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May 1st in Petržalka, Photo by John Cifra, 1957
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John Cifra
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Musicians, Bratislava, Photo by John Cifra, 1957
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Philippe Halsman's Jump Book
Compléments de documents Yvonne Halsman, Postface Owen Edwards
Éditions de La Martinière, Paris 2015, 96 pages, 194 ill, ISBN 989-2-7324-7506-6
euro 50,00
email if you want to buy [email protected]
C’est en photographiant la famille Ford que Philippe Halsman a eu cette idée un peu folle : faire sauter Mme Ford devant l’objectif. Ainsi naît le concept de « jumpology ». Cet album présente des portraits hauts en couleurs (bien qu’en N&B), originaux, dynamiques, drôles et vrais. De Riga en Lettonie à New York, en passant par Paris, Philippe Halsman est devenu le plus grand portraitiste de son époque : Chagall, Le Corbusier, Gide, Malraux et d’autres artistes et intellectuels tombent tous sous la coupe de son appareil. Dès 1940, Halsman fuit l’Occupation et émigre aux États-Unis où il se reforgera une notoriété aux côtés de Picasso, Marilyn Monroe, Ingrid Bergman, Winston Churchill, Audrey Hepburn, Salvador Dalí ou encore Alfred Hitchcock. La photographie d’Halsman se caractérise par son approche directe et psychologique, ainsi que par une recherche formelle dans le détail, affectionnant les expérimentations techniques et esthétiques. Il réalise 101 couvertures du magazine Life et publie, en 1959, son manifeste de la « jumpology » : Jump Book.
Le quasi 200 fotografie realizzate da Halsman a metà degli anni 50 che ritraggono stelle del cinema, regnanti, politici, attori, artisti e studiosi a mezz’aria sono ormai entrate a far parte nell’immaginario collettivo della cifra stilistica di Halsman. In quel periodo l’artista concludeva le sessioni fotografiche chiedendo ai suoi soggetti di saltare e così iniziò a prendere forma questa straordinaria ed energetica raccolta che tra gli altri annovera Marilyn Monroe, Edward Steichen, Audrey Hepburn, Robert Oppenheimer, John Steinbeck, Weegee, Aldous Huxley, Marc Chagall, Salvador Dalì, Brigitte Bardot, Groucho Marx, Richard Nixon e il Duca e la Duchessa di Windsor. "Quando si chiede una persona di saltare", ha scritto Halsman, "la sua attenzione è principalmente rivolta verso l'atto di saltare, e la maschera cade, facendo apparire così la persona reale."
25/10/24
#Philip Halsman#Jump Book#Marilyn Monroe#Steichen#Audrey hepburn#Chagall#Dalì#Hitchcock#Picasso#Ingrid Bergman#Churchill#Weegee#Groucho Marx#Brigitte Bardot#Peter Ustinov#Gina Lollobrigida#Duchi di Windsor#fashion books#photography books#fashionbooksmilano
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We Live in Time: provateci voi a non innamorarvi di Florence Pugh e Andrew Garfield

L'amore, il tempo, la vita, la morte e tutto quello che sta in mezzo nel folgorante film di John Crowley. Mai lacrimoso, eppure capace di arrivare dritto al cuore.
Mica è facile saper dosare al millimetro le emozioni peculiari di un film come We Live in Time. Dietro al film c'è la bravura registica di John Crowley su sceneggiatura del drammaturgo Nick Payne.

Florence Pugh e Andrew Garfield
A proposito di drammaturgia, il film è un meraviglioso esempio di racconto. Una sceneggiatura di marmo nella sua luminosa semplicità (e sensibilità). Piena, aperta, focale nel tempo scandito dal montaggio (Justin Wright) che alterna diversi piani temporali (e quindi le diverse tonalità), spingendoci a riflettere sul valore assoluto del tempo inteso come momento da vivere fino in fondo, andando oltre la stessa percezione di vita o di morte che, senza accavallarsi, pervade il film.
