#libri di scrittori giapponesi
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Pierre Le-Tan Album
Dirécteur ouvrage : Frank Maubert
Aubier, Paris 1990, 158 pages, 23,5x31cm, ISBN 2-7007-2838-6
euro 520,00
email if you want to buy [email protected]
“I suoi disegni devono essere letti e le sue parole devono essere viste“, dice di Pierre l’amico e scrittore Umberto Pasti. E’ un privilegio entrare, seppur virtualmente, nella casa studio parigina – un tempo pied-a-terre di Jean Cocteau – di Pierre Le-Tan (1950-2019), illustratore e artista, nato a Parigi da padre vietnamita e madre francese.
E’ dal padre, pittore e figlio di un nobile tonkinese, che Le-Tan impara a disegnare, appassionandosi presto all’amore per i libri antichi e le stampe giapponesi e cinesi. Tanto che – ancora adolescente – Le-Tan è incaricato dal New Yorker Magazine di creare una copertina, opera che segna l’inizio di una lunga e fruttuosa collaborazione editoriale anche con molte altre pubblicazioni, da Vogue e Harper’s Bazaar. Per il New Yorker Pierre realizza 18 copertine.
In oltre 50 anni di lavoro la creatività di Le-Tan si arricchisce, spaziando dalla scenografia per il cinema e il teatro, alla collaborazione con la casa di moda parigina di sua figlia Olympia, ma soprattutto eccelle nella invenzione di oltre 100 copertine di libri e poster di film. Il lavoro di Le-Tan è stato esposto nelle gallerie di tutto il mondo; nel 2004 è stato oggetto di una retrospettiva al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid. Ha realizzato copertine per libri di scrittori noti, come il romanziere premio Nobel Patrick Modiano.
La prosa malinconica di Modiano è perfetta per le riflessioni di Le-Tan spesso rivolte ad una Parigi dimenticata, piena di personaggi strani e fascinosi. Una delle pubblicazioni di Le-Tan, “Album” (1990), traduce al meglio il suo stile intimo e insieme eclettico: un “album” pieno di ricordi, di Greta Garbo, Christian Lacroix, Mick Jagger, foto di vecchi amici, centinaia di disegni che raccontano della gita a casa di Cecil Beaton, a un portasigarette realizzato da Picasso, alle scarpe di Cardin, a una sedia che proviene dalla Reggia di Versailles.
30/05/24
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Palmeri Fabiola, A ogni gatto il suo autore. Gatti e scrittori del Giappone contemporaneo, Lindau, 2022
scheda dell’editore https://www.lindau.it/Libri/A-ogni-gatto-il-suo-autore Dieci milioni di gatti abitano nelle case giapponesi, a testimonianza di una relazione che si è evoluta nei secoli. I primi arrivarono via nave dalla Cina insieme ai testi dei sutra buddhisti e vennero amati dagli aristocratici della corte di Kyōtō, prima di divenire gli attuali gatti domestici presenti un po’ ovunque,…
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5 libri sul Giappone di scrittori giapponesi per scoprirne la vera cultura
5 #libri sul #Giappone di scrittori giapponesi per scoprirne la vera cultura
5 libri sul Giappone di scrittori giapponesi Voglia di Giappone autentico ma per il momento non si può raggiungere? Cosa c’è di meglio di un libro per immergersi totalmente in qualcosa che non possiamo vedere ma solo sognare? Ci sono alcuni scrittori giapponesi che sono perfetti da leggere per immergersi nell’affascinante cultura nipponica. Così ricca di onore, drammi, figure tormentate e grandi…
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Mishima 50: la spada, la vita in vendita, il volo sull’F-104
Yukio Mishima avrebbe voluto che la sua opera fosse riletta a partire dall’ultimo atto, dallo scatto, il suicidio rituale accaduto il 25 novembre del 1970. Gli scritti – una mole impressionante di scritti, tra romanzi e intenzioni – riassunti in un gesto, in un fendente. Il fatto che il suicidio rituale ordito da Mishima si sia svolto in forme grottesche, violacee, con rari complici, alimenta, a contrario, il senso del martirio. Una vita si riassume in una terzina – sintesi verbale propria di Dante – cioè in una scelta, in un singolo, definitivo azzardo; l’opera serve per scemare in labirinto il banale, il brutale. D’altronde, si scrive con l’intenzione – per quanto remota, velata, dimenticata – di vincere la morte; scagliandosi nel morire.
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Esteta della forma letteraria, Mishima lo diventa della forma fisica – egli cerca far aderire la carne al verbo. Quanto più la sua opera si dilata – la quadrilogia terminale – tanto più il corpo si fa asciutto, la decisione esatta, un punto. L’opera si divarica, ramificandosi; il corpo si concentra in un singolo gesto. Il giorno della morte, per Mishima, coincide con quello della vita, con la fine del ciclo “Il mare della fertilità”. La morte fertilizza la vita, è fertile.
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L’opera disattende sempre le intenzioni dell’autore. In Mishima questo accade in forma miliare. “Il mare della fertilità” non è il suo capolavoro – a parti meravigliose se ne alternano altre faticose. È l’opera, però, gravida di conseguenze – infine, non si scrive per dilettare ma per dilaniare. Avventarsi verso di sé, sventrandosi: lo scrittore, di suo, non ostenta la bella mente ma le viscere, che puzzano.
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Vita in vendita, romanzo laterale di YM, dovrebbe uscire per Feltrinelli nella traduzione di Giorgio Amitrano; è uscito negli Stati Uniti con una certa rilevanza – riporto, in basso, la recensione del “NY Times”. Il tema è determinante, la data palpita. Il protagonista, afflitto da nichilismo postmoderno, mette in vendita la sua vita. Per lui la morte è un gioco, la vita un peso: diversi danarosi lo affittano; ma lui non muore mai. Non riesce mai a morire. Il tema è sorprendente: in verità abbiamo svenduto la vita al re del mondo, non siamo in grado di giocare l’esistere fino all’abisso, fino all’urlo. Mishima inscena una specie di personaggio di Dostoevskij, radioso nel grottesco. Il sesso perturba e disturba – il protagonista viene comprato da un vecchio magnate per diventare l’amante della moglie, giovanissima, che se la fa con un mafioso: l’intento è provocare una gelosia assassina –, e di ogni relazione Mishima disseziona il mostro.
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Mishima atterra per la prima volta negli Stati Uniti nel 1951 – rifiuto e fascino si mescolano. Vi si trasferisce, per sei mesi, nel 1957, tentando la fama teatrale (conosce Tennessee Williams, tra l’altro). Andrà meglio dal 1960: i suoi libri vengono tradotti, le pièce messe in scena e lui diventa un ‘personaggio’, come vuole la tradizione americana. Vite in vendita esce, a puntate, su “Playboy” nel 1968. Nello stesso anno lo scrittore, icona anticonformista, scrive Sulla difesa della cultura: da una parte insiste sulla libertà di pensiero, sull’individualismo sovrano, contro ogni regime totalitario; dall’altra sul legame con la tradizione. “Il comunismo è quindi inconciliabile con la cultura giapponese perché nega la figura imperiale, garante della continuità storica e dell’unità culturale e razziale dei giapponesi” (Virginia Sica). Mishima è divisivo, come una spada: non soddisfa gli studenti di sinistra né gli organici di destra; di certo, il Nobel per la letteratura, a causa delle sue posizioni, sfuma, assegnato al suo maestro, Yasunari Kawabata.
