#immagini per un orecchio
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"Ci fu un tempo in cui la parola scritta era intimidatoria; pochi leggevano, e leggevano poche cose, e ne scrivevano anche di meno. Poi la parola scritta venne consegnata a tutti: divenne un privilegio, e insieme un mezzo per dominare. Parole liberatrici si mescolavano a parole che volevano persuadere all'ubbidienza. Allora qualcuno si rammentò che il bandito analfabeta imprendibile in mezzo alle montagne, era libero, assai più libero dell'uomo d'ordine che quotidianamente imparava una piccola e disonesta verità da un giornale qualsiasi. Ma il tempo passa, e le cose cambiano. Oggi, nuovamente, l'uomo orecchio, l'uomo palpebra, l'uomo che si consegna al quotidiano ipnotismo – manifesti, televisione, discorsi di potenti, immagini, tutto ciò che, apertamente o occultamente, è “propaganda” - è l'analfabeta che sa leggere, colui che ignora i libri, e soprattutto quello che i libri possono toccare dentro di lui. In un mondo di pubblicità e di imbonimento, di menzogne non di rado confortate da cultura e da ingegnosa malafede, la possibilità di non essere catturati irreparabilmente, di non essere strumenti di incomprensibili e fittizie battaglie, sta nella nostra esperienza di noi stessi, della vastità e della drammaticità della sorte dell'uomo. Da questo punto di vista, non vi sono libri innocui e non v'è "cultura che non fa male a nessuno" e rende migliori. Un grande libro è terribile, perché la sua storia dentro di noi non si spegnerà mai, e sarà la storia della nostra libertà."
-Giorgio Manganelli
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Mi sento un oceano ogni mattina quando lo specchio rivela il colore intenso di uno sguardo non mio.
Uso le lenti per nascondere l'orrore di quel che sono diventata.
La perfezione non è mai stato un problema. Però parliamo di una perfezione imperfetta che sia chiaro. Governa la parte umana in fin dei conti, però potresti confonderti.
Probabilmente per strada gireresti la testa per guardarmi e non importa se sei donna o uomo, sono un magnete.
Rubo il tuo sguardo e lo tengo incatenato su di me finché non decido che basta e se pensi di avere un alcunché potere su di me, ti sbagli.
Se sei donna, mi invidierai. Non sarai invidiosa dei miei capelli o degli occhi. La tua invidia sarà su quel che non potrai spiegarti.
Se mi prendi a pezzi non c'è gusto. Se mi prendi tutta, t'innamori.
E tu, sei mio.
Baciami.
Scopami.
Venerami.
Lo farai.
Hai presente quella cosa che tu chiami vita? Dimenticala. L'unica a tenerti in vita sarò io. Basta prendermi nel giorno giusto.
Sono come quelle insegne sulle porte dei locali pubblici.
"Da lunedì al venerdì dalle 14 alle 18, sabato dalle 12:30 alle 14:30 e domenica dalle 8 alle 10".
E credimi, tu ti presenterai in anticipo con un'ora, al minimo.
La cosa che più noti in me sono le labbra. Rosse. Quasi nere. Che poi in fondo te le immagini intorno al cazzo chiedendoti se succhiandolo resterebbe sopra il rosso del rossetto.
Te lo rivelo.
Non resta.
Sarà mia volontà quel che tu farai.
Ti distruggerò. Un colpo fisso al cuore per mille volte. E credimi decido io il finale della tua vita.
Urlerò se le cose non andranno secondo il mio desiderio e brucerò parole nascoste dentro il mio cuore, sarò dolore a fior di pelle, antidoto a fior di labbra e veleno.
La sera in macchina girerò la testa, guarderò le luci in lontananza che pian piano si perdono nel buio fitto,le righe bianche sulla strada, a volte continue altre volte interrotte, nei miei occhi noterai la vicinanza che lentamente si perde dei ponti e dei segnali stradali che resteranno alla nostra schiena.
Mi girerò, un sorriso dipinto sul mio volto con la precisione di Picasso e capirai, dio se capirai il mio odio e il mio dolore, ma lo ingnorerai per paura, consapevolezza di una bomba a mano che sta per essere sganciata.
Le mie mani fredde avvolgeranno le tue e sentirai il buio che da dentro di me, ti invade, ti sopraffà.
Cosa vedo nei tuoi occhi?
La mia stessa paura?
Shh, tranquillo, non è ancora il tempo, non farebbe ancora abbastanza male, non sentiresti il mio stesso dolore, ed ora dormi con la testa poggiata sul mio ventre mentre ti accarezzo i cappelli lunghi sparsi sul volto e su di me.
Sarò dolce, delicata come una piuma, ma mi sentirai, sarai consapevole delle mie dita che stringono la tua gola impedendo al ossigeno a farsi strada.
Gli occhi spalancati, i miei chiusi, la bocca aperta, la mia sorridente, io sono in pace, terrorista atice e tu teorizzato.
Nel orecchio dirò d'amarti mentre vedrò la delusione dipinta sul tuo volto.
Non sai gestirmi, trattarmi con le mie armi. Le tue pistole vere, fucili e pugnali, le mie solo sguardi, mani e sentimenti.