We Live in Time: la vita, l'amore e tutto quello che sta in mezzo
Sotto We Live in Time c'è una storia che potrebbe essere quella di tutti: Almut (Florence Pugh), che fa la chef, conosce (dopo averlo investito!) Tobias (Andrew Garfield), da poco divorziato. I due si innamorano, perdendosi in dieci anni di assoluta passione, complicità e uova sbattute al mattino (l'uovo è un elemento altamente simbolico nel film, che torna e, per certi versi, apre e chiude ogni blocco narrativo).

Il sorriso di Florence Pugh
Un amore che culmina con la nascita di una splendida bambina, data alla luce in una stazione di servizio. Poi, la violenta irruzione di un cancro alle ovaie che torna a chiedere il conto. Le frequenze verranno alterate, con Almut che, intanto, non si da certamente per vinta, e anzi sceglie di vivere fino in fondo il tempo che le rimane.
L'alchimia tra Florence Pugh e Andrew Garfield

Un momento del film
Potremmo quasi dire che We live in time - Tutto il tempo che abbiamo è un film in cui la cifra emotiva gioca un ruolo cardine, pur non inseguendo mai la faciloneria di certi sentimenti, e quindi senza essere mai lacrimoso o ricattatorio. Certo, ogni visione ha una propria personalità (la commozione è palese, ma almeno non cade nello strappalacrime), tuttavia l'umore (e l'amore) scelto da John Crowley evita l'appiattimento, nonché la semplificazione di un dramma che finisce per essere, invece, prospetto dalla forte adiacenza (e dai tanti colori), e ben legata alla strepitosa prova di Florence Pugh e Andrew Garfield. Un'alchimia, la loro, tanto tangibile che sembra uscire dallo schermo, portando lo spettatore ad innamorarsi al primo sguardo.
Ancora, nella loro performance non-lineare, si rintraccia l'analisi della drammaturgia secondo Crowley, e sulla stessa strada l'analisi del tempo che corre e non si ferma. Ma che, in qualche modo, può essere addomesticato, smussato e addolcito. E non è un caso che Almut faccia la chef: mestiere che più di ogni altro deve confrontarsi con i secondi che corrono.

Andrew Garfield e Florence Pugh in scena
In questo senso, tra cinema classico e approccio contemporaneo, l'opera del regista irlandese lambisce ogni tipo di emozione, sorrette e sottolineate dall'utilizzo tecnico della fotografia (Stuart Bentley), dall'organizzazione dello spazio, dei dialoghi reali e mai artificiali. Quasi circolare - la sequenza d'apertura dialoga con quella di chiusura -, We Live in Time, fin dal titolo, affrontata quindi il tempo dalla prospettiva sbilenca di una intuizione banalmente romantica, superando in modo lucido i rischi di una storia giammai piagnucolosa, eppure in grado di toccare, in pieno, il cuore. Quanto dolore, e quanta bellezza.
Conclusioni
L'analisi del tempo e dell'amore secondo John Crowley. We Live in Time è un manuale di sceneggiatura, mai melensa e mai piagnucolosa, eppure potente nel dramma romantico portato in scena da Florence Pugh e Andrew Garfield. Se, senza di loro, il film non sarebbe probabilmente lo stesso, è poi la tecnica e la narrativa a rendere l'opera un esempio di linguaggio cinematografico, che calca al meglio lo spettro emotivo di una storia in cui perdersi, e ritrovarsi.
👍🏻
Florence Pugh e Andrew Garfield sono fantastici.
L'uso della luce.
Il tono, mai melenso, mai piagnucoloso.
Il montaggio.
👎🏻
Emotivamente non è mai ricattatorio, ma alcune vibrazioni personali potrebbero portare a pensarlo.
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A prescindere
Pare che John Woo sia tornato. Dopo Silent Night ecco qui The Killer. Va detta una cosa. Il re dell'action (così è stato definito) è invecchiato. Non è più quello di prima. Però la mano non l'ha mica persa. Ritmo, effetto moviola e coreografie dei corpi ci sono ancora. Costituiscono, io credo, la cifra della sua regia. Il nuovo film ha un solo difetto. Di fatto, è un auto-rifacimento (al femminile) d'un suo film culto. Un'operazione che trovo francamente presuntuosa. Però gliela si può perdonare. Due ore di adrenalina magari non purissima, però di qualità. Protagonista una supergnocca tanto letale quanto bella. Che ha dei ripensamenti. E scatena un bordello che manco ad Amsterdam. Non dovete sapere altro. Tanto, se amate questo tipo di cinema, fa per voi. A prescindere.