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In una lettera a Kawabata, nell’anno in cui scrive Vita in vendita, di ritorno da un viaggio in India – Mishima non viaggia per assistere, per vedere, ma per cercare –, la certezza dell’opera. “Saranno circa milleduecento pagine, e devo scriverne ancora quasi trecento per raggiungere la metà. Mi sono gettato in un’impresa troppo audace”. L’audacia del lavoro solitario – un allenamento – scandisce la distanza dal mondo degli intellettuali, apice della decadenza, etica in melma: “Nell’evoluzione che si delinea in Giappone e nei giapponesi, in particolar modo tra gli intellettuali, sono numerosissimi gli aspetti che mi disgustano, e considero spaventoso il torpore che regna persino negli ambienti letterari”. Disgusto, torpore: la consuetudine tarpa le ali all’opera, si alimenta di chiacchiere, alienata dal sacro. “Il mio recente volo a bordo di un caccia supersonico F-104 è stato un’esperienza esaltante”, scrive, infine, a Kawabata. Eccolo, Mishima. Il volo. L’acciaio dell’esistere. L’ebbrezza che salda l’opera. Eccedenza di vita che ci concede alla morte: tra la spada che falcia la carne e la velocità del suono l’esegesi è la rinascita. (d.b.)
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Come molti grandi e prolifici scrittori, Yukio Mishima organizzava il proprio tempo. I romanzi più importanti, tra cui la tetralogia “Il mare della fertilità”, sono opere di rilievo, colme della sua ideologia nazionalista, di destra, ma anche di abissi, di profondità universali. Sono questi i libri che lo hanno portato per tre volte alla candidatura al Nobel per la letteratura. Vita in vendita [“Life for Sale”] è tra quei lavori che Mishima ha definito “minori”, seriali. Ne scrisse diciassette in vent’anni. Vita in vendita è l’ultimo, pubblicato nel 1968.
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“Nel migliore dei casi erano pietre senza valore, abilmente tagliate e lucidate. Lo stesso Mishima disprezzava quei romanzi, quando li finiva era impermeabile alle critiche nei loro riguardi”, scrive John Nathan, biografo di Mishima. Lo scrittore disprezzava questi libri come Graham Greene i suoi “divertimenti”, eppure, ci sono echi di inquietudini profonde che vanno al di là delle parole dell’autore.
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Mishima, come si sa, muore uccidendosi, nel 1970, dopo aver preso d’assalto un quartier generale militare, con alcuni membri del suo esercito, pronunciando un discorso in virtù del ritorno delle antiche tradizioni del Giappone; infine, realizzando il seppuku, l’antico rituale samurai di suicidio per sventramento. Hanio Yamada, giovane copywriter protagonista di Vita in vendita, tenta il suicidio per ragioni molto meno ideologiche o eroiche di Mishima. In effetti, non ha alcuna motivazione. “Se fosse stato costretto a trovare una ragione, avrebbe potuto concludere che voleva uccidersi per capriccio”. Dopo aver fallito nel suo tentativo, inserisce un annuncio su un giornale locale: “Vita in vendita. Usami come desideri. Sono maschio, ho 27 anni. Discrezione garantita. Non causerò alcun disturbo”.
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La prima persona a rispondere all’annuncio è un vecchio la cui moglie, molto giovane, ha avuto una relazione con un mafioso. “Le chiedo di conoscere mia moglie, di diventare il suo amante, di assicurarsi che il mafioso vi rintracci. Egli, probabilmente, vi ammazzerà. È disposto a morire così per me?”. Hanio riesce a fare tutto tranne che morire. E presto scopre che si guadagna meglio con tizi simili che non lavorando. Vita in vendita è stato pubblicato a puntate su “Playboy”, ha ritmo, soprattutto nelle scene in cui Hanio, di fronte a diverse disavventure, riesce comunque a cavarsela.
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Sono la velocità e la stravaganza del libro a renderlo affascinante. “Ho sempre voluto avere un gatto siamese come animale domestico, ma non ci sono mai riuscito”, dice Hanio a un cliente. “Quando sarò morto le sarei grato se potesse prenderne uno e occuparsene, come se fosse mio”. A un cliente suggerisce di usare i soldi che gli avrebbe pagato qualora fosse morto “per comprare un coccodrillo o un gorilla: così, ogni volta che guarderà i suoi occhi si ricorderà di me”.
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Il romanzo, pur felice, ha sfumature cupe, esistenziali. “Una volta che il mondo è stato trasformato in qualcosa che ha senso, alcuni pensano di poter morire senza rimpianti. Altri pensano che siamo in un mondo privo di senso, quindi perché vivere? Dove convergono queste due opinioni?”. Anche in un’opera eccentrica come questa, sono presenti molti dei temi cari a Mishima: la ragione per vivere e morire, la pulsione di morte, l’erotismo del morire, la modernizzazione, l’occidentalizzazione del Giappone”.
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La natura della morte di Mishima getta un’ombra su tutto ciò che ha scritto. “La tua prontezza di fronte alla morte è encomiabile. Hai il cuore e l’anima di un guerriero”, dice un personaggio a Hanio. Sono parole che si adattano perfettamente alla visione del mondo di Mishima. Ma l’ossessione di Hanio per la morte è spensierata, priva di ombre. Soltanto due anni prima della sua morte, Mishima faceva dire al suo personaggio qualcosa di sottilmente comico: “C’era qualcosa di divertente, non poteva essere disturbato proprio ora per combattere”.
John Williams
*Si riproduce parte della recensione di John Williams, pubblicata sul “New York Times” come “An Absurdist Noir Novel Shows Yukio Mishima’s Lighter Side”
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Il suono della montagna ⛰ commento 📖
Era tanto che non odiavo così tanto un libro e questo l’ho odiato profondamente soprattutto verso la fine ma vediamo perché.
Innanzitutto ho avuto la necessità di scrivermi l’elenco dei personaggi perché cominciavao a non capirci più niente purtroppo i nomi giapponesi ancora non riesco ad assimilarli e a distinguerli a colpo d’occhio. I personaggi se non vengono caratterizzati per bene mi risultano tutti una folla indistinta e questo è successo.
Shingo protagonista padre Yasuko moglie di Shingo Fusako figlia di Shingo Aihara ex marito di Fusako Satoko figlia di Fusako Kuniko figlia minore di Fusako Shuichi figlio di Shingo Kikuko moglie di Shuichi Kinuko amante di Shuichi Ikeda amica di Kuniko Eiko la segretaria
I personaggi sono tutti distaccati freddi e purtroppo sembrano realistici, tanto realistici quanto antipatici e invadenti. L’idea di famiglia che se ne ha è asfissiante, un gruppo che ti avviluppa e ti controlla in ogni tua mossa, più che appoggio sembra impartizione infinita di regole predefinite con conseguente incapacità di fare le proprie scelte e avere una vita privata.
Il libro non ha una grande storia la trama è quasi assente il protagonista è Shingo un vecchio padre di famiglia che comincia a sentire la vecchiaia e a scordarsi le cose ma nonostante tutto analizza e controlla la famiglia con scrupolo e perversione. Anche se non mi piace la struttura del libro con grandi digressioni riflessioni dialoghi banali ho apprezzato la necessità dello scrittore di scrivere anche se non mi è stato molto chiaro come è possibile che abbia vinto anche un Nobel per la letteratura. Come già mi è capitato leggendo altri libri di scrittori giapponesi sento un po’ di insofferenza per le usanze giapponesi completamente diverse dalle nostre e che mi lasciano un po’ sgomenta anche se mi credo (credo e spero) di ampie vedute. Per esempio nella vita di tutti i giorni è normale per i vari personaggi parlare di conoscenti amici e persone note che si sono suicidate! Se nella nostra società il suicidio è quasi un tabù e non si può neanche considerare, da loro viene preso come una scelta di vita tanto che spesso viene fatto in coppia, e anche questa doppia scelta di morte viene accettata come se fosse una cosa normale, due coniugi decidono di uccidersi insieme. Sembra quasi un film dell’orrore… E anche questo loro distacco e incapacità di empatia mi ha dato un po’ prima i brividi e poi anche i nervi.
