#john e il suocero di john
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Con 10 milioni di euro pace in famiglia per la fidanzata di Conte: il suocero liquida il figliastro e resuscita il gruppo grazie a Meloni
La compagna di vita Olivia Paladino negli ultimi anni è stata coinvolta in una sorta di guerra dei Roses, scoppiata fra il padre Cesare e il fratellastro Rolf John Shadow Shawn Dopo lunghe contese, un lodo arbitrale e l’inizio di battaglie giudiziarie, è tornata la pace in casa del leader del M5s, Giuseppe Conte. Ed è una pace d’oro, perché secondo le indiscrezioni vale quasi 10 milioni di euro.…
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Giorno: 1
Km: 830
Schildow
E il primo tappone è andato! 👍💪
Può darsi che questo post potrà apparire un po' sconclusionato. È possibile, ma voi non fateci caso. Un po' sarà per la stanchezza. Un po' sarà perché lo sto scrivendo in momenti diversi. Un po' perché... dopo capirete perché 😁
Tempo fa il caro, grande amico Matteo (è lui che ha trovato la moto su misura per me) mi chiese: " ma cone fai a fare tutti 'sti km?"
"Faccio come con la maratona: suddivido l'obbiettivo finale in tanti microbbiettivi. Ogni sosta (circa 150 km) è una microtappa e misurare il progredire, quando riparto mi dico: " ora tolgo il 700... ora tolgo il 600... ora il 500".... e così fino alla fine.
E così ho fatto oggi. Togli il 700, togli il 600, togli il 500... il tappone di 750 km è fatto!
Come detto nelle premesse, oggi era trasferimento. Un'autostrada (tra l'altro parecchio trafficata e piena di lavori) che taglia un piattone lungo centinaia di km sul quale fino al primo pomeriggio è gravato un cielo plumbeo e cupo che, a tratti, ha voluto ricordarmi che ho portato i vestiti da pioggia per un motivo e non per bellezza.
Oltrepassata Praga, però, c'e stato un momento in cui qualcosa si è smosso. Le nuvole si sono stracciate e sono comparsi lembi di cielo azzuro limpido. Raggi di sole hanno cominciato a filtare. Campi coltivati a colza si sono improvvisamenrte illuminati di giallo cosi intenso da sparare a mille l'umore.
Ma è durato poco. Il vento forte che l'ha fatta da vero padrone per tutto il viaggio, ha ricoperto il cielo di nubi, spengendo anche la dorata e profumata colza.
Da lì, poi, una volta entrato in Germania, l'interruttore del mondo ha denitivamente girato sulla tacca "perfezione" ed è stato sublime lo spettacolo cui ho assistito da queste parti: nessuno sfanala come fosse posseduto per fare un sorpasso; nessuno strombazza con il clacson; i limiti di velocità vengono rispettati in modo essendosi l esemplare; quando si cambia corsia si mettr la freccia... e allora ti chiedi: ma allora è possibile?!?
Tappa senza emozion dunque. Poi sono arrivato a Schildow.
A Schildow (poco più di una manciata di km a nord di Berlino) è dove ho prenotato per la notte.
A Schildow abitano John e il suocero di John (nome tedesco che non riesco a riscrivere).
John e il suocero abitano a fianco dell'albergo.
La Supermille è parcheggiata davanti casa di John e del suocero di John.
Quelli dell'albergo hanno chiesto il favore a John e al suocero perché si sentivano più sicuri a farmela parcheggiare lì.
La prima cosa che mi ha chiesto John è se ero italiano.
John si è presentato, ha presentato suo suocero, poi è andato a prendere la sua moto (una gloriosa K100 di trent'anni fa) e l'ha parcheggiate vicino alla Supermille.
John mi ha offerto una birra.
John mi ha offerto un rhum.
Dopo circa una mezz'ora di chiacchere, John è andato a prendere il telefono ed abbiamo scoperto che il traduttore simultaneo di Google è una gran figata.
Specialmente se sia io che John parliamo l'inglese "little bit" 😂😂😂 e se ti sei sparato 750 km in moto e sei pure a stomaco vuoto 😂😂😂
#schildow#john e il suocero di john#motogirodicinquantino#moto in solitaria#versys#kawasaki#wallander#carpe diem#supermille
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Giovedì, 20 giugno 2019
Motivi di insoddisfazione. Primo, per i libri in lettura. Una condizione che non riguarda solo la contingenza (sto leggendo da mesi ormai Resoconto di Rachel Cusk e Una vita come tante di Hanya Yanagihara), ma è da anni cronica. Credo sia cominciato tutto con Il Cardellino di Donna Tartt o con Eccomi di Jonathan Safran Foer. In breve: trovo tutti questi libri, che pure sono libri di grande successo, amati da persone che amo, francamente insopportabili. Vedo ovunque: toni arguti, citazioni pedanti, latinismi, ridondanza di dettagli, fortissima antipatia dei personaggi. Tant’è che ho messo lo scotch per nascondere l’immagine di un bell’uomo in una falsa smorfia di dolore sull’edizione Sellerio della Yanagihara e, soprattutto, ho sperato per le prime duecento pagine del libro che non solo Jude ma tutti gli amici protagonisti morissero tra sofferenze vere. Poi l’ho abbandonato (ma sul finale credo di averci preso). E non parliamo di Rachel Cusk: che ha meno dettagli ma un ghiacciolo come protagonista più benessere da quattro soldi qua e là. Ultimi libri che mi hanno dato qualche soddisfazione, oltre a qualche passaggio dei Promessi sposi nell’edizione ottocentesca trovata a casa di mio suocero, sono stati Stoner di John Edward Williams e Nel giardino delle scrittrici nude di Piersandro Pallavicini. Anche le serie televisive di recente mi annoiano abbastanza: la seconda stagione di Big little lies è interessante solo quando parla Meryl Streep, Black Mirror ormai racconta il passato, Riviera ha questa idea del mercato illecito delle opere d’arte e del relativo riciclaggio di denaro ma poi si dimentica dei dettagli (potevano chiederli in prestito alla Yanagihara).
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11 dic 2020 12:36
''STAVOLTA MI TOCCA DARE RAGIONE A RENZI'' - BELPIETRO: ''CONTE HA FATTO UNA LEGGE CHE HA SALVATO IL SUOCERO, VUOLE CONTROLLARE DA SOLO I 200 MILIARDI DEL RECOVERY FUND, METTE LE MANI SUI SERVIZI SEGRETI. HA RAGIONE RENZI: PUR DI SOSTENERE QUESTO REGIMETTO, SONO SCOMPARSI TUTTI GLI INDIGNATI CHE CON BERLUSCONI SAREBBERO SCESI IN PIAZZA'' - GLI IMBARAZZI CHE LA FAMIGLIA "ALLARGATA" AI PALADINO CAUSA AL PREMIER: DALLA SCORTA ALLE TASSE NON VERSATE
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1. GIUSEPPI SALVA IL SUOCERO MA NESSUNO FIATA
Maurizio Belpietro per "la Verità"
È sempre divertente ascoltare Matteo Renzi, perché l' uomo riesce ogni volta a stupire. Se mercoledì non sono riuscito a seguirlo durante il suo intervento in Senato, quando ha votato a favore del governo sul Mes minacciando tuttavia di votare contro il medesimo governo sulla cabina di regia, in serata ho recuperato, grazie alla puntata di Porta a Porta a cui ho partecipato. Prima che la trasmissione iniziasse, conversando con Bruno Vespa e senza sospettare che i microfoni fossero accesi, l' ex presidente del Consiglio si è lasciato andare a uno sfogo contro Conte, accusandolo di aver tentato di escludere il Parlamento dalla gestione dei fondi del Recovery plan. «Io ne ho viste di tutti i colori e ne ho fatte di tutti i colori» ha detto il senatore semplice di Scandicci, «ma una cosa come questa non mi era mai capitata».
Più tardi, a telecamere accese e dunque consapevole di essere registrato, Renzi ha anche rincarato, aggiungendo qualche altra osservazione sull' operato dell' attuale inquilino di Palazzo Chigi. «Se Berlusconi avesse fatto ciò che sta tentando di fare Conte, avremmo avuto la gente in piazza». Per essere certo di essersi fatto capire bene, il fondatore di Italia viva non l' ha detto una volta, ma due. Ci sarebbe da chiedersi perché Renzi tenga ancora in piedi un tizio che, a suo dire, con un colpo di mano ha provato a eliminare i controlli del Parlamento e anche quelli del Consiglio dei ministri. Perché, nonostante il tentato golpe, lui e i suoi uomini gli votino ancora la fiducia.