Ti spogli sul mio letto mentre sopra di te appoggio il mio corpo, tu speri, brami,ma qua decido io, il mio campo di battaglia.
Combatti, siamo soldati in guerra, fino all'ultimo sangue, ultimo respiro e t'amo, più di eri e meno di domani.
Amore.
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1/10/24
cercando un nuovo confine ... sogno di estunno ... non chiudere a chiave le stelle ... vendesi saggezza - locanda delle fate (forse le lucciole non si amano più)
gravita 9.81 ... strips ... corrisione ... positivo/negativo ... in cammino - arti & mestieri (tilt: immagini per un orecchio)
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Un nuovo post è stato pubblicato su https://www.staipa.it/blog/passaggi-temporali/?feed_id=1236&_unique_id=659288b405617 %TITLE% Oggi è il primo giorno dell'anno. Nell'ultima parte del 2023 ho scritto meno di informatica e più di diritti. C'è un motivo ma ancora non lo posso rivelare, ma se tutto va bene quest'anno ci sarà una novità. Lo scrivo soprattutto per chi mi segue da molto tempo, chi conosce le varie anime di questo blog e chi conosce me. In queste ultime settimane, e nelle prossime, sto lavorando a un qualcosa su cui a tempi alterni ho lavorato per moltissimi anni in varie forme. Porta via buona parte della mia capacità di produrre testi ragionati e frutto di ricerca e anche per questo i testi che avete visto sono soprattutto su temi che "mi accendono" e non su temi di cui pianifico l'uscita nelle settimane o nei mesi precedenti. Parlo di capacità di produrre testi ragionati e questo credo sarà sufficiente per mettere qualche pulce in qualche orecchio di chi conosce cosa significa per me scrivere. Del progetto specifico, quasi nessuno è al corrente, ad eccezzione delle persone più care e di chi ci sta lavorando con me, ma è in continuità con il mio passato. Man mano che si avvicinerà il momento lancerò qualche altro semino qua e là, così per ingolosire chi sa afferrare i messaggi. Queste immagini per esempio. Ma no, non si tratta di un progetto visuale, ovviamente, con la grafica e i disegni sono una capra e queste sono solo immagini create con una Intelligenza Artificiale. Mi è piaciuto però tornare alla Polemipolitica (https://short.staipa.it/i99wb) e uno degli obbiettivi che vorrei fissarmi per quest'anno è quello di parlare di più di questi temi. A qualche lettore danno fastidio, ma va beh, uno non scrive di questi argomenti per non dar fastidio, anzi, come ho detto più volte è il fastidio che alcune persone provano a dimostrare che scriverne è utile. Buon inizio dunque. Ci vediamo in giro.
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Sento sempre le stesse lamentele sulla freddezza e nervosismo della moglie che giustifica le scappatelle, su come la moglie a casa vi accolga in preda a una crisi di nervi. Sulla madre che sta male, che a 50 anni ne mostra 70, la madre che ti sta addosso e controlla.
Ma prima di dire com è una donna ricorda come ci è diventata, quante volte ha finto di credere alle tue bugie sapendo la verità, o peggio, riempiendo lacune e silenzi con immagini dolorose.
Che marito, padre, figlio, fratello, fidanzato o amico sei stato per la persona che giudichi? Quanto è cambiata da quando vi siete incontrati?
Perché il sorriso è diventato rughe, veder qualcuno uscire è stare in pena guardando l orologio e tendendo l orecchio.
Quel telefono che squilla è un pugno allo stomaco ogni volta.
Puoi stare bene con una persona ma passarci insieme l inferno comunque. Deve valerne la pena.
Basta donne schiave, basta bambole usa e getta, basta donne selvagge che perdono l arte e finiscono domate e sofferenti. Basta abbassare la testa perché lui fa bene a darci per scontate, a picchiarci, umiliarci, tradirci, sminuirci, infamarci al bar o in famiglia ecc
Basta
Perché allora si vive meglio soli col proprio sorriso
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Sensitive Pornograph Recensione Hentai
Stranamente, questo è uno dei miei preferiti.
Non sono davvero sicuro del perché, tranne che tutto si combina in modo tale da farmi desiderare di vedere il video più e più volte nella sua interezza.
Il video consiste in due storie separate. (Sono due delle sette storie del manga originale.) Anche se non è lungo, ogni storia è impostata e la trama è sviluppata abbastanza per stabilire un interesse in qualcosa di diverso dal sesso - cioè, i personaggi e le loro situazioni. Non fraintendetemi, c'è molto sesso del tipo maschio-maschio. Anche se esplicito, non è così esplicito che ci si chiede perché ci si stia concentrando così tanto su quella parte del corpo, e l'emozione di entrambi i partner prima, dopo e durante il sesso è ritratta in modo tale da essere commovente. La prima storia è raccontata da una prospettiva in prima persona, facendovi entrare più profondamente nella mente di un personaggio. Nel breve tempo concesso per lo sviluppo della trama e dei personaggi questo può essere vantaggioso, ma si arriva comunque a conoscere un po' anche l'altro personaggio. Anche questo significa che si può sperimentare direttamente l'emozione di quel personaggio. La trama è sviluppata adeguatamente, e si risolve in modo soddisfacente, ma non senza qualche conflitto di trama, quindi il percorso è un po' imprevedibile.