Il protagonista continua a non farsi i fatti suoi su tutta la famiglia, premura ok ma questa è intrusione, mi ha lasciato la sensazione di trappola. Il protagonista non riesce ad aiutare in modo distaccato i figli. Per esempio la figlia che si è separata dal marito è andato a vivere da loro con le sue due figlie e lui la controlla le dice cosa fare si intromette quando avrebbe dovuto solo dirle io sono qui.
La cosa più odiosa però che ha raggiunto livelli inimmaginabili e insopportabili è stato il rapporto del padre con il figlio maschio. Come è possibile che un padre sa che il figlio ha un’amante e con lui ne discuta? Inoltre lo sa tutta la famiglia e il padre ne parla con tutti!! Il padre non solo lo sapeva ma indagava costantemente anche grazie alla sua segretaria in quanto il figlio aveva trovato l’amante dove lavorava il padre. Come è possibile che il padre e di conseguenza tutta la famiglia poi sapeva anche che la moglie del figlio sapeva dell’amante e proprio per questo aveva deciso di abortire! Discussioni raccapriccianti! Questa storia del triangolo e delle conseguenze sarebbe potuta anche essere interessante ma non dal punto di vista del padre!! L’esasperante onniscienza di questa figura di questo vecchio pervertito mi ha dato sui nervi. Ma non è finita qui!! La parte più detestabile ancora deve venire. Sempre grazie alla segretaria il padre scopre che anche l’amante del figlio era rimasta incinta. Allora lui si è allarmato perché se da una parte non ha potuto fare a meno di rimpiangere quel nipote che non aveva potuto avere dall’altra gli è venuta l’angoscia per quel nipote bastardo che poteva avere! Allora cosa fa il padre? Va dall’amante (è già anche qui siamo ben oltre l’accettazione) e le dice di abortire! Sono diventata furibonda! Era da tanto che un libro non mi faceva incazzare così! Si può apprezzare l’apertura mentale giapponese che già negli anni 50 accettava l’aborto ma questa situazione non riesco ad accettarla. Io ho sempre pensato che una donna deve avere la possibilità di scegliere se andare avanti con la gravidanza o meno ma che un uomo vada ad obbligare una donna che tra l’altro non è neanche la sua compagna ad abortire non si può sentire! E questo ci voleva pure avere ragione! E lo scrittore ha anche vinto un nobel!! Complimenti! Che rabbia che ho provato! Questa donna gli ha dato però il benservito e ne sono contenta! Ho esultato! Dopo aver tenuto testa al pare dell’amante se ne è andata via e ha cambiato città insieme alla segretaria perché pure la segretaria aveva capito che era gente poco raccomandabile. La donna aveva anche assicurato tutti che si sarebbe tenuta il figlio senza dare fastidio anche perchè i due amanti si erano lasciati. E questo vecchio stava lì ad insistere dai abortisci, da matti. Uno che va a casa di una per dirle tu devi abortire magari anche con un alto livelli cortesia. Non vedevo l’ora che finiva il libro e per fortuna mancavano pochissime pagine!
Tra l’altro un argomento che mi ha dato piuttosto fastidio è stata la misoginia spesso presente tra le righe mai esplicita ma neanche troppo velata. Basti pensare che ci si è riferiti alle donne come isteriche in più di una volta anzi le donne si sono autoproclamate isteriche come per descrivere la loro situazione. Non c’è niente di peggio di uno scrittore che fa dire ad una donna sono isterica!
Per concludere: non leggerò mai più un libro di questo scrittore, è stato difficile arrivare fino alla fine e questo personaggio è uno dei più detestabili che abbia mai letto! Ho apprezzato la sua necessità di scrivere dello scrittore e il suo farci capire come vanno le cose in Giappone e qual è la mentalità ma ho trovato queste vicende snervanti: un libro da dimenticare!
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"Lo squalificato" (1948), uno dei romanzi più celebri del Ventesimo secolo, narra la storia di un disegnatore, Yozo, che sentendosi rifiutato dalla società, vive una condizione esistenziale di estrema solitudine. Ciò che rende intensamente suggestive le pagliacciate escogitate da Yozo per sopravvivere tra i suoi simili, patetici i suoi tentativi di dedicarsi alla politica e tormentosi i suoi rapporti con le donne, è il senso di insuperabile ambiguità che domina l'intera esperienza da lui vissuta, in bilico tra il piacere di infrangere il codice sociale e il sentimento di colpa per non sapersi adeguare a esso. La squalifica alla quale è condannato Yozo acquista un senso diverso solo dopo la sua morte, quando l'autore sposta sapientemente il punto di vista narrativo fuori dalla coscienza del protagonista. Questo libro è simbolo della situazione in cui si sono trovati gli scrittori giapponesi dopo la Seconda guerra mondiale: estraniatisi dalle loro stesse tradizioni, essi riflettono un disagio e uno smarrimento spirituale che li rende vicinissimi ai temi più attuali delle letterature occidentali. . . . . . #osamudazai #libro #libri #libros #libreria #librodelgiorno #libriconsigliati #librodaleggere #libridaleggere #consiglidilettura #book #books #bookstagram #autore #scrittore #giappone (presso Omori-Cho) https://www.instagram.com/p/CPiH_QaFD-z/?utm_medium=tumblr
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🇮🇹 Non vedo l'ora di iniziare questo piccolo gioiellino. Dazai Osamu è uno dei miei scrittori giapponesi preferiti anche se non é molto conosciuto al grande pubblico. In questa opera riscrive racconti classici della tradizione giapponese in chiave moderna e ironica buttando i personaggi nei drammi della vita reale. 🇬🇧 I can't wait to read this little gem by one of my favourite japanese author less known to the public, Dazai Osamu. The book is a modern ironic retelling of japanese traditional stories where the characters have to face real life's complications and drama. #books #instabooks #bookstagram #bookphotography #japan #japaneseliterature #bookish #bookoftheday #bookworm #booklover #hokusai #libri #lettura #leggere #recommend #dazaiosamu #fancyfan
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Valentina Mendicino illustratrice londinese!
Mi chiamo Valentina Mendicino, ho 34 anni e da circa 12 anni lavoro come illustratrice. Mi sono diplomata in Illustrazione e Animazione Multimediale allo IED di Milano nel 2005. Circa 6 anni fa, nel 2011, mi sono trasferita in UK per conseguire un Master in Children's Books alla Cambridge School of Art. Attualmente vivo a Londra con il mio partner, il nostro bambino e il nostro gatto. Ho iniziato la mia carriera come animatrice, poi come grafica e sono infine passata all' illustrazione. Ho lavorato sia in campo editoriale, che in pubblicità, ho fatto giochi per bambini e mi sono specializzata nell'illustrazione per l'infanzia. Mi piace fare un po tutto!
Quando hai capito che l’illustrazione era la tua professione? Prima di iniziare l'università. Mi sono diplomata al liceo scientifico, ma non ho mai particolarmente amato questo indirizzo. A me piacevano i cartoni animati, i fumetti, i libri illustrati e i giochi. Essendo sempre stata portata per il disegno e avendo sempre avuto il pallino per la tecnologia, ho cercato un corso post diploma che coniugasse entrambe le mie passioni : illustrazione e animazione sembravano perfetti per me. Il tuo linguaggio visivo è molto particolare, quali sono le tecniche e gli strumenti che usi quando disegni? Attualmente il mio lavoro è realizzato in digitale. Lavoro su Mac e disegno tramite una Cintiq (la famosa tavoletta grafica Wacom in cui utilizzi la penna direttamente sullo schermo). Inizialmente schizzavo le mie illustrazioni in tradizionale, a matita, ma ora trovo più efficiente e veloce realizzare tutto in digitale. Occasionalmente uso le matite sulle mie stampe, ma solo per esposizioni o per illustrazioni speciali.