Tuttavia, al di là delle contorsioni politiche con cui l' ex segretario del Pd giustifica le proprie scelte, ciò che conta è il giudizio. A parere di Renzi, la manovra per sottrarre all' occhio delle Camere e dei ministeri le modalità di spesa di 200 miliardi di euro è una mossa degna di un Paese sudamericano e l' avesse fatto il Cavaliere, i compagni sarebbero scesi in piazza. Invece no, nonostante il tentativo di far passare di notte una cabina di regia che espropriava le sedi istituzionali del proprio ruolo, la sinistra non è scesa in piazza ma, a parte Renzi e pochi altri, è stata prudentemente zitta.
Silenzio anche sulla manina che ha cercato di far nascere una fondazione dei servizi segreti, magari con diritto naturale di presidenza concesso per legge all' ultimo inquilino di Palazzo Chigi. Anche quella è da considerarsi una mossa alla cilena, tale da garantire per lungo tempo al presidente del Consiglio il controllo, sebbene indiretto, dei nostri 007.
Oggi Conte ha la delega sulle operazioni riservate e un domani, grazie a questa invenzione di cui non si sente la mancanza, potrebbe in qualche modo, se non mantenerla, almeno conservare un occhio e forse anche un orecchio sui grandi segreti della Repubblica. Anche questa sarebbe una decisione per cui scendere in piazza. Per dirla con Renzi, ai tempi di Berlusconi la sinistra lo avrebbe fatto, ma adesso che sta al governo è ammutolita.
Un altro esempio di qualche cosa che avrebbe suscitato un gran casino, con manifestazioni, titoloni sui giornali e grandi dibattiti tv? La pena revocata al suocero del premier. Dovete sapere che il papà di Olivia, l' eterea fidanzata di Conte, era finito nei guai e per una faccenda di imposte non pagate ed era stato condannato a un anno e due mesi di reclusione con l' accusa di peculato. In pratica, da gestore dell' hotel Plaza di Roma, uno dei grandi alberghi che si affaccia su via del Corso, Cesare Paladino si era scordato di versare al Comune 2 milioni di tasse di soggiorno.
Una dimenticanza non da poco, durata quattro anni, dal 2014 al 2018. Guarda caso, all' inizio di giugno di due anni fa, Giuseppe Conte, fidanzato di Olivia Paladino, che del Plaza è proprietaria al 47% tramite una società, diviene presidente del Consiglio, prima di un governo gialloblù e poi di uno giallorosso, perché l' importante è non dimettersi. Risultato, dopo qualche tempo, fra le mille cose che il governo vara c' è pure una leggina che sana certe dimenticanze. Risultato, il giudice revoca la condanna del suocero del premier «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato».
Fosse capitato ai tempi del Cavaliere, chissà che cosa sarebbe accaduto, di certo qualcuno si sarebbe strappato i capelli denunciando il conflitto d' interessi. Ma siccome è successo con la sinistra al governo, Conte a Palazzo Chigi e gli italiani rinchiusi in casa, sui giornali ieri siamo riusciti a rintracciare solo una notizia formato francobollo: nulla di più.
Spiace doverlo ammettere: ma per una volta ha ragione Renzi. All' improvviso, pur di sostenere questo regimetto, sono scomparsi tutti gli indignati speciali.
2. FUGHE, SCORTE E PATRIMONI LA FAMIGLIA ALLARGATA DI CONTE PORTA SOLO GUAI
Fabio Amendolara per "la Verità"
Le parentele acquisite del premier, Giuseppe Conte, cominciano a diventare davvero molto imbarazzanti per il governo: e la notizia della cancellazione della condanna per peculato per il papà della fidanzata che non aveva versato 2 milioni di euro di tassa di soggiorno del Plaza, l' hotel romano superlusso controllato pure da Olivia Paladino, è solo l' ultima nota dolente. Non per la riforma della sentenza di patteggiamento a un anno e due mesi di reclusione, che era diventata definitiva e che gli avvocati di mister Cesare Paladino sono stati bravi a ribaltare, ma perché è la diretta conseguenza di una riforma voluta dal governo giallorosso capeggiato da Giuseppi.
Con un colpo di spugna, infatti, il 19 maggio 2020, grazie al comma terzo e al comma quarto dell' articolo 180 del decreto Rilancio, per la legislazione italiana la condotta di omesso versamento dell' imposta di soggiorno non è più un reato penale. Un' operazione che fa il paio con la rottamazione ter varata dal primo governo Conte (che ha dimezzato i 36 milioni di debiti con l' Agenzia delle entrate) e che a soli sette mesi dalla sua approvazione ha fruttato la risoluzione dei problemi penali di mister Paladino.
«Chissà che ne pensano Grillo, M5s, Anac, Antitrust. Chissà che ne pensa il direttore dell' Agenzia delle entrate, che spiega come i 90 miliardi di euro di evasione fiscale annua siano la vera piaga che impedisce all' Italia di avere servizi efficienti e tasse più basse». Il deputato di Italia viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, si è sfogato su Facebook. E si è chiesto: «C' è ancora qualcuno che ha il coraggio di dire che le domande delle Iene, contro le quali sono stati mandati a intervenire addirittura gli agenti della scorta del premier, non meritavano risposte?».
C' è da precisare che i 2 milioni di euro, poi, Paladino, con i suoi tempi, li ha restituiti al Comune. Ma la domanda di Anzaldi sulla scorta del premier che è andata in soccorso di Olivia, rintanata nel market sotto casa resta ancora senza risposte. Il salvataggio di Olivia è costato un' iscrizione nel registro degli indagati con relativo invio degli atti al tribunale dei ministri (nato da un esposto di Roberta Angelilli di Fdi dopo lo scoop della Verità). Gli uomini della scorta, stando alla ricostruzione del ministero dell' Interno, avrebbero aiutato Olivia a uscire dal market e lei, senza salire sull' auto blu, sarebbe rientrata a piedi a casa. Lasciando in custodia al titolare dell' alimentari, però, la sua borsa da palestra.
Su Dagospia, a quel punto, Dago si è chiesto se «la pallida Paladino si andava per caso ad allenare in una palestra il 26 ottobre, il giorno dopo il dpcm firmato dal suo compagno che ha decretato la chiusura di tutte le strutture sportive al chiuso d' Italia».
Qualche giorno dopo, la sera di Halloween per la precisione, si accendono i riflettori su un nuovo giallo: Giuseppi e Olivia a cena in un' enoteca, nonostante la chiusura dei locali stabilita da uno dei dpcm. Il titolare del locale spiegò: «Una delle ultime volte che sono venuti al locale mi pare che fosse settembre». Il registro delle prenotazioni non ha aiutato a fare chiarezza. E l' ufficio stampa di Palazzo Chigi ha confermato la versione.
È rimasto in silenzio, invece, quando l' Uif, l' Unità di informazione finanziaria di Bankitalia, ha segnalato una pioggia sospetta di denaro sonante sul conto corrente della società di mister Paladino.
Era il 24 gennaio 2019 e sul conto arrivò un doppio deposito per un totale di 42.000 euro in pezzi extralarge: tutte banconote da 500. Ma anche lady Paladino era entrata nel mirino degli 007 dell' Uif, insieme alla sorella Cristiana e al fratellastro John Rolf Shawn Shadow, per un rimborso di un vecchio prestito di 1 miliardo di lire erogato, nel lontano 1994, dalla Banca popolare della Marsica.