L'arte è attraente e anche gli uomini sono attraenti. Un altro recensore ha commentato che gli uke (specialmente) si assomigliano, e sono d'accordo, ma c'è una significativa differenza di personalità (e di colore dei capelli!) per distinguerli. A tutto è dato un bagliore dorato che ha un effetto romantico. I corpi sembrano corpi di uomini, anche se un po' giovani. Forse un altro problema (che è relativamente minore in questo video rispetto ad altri simili che ho visto) è l'uso di immagini statiche e sequenze ripetitive, ma non è troppo fastidioso qui, e l'azione si muove ancora abbastanza bene.
Raramente trovo un problema con il suono in questi video, forse il mio orecchio non è abbastanza sottile? Ma non ci sono fastidi evidenti, in ogni caso.
I personaggi sono sviluppati abbastanza bene per un tempo così breve, e nessuno è minorenne, il che è un bel cambiamento di ritmo. Tutti i personaggi sono anche simpatici.
Nel complesso ho una sensazione davvero romantica e felice guardando questo video. È dolce e sexy allo stesso tempo senza essere sdolcinato. Lo consiglio a tutti i fan dello Yaoi e a chiunque altro abbia una mente aperta.
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Davide Calì a Bari da Spine con due appuntamenti
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DAVIDE CALÌ a Bari Martedì 18 Aprile il pluripremiato autore, fumettista e art director Davide Cali sarà nostro ospite in città con due appuntamenti da non perdere, una formazione e un reading dal vivo, nella stessa giornata al laboratorio urbano Officina degli Esordi.
- 18 APRILE 2023, ore 16.30 "Viaggio negli albi illustrati - Incontro di formazione da Spine a cura di Davide Calì".
[ A pagamento. Incontro frontale rivolto a docenti, illustratori, bibliotecari, addetti al settore o appassionati. Costo: 25 euro Durata: dalle 16.30 alle 18.00 Iscriviti QUI
- 18 APRILE 2023, ore 19.30 > "Feeling Bed - Storie prima di dormire. Reading dal vivo con Davide Calì da Spine".
[Ingresso libero. Reading dell'autore, dal vivo, di alcuni racconti estratti dal suo "Feeling Bed", illustrato da Virginia Mori e pubblicato da HOP Edizioni. "Un letto è un universo, in un letto avvengono cose fondamentali: nascite, morti, relazioni, sogni e incubi".
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Ogni letto potrebbe raccontare mille storie. In questo libro ne abbiamo raccontate alcune. Le illustrazioni di Virginia Mori intorno al tema del letto, portato avanti dall'artista per anni, incontrano la vena creativa di Davide Calì e diventano 19 storie+1.
In merito alla nascita del racconto, Calì (svizzero, classe 1972, è scrittore e fumettista, noto anche con gli pseudonimi di Taro Miyazawa e Daikon) spiega: «Con Virginia abbiamo iniziato a parlarne un po�� di tempo fa. Lei aveva questi disegni di letti e voleva farne qualcosa, forse una storia. A me piace scrivere su immagini già fatte per cui ho accettato la sfida, pur non sapendo cosa avrei scritto»
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::: Davide Cali è nato in Svizzera. Dice di essere biondo naturale, ma nessuno ci crede. Odia scrivere la sua biografia. Ha pubblicato più di 100 tra #albiillustrati, #fumetti e #romanzi, con case editrici come Kite Edizioni, Orecchio Acerbo Editore, Rizzoli, Editrice Il Castoro, Edizioni Clichy, Terre di mezzo Editore, Gallucci editore, Corraini Edizioni, Pelledoca editore, Edizioni Lapis, solo per citarne alcune.
Ha ricevuto premi in Francia, Belgio, Spagna, Svizzera, Germania e USA e i suoi libri sono tradotti in oltre 30 lingue.
Art Director (and Prince of Darkness) per Majestic - Agenzia letteraria, dal 2016 al 2022 è stato art director per Book on a Tree. Ha collaborato come docente con IED a Torino, MiMaster a Milano e con varie associazioni e scuole di fumetto. Tiene regolarmente workshop di scrittura in varie città italiane oltre che a Parigi, Bruxelles e Tallinn. DAVIDE CALÌ / CONTATTI FACEBOOK https://www.facebook.com/profile.php?id=100063678301778 INSTAGRAM https://www.instagram.com/davidecali_mrblond/
Info: [email protected]
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Weltanschauung Italia
Un racconto ironico e distopico di un futuro non troppo lontano.
Non avrai nulla e sarai felice
Il monopattino elettrico sbanda sulla strada deserta, innaffiata dalla pioggia, lasciando una scia profonda, che pare quasi un solco, sull'asfalto bagnato e scivoloso. I lampioni, quei pochi rimasti accesi, emanano una luce fioca, intermittente, quasi fossero grandi occhi che si aprono e richiudono in un ritmico ed isterico battito di ciglia. Tutto è irreale, spettrale, ovattato. Fa freddo, il silenzio è assordante. Sono le ventuno. Lasci il mezzo sotto casa, non vedi l'ora di rientrare fra le mura domestiche. Il lavoro in azienda è stato stressante, la giornata molto dura, i tuoi capi pretenziosi. Appena varchi l'uscio del tuo appartamento in affitto calmierato statale, tuo figlio ti corre incontro, sgranocchiando, con voracità, una barretta alla farina di grilli.