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Quando John Lennon incontrò Yoko Ono nel 1966, se ne innamorò a tal punto da lasciare la sua prima moglie, Cynthia, in maniera repentina. Iniziò una storia con Yoko e si sposarono all'inizio del 1969.
Come stabilito per il divorzio, diede a Cynthia soltanto uno stipendio, nonostante fosse consapevole che lei avrebbe dovuto sostenere e crescere da sola il loro figlio Julian, all'epoca di soli cinque anni.
Dopo qualche tempo, trovandosi quasi senza risorse, Cynthia sapeva di dover trovare il modo per procurarsi dei soldi per lei e Julian.
Decise quindi di vendere le lettere d'amore e i disegni che John le aveva dato quando erano una giovane coppia.
Le lettere erano cariche di passione, ricche di frasi come "Ti amo, Cyn". Potete immaginare quanto sia stato doloroso per Cynthia dover rinunciare a questi ricordi inestimabili. Alla fine, vendette tutto per una cifra importante.
L'acquirente era Paul McCartney, che pagò un vero patrimonio per questi ricordi. Pochi giorni dopo, Cynthia ricevette tutte le lettere e i disegni per posta, ora ben incorniciati. Arrivarono con un biglietto. Il messaggio diceva: "Non vendere mai i tuoi ricordi. Con amore, Paul McCartney".

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WATCHING IT COME TRUE, IT'S TAKING OVER YOU, OH, THIS IS THE GREATEST SHOW

Raggiunta una certa età è inevitabile che si acquisisca anche consapevolezza nella gestione del denaro. Per quel che mi riguarda, posso senz’altro dire di essere diventata finanziariamente avveduta ed economicamente oculata: per esempio, nel portafoglio tutte le mie banconote sono ordinate dal taglio più grande a quello più piccolo e scusate se è poco.
What's it like to brag about raking in dollars
Pertanto, consapevole che John Maynard Keyens non può che spicciarmi casa, quando ho visto il prezzo dissennato del biglietto per Taylor Swift: The Eras Tour, ben venti euro, che al cambio odierno sono sempre venti euro, ho detto: “Mi par giusto! Più che giusto, mi par doveroso. Posso aggiungerci financo una cistifellea, o qualsiasi altro organo semi vitale, chemmefrega. Taylor, che, ti serve un rene? Un pezzettino di fegato? Ho fatto le analisi adesso e i trigliceridi ce li ho a posto”. Perché ormai è chiaro che, per rispondere al quesito ontologico posto da Francesco Gabbani, “per un motivo in fondo esisterò”, il mio motivo è quello di dare soldi a Taylor Swift.
I forgot that you existed
Così, più leggera di venti sacchi ma priva di richieste di riporre i miei organi nei sacri canopi, mi sono recata al cinematografo armata soltanto del timore che, durando la proiezione tre ore, a un certo punto i jeans potessero premermi sulla vescica e dunque compromettere il godimento di questa storica esperienza. Perché non so se ci rendiamo conto: dopo dodici-anni-dodici in cui Taylor forgot that we existed, ci becchiamo addirittura il film-concerto al cinema. Di tutti gli eventi accaduti e che accadranno negli anni ’20 di questo secolo, questo è senza dubbio il più improbabile, e pertanto decisamente epocale: per forza di cose lo racconteremo ai nostri figli (non io), ai nostri nipoti (non io), ai nostri gatti (io).