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Per quasi sei decenni, Jacqueline Bouvier Kennedy Onassis ha affascinato il mondo intero con la sua grande personalità. Soggetto di numerosi libri e migliaia di articoli, la sua vita è stata documentata in milioni di parole. Tuttavia, è sempre rimasto qualcosa di non chiaro e misterioso relativamente alla dimensione privata di questa figura così "pubblica". Con abilità Barbara Leaming esplora la gioventù di Jackie e il suo matrimonio da favola con un ricco e bel senatore candidato presidenziale, seguendola nella sua trasformazione in esemplare First Lady. L'incapacità, da parte di questa donna giovane e anticonformista, di vedersi sposata a uno qualsiasi dei facoltosi ma prevedibili pretendenti l'avvicinò all'eccezionale personalità di John Fitzgerald Kennedy, corteggiato fino al suo "cedimento" con la complicità del suocero. Jackie rimase al suo fianco nei difficili anni alla Casa Bianca, costellati dai numerosi tradimenti del marito e dalle difficoltose gravidanze. Ma il trauma dell'assassinio di JFK, dal quale uscì letteralmente inzuppata di sangue e materia cerebrale, l'avrebbe danneggiata in maniera assai più profonda di quanto si sia saputo o immaginato finora. Questo di Barbara Leaming è il primo testo a documentare, con rigore scientifico e assieme grande sensibilità psicologica, la terribile e solitaria lotta di Jackie con la patologia psichica che la tormentò per i successivi trentun anni di vita: il Disturbo Post-Traumatico da Stress... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers #instabook #igersravenna #libreriascattisparsi#ig_books #libriusati #biografie #jacquelinekennedyonassis (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/BsPiNXLHPKg/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=12ac0ktaxl6p1
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Il Cappello di Paglia di Firenze di Nino Rota
Scritto nel 1945, un anno di grande importanza per il mondo, ma specie per l’Italia della Seconda Guerra Mondiale, Il Cappello di Paglia di Firenze di Nino Rota è un’opera lirica che ancor oggi riesce ad ammaliare, suscitare interesse e tutta da scroprire, che non risente di quegli acciacchi né tanto meno di quei limiti che solo il tempo impone su ciò che l’uomo, con il suo genio ed estro creativo, crea. Certo, nel grande universo della lirica l’opera di Rota è una giovane promessa, una “ragazzina” in mezzo ad un mare di signore dall’aspetto imponente e regale, in fondo, per quanto a noi lontana, quest’ultima ha solo una settantina d’anni, non di più, ma è proprio la sua collocazione temporale la chiave per arrivare a comprenderla meglio ed apprezzarla in ogni sua sfumatura dato che la pone in quell’anello di congiunzione perfetto che unisce, dietro a molteplici aspetti, culturali ed antropologici, oltre che musicali, il nostro “ieri” con il nostro “oggi”. Il Cappello di Paglia mescola con sapienza ed arguzia elementi tipici della farsa, un genere che nel bel paese non è stato mai troppo ripreso a partire dal Romanticismo, considerando che Verdi ne scrisse solo due, Un Giorno di Regno e Falstaff e Puccini non ne realizzò neanche una delle dieci da lui scritte ad eccezione dell’ultima parte del Trittico, il geniale Giovanni Schicchi. Rota, in un momento cruciale per la nostra storia, subito successivo ad una delle pagine più buie dell’umanità, decide di mirare al passato alla leggerezza e, nel farlo, amalgama elementi contemporanei che guardano al futuro, grazie alle melodie, ai cori ed ai testi frizzanti, ambigui, maliziosi e emozionanti.
Il Cappello di Paglia, che a sua volta è una rilettura del romanzo di E. Labiche, nella sua trasposizione curata da Lorenzo Maria Mucci omaggia anche il cinema e le arti visive, rende onore alla geometria di scena ed al musical, avvicinando così la lirica agli spettatori dei nostri tempi, affinché l’intera vicenda narrata non risulti troppo pesante per tutta la sua durata. Esperimento riuscito in pieno poiché una volta dato inizio al primo atto l’avventura rocambolesca di Fadinard e del tanto agognato cappello di Firenze, prende il via con una carica ed un’energia considerevole, preceduta da un breve intermezzo muto che omaggia il cinema ai suoi esordi, la cui funzione è quella di far credere, a chi guarda, che quanto accade è sia un’opera fatta a teatro che una successione di eventi che prendono animo in una cornice cinematografica ben precisa come possono essere gli studios hollywoodiani. Una pellicola, che porta la firma di due maestri, che di recente ha proprio messo in risalto la figura dell’ambiente del cinema, non tanto quel che si crea, ma dove lo si realizza è proprio Ave Cesare! dei fratelli Coen, anche quello, guarda caso, un lungometraggio dal sapore retrò, ambientato negli anni 50’ che unisce elementi classici e dell’epoca ad altri più moderni e fruibili dagli spettatori odierni, il tutto incastonato nei grandi studi cinematografici di L.A. Elementi, quelli che si collegano al cinema, riscontrabili anche nel secondo atto, quando Fadinard si reca dalla Baronessa Champigny per supplicarle di dargli il noto cappello, i quali non appaiono invadenti né tanto meno fuorvianti, anzi, nel caso, verrebbe proprio da sottolineare come quest’ultimi segnino un aggiunta in più, nel complesso, di grande importanza omaggiando anche la carriera cinematografica del noto compositore e quell’industria d’arte moderna che è la cinematografia, nata proprio a fine ‘800, periodo in cui Mucci decide di ambientare la storia, richiamando a sé Clair e l’ambiente culturale parigino.
Il Cappello di Paglia riesce al meglio, forse, proprio nei suoi primi due atti, quando la storia conserva ancora una trama lineare e presenta un personaggio dopo l’altro introducendoli con i giusti tempi e dando ad ognuno il necessario spazio per rimanere ben impresso nella testa di chi guarda e ascolta, dalla moglie di Fadinard, Elena, alla campagnola Anaide e la guardia di lei amante che non la lascia un momento da sola, sebbene le sequenze migliori siano tutte quelle legate al momento in cui i due amanti protagonisti si dichiarano il loro sincero amore, con la voce burbera del padre di lei alle spalle, che da bravo suocero non accetta le nozze tra Fadinard e sua figlia, il siparietto civettuolo delle modiste di Parigini, i cui toni leggeri potrebbero tranquillamente collidere con le tessitrici di Hugo nel musical Le Miserables, e l’entrata in scena della Baronessa di Champigny, lei un’eco lontana di quelle vecchie matrone dell’alta aristocrazia che passano il proprio tempo e la propria vita a dare feste, balli e vivere in quella compagnia che brinda in nome dei vizi e della propria opulenza. Non è un caso, infatti, che Rota sapientemente sottolinei questi aspetti mettendo in luce un dettaglio tanto piccolo quanto di grande importanza: alla Baronessa, che si professa d’amare l’arte e la creatività, che ostenta sensibilità e buon gusto ed attende a gloria il violinista Minardi, non è affatto interessata al talento musicale di quest’ultimo, quanto più alle richieste eccentriche che questi, di certo, gli farà una volta suonato in casa sua, dopo aver saputo che una sua amica, dai piedi piccoli, ha dato al noto violinista, come pagamento, una pantofola di sua proprietà. Ed a riprova del fatto appena accennato vi è, qualora tutto ciò non fosse fin troppo buffo, lo scambio di personalità, da parte della Baronessa tra Minardi e Fadinard, così come il breve momento di seduzione che vede quest’ultima protagonista, eccitata non dalla maestria del (falso) violinista, quanto piuttosto dalla sua persona, il tutto, quando sullo sfondo, con fierezza decadente si presenta a noi tutti il celebre dipinto preraffaellita Ariadne di John William Waterhouse.
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“Trattenne un conato esistenziale”. Sul romanzo di Andrea Scanzi, noto personaggio televisivo
«Mi offrono un viaggio sulla macchina del tempo. Ho a disposizione un solo biglietto, posso scegliere se andare nella Braunau am Inn del 1889 e impedire la nascita di Adolf Hitler o nella Arezzo del 1974 e impedire la nascita di Andrea Scanzi. Che fare» (Guido Vitiello su facebook, 25 febbraio 2014)
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Questo fulminante quadretto satirico può essere utile per introdurre il personaggio del pubblicista Andrea Scanzi, definito da Wikipedia “giornalista, attore teatrale, saggista e conduttore televisivo”, in forza a Il Fatto Quotidiano, ultra-noto nei media italiani, dai giornali alle televisioni fino ai social network, dove imperversa quotidianamente. Recentissima la sua sguaiata esternazione lanciata fra Twitter e Instagram sull’ultimo libro: «Conosco colleghi che venderebbero la madre per essere ventesimi (ventesimi: non primi) nella classifica di saggistica della Lettura del Corriere della Sera. Io sono primo da due mesi. Potete immaginare il rosicamento (e le critiche) che ne derivino. Ma chi se ne frega: solo gioia e riconoscenza».
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Ecco l’euforia tipica che esplode a danno degli avversari: un impulso che più di una volta l’ha portato a deragliare in un macchiettismo trash e infantile, indegno di un giornalista di prima fascia, come quando festeggiò la sconfitta di Matteo Renzi al famoso referendum del 2016 inscenando davanti alla webcam di casa un balletto frenetico in cui simulava un orgasmo. Tutti sanno che Andrea Scanzi, oltre che una persona, ama essere un personaggio che ogni giorno si esibisce sul palcoscenico del Paese, assicurandosi che tutti lo guardino – con ammirazione o con riprovazione o con ostilità, l’importante è che si occupino di lui – e impegnandosi per suscitare reazioni, polemiche, indignazione, rabbia, recriminazioni, scontri. Molti lo definiscono più che egocentrico, cucendogli addosso definizioni iperboliche come turbonarcisismo alimentato da iperegolatria, per il suo bisogno quasi irrefrenabile di sentirsi superiore, di esibire disprezzo e imporsi su chiunque in ogni contesto.