Cosa pensi del tuo futuro da illustratrice? Sono diventata madre circa sei mesi fa.. con la maternità ho dovuto sospendere la mia attività da illustratrice. Attualmente trovo difficile prendere nuove commissioni, dover badare a bambino richiede il 200% del mio tempo. Per cui non so bene ancora come organizzerò il mio futuro prossimo. In un futuro più lontano invece, mi auguro di pubblicare più libri! Nel tuo lavoro hai avuto modo di stringere collaborazioni particolari? Si certo! le occasioni sono state molte. Anzitutto tramite le scuole che ho frequentato, ho stretto molte amicizie con gente bravissima e sono entrata in contatto con molti professionisti nel campo delle arti visive. In particolare il Master che ho conseguito alla Cambridge School of Art, mi ha aperto le porte nel campo dell’editoria Inglese. La casa editrice Walker Books, che ha pubblicato il mio secondo libro, è forse la collaborazione che ho più a cuore. Fiere del libro, Esposizioni, Associazioni e le varie iniziative che questo lavoro ti offre, sono ottime occasioni per incontrare Agenti, Editori, Art Directors, Grafici, Scrittori, Illustratori e professionisti nel settore. Londra in particolare è una città piena di opportunità. Ci sono serate d’inaugurazioni, party, iniziative e mostre ogni giorno. Più di una volta le collaborazioni si sono trasformate anche in amicizie. (E viceversa ovviamente!).
Perché illustrazione per bambini? Perché il mio stile si adatta meglio all’illustrazione per l’infanzia: humour, linee curve, colori.. il mio immaginario visivo è per i più piccoli (..ma non piccolissimi!) Non è stata una scelta voluta. Man mano, commissione dopo commissione, il mio portfolio si e sviluppato verso questo settore. Dopo la laurea ho lavorato come animatrice, poi come grafica, poi come illustratrice, principalmente nel settore pubblicitario . Nel 2009 ho poi conosciuto un’agente inglese, specializzato in picture books che mi ha introdotto al mondo degli albi illustrati. Nel 2011 ho lasciato Milano e mi sono trasferita in UK per imparare quest’Arte. Da lí, ho pubblicato due libri (scritti e illustrati da me) e ho scoperto una grande passione per questo ramo. Quali sono i tuoi punti di riferimento nel mondo dell’illustrazione? A chi ti ispiri? Questa domanda è pericolosa perché la risposta potrebbe dilungarsi all’infinito! La lista di Autori, Artisti, e Libri che ispirano le mie giornate è lunghissima.. Sono cresciuta con i cartoni animati giapponesi, di cui per altro, ero completamente dipendente! (Parlo di Pollon, Hello Spenk, Nanà, Lamù ect. ..i famosi cartoni animati della televisione italiana degli anni 80\90.) Al liceo collezionavo manga e fumetti. Tra i miei preferiti : Masakazu Katsura, Akira Toriyama, il fumetto Italo\Francese Sky Doll e anche Dylan Dog! Durante l’università, ero alla ricerca di un mio linguaggio visivo, per cui collezionavo per lo più albi e raccolte d’illustratori. Per molti anni poi, mi sono concentrata nel migliorare il mio disegno. Compravo libri artistici di anatomia e dispense per l’ animazione (con character designs, ambientazioni, pose, oggetti etc.) Adoravo i “making of” dei film d’animazione della Pixar e Miyazaki. Per imparare a dipingere digitalmente, seguivo il lavoro di famosi Concept Artists come Bobby Chiu, Kei Acedera, Goro Fujita e molti altri. Adesso colleziono solo libri per bambini. In particolare i due libri che mi hanno spinto verso questo settore sono stati The great Paper Caper di Oliver Jeffers e Big Rabbit’s Bad mood illustrato da Delphine Durand. Tra i miei Autori\Illustratori preferiti ci sono anche: Benji Davies, Emily Hughes, Jim Field, Leo Timmers, la mia amica Eva Montanari, Simona Ciraolo, Birgitta Sif, (che hanno frequentato il mio stesso master) Emily Gravett, Marta Altes (che è stata una dei miei tutors a Cambridge) Kate Hindley, Kristyna Litten e molti molti altri. La mia libreria è molto varia : BlueBird di Bob Staake. The Arrival di Shaun Tan. Beekle di Dan Santat. This Is Not My Hat di Jon Klassen.. L’ultimo libro che ho comprato s’intitola “ Il regno delle Api” di Piotr Socha.. le illustrazioni mi hanno conquistata! Come dicevo, la lista è lunga. Così Lunga che alla fine non ho un vero e proprio punto di riferimento. Forse, solo la mia migliore amica - e soprattutto, super talentuosa illustratrice - Giulia Ghigini potrebbe essere il mio punto di riferimento. Abbiamo frequentato la stessa università e ormai da anni, mi confronto con lei per qualsiasi cosa. È Lei il mio mentore!
Secondo te, in che modo un buon libro illustrato può aiutare un bambino o una famiglia? Anzitutto un libro illustrato è un momento affettuoso di condivisione con il bambino. Viene vissuto quasi come una coccola! L’adulto dedica del tempo al bambino, leggendo e raccontando una storia. Il bambino guarda le figure, usa la fantasia e s’immedesima. Un libro è un buon punto di partenza per introdurre un qualsiasi argomento, è un ottimo strumento per il dialogo e per la riflessione. Può stimolare la creatività e l’immaginazione. Può introdurre al mondo dell’arte. Può aiutare la scrittura e può intrattenere ! Descrivici il tuo stile. Digitale (anche se vorrei si notasse meno!) Tridimensionale (anche se vorrei che le forme fossero più stilizzate e semplici) con colori realistici e soprattutto Divertente! La giusta ricetta per una illustrazione efficace. Dunque.. Secondo me una ricetta di successo potrebbe essere la seguente: Far rosolare il più tempo possibile l’illustratore nel disegno tradizionale. Fate in modo che abbia dimestichezza con con l’ anatomia umana, la teoria della prospettiva e possibilmente anche con quella delle luci. Questo processo è fondamentale perché insaporisce bene l’illustrazione, sviluppa nell’illustratore uno stile personale e ammorbidisce tutto l’impasto! Una volta che l’illustratore è ben dorato e croccante, navigate in Google o Pinterest, (o sui vostri libri preferiti) selezionando le migliori immagini adatte al vostro progetto. Usatele come referenze e Setacciatele sulla testa dell’illustratore. Amalgamate bene il tutto, stando attenti ad evitare eventuali imitazioni e grumi! Schizzate ora il vostro progetto. Ripetete l’operazione finchè non siete soddisfatti. Non abbiate timore nel rifare la composizione più volte, per un’ottimale finitura, il disegno deve funzionare fin dall’inizio. Una volta che la bozza è pronta, il colore sarà forse la parte più delicata e che richiederà più tempo di cottura. Cercate di utilizzare una palette limitata e fate una scelta dei colori sensibile. Se l’illustratore è stato rosolato bene nel disegno accademico, la vostra illustrazione finale dovrebbe avere un’atmosfera funzionale e trasmettere personalità . Dedicate a questo ultimo processo anche giorni se necessario. Qualsiasi strumento utilizzerete e qualsiasi sarà il risultato, affrontate il lavoro con impegno, passione e professionalità! Guarnite il tutto con qualche amico e un bicchiere di vino se necessario. :) In questi anni, chi ti ha supportato e creduto nel lavoro che fai? Devo dire in Molti, la più scettica sono sempre stata io. Per prima mia madre, che non ha mai imposto nessun limite alle mie scelte, mi ha sempre aiutata finanziariamente e supportato in qualsiasi iniziativa. Il mio partner mi fa in pratica da Agente! Mi aiuta nelle emails e nel gestire (e organizzare) le mie commissioni. Anche gli amici mi hanno sempre supportata. Spesso chi mi sta attorno mi dice che ho talento. Tuttavia io sono sempre stata scettica.. Spesso i “risultati” di un duro lavoro e di tanta dedizione, arrivano dopo tanto tempo. E anche quando finalmente raggiungi qualche traguardo, io non sono mai contenta della discontinuità di questo lavoro. Quindi a volte mi dico che non sono abbastanza brava , se fossi più brava forse sarei più famosa. Ma la gente che mi sta attorno, mi spinge a continuare dicendomi che “sprecherei il mio talento”. In realtà, continuo perché disegnare e l’unica cosa che so fare.. non saprei fare altro!
