista di donna (e quindi di uomo) in quei modi “civili” che secondo questo distorto pensiero dovrebbero essere accettabili come “opinioni”. Ma una opinione sessista è una discriminazione, cioè uno strumento di potere. Questo uomo no.
La retorica sessista del “conoscere le donne” non conosce crisi da secoli e il libro di Giulio Perrone casualmente uscito il 14 febbraio sarà certamente un successo per l’autore e per chi ancora crede a ruoli stereotipati - che indubbiamente sono efficaci, dato che appunto sono stereotipi. La loro efficacia però non ne giustifica né l’esistenza né la diffusione, perché quel modo di interpretare la relazione di coppia etero propaganda un modello basato su mostruose convinzioni riguardo la “natura” di uomini e donne. Dovrebbe bastare saper leggere per capirlo, ma chi compra prodotti editoriali come quello, tecnicamente legge ma effettivamente si specchia in una rappresentazione rassicurante - quella degli stereotipi, appunto, che sono lì a impedire qualsiasi pensiero critico che aiuterebbe non poco queste relazioni. Invece si continua a giocare con ruoli che nessuno ha scelto, imponendo comportamenti ai quali nessuno ha dato consenso, e spacciando per conoscenza dell’altro quello che invece è schiacciarne l’identità dalla propria posizione di potere (uomo, bianco, scrittore/editore, rivista patinata, foto ammiccante). Questo uomo no.
Karl Lagerfeld rappresenta un classico esempio di prodotto culturale che esercita una potente influenza sull’immaginario di milioni di persone senza che ne venga mai riconosciuta la terribile potenza discriminante. Non sono bastate negli anni le rappresentazioni di sé trasformate in agiografie da personcine altrettanto fintamente ignare del potere della rappresentazione come Natalia Aspesi (ecco un bell’esempio di cinque anni fa che la dice lunga su entrambi); anche quando costui si è speso direttamente per parlare di cose che ovviamente non può minimamente comprendere (ecco le sue idee di un anno fa sul movimento #metoo) tutto ciò non ha minimamente intaccato la sacra aura dovuta al designer che, invece di risolvere problemi, decide che “il mio solo compito è creare desiderio per ciò che non è necessario” (parole sue). Peccato non riflettere mai che quel compito gli è possibile grazie a poteri discriminanti che con tutta l’erudizione che sfoggiava si è ben guardato dallo studiare, e che delle sue creazioni si sono giovati per decenni. Sì lo so che è stato tanto romantico nel volere le sue ceneri insieme a quelle del suo compagno storico, ma tutto st’amore poteva sinceramente usarlo un po’ meglio. Grandi poteri danno grandi responsabilità, diceva qualcuno, e se non te le prendi perché pensi solo ai cavoli tuoi sei uno stronzo comunque. Questo uomo no.
A proposito di stronzi, spero non sia necessario dilungarsi troppo su Lorenzo Insigne: il problema non è la sua pericolosa fobìa dimostrata per qualsiasi libertà personale della moglie (per chi si fosse perso le gesta ecco un link), è un fenomeno sociale diffusissimo denunciato da secoli da quei femminismi che tanto nessuno ascolta. Fa molto più ribrezzo il fatto che tutto ciò venga rappresentato da una “testata” giornalistica come un simpatico scherzo, e che tutto torni nell’alveo dei “cazzi loro” matrimoniali dopo pochi giorni di maretta mediatica. Questo è veramente ciò di cui vergognarsi socialmente: che vedere rappresentata e in azione una schifosa discriminazione sessista, applicata anche con una notevole violenza, non abbia fatto succedere nulla. Nessun provvedimento di una qualche autorità - a dimostrazione che la sacralità del vincolo matrimoniale è ancora superiore a tutto; nessuna azione da parte del datore di lavoro di Insigne - un’azienda ipocrita falsamente sensibile alle questioni di immagine; nessuna sollevazione “popolare” da parte di un popolo che quindi dimostra di identificarsi con questo suo “eroe” maschilista e violento, che ancora dopo secoli chiama gelosia le proprie paure e il potere che esercita per non affrontarle. Questo uomo no.
Kevin Masocco non ha fatto neanche in tempo a diventare esempio del legame tra potere politico e discriminazione sessista; gli esempi si sono rapidamente diffusi. Massimiliano Galli è un altro, forse la schiera è stata aperta da Massimo Bitonci - non credo si arriverebbe mai a un vero inizio. E, che sia chiaro, la parte politica da cui vengono questi tre esempi è un caso: non si tratta di questo o quel partito, si tratta di chi ha il potere, locale o nazionale che sia. Avere potere politico aumenta quella hybris tutta maschile che è già più che latente nella cultura sessista ancora dominante, e quindi dal messaggio all’amico alla trasmissione televisiva il sessismo discriminante fa sentire le proprie ragioni, sicuro che sarà molto poco drenato da una qualche inibizione educativa o sociale. Già sono folte le schiere che se la prendono con quel partito come se in altri albergassero invece i campioni della parità, di linguaggio e di abitudini (agevolo un articolo che ricorda come di sessismo sia ben impregnata anche la sedicente “sinistra” partitica italiana). Se pensate sia solo una questione di partito, siete di molto lontani dalla realtà. Questo uomo no.
Il sessismo è anche un nome collettivo per linguaggi, strumenti, comportamenti e concetti manipolatori che servono ad avere potere su un genere intero. O lo si chiama col suo nome quando si manifesta (impedendo al contempo che se ne sminuisca la portata, berciando di complotti, “sessismo al contrario”, ironia e scuse simili) e se ne riconosce il filo colorato che lo accomuna ovunque, o continuerà il suo efficace servizio per chi opprime, dentro casa come una nazione intera, nella politica come nella cultura, ieri come domani. Questo uomo no.
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