It turned into something bigger
Ora, considerato il prezzo del biglietto pari al PIL del Principato di Andorra, credevo — e un po’ speravo — che in sala fossimo solo quelli che vedevo prenotati nell’app, cioè tre compresa me. Alla fine eravamo una ventina, cifra piuttosto standard per una proiezione pomeridiana, e per la prima volta in vita mia sono stata contenta di questo “affollamento”. Perché un po’ come con le fiere dei fumetti, dove per qualche giorno l’anno sento di essere davvero tra la mia gente, per una sera ho potuto sperimentare dal vivo quel senso di comunità nata intorno alla bionda gattara che per quattordici anni ho vissuto soltanto online. E sì, sì, ero al Mediolanum Forum e tutto, ma all’epoca il culto devozionale della divinità swiftiana era appena agli albori e la cosa si esauriva un po’ nell’ognuno per sé. Ricordo che nel bagno dell’autogrill sulla strada del ritorno c’era una ragazza con un 13 disegnato sulla mano, e io, con un 13 a mia volta, mi sono limitata a registrare l’informazione senza dirle nulla, poi pentendomene. In effetti non ho detto nulla manco ad Andrea Swift che a un certo punto mi sono trovata di fianco nel parterre, e quello è tutto un altro tipo di pentimento.
Adesso, invece, il taylorismo è un’altra cosa, enorme e superlativa: è Charizard livello 100, è l’eruzione del Krakatoa del 1883, sono i tre ettari cubici di denaro nel deposito di Zio Paperone, è il caffè della signora Pina a 3.000 gradi Fahrenheit.
So make the friendship bracelets, take the moment and taste it
Alcune ragazze nella mia stessa fila erano venute preparate, con una congerie di friendship bracelets da soddisfare il fabbisogno della Repubblica di San Marino, castelli compresi, e il loro invito a scambiarli, in una sala fino a quel momento tipicamente normale, ha acceso una miccia di interazioni tra perfette sconosciute che però, in quel momento, parevano amiche da sempre. È stato proprio come alle fiere del fumetto, in cui quando ci si incontra tra cosplayer, ma anche tra cosplayer e persone in borghese, si saltano i convenevoli e le frasi di circostanza e si arriva subito a parlare del sugo della storia di manzoniana memoria, che per me è ciò che nutre le persone in senso spirituale: i loro film, i loro libri, le loro serie, i loro personaggi preferiti, la loro musica. E perciò via, quando avete iniziato a seguirla io da Midnights ma mi sono proprio innamorata io sono affezionata a Speak Now perché è il primo suo album che ho atteso qual è il vostro album preferito qual è la vostra canzone preferita ma è vero che hanno tagliato Long Live e The Archer ma ci sarete a San Siro io l’anno prossimo ho la maturità spero non mi capiti proprio il giorno dopo voi avete avuto problemi a prendere i biglietti mio fratello ascolta il mentecatto™️ Kanye mio fratello invece è metallaro ma davanti a Fearless si toglie proprio il cappello…
Poi vabbè, che, non lo dici che stavi ad Assago nel 2011 e non le racconti le circostanze che hanno fatto sì che riuscissi a darle il cinque? Lì mi sono sentita come nonno Simpson sotto l’albero dei limoni che illustra alla gioventù i gloriosi tempi andati, e per uno strepitoso momento sono stata la persona più importante di tutta la fila M.
Ora, poiché il film mi ha presa alla sprovvista (ma per il concerto sarò prontissima) non avevo preparato alcun braccialetto, e anche se mi sono sentita in colpa a non aver nulla da scambiare me ne hanno comunque regalati due e il mio cuoricino è aumentato di tredici taglie. Cioè, non è meraviglioso? In altre circostanze ‘sta cosa mi avrebbe comportato soltanto una banale diagnosi di cardiomiopatia ipertrofica.

Are you ready for it?
Ridendo e sclerando, a un certo punto si sono spente le luci. Una rapidissima richiesta di ammenda per tutti i tuoi peccati perché sai che il rischio di restarci è altissimo, e via che si parte.
Ora, io di questo tour avevo visto soltanto poche clip, per un motivo: perché me veniva da rosicà, dato che ancora non erano uscite le date italiane e temevo che non sarebbero uscite mai. Quindi si può dire che tutto quello che ho visto, l’ho visto lì per la prima volta. In ultra HD. Su un megaschermo. In Dolby surround.