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Non intendiamo affatto occuparci dell’aspetto politico della sua attività giornalistica, talmente connotato da essere chiaro a tutti e non richiedere precisazioni. Sia sufficiente la frase apodittica che pronunciò nella trasmissione televisiva de La7 “Otto e mezzo” il 14 giugno 2018: «Se l’elettorato Cinque Stelle comincia a dubitare della superiorità morale della propria classe dirigente, è la fine del movimento Cinque Stelle». Nemmeno vogliamo occuparci dell’immagine estetica che ama curare nelle sue costanti presenze pubbliche e televisive, con i capelli finto-spettinati per sembrare ragazzo, la barba tenuta a sei millimetri fissi per sembrare incolta, i giubbini e le catenine in vista che rasentano il coattismo, lo sguardo spavaldo di chi può mettere in ginocchio chiunque, la malcelata esibizione di machismo da sciupafemmine, da uomo-che-non-deve-chiedere-mai, con lo sguardo che sembra sempre dire io sono il meglio, io sono il meglio, io sono il meglio.
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Tralasciando tutto questo, ciò che porta a occuparci di Andrea Scanzi è la scoperta che nel 2015 ha pubblicato con l’editore Rizzoli un romanzo di cui non si ha memoria, al punto che oggi la voce wikipedia, definendolo “giornalista, attore teatrale, saggista e conduttore televisivo”, tace sulla qualifica di romanziere. Nel domandarci il perché, è arrivata subito la risposta: il suo La vita è un ballo fuori tempo risulta fra i libri acquistabili a metà prezzo nei magazzini remainders, dunque è rimasto in buona parte invenduto. Cosa può non aver funzionato in un’operazione che s’è certamente avvantaggiata del massimo sostegno, della massima visibilità, del robusto martellamento dei media, essendo l’autore uno dei personaggi più in vista del parterre giornalistico italiano?
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Così inizia la presentazione editoriale: “Per Stevie le cose non potrebbero andare peggio. In redazione, dove ogni mattina la scure di Zagor gli ricorda lo squallore filogovernativo del suo tronfio direttore; a casa, dove ad accoglierlo c’è solo la labrador Clarabelle, ghiotta di crocchette all’alchermes; e persino al bar, perché la ragazza bellissima e misteriosa che gli prepara il caffè, Layla, ormai da sei anni lo tormenta con la sua indifferenza”. Stevie vive col nonno in una casa che amano chiamare “palazzo Vaughan”; il nonno, tuttavia, si chiama Obdulio Vaiana, e la cosa sembra quanto meno bizzarra. Nelle prime pagine si legge: “Obdulio Vaiana sbuffò con vigore, espellendo decenni di Marlboro orgogliosamente fumate con buona pace di chi gli aveva sempre consigliato il contrario. Lui, a ottantasette anni, ci era arrivato. Si diede il tempo di riprendere fiato, o quel che ne rimaneva, e affrontò la quinta rampa di scale. Si massaggiò la gamba, regalandosi un crepitio di artrite, e si chiese perché Sandro non avesse mai neanche ipotizzato la presenza di un ascensore. In fondo quel palazzo a tre piani era suo. Suo e di suo nipote. Suo, di suo nipote Stevie e di Clarabelle”.
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Dunque, cerchiamo di capirci qualcosa. Innanzitutto, visto che questo protagonista – ovvio alter ego – si chiama Stevie (in onore di Stevie Ray Vaughan, dotta citazione musicale), forse all’autore non dispiacerebbe essere chiamato Scanzie: la frequenza con cui indossa giubbotti neri alla Fonzie sembra confermarlo. Il protagonista Stevie, ovviamente, lavora in un giornale: “Scriveva di calcio su «La Patria», l’unico quotidiano di Lupinia. Oltretutto era lunedì, e di lunedì la squadra locale, la Dinamo Brodo, non si allenava. Il giorno prima, in trasferta, aveva perso 7-0 con la Cicerchia Regna. Stevie aveva scritto il resoconto e le pagelle, stando bene attento a non dare insufficienze per non scontentare il direttore, casualmente presidente della Dinamo Brodo, nonché suocero dell’allenatore e padre del portiere”.
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Che ridere, che umorismo: un talentaccio, questo Scanzie. “I suoi migliori amici sono un playboy cinico e misogino, un tennista fallito, un cassiere di night vessato dalla moglie e una cavia di prodotti drenanti; e poi c’è Violet dagli occhi tristi, la sua ex, che in qualche modo ce l’ha fatta mentre lui è rimasto in panchina”, dice la presentazione editoriale. Che alla fine raggiunge il climax: “Un romanzo amaro e poetico, con qualche vino e tanto blues, costruito sull’intreccio di voci e storie che fanno da sfondo alla rivolta tutta privata di un eroe molto moderno mentre fuori la realtà morde, e fa male, sotto il velo consolatorio della commedia. La satira esilarante di un Paese inventato, le cui vicende sono fin troppo riconoscibili”.
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Qualche vino? Che può significare? Ma non perdiamo tempo e proseguiamo. Le vicende “fin troppo riconoscibili” sono presto dette: lungo la narrazione sono inserite piccole digressioni, staccate dal contesto e addirittura stampate in un carattere diverso, che ridicolizzano alcuni personaggi politici dell’epoca in un modo tanto becero e improbabile da non far capire nemmeno di cosa si stia parlando. Matteo Renzi è il premier Tullio Stelvio Bacarozzi e l’odiatissima Maria Elena Boschi è il ministro Elena Pia Bozzo: inserti che vorrebbero essere esilaranti, ma lasciano davvero interdetti per lo scollamento, l’insensatezza e la scoordinazione.
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La storia inizia col protagonista Stevie-Scanzie che si sveglia nel suo letto dopo troppi drink, e scopre di essere in compagnia di una donna di cui non ricorda nulla, nemmeno il nome: situazione tipica del femminiere incallito e irrecuperabile, che deve trombare senza sosta per alimentare il proprio ego. La prosa scanziana è talmente spigolosa da far quasi rimpiangere i walteromanzi veltroniani.
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“Soltanto a quel punto Stevie capì. E quello che capì non lo rassicurò. 1) «Il cane» non era un invito a riflettere sull’evoluzione della specie canina e sul suo ruolo nella società, ma un più prosaico riferimento a Clarabelle; 2) Clarabelle, cioè «il cane», non stava sbattendo sulla porta come un ariete, ma semplicemente tergicristallizzando la coda nel tentativo di attirare l’attenzione del padrone di casa; 3) la coda, sbattendo contro la porta del bagno, generava un effetto «assolo di batteria dei Led Zeppelin» che aveva appunto svegliato la voce; 4) la voce apparteneva a una donna. Stevie non ricordava benissimo chi fosse, né come l’avesse conosciuta, ma evidentemente ci aveva appena dormito”.
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Grande, lo Scanzie: che prova di machismo. A questo punto Stevie va in bagno e scimmiotta pari pari il famoso Fabio Volo che urina per terra e ‘fa la scarpetta’ con la carta igienica: “Pisciò tentando di centrare il water, riuscendoci in parte. Provò imbarazzo per se stesso e ripulì come poté”. Proviamo imbarazzo anche noi, pensando a quante volte deve essergli successo. Ma a un certo punto, ecco l’inserto politico in carattere arial: “Con il sorriso sulle labbra, giusto mentre Stevie ascoltava John Hiatt e Clarabelle si chiedeva quando diavolo le avrebbero dato da mangiare, il governo presieduto dal giovane Tullio Stelvio Bacarozzi depenalizzò centotrentaquattro reati. La decisione, votata all’unanimità anche da dissidenti e opposizione, fu motivata dall’urgenza di combattere la criminalità dilagante. Il Premier disse che, per contrastare le forze del male, bastava cancellare il concetto di male. La stampa, tutta, ne plaudì l’ardire da statista visionario e certo illuminato”.
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Che dire? Dobbiamo prenderne atto, pur non capendoci nulla. Poi arriva il nonno – che, udite udite, fa l’hacker – a sbirciare nella stanza: “Esercitò un’impercettibile pressione sulla porta, come sempre socchiusa, quel tanto che bastava perché la sua silhouette curva ma ancora severa ci si incuneasse dentro. Da sotto, ora ne era certo, arrivava una musica: Stevie aveva davvero trapanato con qualcuna, e adesso mandava il suo codice Morse al nonno e alla banda. Si trattava solo di interpretarlo”.