"Com'è andata la dad amore?", gli domandi premuroso, "e la lezione di storia nel metaverso?". " Tutto ok papà, come al solito benissimo! Ho anche preso 8 all'interrogazione a distanza!!". "Bravo tesoro, sei il mio orgoglio", gli rispondi felice, con il sorriso stampato sul volto stanco, arrossato, provato dalla fatica. Saluti tua moglie, entrando in cucina. La pasta, cotta a "fuoco spento", sta quasi per essere messa in tavola. " Tesoro, una doccia tiepida ed arrivo". Tua moglie ti guarda amorevolmente, " Va bene caro, stasera è il mio turno di farla fredda...certo con questo gelo..". "Perché, quanti gradi ci sono in casa?", "16 ovviamente, come prevede il decreto green austerity". Entri nel bagno, simile oramai ad una cella frigorifera. Il riscaldamento è spento dalle sette. Ti spogli, ti lavi in due minuti, ti radi con l'acqua fredda, ti asciughi, ti rivesti velocemente indossando un pesante maglione di lana. "Amore è pronto in tavola!", le parole della tua consorte risuonano, celestiali, dalla piccola cucina attigua. "Arrivo!", rispondi entusiasta, non vedi l'ora di sederti, rilassarti e goderti la cena. In fondo te lo sei meritato, hai lavorato duro, hai dato il massimo tutta la settimana. Gli spaghetti, incollati nel piatto, sono proprio come piacciono a te. Li divori, incensando la tua metà per l'ottima portata. In fondo non aveva torto quel premio Nobel, anni fa, agli albori della crisi energetica: anche cotta così è ottima, ed in più si risparmiano risorse fondamentali per il pianeta e l'economia. Finito di desinare assieme alla tua famiglia, finalmente puoi sederti sul divano. Affondi tra i cuscini infreddolito, ma beato, con la coscienza pulita per aver fatto il tuo dovere. Tua moglie e tuo figlio ti raggiungono. Vi stringete, tutti e tre, sotto il piumone, guardando sulla piattaforma a pagamento la vostra serie TV preferita. "Amore sai pensavo ad una cosa..", tua moglie ti mormora dolcemente nell' orecchio, " sono veramente felice, rispettiamo l'ambiente, viviamo in libertà, non ci manca proprio nulla!". "Sì, hai proprio ragione", rispondi assonnato. Mentre le tue palpebre diventano sempre più pesanti e la testa ti si sta reclinando lentamente all'indietro, incroci lo sguardo di tuo figlio. Le immagini della tele riflettono sui suoi occhiali spessi, formando quasi un caleidoscopio, che illumina il salottino buio. "Che generazione meravigliosa che siete", cogiti tra te e te, "verde, ubbidiente, colta, sorridente, che vive nell'epoca d'oro del progresso, della scienza, dei diritti, della democrazia". "Tesoro", la voce soave di tua moglie ti desta dal dormiveglia strappandoti, per un attimo, dalle braccia di Morfeo, "ricordati che la settimana prossima ti scade il pass vaccinale, devi effettuare il richiamo". "Certo", rispondi sbadigliando, "altrimenti non potrò entrare al lavoro". Mentre stai di nuovo per addormentarti, tra il brusio della TV e la coperta calda, un sorriso, appena accennato, affiora sulle tue labbra, oramai semi aperte e pronte al meritato riposo. "Avevano proprio ragione", pensi, "proprio ragione...non si sbagliavano di una virgola: non possederai nulla e sarai felice".
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Cresce l’universo dei podcast in Italia
Cresce l’universo dei podcast in Italia, come audio entertainment per eccellenza. Considerato il canale del futuro, in un’era visual pervasa da video e immagini, il podcasta sta prevalendo nel mondo della comunicazione e del digital marketing.
Secondo i dati delle ricerche Nielsen per Audible sugli anni 2019 e 2020, il numero degli italiani che hanno scelto di prestare attenzione e orecchio ai podcast è cresciuto costantemente, a doppia cifra, registrando nel 2020 un +15% per un totale di quasi 15 milioni di persone che hanno gustato almeno un podcast nel corso dell’anno.
La voce così sta diventando sempre di più il mezzo tramite il quale raggiungere gli utenti nel cyber spazio, grazie anche al format ad episodi on demand della nuova radio, il podcast nata da un’idea di Steve Jobs nel 2005.
Continua a leggere su Daniele Guidi Blog
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LE POESIE DELLO SCRITTORE FRANCESE
Paul Verlaine, le poesie più belle del poeta maledetto
Paul Verlaine è stato uno dei massimi esponenti della poesia francese del Novecento assieme a Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud

MILANO – Paul Verlaine (1844-1896) è riconosciuto come il maestro dei giovani poeti del suo tempo, nonché come uno dei massimi rappresentanti della poesia simbolista francese. La sua breve vita fu estremamente travagliata e drammatica, dalla relazione omosessuale con Arthur Rimbaud (che gli valse la nomea di poeta maledetto), all’incarcerazione, fino alla conversione al cattolicesimo e alla morte di tifo a soli 52 anni. Oggi ricorre l’anniversario della morte del poeta e lo ricordiamo con le sue poesie più belle.