I don't wanna look at anything else now that I saw you
E adesso posso proprio dire che questo tour è una cosa mostruosa, nel senso etimologico originale: un prodigio, un portento, qualcosa che trascende i confini dell’umano. Perché diciamolo, Taylor che per tre ore ininterrotte se la canta, se la suona e se la balla, in uno spettacolo che ripercorre diciassette anni di carriera e dieci album, attiene più all’empireo che al terreno dove siamo collocati io e voi. In effetti, la domanda su come sia possibile che apparteniamo alla stessa specie Homo sapiens un po’ te la poni.
The crowds in the stands went wild
Ma voi cantate? Perché noi volevamo cantare, hanno chiesto le ragazze della mia fila, come a volersi giustificare preventivamente di quello che stava per accadere. La risposta è stata un sì più che mai lapalissiano.
Senza che uno potesse aspettarsi nulla di meno, alle prime note di Cruel Summer la sala si è trasformata in uno stadio - una sorta di piccola prova generale per l’anno prossimo, solo che quella volta sarà finalmente dal vivo (sto scrivendo queste righe su una barella di pronto soccorso perché una sincope mi ha fatto cascare giù come una dama vittoriana, quindi più che altro mi auguro da viva).
Got a feelin' your electric touch could fill this ghost town up with life
Abbiamo cantato, abbiamo tenuto il tempo, abbiamo interagito e scherzato tra di noi, e quando l’intera sala ha battuto le mani in sincronia dopo “When you know you're about to cry” di You Belong With Me, e ha fatto il cuore in Fearless, e quando ha mostrato allo schermo i friendship bracelets durante il bridge di You’re On Your Own, Kid, ecco, è stato davvero tanto bello.
E mi rendo conto della fortuna di aver trovato una sala viva e partecipe ma tutto sommato ammodo, perché ho visto testimonianze sui social di gente che ha dovuto passare tre ore in compagnia di scimmie urlatrici in gita sociale al mercato del pesce di San Benedetto del Tronto. In quel caso, forse avreste letto di me non sul blog ma sulle pagine della cronaca nera.
I had a marvelous time
E poi niente, a un certo punto si sono riaccese le luci, anche se io sarei volentieri rimasta lì a oltranza — mi fosse venuto in mente avrei invocato “Diritto di asilo!” come Quasimodo sulla balconata di Notre Dame. Già tornare al mondo reale dopo essere stata al cinema per me è traumatico in genere, figuriamoci tornare al mondo reale dopo tre ore di Taylor Swift formato maxi.
Ma vabbè, ora non mi resta che tenere duro durante i nove mesi che mancano alle due tappe italiane dell’Eras Tour, con Taylor che ritorna in Italia per la prima volta dopo, vedi tu il caso, tredici anni. E se per un film stavamo messi così, possa Iddio avere pietà dell'anima di chi dovrà, mmmh, tollerarci...
**** Le mie recensioni agli album:
Red dead revolution
‘Cause she’s still preoccupied with 19… 19… 1989
(Frankly, me dear, I do and I don’t give a damn about my bad) reputation
(If you wanna be my) lover
That’s all folk(lore)
Quoth the raven, “evermore”
Once upon a midnight dreary, while I pondered, weak and weary
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Aveva poco più di 20 anni John #Travolta quando ha vestito i panni del mitico Tony #Manero nel film musicale La Febbre del Sabato Sera, uscito al cinema nel 1977.
Il completo bianco che il personaggio indossa per ballare di notte tra luci psichedelica e ritmi anni ’70 è stato messo all’asta in California come parte della vendita denominata Hollywood: Classic & Contemporary, organizzata da Julien’s Auctions e Turner Classic Movies.
Si ipotizza una cifra intorno ai 200 mila dollari per questo abito da uomo che ha fatto la storia del cinema e ha dettato moda per una intera generazione
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Vietnam. Dragon Rocks - Bedalong, Photo by John Cifra, 1956
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GWEN JOHN & ROSARIO CASTELANOS

APUNTES PARA UNA DECLARACIÓN DE FE
El mundo gime estéril como un hongo. Es la hoja caduca y sin viento en otoño, la uva pisoteada en el lagar del tiempo pródiga en zumos agrios y letales. Es esta rueda isócrona fija entre cuatro cirios, esta nube exprimida y paralítica y esta sangre blancuzca en un tubo de ensayo.