Se fossi libera da ogni vincolo... Cosa ti piacerebbe illustrare? Io sono libero da ogni vincolo, mi piace illustrare i miei libri :) Il consiglio più utile che hai ricevuto. Io purtroppo sono una Testarda! Ricevo sempre ottimi consigli, ma spesso faccio fatica a seguirli.. Finisce sempre che faccio di testaccia mia.. nel bene o nel male, s’intende. Che consiglio daresti a chi vuole iniziare quest’avventura? Una formula che secondo me va bene per tutto è: Se inizi a fare qualcosa, falla bene, fino in fondo. Continua finchè non sei soddisfatto. Intraprendi con dedizione e cura qualsiasi cosa. Dedica tempo e amore a quello che è il tuo interesse. Cerca di essere sempre professionale, onesto e attendibile. Mantieni una buona etica lavorativa. Non aver paura di chiedere quello che e giusto e che è nei tuoi diritti, non accettare qualsiasi cosa. Sii elastico di fronte agli insuccessi. Mantieniti positivo e mantieniti soprattutto umile. Sii cordiale e amichevole, non individualista ed egoista. Fai quello che ti rende felice e guarda gli altri solo per ammirazione, non per gelosia. Fai esperienza, migliora e cerca d’imparare sempre in ogni situazione. Read the full article
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5 scrittori giapponesi che vi consiglio di leggere
5 scrittori giapponesi che vi consiglio di leggere
Haruki Murakami
Uno degli scrittori giapponesi più famosi e apprezzati, in Italia come all’estero, è sicuramente Murakami Haruki.
Scrittore più volte candidato al Nobel per la letteratura, il suo stile sospeso tra la fantascienza e l’onirico è capace di affascinare combinando questi generi con la realtà in maniera accattivante e sensuale.
Tra i suoi libri più famosi troviamo “Kafka sulla…
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“Perché cos’eri se non nostalgia, Israele?”. L’incontro – e l’epistolario – tra Borges e David Ben-Gurion
Nato il 24 agosto del 1899 a Buenos Aires, Jorge Luis Borges è riconosciuto come una delle figure più importanti della letteratura universale. Inoltre, è considerato uno degli scrittori più grandi ignorato dal Nobel per la letteratura. “Non concedermi il Nobel è diventata una tradizione scandinava”, era solito dire lo scrittore, scherzando intorno a questa clamorosa dimenticanza. Su questo gigante molto è stato scritto, poco nota, piuttosto, è la sua ammirazione per l’ebraismo e la curiosità nei confronti dello Stato di Israele.
Nel 1969, in Israele, l’incontro tra Jorge Luis Borges e David Ben-Gurion
Questo sentimento riluce chiaramente nello scambio epistolare intrattenuto con David Ben-Gurion, fondatore e primo ministro di Israele. Già afflitto dalla cecità, il 16 ottobre del 1966 Borges dettò alcune righe da inviare al politico israeliano, rimarcando “la mia ammirazione verso il suo lavoro… Forse non è pienamente consapevole dell’affinità che ho sempre sentito verso il suo ammirevole popolo… Ho studiato a fondo l’opera di Spinoza, ho cercato di comprende l’intricato, intrigante universo della Kabbalah attraverso gli scritto di Martin Buber e di Gershom Scholem… Al di là del sangue, dato dal caso, siamo tutti greci ed ebrei”.
Ben-Gurion rispose senza indugi al grande scrittore. “La ringrazio profondamente per la lettera. Tramite l’ambasciata israeliana a Buenos Aires ho sentito parlare della sua personalità, della sua magnifica opera letteraria e del suo atteggiamento verso Israele e la sua eredità spirituale. Noto, nella sua lettera, che ci accomuna l’amore per la Grecia e per la sapienza ebraica. Sarei felicissimo se volesse visitare il nostro paese, ospite nella mia casa, nel deserto del Negev”.
Borges accettò l’invito: trascorse in Israele dieci giorni, all’inizio del 1969, e incontrò per la prima volta Ben-Gurion. Tornato in Argentina, Borges scrisse: “Ho visitato la più giovane e la più antica delle nazioni”.
Baruch Tenembaum
*Si riproduce in parte l’articolo “We are all Greek and Hebrew” pubblicato su “The Jerusalem Post”
***
Da “El Aleph”, che s’incardina sulla prima lettera dell’alfabeto ebraico, alle poesie – diverse – dedicate a Spinoza (“Intaglia un arduo vetro: l’infinito/ Ritratto di Chi è tutte le Sue stelle”), è arduo gioco enigmistico rintracciare fonti ebraiche nell’opera di Borges, che in diverse occasioni disse di sentirsi ebreo. L’adesione all’ebraismo era, nel suo caso, culturale: lo studio della Kabbalah e l’idea del Libro dei Libri, il libro che possiede tutti i significati, che presiede a tutte le opinioni e risolve tutte le interpretazioni, infuocarono la sua immaginazione narrativa. Come i poemi islandesi di Snorri, i paraventi giapponesi, i racconti di Erodoto. In una delle sue raccolte di poesia più note, “Elogio dell’ombra”, Borges mette in versi il suo viaggio in Terra Santa: la poesia s’intitola “Israele, 1969”, ed è posta tra una “Invocazione a Joyce”, i “Frammenti di un vangelo apocrifo”, una poesia dedicata a “Eraclito”.
Israele, 1969
Temetti che in Israele attendesse con dolcezza insidiosa la nostalgia che secoli d’esilio accumularono, triste tesoro, nelle città degli infedeli, nei ghetti, nei tramonti della steppa, nei sogni, la nostalgia di quelli che ti piansero, Gerusalemme, schiavi in babilonia. Perché cos’eri se non nostalgia, Israele, se non voler salvare tra le forme incostanti del tempo, la liturgia, il tuo vecchio libro magico, il tuo star solo con Dio? Invece, la più antica delle patrie è anche la più giovane. Non hai tentato con giardini gli uomini, né con l’oro e il suo tedio, bensì con il rigore, terra estrema. Israele senza parole ha detto: tu scorderai chi sei. Scorderai l’altro che lasciasti. Scorderai chi tu fosti nelle terre che ti dettero sere e mattini e cui tu non darai la nostalgia. Scorderai la tua lingua paterna, imparerai quella del Paradiso. Sarai un israelita, un soldato. Costruirai la patria con fangaie; l’innalzerai con deserti. Con te sarà al lavoro tuo fratello, di cui ignori il volto. Solo una cosa ti è promessa: il tuo posto nella battaglia.
Jorge Luis Borges
(la traduzione è di Francesco Tentori Montalto)
*In copertina: Borges e la madre, Leonor Acevedo Suarez
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“Dicono che sono il Dostoevskij americano. Ma io Dostoevskij non l’ho mai letto”. Zitti, parla James Ellroy (con nuovo romanzo nello zaino)
Ricordo, una volta, in estro, lavoravo al Domenicale, titolai così: “James Ellroy, il Dostoevskij del nuovo millennio”. Di per sé, è una min**iata. Ogni accostamento tra scrittori dispari, di per sé, è un atto impuro. Era uscito Scasso con stupro, ma io mi riferivo a Tijuana, mon amour, pubblico nel 1999. Non è tra i ‘canonici’ di Ellroy – chessò, Dalia nera, American Tabloid, L.A. Confidential – ma aveva: lucidità, nerbo stilistico, afrore nichilista. Più che Dostoevskij, avrei potuto dire: ha scritto romanzi degni di Stavrogin. In Ellory, di solito, c’è una metropoli ustionata dalla corruzione, uomini annientati dal vizio, leccare il marcio, intridersi nella lordura, sottosuolo lisergico. Manca tutto il resto, cioè l’abbacinante, che è di Dostoevskij, la catabasi nell’insopportabile cristiano, il Dio che esiste perché non esita a voltare l’orrendo in profezia, lo schifo in bene.