La poesia e la musica
La poesia di Verlaine ebbe un effetto dirompente nel panorama poetico francese del tempo. Sulla scia di Baudelaire, Verlaine sente l’esigenza di rompere gli schemi delle metriche tradizionali, con i loro ritmi regolari e simmetrici, e si dedica alla creazione di versi liberi, irregolari, estremamente musicali. Secondo Verlaine la Parola è un simbolo, incapace di descrivere esaustivamente la realtà, ma capace di evocare immagini potenti dietro a cui risiede il senso profondo delle cose. La sua poetica pone al centro l’esigenza della musicalità, assimilando i componimenti poetici ai testi musicali attraverso il rifiuto dell’eloquenza, della rima e delle strutture metriche tradizionali. La poesia, dunque, necessariamente deve essere vaga, e non limitarsi alla semplice descrizione di eventi ed emozioni, ma trasmettere immagini, alludere, evocare sensazioni, proprio perché il senso profondo delle cose risiede al di là della Parola.
Arte poetica
La musica prima di ogni altra cosa,
E perciò preferisci il verso impari
Più vago e più solubile nell’aria,
Senza nulla in esso che pesi o posi…
È anche necessario che tu non scelga
le tue parole senza qualche errore:
nulla è più caro della canzone grigia
in cui l’Incerto al Preciso si unisce.
Sono dei begli occhi dietro i veli,
è la forte luce tremolante del mezzogiorno,
è, in mezzo al cielo tiepido d’autunno,
l’azzurro brulichio di chiare stelle!
Perché noi vogliamo la Sfumatura ancora,
non il Colore ma soltanto sfumatura!
Oh! la sfumatura solamente accoppia
il sogno al sogno e il flauto al corno.
Fuggi lontano dall’Arguzia assassina,
dallo Spirito crudele e dal Riso impuro,
che fanno piangere gli occhi dell’Azzurro,
e tutto quest’aglio di bassa cucina.
Prendi l’eloquenza e torcile il collo!
E farai bene, in vena d’energia,
a moderare un poco la Rima.
Fin dove andrà, se non la sorvegli?
Oh, chi dirà i torti della Rima?
Quale fanciullo sordo o negro folle
ci ha forgiato questo gioiello da un soldo
che suona vuoto e falso sotto la lima?
Musica e sempre musica ancora!
Sia il tuo verso la cosa che dilegua
che si sente che fugge da un’anima che va
verso altri cieli ad altri amori.
Che il tuo verso sia la buona avventura
Sparsa al vento increspato del mattino
Che porta odori di menta e di timo…
E tutto il resto è letteratura.
Spleen
Le rose erano tutte rosse
e l’edera tutta nera.
Cara, ti muovi appena
e rinascono le mie angosce.
Il cielo era troppo azzurro
troppo tenero, e il mare
troppo verde, e l’aria
troppo dolce. Io sempre temo
– e me lo debbo aspettare!
Qualche vostra fuga atroce.
Dell’agrifoglio sono stanco
dalle foglie laccate,
del lustro bosso e dei campi
sterminati, e poi
di ogni cosa, ahimé!
Fuorché di voi.
.
Viviamo in tempi infami
Viviamo in tempi infami
dove il matrimonio delle anime
deve suggellare l’unione dei cuori;
in quest’ora di orribili tempeste
non è troppo aver coraggio in due
per vivere sotto tali vincitori.
Di fronte a quanto si osa
dovremo innalzarci,
sopra ogni cosa, coppia rapita
nell’estasi austera del giusto,
e proclamare con un gesto augusto
il nostro amore fiero, come una sfida.
Ma che bisogno c’è di dirtelo.
Tu la bontà, tu il sorriso,
non sei tu anche il consiglio,
il buon consiglio leale e fiero,
bambina ridente dal pensiero grave
a cui tutto il mio cuore dice: Grazie!
.
Vola, canzone, rapida
Vola, canzone, rapida
davanti a Lei e dille
che, nel mio cuor fedele,
gioioso ha fatto luce
un raggio, dissipando,
santo lume, le tenebre
dell’amore: paura,
diffidenza e incertezza.
Ed ecco il grande giorno!
Rimasta a lungo muta
e pavida – la senti?
– l’allegria ha cantato
come una viva allodola
nel cielo rischiarato.
Vola, canzone ingenua,
e sia la benvenuta
senza rimpianti
vani colei che infine torna.
.
.
Il clown
Saltimbanco, addio! Buona sera, Pagliaccio! Indietro, Babbeo:
Fate posto, buffoni antiquati, dalla burla impeccabile,
Fate largo! Solenne, altero e discreto,
ecco venire il migliore di tutti, l’agile clown.
Più snello d’Arlecchino e più impavido di Achille
è lui di certo, nella sua bianca armatura di raso:
etereo e chiaro come uno specchio senza argento.
I suoi occhi non vivono nella sua maschera d’argilla.