La soledad trazó su paisaje de escombros. La desnudez hostil es su cifra ante el hombre.
Gwen John, Corner of the Artist's Room, 1909. National Museum of Wales
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QUEEN
Queen es una banda Británica de rock formada en 1970 en Londres, integrada por Freddie Mercury el pianista y el cantante, Brian May el guitarrista, Roger Taylor el baterista y John Deacon el bajista. El 9 de agosto de 1986 en el Knebworth Park, Inglaterra, fue el ultimo show en vivo en el que se presento Freddie Mercury . Ante mas de 120.000 personas, una cifra que habría pasado a la historia, pues era un numero muy alto para la capacidad de espectadores que tenía el Knebworth Park. Fue el ultimo show de Freddie Mercury pues tenia la enfermedad conocida como sida, fue el ultimo show pero no la ultima canción porque después sacarían un álbum. Lamentablemente el 24 de noviembre de 1991, murió a la edad de 45 años. Tras la muerte del cantante la banda se separo, John Deacon fue el primero en salirse de la banda y de la fama, seguido por Roger Taylor que aun que salió de la banda a veces tocaba en ocasiones especiales con Brian May. En el año 2022 sacaron la canción llamada Face it alone esperada por muchos fans y en memoria de Freddie Mercury.

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MARC RIBOT-THE JAZZ BINS
Ci sono delle leggende nel rock, nel blues e anche nel jazz che raccontano di concerti favolosi, storici o tutte e due le cose, dove per assistervi gli spettatori (il popolo del rock e anche quello del jazz) hanno dovuto sopportare improbe fatiche. A Woodstock si è dovuto soggiornare nel fango mangiando solo muesli, a Venezia per sentire i Pink Floyd ci si è dovuti arrostire sotto il sole e via di questo passo, come per la famosa edizione di Umbria Jazz che si è tenuta sotto una pioggia battente. Ognuno di noi si ricorda di un concerto in cui ha dovuto sopportare il caldo, la sete, la calca o la pioggia…Ecco, in scala ridotta, annovero tra questi anche il concerto di Marc Ribot E “The Jazz Bins” per Nj Weekender Spring Edition che si è tenuto sabato scorso presso Nòva a Novara. Ne è valsa la pena? Decisamente sì, naturalmente, anche se lo spazio Nòva forse non era il luogo più adatto per un pezzo da novanta come Ribot. Ma la “policy” degli organizzatori è questa e tanto vale dimenticarsi la schiena a pezzi e parlare di musica. Ma anche parlare della musica di Marc Ribot è una fatica improba, poiché le parole non riescono a supplire minimamente a ciò che le corde della sua chitarra trasmettono e si finirebbe per ricorre e fantasiose immagini mentali, a metafore, sineddoche, ellissi, insomma figure retoriche che poi lasciano sempre il lettore insoddisfatto. Ma certo non sarebbe sufficiente dire che il concerto-monster di questa edizione di Novara Jazz Weekender Spring Edition sia stato bellissimo senza aggiungere altro. E allora diciamo che Marc Ribot, assediato da centinaia di fans nella sala di Nòva e con lui Greg Lewis al sontuoso Hammond e Joe Dyson alla (esplosiva) batteria hanno incantato il pubblico. Proprio inutile cercare di definire il repertorio di Ribot che, ricordiamolo fece parte, negli anni Ottanta, dei “Lounge Lizards” di John Lurie che suonavano un jazz che sembrava punk o forse un punk che sembrava jazz. Ma Marc Ribot, oltre ad avere suonato, ha anche composto per artisti e chitarristi da storia della musica, come Wilson Pickett, David Sylvian, Tom Waits, Caetano Veloso, John Zorn, Elvis Costello, Robert Plant, Elton John, Diana Krall, Marianne Faithfull, tanto per buttare lì qualche nome, ed è proprio dovuta a questa diversità di approcci e di suggestioni musicali, la musica affascinante che Ribot propone. Sale sul piccolo palco di Nòva e, senza esitazione alcuna, attacca a suonare con piglio secco, deciso. Niente parole inutili, solo musica, di quella che è impossibile dimenticare. Cavalcate