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Magnifico: Stevie-Scanzie ha trapanato con qualcuna, che ovviamente è sempre diversa. L’ha schidionata, com’è nella filosofia machista che permea la storia fin dall’inizio: “«Però almeno lui ha trapanato». «Sempre elegante, Vaiana». «Nel sesso non c’è eleganza. O si trapana, o non si trapana. L’uomo si divide in due macrocategorie: quelli che possono trapanare e quelli che non più. Stevie fa ancora parte dei primi, o così è lecito sperare per lui. Noi siamo ampiamente oltre la glaciazione. E non ci salverebbe neanche un plotone di Cialis in servizio permanente»”.
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Ma sono gli attacchi a Maria Elena Boschi – inseriti a casaccio in carattere arial – a essere insensati, demenziali, terribilmente imbarazzanti: “Elena Pia Bozzo, ministro delle Riforme Buone, si guardò allo specchio e sorrise. Lo specchio riflesse con un entusiasmo reputato non sufficiente dai Probiviri dell’ottimismo. Lo specchio fu condannato a morte”.
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Lo specchio riflesse? Abbiamo capito bene? Sì, riflesse: una coniugazione che non esiste, e che forse Stevie-Scanzie neanche immagina cosa sia. E l’editore Rizzoli – ormai fuso con Mondadori, al costante inseguimento del mercato e depauperato di risorse e competenze interne – sembra non avere più redattori capaci di lavorare in modo decente. Appena il tempo di riprendersi dallo choc, che dopo altri passaggi imbarazzanti (“Miriam se n’era già andata, senza neanche aspettare una risposta. A Stevie capitava sempre più spesso. Parlava e all’inizio non era solo, però poi sì”) arriva un altro attacco all’ex-ministro: “Elena Pia Bozzo si fece portare un altro specchio. Ci guardò dentro. Vide fianchi larghi, gengive enormi e un’ambizione stanca. Indispettita, telefonò a Paride Rozzi, lodatissimo ministro della Guerra, e chiese in prestito un drone. Rozzi, da sempre sensibile al fascino di donne e gengive, acconsentì. Il ministro Bozzo prese possesso del drone. Il drone si chiamava Eclipse. Il drone puntò allo specchio. Quando colpendolo lo mandò in mille pezzi, Eclipse si sentì felice. Anche il ministro Bozzo, però lei un po’ meno”.
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Vi assicuriamo che è difficile proseguire. Andrea Scanzi odia a tal punto una donna politica che la ficca in un romanzo piazzandole i fianchi larghi e le gengive enormi – mentre in altre sedi, dichiarandosi un “esperto di piedi femminili”, glieli definisce fra i più brutti perché “cicciotti”. E la prosa di questo pasticcio, che si ha la sfrontatezza di chiamare romanzo, diventa talmente balorda che ci si domanda seriamente se in Rizzoli ci siano ancora editor o correttori all’altezza. La costruzione della frase “Anche il ministro Bozzo, però lei un po’ meno” risulta inaccettabile per chiunque sappia fare editoria. Ma passando alla costruzione pratica del romanzo, il ricorso continuo alle citazioni fighe non fa che scimmiottare i terribili walteromanzi veltroniani: “Si vestì di tutto punto e indossò il suo cappello da sicario preferito: «È uguale a quello di Lee Van Cleef ne Il buono, il brutto e il cattivo» si ripeteva orgoglioso”. A cui si aggiungono le trite analogie alla Enrico Vanzina: “Agile come Fred Astaire, Sandro guizzava da un reparto all’altro”. Va da sé che la prima recensione, apparsa su Il Fatto Quotidiano a firma di Antonio Padellaro, il suo direttore, iniziava così: “Ho sempre pensato che avesse ragione Italo Calvino nel sostenere che, anzitutto nella letteratura, la salvezza vada cercata nell’ironia e nel sorriso”.
*
Non sappiamo che altro dire. Qui non si sorride per niente, l’insieme risulta così scoordinato, scriteriato, pretestuoso, dilettantesco, inefficace, vergognosamente insensato da renderne difficile una qualunque disamina. Un romanzo schifato anche dai lettori, che non sempre riescono a bere qualunque cosa. Dunque, ci limitiamo a riportarne qualche riga, perché ci siamo dilungati anche troppo.
*
“Dal calcolo dei dischi ascoltati, dovevano essere più o meno le venti. Le sue orecchie avevano appena beneficiato di Dave Alvin e Rolling Stones, Stevie Ray Vaughan e Allman Brothers band, Eric Clapton e Daniel Lanois”.
“«La speranza non muore».
Stevie trattenne un conato esistenziale.
«Uhm. Buono, ma non abbastanza. Zegatti, prova tu».
Zegatti non esisteva. Il ragazzo, un altro stagista, si chiamava Seganti. Apparteneva alla specie in via d’estinzione degli idealisti. Abbassò lo sguardo e disse: «La speranza è una trappola».
Stevie sobbalzò, anche se fece di tutto per dissimulare lo stupore. Un tempo era stata una delle sue frasi preferite. Una frase di Mario Monicelli”.
“Tutti annuirono. J.J. Cernia si spostò il ciuffo con la mano destra, che lambì un po’ di pece e si colorò di nero petrolio. Stevie, osservando la scena, ebbe il primo conato. «Se io fossi un uomo banale, vi direi di titolare: La speranza non è pura baldanza».
Stevie ebbe il secondo conato.
«Se fossi inutilmente originale e un po’ volgare, vi direi di titolare: La speranza non riempie la panza, ah ah ah»”.
*
E terminiamo qui, per non rischiare che i conati arrivino a noi.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Andrea Scanzi in una fotografia di Giancarlo Restuccia
L'articolo “Trattenne un conato esistenziale”. Sul romanzo di Andrea Scanzi, noto personaggio televisivo proviene da Pangea.
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Cristobal Balenciaga Eizaguirre, nato nel 1895 a Getaria (Spagna) da madre sarta e padre pescatore, ereditò proprio dalla madre la passione per la sartoria, con cui collabora durante l’infanzia, fino all’adolescenza, quando incontra la marchesa Blanca Carrillo de Albornoz y Elio di Casa Torres, importante nobildonna, che diventa sua cliente e protettrice. Grazie a lei, riesce a conferire titoli di studio a Madrid. Di fatto, Balenciaga fu uno dei pochi stilisti a disegnare, tagliare e cucire da solo le proprie creazioni. A soli 22 anni apre la sua prima boutique a San Sebastián nel 1919, a cui ne seguono altre a Madrid e Barcellona. La guerra civile spagnola, purtroppo, lo costringe a chiu dere le sue boutique, e a trasferirsi a Parigi, dove apre la propria casa di moda nel 1937 su Avenue George V. La sua prima sfilata di moda è stata caratterizzata da un design fortemente influenzato dal Rinascimento spagnolo. Il successo di Balenciaga a Parigi fu quasi immediato. Nel giro di due anni, la stampa francese lo ha lodato come un rivoluzionario, e i suoi progetti erano molto ricercati. Durante questo periodo, è stato notato per il suo “cappotto quadrato”, con le maniche tagliate in un unico pezzo con il giogo, e per i suoi disegni con pizzo nero (o nero e marrone) su tessuto rosa brillante. Gli anni del dopoguerra appare evidente l’inventiva del designer molto originale. Il suo designer divenne più lineare ed elegante, divergendo nella forma a clessidra resa popolare da ” New Look ” di Christian Dior.
Maestro del taglio e della precisione, Cristóbal Balenciaga fu capace di creare sul corpo umano geometrie morbide ed eleganti; riuscendo a far apprezzare, alla Parigi degli anni Cinquanta, elementi caratteristici del suo paese come il pizzo, il bolero e il contrasto tra rosso e nero. Intuizione e innovazione, unite ad una maniacale precisione sono alla base di tutte le sue creazioni: camicie senza colletto, scollature piatte, abiti a palloncino, a tunica, a sacco e scamiciati. La fluidità delle sue sagome gli ha permesso di manipolare la relazione tra i suoi vestiti e il corpo delle donne.
Nel 1947 Balenciaga lancia il suo primo profumo, “Le Dix”, a richiamo del numero civico della boutique.