*
James Ellroy ha scritto una bella autobiografia – I miei luoghi oscuri – si dice cristiano, capitalista, estremista, un eremita della scrittura. Per lo più, è un bugiardo. Ad esempio, ha eretto una stele stilistica intorno al vero totem&tabù della storia americana – il ‘sogno americano’ è incubo stellato, l’epopea dell’Eden nel Nuovo Mondo è l’alcova di Satana – e della sua storia personale – madre assassinata, orfano a 17 anni, vita spericolata a L.A. – si fa vanto per gioco. In realtà, James Ellroy è un esteta. Uno che cura la scrittura – soprattutto quando appare così: sciupata, caina, cialtrona – fino all’ossessione. Non gl’importa altro. L’antica forzatura giornalistica di apparentarlo a Dostoevskij stava a dire: ne avessimo, qui, di scrittori così.
*
A James Ellroy, ora, capitano due cose. Primo. La “Everyman’s Library”, cioè “la più raffinata edizione dei classici di tutto il mondo, da Omero a Chinua Achebe, da Lev Tolstoj a Kazuo Ishiguro e Marcel Proust”, ha accolto James Ellroy tra le sue auree stanze. In due tomi è raccolta la “Underworld Usa Trilogy”, in un altro il “The L.A. Quartet”. Griffe generica: “L’America non è mai stata innocente”. La seconda è l’uscita, a fine mese, dell’ultimo romanzo di James Ellroy, This Storm, che è il secondo volume del “The Second L.A. Quartet”, principiato con Perfidia (in Italia, edito da Einaudi nel 2014). La trama è questa: “Capodanno 1941, la guerra è in atto e la prigiona dei giapponesi anche. Los Angeles è febbricitante di guerra, di odio razziale. Il sergente Dudley Smith del Los Angeles Police Department è ora il capitano Smith dell’esercito americano, un profittatore di guerra”. In ballo, come sempre, ci sono investigatori corrotti, e una corrosiva voglia di oro, dopo che è scoperto il cadavere di un uomo ucciso dieci anni prima.
*
Così si presenta James Ellroy: “Questo è James Ellroy – il Cane Demone della letteratura americana – in persona che abbandona il suo tavolo in un luogo remoto nel Midwest. Come saprai, sono un analfabeta digitale, quindi qui rompo la mia consuetudine… Il mio nuovo romanzo, The Storm, è pieno zeppo di merda criminale incessante, di merda politica, di merda razziale, di merda di sesso, di uomini e donne in quella merda che è l’amore! Sono stato inserito nella prestigiosa Everyman’s Library. In dolorosa compagnia con Albert Camus, John Updike, Katherine Mansfield, Saul Bellow, Joseph Heller, e con i raffinati contemporanei Joan Didion e Salman Rushdie – gente che non ho mai letto… libri troppo grossi, fantastici”. Poi s’è lanciato, Ellroy, a una intervista al pettinatissimo Andrew Anthony, sul Guardian. Si piglia in giro, Ellory, nel mondo cristallizzato di cravatte e di flûte della letteratura, in fondo, il maestro del ‘genere’ è uno scrittore di razza. (d.b.)
***
“The Storm” è la seconda parte del secondo “L.A. Quartet”. Perché scrive per trilogie o ‘quartetti’?
Amo le cose in grande. Amo i grandi film. Amo i grandi pezzi di musica sinfonica. E amo i grandi romanzi. Fin dall’infanzia, ho vissuto nel passato. Spesso il passato dell’America, questo passato storico, è ciò che amo, è ciò che sono, è ciò che faccio. Il mio intento è sradicare il lettore dalla sua vita quotidiana e forzarlo dentro parti della storia americana, in modo particolare della storia di Los Angeles. Questo è un amore enorme, per dimensioni e portata, per emozioni e indagini e cospirazioni. Tutto grande, insomma.
Come pensa sia cambiato il suo stile da quel romanzo rivoluzionario, “Dalia nera”, del 1987?
Ora è più conciso. Dopo Dalia nera e L.A. Confidential ho sviluppato uno stile secco, spezzato, con una esposizione ridotta al minimo. Poi, quando mi sono imbarcato nella “Underworld USA Trilogy”, ho ampliato il testo, ho usato la terza persona con maggior forza, volevo esasperare il contenuto emotivo del libro. Poi sono tornato allo stile secco e spezzato in Sei pezzi da mille, ad estremità da urlo, tanto che per alcuni recensori fu incomprensibile. Insomma, trovo lo stile di cui ha bisogno ogni singolo libro.
I personaggi di “This Storm” sono luridi, sfacciati, volgari. Ora: mi pare che il tizio che occupa attualmente la Casa Bianca potrebbe adattarsi alla descrizione. Che opinione hai di lui?
Non parlo di politica, mai. Il presente non ha niente a che fare con i miei libri.
Ha molto successo, ma pensa di avere il conforto critico che merita?
Ciò che mi interessa è che il mio nuovo libro si integra con la pubblicazione dei tre volumi della “Everyman’s Library”. In effetti, sono stato canonizzato. Roba che ti gasa.
Ha mai problemi nel ricordare i diversi personaggi che ha creato mentre scrive?
Vede, io scrivo per enormi cornici. Lo schema di This Storm è di 450 pagine. Un diagramma fondamentale per scrivere questi romanzi, così densamente strutturati ed estremamente complessi. Gli archi drammatici sono stabiliti prima che inizi a scrivere, la storia c’è già tutta, nei minimi dettagli. Questo mi permette, così, di poterla vivere, da dentro, mentre scrivo le singole scene.
“Compulsion” di Meyer Levin, da cui Alfred Hitchcock ha tratto “Nodo alla gola”, è tra i libri di culto per Ellroy
Non è un fan di Raymond Chandler, il mitico fondatore dell’hard-boiled, perché?
Non mi piacciono i suoi libri e non credo che conoscesse l’uomo così bene. Non mi piace lo stile, le trame sono schifose.
Spesso si presenta come “il cavaliere bianco della destra estrema” [white knight of the far right]. Che cosa significa?
Fratello, è un gioco, è simpatico, è una rima che funziona. Fa parte dei miei allitteranti, pederasti, provocatori, pedanti, deliranti giochi.
Qual è stato l’ultimo libro che ha letto?
Ho riletto Compulsion di Meyer Levin, il romanzo sull’omicidio Leopold e Loeb avvenuto nel 1924 a Chicago. Pubblicato nel 1956, l’ho letto nei primi anni Settanta. L’ho letto altre sei o sette volte. Un romanzo molto bello, un romanzo molto astuto sulla ricca vita degli ebrei americani, un ritratto riuscito di due psicopatici.
Che tipo di lettore eri da bambino?
Precoce. Mio padre mi ha insegnato a leggere prima di andare a scuola. Sono sempre stato un lettore lento, però. La mia prima lettura sono le pile di Life nell’armadio dei miei genitori. Dopo la morte di mia madre, nell’estate del 1958, ho cominciato con i libri sul crimine. Amavo il romanzo poliziesco, il romanzo di spionaggio, il romanzo con intrighi realistici. Lo amo ancora.
Che libri hai sul tuo comodino?
I romanzi sul baseball di Mark Harris. L’uomo di Kiev, di Bernard Malamud. I primi libri di Philip Roth, riposi in pace. L’autobiografia di Elia Kazan, che ho letto un paio di volte.
C’è un romanzo in particolare a cui ritorni costantemente?
I romanzi di Ed McBain, quelli dell’“87° Distretto”. Li ho letti tutti. I primi sono i migliori, quelli scritti tra 1956 e 1972. Scrittura rapida e riuscita.