intense, variate all’infinito, “riff” possenti che inglobano tutto, free jazz, rock, groove, una potente e accurata centrifuga di generi che sembra produrne uno del tutto nuovo ed inimitabile che è poi la cifra stilistica propria di Marc Ribot. Che musica faceva Jimi Hendrix? Il rock? Il blues? È più facile rispondere che faceva la musica di Hendrix. Succede solo per i grandissimi che si chiamino Pink Floyd o che si chiami Bob Dylan. Lo stesso è per Marc Ribot che con quella chitarra in mano, che diventa una specie di bacchetta magica, è in grado di confonderci beneficamente le idee e il nostro razionale, ma spesso sterile, desiderio di catalogare tutto. Questo unico concerto italiano di Ribot è un altro gran colpo della premiata Ditta Novara Jazz che sembra ormai essere andata molto oltre, il pur prezioso festival di inizio estate, ed aver intrapreso una attività più complessa che copre tutto l’anno, con produzioni discografiche, iniziative ed eventi di più grande respiro. Però, la prossima volta, per raggiunti limiti di età, vorrei stare seduto in una confortevole poltrona o anche più semplicemente su una sedia…



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Ahora Keir Starmer insinúa Trewdown sobre los planes laboristas para dejar que los gigantes tecnológicos saqueen la creatividad de Gran Bretaña
Keir Starmer ha señalado una subida parcial sobre los controvertidos planes del gobierno para dejar que los gigantes tecnológicos saqueen el trabajo de los escritores, músicos y artistas de Gran Bretaña. El gobierno ha sido criticado por cifras como Sir Elton John y Sir Paul McCartney, quienes advierten que planea entregar una excepción de derechos de autor a las empresas que desarrollan…
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El psicoanalista.

—John Katzenbach.
Sinopsis: <Feliz cumpleaños, doctor. Bienvenido al primer día de su muerte.>
Así comienza el anónimo que recibe Frederick Starks, psicoanalista con una larga experiencia y una vida tranquila. Starks tendrá que emplear toda su astucia y rapidez para, en quince días, averiguar quién es el autor de esa amenazadora misia que promete hacerle la existencia imposible. De no conseguir su objetivo, deberá elegir entre suicidarse o ser testigo de cómo, uno tras otro, sus familiares conocidos mueren por obra de un asesino, un psicópata decidido a llevar hasta el fin su sed de venganza.
Dando un inesperado giro a la relación entre médico y paciente, John Katzenback nos ofrece una novela en la tradición del mejor supsense psicológico.
Reseña: Otro de los geniales libros que leí hace, al menos, diez años atrás. Desde que lo solté la primera vez lo proclamé mi libro favorito y mantuvo su puesto como único hasta el 2016, cuando leí La Divina Comedia. Desde entonces tuvo compañero. Pero habiendo pasado tantos años, de repente me cuestioné el final. ¿Qué pasó? Me había olvidado totalmente cómo había concluido a pesar de tener más que presente la premisa, y todavía manteniéndolo como primera respuesta cuando tenía que contestar a la pregunta: ¿Libro favorito?
Así que lo arranqué de nuevo y mis ojos se abrieron demasiado bastantes veces en las primeras páginas, al revivir las descripciones y pensamientos que leí cuando apenas estaba sobrepasando las dos cifras.
Acá tenemos un pequeño contraste con Narnia. Exigiendo en la actualidad una mejor versión de lo que estaba bien cuando tenía 9, y sorprendiéndome ahora de las mínimas sugerencias que se encuentran en unas páginas que visité por primera vez a los 10 o tal vez 11. Pero si vamos a ser todavía más honestos, Katzenbach no es quien me introdujo al morbo y a la sed de lo altamente explícito. Pero no es ahora, sino más adelante que vamos a hablar de él.
A pesar de esa pequeña curiosidad, me encantó que estuviesen esas descripciones y todavía más me encantó el saber que me encontré con eso en la lectura de mucho más chica. Qué decir.