Gli anni 50 sono caratterizzati dal New look di Christian Dior, Balenciaga, però, decide di liberare la donna. A differenza di quest’ultimo, infatti, il couturier spagnolo necessitava del contatto fisico con l’abito e desiderava conferire libertà al corpo femminile eliminando stecche, imbottiture, corpetti rigidi, discostandosi dunque dalle tecniche sartoriali del XIX secolo. Conosceva molto bene i tessuti e le loro potenzialità, egli traeva ispirazione dalle stoffe tanto che inventò un tessuto perfetto per creare volumi e adatto per gli abiti da sera: il Gazar una specie di raffia di seta, che permetteva di dar nuove forme, grazie alla sua particolare struttura rigida. Oltre al Gazar utilizzò un altro materiale innovativo, ovvero il Cracknyl, un tessuto plastificato, scintillante, impermeabile, ma sempre duttile con cui Balenciaga disegna soprabiti da città, pantaloni da campagna, completi da sci e costumi da bagno. . Coco Chanel disse di lui: “Solo Balenciaga è un vero couturier. Solo lui è in grado di tagliare il tessuto, assemblarlo e cucirlo con le sue mani. Gli altri sono semplici disegnatori”. Seguendo questi principi crea nel 1951 il Tailleur semi aderente, nel 1953 la giacca a palloncino e nel 1955 l’abito a tunica.
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Manteau du soir “papillon”, faille vert d’eau. Vêtements griffés Balenciaga. début années 60. Galliera, musée de la Mode de la Ville de Paris.
Nel 1951, ha completamente trasformato la silhouette, allargando le spalle e rimuovendo la vita. Nel 1955, disegnò l’abito tunica, che più tardi si sviluppò nell’abito chemise del 1958. Altri contributi nel dopoguerra comprendevano la giacca a palloncino sferica (1953), l’abito da bambolina a vita alta (1957), il mantello di bozzolo (1957), la gonna a palloncino (1957) e il vestito a sacco (1957). Nel 1959, il suo lavoro culminò nella linea Empire, con abiti a vita alta e cappotti tagliati come kimono. La sua manipolazione della vita, in particolare, ha contribuito a “what is considered to be his most important contribution to the world of fashion: a new silhouette for women.“.
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RISDM 1997-83
Couturier ufficiale della casa reale spagnola, apprezzato dall’aristocrazia europea e dalle donne più belle e potenti dell’epoca, Balenciaga realizzò abiti per una ristretta élite di persone in grado di indossare e rendere omaggio alla sua arte. Le sue creazioni non erano appariscenti o spettacolari, al contrario erano espressione di un’eleganza interiorizzata, raffinata e sobria.
Negli anni ’60 Balenciaga era un innovatore nell’uso dei tessuti: tendeva verso tessuti pesanti, ricami intricati e materiali audaci. I marchi di fabbrica comprendevano “colletti che si distaccavano dalla clavicola per dare un aspetto da cigno” e accorciando le maniche a “bracelet”. Le sue spesso scarse creazioni scultoree – tra cui abiti a forma di imbuto di rigida satin duchessa indossati per acclamare clienti come Pauline de Rothschild, Bunny Mellon, Marella Agnelli, Hope Portocarrero, Gloria Guinness e Mona von Bismarck – erano considerati capolavori di haute couture negli anni ’50 e ’60.
Jackie Kennedy notoriamente sconvolse John F. Kennedy per aver acquistato le costose creazioni di Balenciaga mentre era presidente perché temeva che il pubblico americano potesse pensare che gli acquisti fossero troppo generosi. I suoi conti di haute couture furono alla fine pagati discretamente da suo suocero, Joseph Kennedy.
Disegna, nel 1960, per la Regina Fabiola del Belgio l’abito da sposa, che gli conferisce fama nel mondo aristocratico europeo.
La prima collezione di Balenciaga, trae ispirazione dal rinascimento spagnolo, a cui segue la collezione “Infanta”, ispirata agli abiti ritratti da Diego Velasquez nei dipinti della Principessa di Spagna, e nella collezione “Jacket of light”, in cui ritroviamo i bolero che indossavano i torero spagnoli.
Dopo la nobiltà europea, nella Maison Balenciaga arrivò Hollywood. Elizabeth Taylor, Audrey Hepburn, Grace Kelly, Marlene Dietrich, Brigitte Bardot erano tutte grandi appassionate di Cristobal.
Cristobar veste l’attrice Audrey Hepburn nel celebre film “A colazione da Tiffany“. E per altri celebri film come: “Anastasia” con Ingrid Bergman, spiccano soprattutto un completo abito e mantellina, indossato sempre dall’attrice, e un vero abito principesco, di satin.
Era un uomo paziente, onesto, preciso, ossessionato dal raggiungimento della perfezione. Cristobal seguiva personalmente ogni tappa della creazione di ogni abito. Negli anni Sessanta, con le rivolte sociali e l’ingresso sempre crescente delle donne nel mondo del lavoro, cambiarono le esigenze. Proprio in quegli anni si sviluppò il prêt-à-porter: i capi venivano confezionati in taglie predefinite e venduti ai clienti, spesso nei grandi magazzini. La serialità non rientrava nella concezione di Balenciaga, non trovava onesto rinunciare al diretto contatto con il cliente, non si potevano realizzare quei particolari dettagli che facevano sì che un abito fosse perfetto per un particolare corpo. Nel 1968 all’apice della fama, prevedendo un inevitabile declino a seguito dei cambiamenti che stavano prendendo forma, preferì ritirarsi dalle scene, pur rimanendo di grande ispirazione per successivi stilisti di fama internazionale come Oscar de la Renta, André Courrèges, Emanuel Ungaro, e Hubert de Givenchy, e le passerelle continuano a mostrare le sue proposte. Balenciaga interruppe momentaneamente la pensione e tornò al lavoro nel 1972, per creare l’abito da sposa di María del Carmen Martínez-Bordiú, aristocratica e socialite spagnola. L’abito da sposa del 1972 era fatto di metri e metri di fili d’argento e oltre 10 mila perle. Dopo aver finito, non ancora soddisfatto da come vestiva, Cristobal rifece tutto, appena due settimane prima del giorno fatidico delle nozze di Marìa. Un perfezionista leggendario. Morì due settimane dopo aver consegnato l’abito alla sposa e la casa di moda rimase dormiente fino al 1986.
Cristóbal Balenciaga rimarrà sempre nella storia della moda come simbolo indiscusso di stile ed eleganza, come disse Christian Dior: “Il couturier dei couturier, il maestro di tutti noi”. Il 10 giugno 2011 è stato inaugurato dalla regina Sofia a Getaria, in Spagna, il museo a lui dedicato.
“Un maestro indimenticabile“. Nel 1986, Jacques Bogart acquisì i diritti su Balenciaga e aprì una nuova linea di prêt- à -porter , “Le Dix“. La prima collezione fu disegnata da Michel Goma nell’ottobre del 1987, che rimase alla maison per i successivi cinque anni con recensioni contrastanti. Nel 1992, Goma viene sostituito dal designer olandese Josephus Thimister. La Maison viene resuscitata da Thimister, direttore artistico del prêt-à-porter e accessori da donna di lusso per oltre mezzo decennio in uno stato d’élite e di alta moda. Si è detto che a Balenciaga “ha contribuito attraverso il suo stile minimalista e le sue grandi capacità nel ridurre la modernizzazione dell’immagine della casa“. I tempi d’oro tornano però molto tempo dopo, nel 1997, quando alla guida viene chiamato Nicolas Ghesquière, già attivo nella maison come progettista che non a caso si rifà molto agli archivi del grande Cristobal.
Nicolas Ghesquière creò la prima it bag tre anni dopo il suo arrivo e fece entrare la Maison nel mondo contemporaneo. La Motorcycle Lariat nacque con due modelli diversi, che però non entrarono in produzione. Ghesquière convince però i proprietari a produrne una limited edition di soli 25 esemplari, da distribuire a poche, fortunate celebrities. Kate Moss fu una di loro. La borsa esplode, desideratissima, e ancora oggi è in produzione.
Nicolas Ghesquière realizza un abito per Jennifer Connelly per la cerimonia degli Oscar del 2002. L’attrice vince come miglior attrice non protagonista, e sale sul palco. Tra il prima e il dopo dei fotografi, l’abito è sotto gli occhi di tutti, e Balenciaga torna sulla bocca di tutti, come sinonimo di sogno e perfezione.
Balenciaga è ora di proprietà di Kering SA (gruppo internazionale di lusso con sede a Parigi – possiede vari marchi di beni di lusso, tra cui: Gucci , Yves Saint Laurent, Alexander McQueen, Bottega Veneta, Boucheron e Brioni, oltre a Puma e Volcom nel suo portfolio Sport & Lifestyle), precedentemente noto come PPR, e la linea abbigliamento uomo e donna è diretto da Nicolas Ghesquière. Ghesquière, come Balenciaga, è un designer autodidatta, e apprendista di Jean-Paul Gaultier e Agnes B. L’interpretazione fresca e alla moda dei classici di Balenciaga, come la giacca semi corta e il vestito a sacco, attirò l’attenzione dei media e di celebrità come Madonna e Sinéad O’Connor.