Brillano azzurri fra il belletto e gli unguenti
mentre, eleganti il busto e il capo si bilanciano
sull’arco paradossale delle gambe.
Poi sorride. Intorno il volgo stupido e sporco
la canaglia puzzolente e santa dei Giambi
applaude al sinistro istrione che l’odia.
.
.
Noi saremo
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell’amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l’anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
.
..
Le conchiglie
Ogni incrostata conchiglia che sta
In quella grotta in cui ci siamo amati
Ha la sua propria particolarità.
Una dell’anima nostra ha la porpora
Che ha succhiato nel sangue ai nostri cuori
Quando io brucio e tu a quel fuoco ardi;
Un’altra imita te nei tuoi languori
E nei pallori tuoi di quando, stanca,
Ce l’hai con me perché ho gli occhi beffardi.
Questa fa specchio a come in te s’avvolge
La grazia del tuo orecchio, un’altra invece
Alla tenera e corta nuca rosa;
Ma una sola, fra tutte, mi sconvolge.
.
.
Poiché l’alba si accende
Poiché l’alba si accende, ed ecco l’aurora,
poiché, dopo avermi a lungo fuggito, la speranza consente
a ritornare a me che la chiamo e l’imploro,
poiché questa felicità consente ad esser mia,
facciamola finita coi pensieri funesti,
basta con i cattivi sogni, ah! Soprattutto
basta con l’ironia e le labbra strette
e parole in cui uno spirito senz’anima trionfava.
E basta con quei pugni serrati e la collera
per i malvagi e gli sciocchi che s’incontrano;
basta con l’abominevole rancore! Basta
con l’oblìo ricercato in esecrate bevande!
Perché io voglio, ora che un Essere di luce
nella mia notte fonda ha portato il chiarore
di un amore immortale che è anche il primo
per la grazia, il sorriso e la bontà,
io voglio, da voi guidato, begli occhi dalle dolci fiamme,
da voi condotto, o mano nella quale tremerà la mia,
camminare diritto, sia per sentieri di muschio
sia che ciottoli e pietre ingombrino il cammino;
sì, voglio incedere dritto e calmo nella Vita
verso la meta a cui mi spingerà il destino,
senza violenza, né rimorsi, né invidia:
sarà questo il felice dovere in gaie lotte.
E poiché, per cullare le lentezze della via,
canterò arie ingenue, io mi dico
che lei certo mi ascolterà senza fastidio;
e non chiedo, davvero, altro Paradiso.
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Bonaventura
I casi e le fortune di un eroe gentile
a cura di Hamelin
Interventi: Daniele Barbieri, Antonio Faeti, Goffredo Fofi, Fabio Gadducci, Andrea Paiello, Paola Pallottino, Paolo Poli. Racconti e poesie di: Stefano Bartezzaghi, Jerry Kramsky, Edoardo Sanguineti. Immagini di Sergio Tofano e: Daniele Brolli, Giorgio Carpinteri, Igort, Lorenzo Mattotti, Manuele Fior, Roberto La Forgia, Giacomo Nanni, Nicoz, Tuono Pettinato.
orecchio acerbo editore , Roma 2007, 112 pagine, ISBN 978-8889025567
euro 28,50
email if you want to buy: [email protected]
"Da bambini abbiamo amato Bonaventura per il suo intrepido candore. Da grandi abbiamo ammirato Sergio Tofano per la sua discrezione, la sua misura, la sua invisibile, sterminata, ironica pazienza." Gianni Rodari.
Per i novant’anni dalla prima apparizione del Signor Bonaventura fra le pagine del Corriere dei Piccoli, un omaggio al personaggio che ha appassionato generazioni di bambini italiani, diventando un’icona di riferimento dell’immaginario del nostro paese. La storia, il ruolo sociale, il valore della ricerca grafica e della scrittura, l’attualità e gli eredi.
11/06/20
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Singolari Pluralità
Singolari Pluralità
I. Alessandro
Alessandro sedeva sul gradino in pietra alla base della porta a vetri, osservando il sole che lentamente scendeva oltre le colline dove il grano era stato mietuto da poco e dove i contadini bruciavano le stoppie. In quella luce calante che virava dall'arancio al viola ed al blu le lunghe linee ondulate di fuoco sollevavano una sottile coltre di fumo grigio e di lontano si poteva odorare lieve l'odore di bruciato. Una piccola radio a cassette, posata sulla panchina di fianco all'ingresso suonava rock anni '70. Qualche timida stella faceva capolino in alto, nel cielo che rapido si scuriva, mentre pigramente le dita della mano sinistra del ragazzo piluccavano more di gelso da una ciotola. Erano fresche, lavate con l'acqua della fontana al centro della villa pubblica. La lunga via davanti alla porta della vecchia casa di famiglia ospitava per lo più garages o rimesse. Alcune automobili erano parcheggiate sulla destra, mentre dal campetto da calcio giungevano le grida dei giocatori dell'ultima partita.
Un cane di chissà chi sbucò dal vicolo e rallentò appena il suo passo per guardarmi. Nessuno dei due, probabilmente capì l'altro ed il quadrupede riprese il suo cammino verso le auto. I genitori ed i nonni del ragazzo avrebbero tardato, ma non importava. Lì in paese il tempo aveva un altro valore ed un'altra misura rispetto a quello della città lontana. Chiudendo gli occhi il ragazzino si lasciò pervadere dalla musica e sorrise piano, per il piacere di quelle sensazioni sonore, che gli tennero compagnia fino alla fine della cassetta.