Sin embargo, la sorpresa mayor apareció cuando seguí avanzando. Estaba segura de que no recordaba el desenlace de la historia, pero la obviedad me golpeó en la cara, dado que inconscientemente siempre lo tuve en la cabeza, y es evidente que me vi muy influenciada años más tarde en mi vida cuando yo misma empecé a incursionar en la escritura.
Venganza, muerte, suicidio, empuje al suicidio (como consecuencia y castigo), amenazas, lapsos de tiempo con un significado equitativo (hasta poético), incógnitas, poesía, juegos de palabras, mensajes a través de los medios más rebuscados y significativos, atentados contra vidas ajenas, tortura, familia, nuevas identidades, vidas paralelas, separación de la historia en tres partes, incluso la manera de redactar y hasta la particularidad de un Matthew que pasó a llamarse Mark. For who knows what I mean.
La historia avanza con tranquilidad y se toma su propio tiempo para ir atando cabos, lo cual me parece sumamente genial. Odio las cosas que se resuelven rápido casi sin ninguna explicación, en los que parece que el protagonista tiene un IQ de 140 que te capta todas las señales en seguida sin sentarse a preguntarse ni por un segundo qué carajo está pasando. Pero lo que más me gusta es cuando no hay intención alguna de generar empatía entre el personaje principal y el lector. Pasaba páginas y páginas y me importaba una mierda qué era lo que iba a pasar con el psicoanalista, si sobrevivía o no me era muy igual, yo quería saber quién estaba detrás de todo esto.
Frederick Starks es una persona normal, no es un ser humano excepcional, pero tampoco en su vida tuvo acciones que lo hagan cuestionarse a uno sus valores morales.
Durante los años adultos, sobre todo cuando uno empieza a formarse profesionalmente y mentalmente, encaminándose hacia cierto futuro, concentrado uno en sus cosas, lejos de ser egoísta, a veces se nos pasan cosas por alto, y en nuestra inocencia (y podría decirse también egoísmo de estar concentrados en nosotros mismos), generamos consecuencias en quienes nos rodean que, muy probable, nunca nos enteremos que causamos. Y el doctor Starks no corrió con esa suerte.
Un personaje bien armado, el cual me hizo acumular bronca varias veces porque se sentaba por demasiado tiempo a sobre analizar todo sin darse cuenta de que tenía las respuestas en la cara. Sin ir más lejos, le costó mucho no sospechar de gente obvia y descubrir verdades de las que me di cuenta diez capítulos antes que él. Y calmándome en seguida, lo comprendía porque estamos hablando de un psicoanalista con un trayecto de unos treinta años más o menos, que se dedicó siempre a solo escuchar y ayudar a la gente a descubrir sus propias respuestas. Nunca en su vida se vio forzado a actuar. Un personaje medio lelo al principio, pero el cual se va cansando a medida que avanza el tiempo, a quien le rompen tanto la paciencia y la vida, que progresivamente se va tornando en un badass total.
Me encanta cuando se desarrolla al personaje teniendo en cuenta su pasado, presente y futuro, y sobre todo, manteniendo la esencia de lo que el protagonista piensa como individuo único. No es una línea recta, en la realidad a veces progresamos un paso y de repente damos cinco para atrás.
El plot twist es interesante, aunque no te roba el aliento, al final del día te lo ves venir, al menos, si sos de las personas que prestan atención. Pero el proceso y la mente detrás de todo el plan es lo mejor, e incluso, se termina empatizando más con el psicópata que con el propio Doctor Starks.
A mí, personalmente, me hubiese gustado que se vuelva el más hijo de puta del mundo. Tuvo una oportunidad en sus manos que dejó escapar. Yo, de haber sido él me la hubiese cobrado bien cobrada y hubiese usado eso a mi favor para devolver con la misma moneda.
Aunque, tengo que darle crédito, porque al final muy lejos de eso no estuvo y supo hacer muy bien su jugada.
Y de no haber sido así, no hubiese habido pase libre para su continuación: “Jaque al psicoanalista”, el cual, no sé si me emociona tanto leer, quizá algún día.
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