Un libro che pensi di dover leggere, ma che non hai letto.
Dovrei leggere Delitto e castigo, almeno da quando Joyce Carol Oates mi ha definito “il Dostoevskij americano”. Russia. XIX secolo. Non è roba che scrivo. Ho il libro a casa, ma ogni volta che lo prendo mi dico, merda, questa roba non posso leggerla.
Devi leggerlo.
Lo so, lo so. Me lo dicono tutti. Un giorno farò questa dannata cosa.
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I bravi cittadini d’Albione hanno paura di Ernst Jünger in divisa. Ovvero: i diari di guerra del grande scrittore sbarcano in UK e USA, e la globalizzazione, in letteratura, non esiste
La ‘globalizzazione’ in letteratura non esiste. Per fortuna. Intendo. Nel sottosuolo esistono ancora parole seminali che fondano una identità specifica. Preciso. Il mondo unico, globalizzato – ma non pacificato – permette a me, lettore periferico della provincia Italia, di farmi una biblioteca di autori giapponesi, che mi piacciono più degli italici – i quali, oggi, scrivono scimmiottando gli americani come ieri mimavano i francesi. Eppure. Permangono dei ‘caratteri’ specifici, uno stile, un passo, una giuntura dello sguardo che, ad esempio, permette che soltanto in Francia, terra di viziosi indagatori del proprio ombelico – da Montaigne a Pascal al Divin Marchese – nasca un Houellebecq, sorga un Carrère. In Francia si fa la storia dell’io mentre in Italia, da Manzoni in qua – Verga, Pavese, Pasolini –, ci si confronta con la Storia, con i flussi fluttuanti della ‘società’.
*
Drastiche semplificazioni. Però non mi pare un caso che soltanto ora, da pochissimo, siano atterrati su suolo inglese i diari di guerra – quelli del ’41-’45 – di Ernst Jünger, come A German Officer in Occupied Paris, per le edizioni di pregio della Columbia University Press, in pompa (“Questi diari di guerra appaiono qui in inglese per la prima volta, dando un nuovo quadro dei dilemmi del ventesimo secolo, visti dalla penna acuta di un osservatore paradossale”). Scrivono proprio così. Paradoxical observer. Ora. In Italia non giudicheremmo “paradossale” lo sguardo di Jünger, autore di libri che crescono in necessità più passa il tempo. Paradossale, semmai, è che soltanto ora si possano leggere i diari di Jünger in UK e Usa. In Italia il Diario 1941-1945 del geniale scrittore tedesco è stato pubblicato da Longanesi nel 1957, poi ripreso da Guanda nel 1995 nella stessa traduzione di Henry Furst; in Italia, come si sa, sono pubblici anche gli altri diari, il Diario di guerra 1914-1918 (Libreria Editrice Goriziana, 2016), poi Giardini e strade. Diario 1939-1940. In marcia verso Parigi (Guanda, 2008) e La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione 1945-1948 (Guanda, 2009). Insomma, da noi Jünger – eventualmente marginalizzato dai cretini, da chi ha paura della fiammata letteraria – è una icona, nel mondo inglese era un tabù.
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Sulla The New York Review of Books fu Bruce Chatwin a ‘sdoganare’ Ernst Jünger nel mondo anglofono, scrivendo una vasta recensione ai diari, pubblicati in Francia. La visione di Bruce, il dandy dell’irrequietezza, è denunciata fin dal titolo, An Aesthete at War, “Una volta letti questi diari non si dimenticano. Sono certamente la produzione letteraria più strana uscita dalla Seconda guerra, estranea da qualsiasi cosa di Céline o di Malaparte. Jünger riduce la sua guerra a una sequenza di poemi in prosa allucinatori in cui le cose sembrano respirare e le persone agiscono come automi o, nel migliore dei casi, come insetti”. Era il 5 marzo del 1981. 37 anni dopo, ci sono arrivati.
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Il pensiero di Jünger è in sostanza diverso, eccentrico dal blabla anglosassone: nella copertina del libro lo scrittore è scintillante indossando la divisa della Wehrmacht. Eroe decorato durante la Prima guerra, autore del libro di culto Nelle tempeste d’acciaio, Jünger prese decorose distanze dal Partito nazionalsocialista, ma a Parigi, durante l’occupazione tedesca, ha la blusa da ufficiale, “fece una vita privilegiata, incontrando artisti e scrittori come Céline, Cocteau, Braque e Picasso”. Uomo di spietata lucidità e dal talento crudele, sbaglieremmo a ritenerlo un vago flâneur che fa slalom tra le granate; Jünger è l’esteta che ha scritto “la lotta unisce gli uomini, l’inattività li separa”, e crede nel valore di redenzione del disastro (“Di tempo in tempo bisogna immergersi nelle fiamme per rinascere”).
*
Agli inglesi Jünger letteralmente esplode tra le mani. Alex Colville sullo Spectator (titolo: Ernst Jünger — reluctant captain of the Wehrmacht) attacca descrivendo lo scrittore tedesco come “una figura profondamente ambigua e controversa, che detestava la democrazia, glorificava il militarismo tedesco, eppure disprezzava i nazisti”. Il fascino emanato da Ernst Jünger è corrusco, incomprensibile al lettore inglese, che sosta su posizioni di critica. “I colleghi di Jünger a Parigi furono coinvolti nell’attentato ordito da Stauffenberg nel 1944 e chiesero il suo aiuto. Era una delle voci conservatrici più influenti in Germania a quel tempo, una delle poche che i seguaci di Hitler avrebbero preso sul serio. Tuttavia, ha rifiutato di prendere posizione durante il caos, quando molti credevano che Hitler dovesse morire, che bisognasse cambiare aria… Jünger attese che il male si autodistruggesse: un pompiere che combatte la fiammata aspettando che l’edificio bruci. Come sempre, ha abitato in una zona grigia”.
*
Ma tu guarda. L’individualismo granitico, l’intelligenza giganteggiante di Jünger terrorizza i civili cittadini d’Albione. A me strappa sempre bagliori emotivi quando lo scrittore, dopo un bombardamento, l’elettricità salta, l’urbe è circoscritta nell’oscurità, guarda il cielo, con quelle stelle improvvisamente palpabili, “Che cos’è l’essere umano e i nostri giorni terrestri al cospetto di questa gloria? Che tenuta ha il nostro tormento fugace?”. (d.b.)