Alzatosi entrò in casa, nelle ombre fresche del soggiorno e salì le scale verso la sera con il canto dei grilli che si alzava dalla siepi e dagli sterpi dabbasso.
II. LUISA
Luisa camminava per i corridoi della scuola senza far rumore, guardandosi intorno e si diresse al bagno delle ragazze. Si avvicinò alla finestra a la aprì cercando di non farsi sentire. Si frugò nelle tasche ed estrasse il suo piccolo spinello. Di nuovo diede un'occhiata in giro per vedere se ci fosse qualcuno. Era l'ultima ora. Con l'accendino diede fuoco alla strana sigaretta che teneva tra le dita. Inspirò con lentezza e pian piano si rilassò, guardando dalla finestra. Il cortile della scuola era verde di tigli, i motorini e le biciclette erano allineati lungo il muro sud dell'edificio. Di là dal cancello le macchine passavano ed oltre ancora il fiume scorreva verde ed opaco, verso ovest.
Luisa chiuse gli occhi ed una spirale di colori si avvitò nel buio delle palpebre serrate. L'odore strano di quel fumo proibito pian piano stava scemando. La sigaretta era finita. Un vociare rumoroso riempì l'aria ed alcune ragazze si diressero verso il bagno. Luisa gettò il residuo del mozzicone nel wc, tirò l'acqua dello sciacquone e si chiuse dentro, aspettando che le altre andassero via.
Trascorse un po' di tempo prima che tutto tornasse al silenzio. Seduta sul coperchio del water Luisa respirava piano, con un orecchio teso a cogliere cosa accadesse fuori, ma per il resto avviluppata in una sensazione di pace e di ispirazione. Con uno sforzo di volontà corse a sciacquarsi il viso con acqua fredda e scese le scale verso il portone. Ancora c'erano compagni che si attardavano nell'atrio.
La sua vecchia bicicletta coperta di adesivi la aspettava nella rastrelliera. Luisa aprì il lucchetto, tirò un profondo respiro e salì, pedalando verso casa nel tepore primaverile. I suoi capelli neri e viola si muovevano piano mentre la bicicletta avanzava lungo il viale, sfiorata da un traffico costante. I suoi jeans larghi e tagliati erano slavati e vissuti e la maglietta nera col logo dei NOFX, ricordo di un concerto di qualche mese prima si stringeva sulle sue forme di diciassettenne.
Arrivata sotto casa, davanti al portone del palazzo, mise la bici sotto la tettoia ed entrò in casa. I suoi non sarebbero tornati prima di quella sera.
Con le sue mani bianche, le unghie con lo smalto viola, si grattò piano il naso col piercing nella narice destra. Aprì il frigorifero e si fece un sandwich freddo, poi andò in camera, infilò nello stereo una cassetta con le sue canzoni preferite degli Skid Row e si sfilò i pantaloni. Si mise nel letto a pancia sopra. Gli effetti dello spinello erano molto deboli, Luisa si sentiva strana, languida. La sua mano destra scivolò nel suo intimo e piano, delicatamente, si diede piacere, fino a tremare e a sospirare. Subito dopo si addormentò, la finestra aperta che portava dentro il monotono suono delle macchine, del traffico sulla strada.
III. Nima e Fokar
Il terreno umido e fresco su cui sedeva Nima profumava di autunno. Il sole del tardissimo pomeriggio scendeva verso le colline che si alzavano sparse dalla enorme pianura erbosa. Il modesto rilievo su cui la ragazzina si era fermata ospitava anche qualche albero dal tronco scuro, coperto di muschio dal lato che guardava a settentrione. Le foglie, in quel tramonto senza vento, erano immobili, nelle loro sfumature tra il giallo, il rosso e il marrone. A terra diverse di loro erano morbidamente planate ruotando piano, chissà quando. Una falce di luna, in alto, brillava lattea ed intensa nel silenzio del cielo.
Mentre il disco solare iniziava a sparire all'orizzonte, l'aria si tingeva di colori sempre più cangianti, ma la luce era ancora abbastanza intensa da consentire di vedere con chiarezza.
L'aria cominciò a rinfrescare. La ragazzina frugò nel suo tascapane di fibre naturali, estrasse un piccolo involto di tela grezza dentro la quale si trovavano tre gallette aromatizzate alle erbe selvatiche. Con le mani leggermente screpolate le estrasse una per una, sgranocchiandole. Quel rumore sembrava essere l'unico in quei dintorni, l'unico percepibile al suo orecchio almeno.
Terminato lo spuntino Nima si alzò e con le mani si pulì alla bell'e meglio i pantaloni color caki, si stirò la schiena e prese a scendere il modesto rilievo passando tra i radi alberi ed immergendosi nell'enorme mare erbaceo, in direzione di casa. Non ci avrebbe messo molto, al massimo una quarantina di minuti, pensò.