La House di Balenciaga ha disegnato gli abiti indossati da Jennifer Connelly e Nicole Kidman agli Academy Awards del 2006, e l’abito da sposa Kidman ha indossato quando ha sposato Keith Urban. Kylie Minogue indossava anche un abito Balenciaga per i suoi video ” Slow ” e ” Red Blooded Woman ” e nel tour di concerti.
Nella collezione della primavera estate 2007, sfilano dei leggings che fanno delle gambe da robot. 100 mila dollari il costo, ma l’effetto è epico! Ovviamente, i leggings conquistano tutti. Beyonc�� li indossa ai BET Awards del 2007, e li lancia nell’empireo dei capi più desiderabili, e belli da guardare, della moda contemporanea.
Sempre Ghesquière, novello Balenciaga, manda in passerella per la collezione autunno inverno 2007 un blazer fantastico. Slim fit, dal mood preppy e con collo di pelliccia. Si crea immediatamente una lista d’attesa lunghissima per averlo. Sembrano davvero tornati i tempi d’oro di Cristobal.
Ghesquière disegna nel 2010 gli stivaletti Ceinture (cintura). Le stringhe richiamano proprio l’aspetto di una cintura, e anche se non producono l’exploit della it bag, nel lungo termine diventano richiestissimi. Uno di quegli accessori d’affezione che compaiono ancora oggi ai piedi di modelle e fashion blogger.
Nel 2012, poco prima di lasciare la Maison, Ghesquière fa un’operazione nostalgia, in omaggio al grande Cristobal. Seleziona dall’archivio 12 bozzetti di abiti e 6 di gioielli, e li riporta in vita ricreandoli nella linea Balenciaga Edition. Ghesquière usa gli stessi tessuti scelti dal countries a suo tempo, presentando un risultato straordinario. Nel 2013 Cate Blanchett indossa uno di quei 12 abiti, creato da Cristobal nel 1967.
Nel 2012 Ghesquière lascia la Maison, dopo averla praticamente traghettata nel contemporaneo. Subentra Alexander Wang, prodigio della moda americana. Anche Wang pesca generosamente dagli archivi della Maison, fonte inesauribile di ispirazione e creazione. Alexander Wang è uno stilista statunitense di origini taiwanesi. Wang lancia la sua prima linea di abbigliamento donna nel 2007 e nel 2008 viene nominato dal Council of Fashion Designers of America per un riconoscimento legato alla moda femminile, e vince un riconoscimento di 200,000 dollari, oltre che il Fashion Fund Award winner, premio indetto dalla rivista Vogue. Wang è principalmente noto per lo stile dei suoi abiti femminili, sottili ed in qualche modo mascolini. Molto caratteristico nel suo stile è anche l’utilizzo del cashmere, del cotone e del lino abbinato a tagli basici. Dopo aver disegnato la sua collezione autunno 2008, utilizzando principalmente il colore nero, ha prodotto per la stagione successiva una collezione a base di colori sgargianti come l’arancione, il rosa, e l’acquamarina al proclamo di, “Loro volevano colore, loro avranno colore!“. Oltre ai suoi marchi, è stato responsabile del brand Balenciaga dal 2013 sino alla collezione primavera/estate 2016. Nel 2014 sigla un accordo con H&M per la collezione autunno inverno del colosso low cost. Wang lascia Balenciaga nel 2015. Arriva un altro enfant terrible, ma di altra scuola. Il georgiano Demna Gvasalia è provocatorio e ultra innovativo, eppure l’anima di Balenciaga resta. Classe 1981, di origine georgiana e di nazionalità tedesca, ha iniziato il percorso del fashion designer alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa, accademia belga che vanta tra i suoi alunni gente come Dries Van Noten e Ann Demeulemeester, e dove Gvasalia si diploma con importanti riconoscimenti alla sua creatività.
La sua prima collezione arriva nel 2007 con il debutto alla fashion week di Tokyo. A soli due anni di distanza, nel 2009, il giovante talento approda alla Maison Martin Margiela, dove rimarrà fino al 2013 per dirigere il womenswear. È poi il turno di Louis Vuitton che lo vuole nel ruolo di Senior Designer per le collezioni femminili di prêt-à–porter. E a un certo punto lo stilista si lancia in un’avventura dal carattere indipendente come Vetements, brand al quale dà vita insieme ad altri sette creativi inizialmente rimasti anonimi. Emerge però ben presto la figura di Gvasalia, che guida la creatività della nuova label portandola sulle passerelle parigine nel 2014. Nel frattempo il fratello Guram ne cura il business dedicandosi all’aspetto commerciale.
Oggi, il marchio è più famoso per la sua linea di borse di ispirazione motociclistica, in particolare per il popolare “Lariat“. Balenciaga ha otto boutique esclusive negli Stati Uniti. Un negozio Balenciaga si trova sulla 22nd St a New York City, New York. Un secondo negozio si trova a Los Angeles, in California, in Melrose Avenue. Di recente, un terzo negozio ha aperto presso la South Coast Plaza, a Costa Mesa, in California. Questo negozio misura 110m2 e include espositori a forma di bara. Le boutique di New York e Los Angeles includono sia il prêt-à-porter maschile che femminile, mentre la boutique South Coast Plaza vi sono solo abiti femminili. Un quarto, situato a Las Vegas all’interno del Caesars Palace, espone solo accessori. Una posizione aggiuntiva sul Las Vegas Strip, in Crystals at CityCenter, vende accessori e prêt-à-porter femminile. La boutique dell’Ala Moana Center di Honolulu offre prêt- à -porter e accessori per uomo e donna. C’è un negozio nei negozi di Bal Harbour a Bal Harbour, in Florida. Un ottavo negozio aprirà nella primavera 2014 a Dallas presso l’ Highland Park Village per diventare la prima boutique del Texas. La boutique di Highland Park Village si apre accanto a Christian Dior. Tutte le boutique hanno uno stile vivace, con pannelli bianchi, marmo e vetro, nonché sedili in pelle nera e tappeti verde chiaro, nero e blu scuro o piastrelle bianche, sottolineando l’inclinazione del marchio verso le avanguardie e il dramma della moda.
Aggiornato al 24 maggio 2018
Autori: Paola Moretti e Lynda Di Natale Fonte: web
Cristobal Balenciaga #cristobalbalenciaga #creatoredistile #creatoredimoda #perfettamentechic #lyndadinatale Cristobal Balenciaga Eizaguirre, nato nel 1895 a Getaria (Spagna) da madre sarta e padre pescatore, ereditò proprio dalla madre la passione per la sartoria, con cui collabora durante l'infanzia, fino all'adolescenza, quando incontra la marchesa…
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“Quando Auden mi insegnò a usare gli aggettivi. E mi obbligò a leggere Il Signore degli Anelli”. I ricordi di Matthew Spender
Quando a insegnarti cos’è un aggettivo e come usarlo per il compito in classe che ti aspetta quel giorno è Wystan Auden, non si può avere una famiglia ‘normale’. A scriverne nella biografia dedicata ai genitori, Una casa a St. John’s Wood. Alla ricerca dei miei genitori, è infatti Matthew Spender, figlio maggiore del poeta Stephen Spender e della pianista Natasha Litvin.
Matthew Spender vive fuori Siena da cinquant’anni, fa lo scultore. Ha firmato Within Tuscany (In Toscana – Bertolucci se n’è ispirato per il film Io ballo da sola, che inquadra decine e decine di sculture sue), la biografia del suocero, From a High Place: A Life of Arshile Gorky. Dall’alto. Una vita di Arshile Gorky (sua moglie è la pittrice Maro Gorky) e la biografia dei genitori, Una casa a St. John’s Wood – Alla ricerca dei miei genitori.
Un libro dolce amaro in cui l’autore si assume il compito-privilegio-onere di raccontare la vita di un vertice della letteratura novecentesca da figlio e non da lettore, non (o non solo) da artista. Con onestà a volte illuminante, altre comprensibilmente infedele al mito: “Riflessivo e spesso bello e stupefacente… Istruttivo, analitico, spesso critico, di tanto in tanto sleale ma nel complesso un’opera profondamente commovente”, afferma in quarta di copertina l’“Evening Standard”.