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“Faceva acrobazie con il linguaggio, finché fu torturato e ucciso”. La tragica storia di Haroldo Conti, lo scrittore preferito da García Márquez
Fu un simbolo. Poi divenne un totem. Fu Gabriel García Márquez a raccontare al mondo la storia di Haroldo Conti. L’articolo, pubblicato in inglese su El Pais, nel 1981, s’intitolava The last and bad news of Haroldo Conti. García Márquez aveva conosciuto Haroldo Conti diversi anni prima, aveva premiato un suo romanzo, En vida (1971), insieme a Mario Vargas Llosa. A quell’epoca, Haroldo Conti era un simbolo. “Era uno scrittore argentino tra i più grandi della sua generazione”, come scrive García Márquez. Guadagnava con i libri, scriveva sceneggiature. Il 5 maggio del 1976, dopo aver visto al cinema Il padrino. Parte II, con sua moglie Marta, Conti viene arrestato, torturato e più tardi ucciso. La giunta militare guidata da Videla si era insediata con la forza da poco. Haroldo Conti diventa un totem: l’emblema di un’epoca che tragicamente continua a uccidere gli scrittori ‘dissidenti’. Diventa – ce lo ha raccontato Sylvia Iparraguirre su questo foglio telematico – il totem degli scrittori che continuano a resistere alla tracotanza delle falangi militari, che urlavano il nome ‘Haroldo Conti’ come un monito. “Una quindicina di giorni dopo il rapimento”, racconta García Márquez, “quattro scrittori argentini – tra cui i due più grandi – accettarono un invito a pranzo da parte del Generale Jorge Videla. Erano Jorge Luis Borges, Ernesto Sabato, Ernesto Ratti e il prete Leopoldo Castellani. Tutti e quattro chiesero a Videla di risolvere il dramma di Haroldo Conti… Castellani, che aveva circa ottant’anni ed era stato l’insegnante di Conti, chiese a Videla di essere condotto dallo scrittore. La notizia non fu mai resa pubblica, ma pare che Castellani vide Haroldo Conti l’8 luglio 1976, nel carcere di Villa Devoto, in uno stato di tale prostrazione che era impossibile parlargli”. Così spira uno scrittore sotto il calcagno del potere. Ma la sua opera è imperitura e invitta. Il romanzo più grande di Conti, Sudeste (1962), che racconta la storia di un tagliatore di giunchi, il Boga, lungo la foce del Paranà, “questo fiume” che “sembra diabolicamente astuto e torvo, e perfino crudele”, atterra in Italia, troppo tempo dopo. Il libro, che prolunga il genio selvatico di Horacio Quiroga e pare preludere al più contorto dei romanzi di Cormac McCarthy, Suttree, ha una nitidezza epica, una necessità atavica. “La gente di questo fiume somiglia in tutto e per tutto all’uomo che sta osservando le acque con i suoi occhi da pesce moribondo, sospesi sulle acque come due lenti sospese nell’aria. Per questo gli uomini del fiume ancora sopravvivono. Per questo sembrano tanto vecchi, distanti, e solitari. Non è che amino il fiume, ma non possono vivere senza. Soprattutto, sono indifferenti come il fiume. Sembra che capiscano di appartenere a un tutto inesorabile che avanza sotto l’impulso di una determinata fatalità. E non si ribellano affatto. Neanche quando il fiume distrugge le loro capanne, le loro barche, e perfino loro stessi. Anche per questo sembrano cattivi”. Basta questo brano per capire la natura, mitologica, epigrafica, del libro, la sua scrittura cangiante, che si snoda con la stessa paziente furia del fiume. A rendere grazia linguistica a Sudeste, pubblicato, per la prima volta in Italia – l’unico libro di Conti capitato su queste sponde, Mascarò, il cacciatore americano, del 1975, è stato pubblicato da Bompiani nel 1983, con prefazione di García Márquez, ora introvabile – dall’editore Exòrma (pp.218, euro 14,90; sia lode ora ai tenaci, piccoli editori), lo scrittore Marino Magliani (autore, tra l’altro, di libri fuori dal tempo come L’estate dopo Marengo, Quella notte a Dolcedo, L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi), insieme a Riccardo Ferrazzi. Li abbiamo contattati, per entrare nel carisma linguistico di Conti, il totem.
Haroldo Conti. Pressoché sconosciuto da noi, in realtà un piccolo genio della narrativa sudamericana e argentina in particolare. Ci riassumi per sommi capi la sua biografia.
Haroldo Conti nasce a Chacabuco, nella profonda pampa, nel 1925, docente e innamorato del delta del Paranà, che conosce bene, per averlo navigato a lungo. Autore di romanzi e raccolte di racconti, molto apprezzato da García Márquez e Vargas Llosa, nel 1962 scrive Sudeste e nel 1976, poco tempo dopo il colpo di stato argentino che porta al potere la junta fascista presieduta da Jorge Rafael Videla, viene sequestrato e torturato, ad oggi risulta desaparecido.
1981: Gabriel García Márquez racconta al mondo la tragica fine di Haroldo Conti
“Sudeste”. Cos’è questo libro torbido, amazzonico, mirabile? Con quale lingua l’hai affrontato? Ti sei lanciato nel suo vortice, hai usato una lingua ‘tua’, in qualche modo? Dimmi.
La principale difficoltà che abbiamo incontrato è la grande varietà di registri che Conti usa nell’affrontare la narrazione. Crediamo che sia impossibile rendere fino in fondo certe atmosfere sospese, per esempio nelle descrizioni del fiume, nel primo dialogo con i pescatori o nell’incontro con il Cabecita. Per questo abbiamo dovuto rinunciare a rendere tutte le sfumature, i polisensi, le acrobazie dell’autore: abbiamo lasciato che fosse la parola, il suo significato, a ricreare la magia dell’originale. Ovviamente non è mai possibile restituire con una traduzione tutta la ricchezza del testo, ma crediamo di aver fatto un buon lavoro e di aver reso un servizio all’autore.
Ami di più gli scrittori, per così dire, ‘selvatici’ e che narrano la provincia ‘barbarica’ o gli scrittori che fanno della città il centro della loro osservazione?
Riccardo Ferrazzi: Personalmente sono più attratto dall’esotico. Il mio romanzo preferito è Le avventure di Huckleberry Finn! Ma questo non vuol dire che nella grande città non sia possibile organizzare una storia interessante. Per esempio, la città è il luogo ideale per il giallo. E spero che non mi diate del barbaro se vi dico che, a mio parere, i romanzi di Rex Stout formano una comédie humaine come quella di Balzac.
Marino Magliani: Amo la provincia calma, abbandonata, i mondi narrativi a ridosso. Gli esercizi dell’occhio di Sebald, i solchi delle frontiere biamontiane, la prosa e le passeggiate di Walser, l’ironia di Adrian Bravi.
Gli scrittori che abiti nella traduzione non finiscono per influenzarti? Dimmi il libro più bello che hai tradotto e quello che vorresti tradurre.
Riccardo Ferrazzi: Tutto quel che leggiamo ci influenza. Personalmente credo che, più si nota l’influenza di un autore letto o tradotto, più si tratta di un’influenza superficiale che riguarda lo stile o un paio di argomenti. La vera influenza che esercitano i libri è più profonda e riguarda il senso della vita. Ma questa non traspare, se non a livello filosofico. Il libro più bello è sempre il prossimo. Per me tradurre significa scoprire, e i classici non si finisce mai di scoprirli. Mi piacerebbe tradurre Amleto. Ma anche Il capitan Fracassa.
Marino Magliani: Sono romanziere e naturalmente, in qualche modo, ogni mio libro finisce per farsi trasportare lungo le rive dei libri tradotti. Solo l’acqua non è mai la stessa, melmosa o limpida, certo, potrebbe assomigliare ad altre acque incontrate ma così non è, anche se vista dalla riva inganna, sembra acqua già vista, mentre poi penetrandola, o forse guardando la riva dal centro dell’acqua, tutto appare unico, un mondo mai visto prima, mai narrato. Una grande soddisfazione è di aver tradotto con Riccardo Ferrazzi Sudeste, ma anche Letti da un soldo di Enrique González Tuñon e Ultima rumba all’Avana, di Fernando Velázquez Medina, e mi fermo qui.
Cosa stai leggendo, ora? A che libro stai lavorando?
Riccardo Ferrazzi: Ho letto, e mi è piaciuto molto, L’esercizio del distacco di Mary Barbara Tolusso. In questi giorni, per dovere, sto ricuperando Il lamento di Portnoy. L’avevo tralasciato perché, contrariamente a quanto dichiarano in coro tutti i critici, avevo letto Pastorale americana e non mi era piaciuto. In autunno dovrebbe uscire il mio ultimo romanzo: N.B. un teppista di successo, una biografia romanzata dei primi successi e insuccessi del giovane Napoleone, travolto ed esaltato dalla rivoluzione francese.
Marino Magliani: Sto leggendo le poesie di Giuseppe Cassinelli e correggendo le bozze di un romanzo che si intitola Prima che te lo dicano altri, al quale lavoro da anni. Uscirà a fine agosto.
L'articolo “Faceva acrobazie con il linguaggio, finché fu torturato e ucciso”. La tragica storia di Haroldo Conti, lo scrittore preferito da García Márquez proviene da Pangea.
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