Gli stessi occhi azzurro diamante del padre, la stessa capigliatura folta e trascurata e un fervore di nostalgia nella voce. La stessa ansia di bello, contenuta dall’accento perfetto. Lo vediamo in un recente video girato dalla figlia Cosima, Matthew Spender, camminare a piedi nudi per la sua casa toscana. Parla del padre, dei suoi amici artisti, di un mondo intero, abbagliante. Una vita per l’arte, passione, sudore e sangue contro pagine, sculture, disegni, note, versi.
*
Questa è una personale Ricerca del tempo perduto e la ricostruzione di due personalità complesse, contraddittorie e gigantesche: “scrivere un libro significa imbarcarsi in una missione – scrive Matthew Spender in esordio al libro – e se ho reso qui la mia più difficile, tanto meglio”.
Alcuni stralci di recensioni precisano: “Il racconto più veritiero del poeta Stephen Spender che abbiamo mai avuto… illustra possibilità e limiti dell’amore filiale e della fedeltà…”, “Observer”.
“Colmo di giudizi meravigliosamente acuti… un memoriale scritto in stile tanto meditativo, congeniale, concreto che solo dopo averlo chiuso s’inizia a cogliere tutta la bizzarria degli Spender”, “Mail on Sunday”.
“Ci fa aprire gli occhi… Questo memoriale si potrebbe leggere come una tragedia, ma Matthew fa in qualche modo ‘quadrare’ il matrimonio dei genitori concludendo che Stephen aveva bisogno di un ambiente sicuro in cui lavorare, mentre Natasha amava godere di gloria riflessa. Può esser vero, ma si finisce questo libro illuminante con la sensazione che la vita vissuta con quell’intensità può solo essere dei grandi”, “Independent”.
*
Il quartiere londinese di St. John’s Wood si trova a nord di Regent’s Park. Ci si arriva molto comodamente in metropolitana. È una zona centrale ma fuori dal caos delle vie più battute da turisti e traffico della capitale. Una High Street l’attraversa come nei paesi, ci sono piccoli parchi che ombreggiano panchine in legno, negozi di vario genere, locali dove oggi si suona dal vivo. La casa degli Spender non è lontana dall’Abbey Road attraversata a piedi nudi dai Beatles per elettrizzare la swinging London, poco oltre lo smeraldo del Lord’s Cricket Ground, il campo da cricket della federazione nazionale.
Alla casa di St. John’s Wood erano legati Isaiah Berlin, Christopher Isherwood, Louis MacNeice, T.S Eliot, solo per citare alcuni nomi. Alle pareti opere di altri amici, Lucien Freud, Henry Moore, Francis Bacon. Accanto al piano di Natasha un autografo di Stravinskij. Fuori, il giardino. Una casa diventata nel mondo una sorta di cittadella artistica del ’900: lì Spender ha scritto World within World e molta poesia, da The Still Centre a Ruins and Visions e The Generous Days, ha fondato e diretto la rivista “Horizon”, scritto saggi, critica, pagine di romanzo. Lì la generosità degli Spender ha accolto Brodskij espulso dall’URSS nel ’72, accompagnato da Auden. Matthew aveva 17 anni.
*
Amico di Spender dai tempi di Oxford e Berlino, vissuta insieme la galassia oxbridge precedente la Seconda guerra mondiale e buona parte del secolo dopo la guerra, in questa casa Auden entrava e usciva come in casa propria. E così una mattina Matthew scende per far colazione prima di andare a scuola e lo trova in cucina. Così Wystan Auden si trasforma in insegnante elementare e sulla tavola ancora ingombra di avanzi della cena gli spiega come usare un aggettivo. Matthew non lo dice, ma immaginiamo le borse sotto gli occhi che affiorano dal reticolato di rughe e il mozzicone di sigaretta.
È una pagina commovente: il poeta-Mago, figura mitica e familiare vista con gli occhi prima infantili e poi adulti ma sempre da dentro, dalla parte dell’amicizia, che durerà tutta la vita. Un piccolo aneddoto e in controluce la gentilezza di Auden – la sua nota generosità, la delicatezza di adulto-bambino e un rimpianto di vicinanza umana toccante, quel che Matthew chiama il suo “desiderio d’amore universale”.
Quando Matthew Spender impara da lui gli aggettivi Auden, rientrato in Inghilterra da tre anni, insegna a Oxford. Sta per pubblicare presso Faber & Faber la sequenza Bucolics e la serie lirica Horae Canonicae in unico volume con la raccolta The Shield of Achilles.
*
“È stato Auden a insegnarmi gli aggettivi. Stava sempre da noi quando veniva in Inghilterra. Io avevo nove anni. Scena: Loudon Road 15, la casa dei miei genitori a St. John’s Wood, otto e trenta del mattino. Ero in ritardo per la scuola. Wystan, con l’aria di essere in piedi già da ore, fumava al tavolo della colazione, annoiato o pensoso, e guardava fuori dalla finestra le felci aggrovigliate vicino al seminterrato. Mamma e papà erano ancora letto, nella loro camera con la grande toeletta su cui occhieggiavano strane spazzole che un parrucchiere sadico aveva da poco venduto al papà persuadendolo che stava perdendo i capelli.
Ero nel panico per il compito della mattina sugli aggettivi.
Wystan sembrò sorpreso. ‘Un aggettivo è qualunque parola che definisce un sostantivo’, disse.
‘Quello so dirlo’, dissi. ‘Ma non capisco cosa significa’. Lui lanciò uno sguardo sulla tavola, spostò i cereali e tra gli avanzi della sera prima trovò una bottiglia di vino. Un oggetto più notevole di altri. ‘Ah… Potresti dire, il buon vino’, disse con fermezza. ‘La sua bontà definisce il vino’. Poi pensò un attimo, scrutando la bottiglia. ‘Il vino era buono’, disse, correggendosi; e aggiunse con voce tragica, ‘ora tutto ciò che resta è una bottiglia vuota’.
Quell’estate mia sorella e io eravamo stati abbandonati su un’isola al largo della costa del Galles. Molte pulcinelle di mare, qualche cormorano e un gran numero di pecore placide. In cima alla collina al centro dell’isola c’erano tre tombe coperte d’erba di Vikinghi morti secoli fa, e l’isola di Bardsey mi aveva lasciato l’ossessione per spettri cimiteriali e il sinistro mistero delle storie di fantasmi nordiche. Venendo poi a saperlo quello stesso anno, Wystan mi inviò da New York la trilogia di Tolkien, Il Signore degli Anelli. La lessi tutta d’un fiato.
Auden diceva di sapere da dove veniva ogni dettaglio di questa trilogia e che un giorno ci avrebbe scritto sopra. Un giorno il papà provò a leggerla ma trovò Tolkien tremendamente noioso. Una volta, Wystan e io scrivemmo insieme poesie ‘alla Tolkien’, sempre all’ora di colazione ma alcuni anni dopo gli aggettivi. Io le raccolsi e le copiai in cui quaderno che decorai con uno stemma araldico (…).
Nelle mie ripetute letture de Il Signore degli Anelli Wystan c’era sempre, da qualche parte. Il Mago gentile e pedagogico. In questa prima fase dell’amicizia con Wystan coglievo intuitivamente l’immagine di sé giovane, che era quella dello “Zio Mago”, un eccentrico vicario vittoriano con il chiodo fisso per gli Apocrifi. Non voleva esser preso sul serio a ogni piè sospinto. Gli piaceva pontificare, ma in cambio anche essere stuzzicato. Anche questo faceva parte del suo desiderio d’amore universale, che era un suo bisogno profondo”.
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Poi Matthew Spender prosegue il racconto di una vita e cambia argomento. I genitori nel suo libro li chiama spesso – semplicemente – Stephen e Natasha: sana distanza del figlio da un padre e una madre anche ingombranti, o necessaria distanza dell’autore dal proprio soggetto?
Comunque sia, Una casa a St. John’s Wood. Alla ricerca dei miei genitori porta spesso il lettore accanto al Mago, gli mostra i segreti della pozione con naturalezza. Inizia dall’epilogo, la morte di ‘Natasha’, e ripercorre a ritroso la vita degli Spender dall’infanzia sua e di ‘Stephen’ al presente. A’ rebours privato, a metà tra diario e mosaico artistico letterario, ‘alleanza’ emotiva con il passato e desiderio di lanciare in volo la memoria, è un libro di prosa dinoccolata come la camminata dell’autore. Che ha avuto la fortuna d’incontrare sul divano di casa a St. John’s Wood – o addirittura in cucina, è il caso di Auden –, buona parte della grande Letteratura del ’900.
Paola Tonussi
L'articolo “Quando Auden mi insegnò a usare gli aggettivi. E mi obbligò a leggere Il Signore degli Anelli”. I ricordi di Matthew Spender proviene da Pangea.
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