Mentre il suo avanzare produceva il fruscio familiare causato dal movimento nella prateria. Ora il cielo si era fatto scuro ed era piuttosto freddo. La ragazzina strofinò le mani sulle braccia coperta dalla leggera camicia estiva, ma non serviva a molto.
Dopo una camminata abbastanza agevole, Nima arrivò a casa sua. L'edificio semplice a pianta circolare, sviluppato su due piani appariva grigio scuro nella sera. Le luci della cucina erano accese. I nonni dovevano essere già a tavola, erano abituati alle escursioni della nipote ed al fatto che i suoi orari erano piuttosto imprevedibili.
La porta si aprì e nonna Dema guardò la nipote dodicenne e le sorrise indicandole il piatto con lo stufato di borgel e funghi. La piccola sedette sulla sedia di materiale sintetico e salutò nonno Tarus, che sedeva davanti al proiettore olografico fumando il suo tabacco preferito, che si levava dalla pipa in legno rossastro, disegnando deboli volute ed aromatizzando l'aria della cucina.
Al termine della cena Nima salì in camera e si mise seduta alla finestra, guardando la notte, nel cielo povero di stelle. Il sistema di Nerod si trovava ai confini più estremi della galassia. Verso oriente si poteva ammirare il fiocco rossastro della nebulosa di Rotar, uno degli oggetti più luminosi del nero cielo di Kuoner, il pianeta della ragazzina. Kuoner era una grande fattoria, popolato da indigeni e coloni di un altro mondo lontano.
D'improvviso un suono simile ad un tonfo attirò lo sguardo di Nima verso il cielo occidentale. Una strana sensazione la colse, come se il cielo scorresse da una parte all'altra, ruotando rapidamente. La vertigine se ne andò così come era arrivata e finalmente la giovane capì cosa fosse successo. Nel cielo si era materializzata una nave di classe V che si dirigeva verso la fattoria.
Il velivolo scese a circa cento metri dall'edificio e si aprì il portellone anteriore, dal quale scesero tre persone.
I nonni di Nima uscirono e chiamarono a gran voce verso i nuovi venuti. Nima scese le scale di corsa e si gettò a capofitto verso uno dei tre.
Dopo una lunga assenza il cugino Fokar era rientrato dai suoi viaggi commerciali, insieme ai suoi compagni.
Sotto il pergolato all'aperto i viaggiatori consumarono un pasto veloce e parlarono a lungo con Nima ed i nonni dei loro viaggi e dei loro commerci. La notte si faceva sempre più fredda ma Nima non ci faceva più caso. I suoi occhi vagavano nel cielo a cercare rotte invisibili. Avrebbe voluto seguire il cugino, ma era ancora troppo giovane. Una vita in un posto come Kuoner non era la sua massima aspirazione.
Quando fu tornata nel suo letto il sonno la colse subito, senza che la sua immaginazione potesse perdersi verso lo spazio lontano.
Fokar si affacciò alla porta della sua stanza immersa nel buio e la salutò a bassa voce. Il mattino successivo, di buon'ora sarebbe dovuto ripartire. Camminare nel corridoio della casa in cui era cresciuto gli diede una fitta al cuore. La vita del mercante gli piaceva, ma l'effetto della nostalgia a volte era forte e quello che avrebbe voluto era tornare a fare il contadino e l'allevatore in quella grande prateria.
Nonna Dema era già tornata a dormire, mentre Tarus sedeva nel buio a fumare. Sentì il ragazzo scendere silenziosamente gli ultimi gradini e si voltò a guardare la sua sagoma. Il vecchio si alzò ed abbracciò il nipote, per poi dargli una pacca sulla spalla ed augurargli un buon viaggio. Fokar aveva gli occhi umidi di pianto e la sua mano li asciugò prontamente, mentre come un film nella sua mentre scorrevano immagini, suoni e parole di quasi trent'anni di vita in quel posto.
Era tardissimo e il ragazzo si stese sul divano, mentre il nonno saliva in camera.
Il sonno arrivò lentamente, a singhiozzo, fino a dare a Fokar l'illusione che il tempo non fosse passato e che lui ancora vivesse lì.
IV. Angela e Carmen
La sera del paese in festa era tutta una luce. Bancarelle, famiglie, anziani, bambini che sciamavano caotici lungo le vie, capannelli di persone che parlavano davanti ai bar o alle panchine lungo le vie.
Nel piazzale antistante la scuola i ragazzi ascoltavano musica dance e pop mixata da un Dj improvvisato ma dal buon fiuto. Il volume assurdo si abbatteva su quella distesa di asfalto illuminata dai lampioni pubblici e da un set di luci da palco piuttosto approssimativo. Tanti ballavano, molti si scambiavano sguardi, alcuni sparivano sul retro dell'edificio. C'era chi beveva qualcosa e chi rideva come matto a chissà quali battute.
Angela se ne stava con un gruppo di amici a parlare del più e del meno. I suoi capelli biondi, mossi, incorniciavano un viso simpatico, su cui poggiavano degli occhiali piuttosto fini. Angela ebbe un sussulto quando i suoi occhi incontrarono quelli di Carmen. Era successo ancora, ma in modo molto lieve. Un qualcosa le blocco stomaco e respiro, la schiena tremò. Carmen ricambiò lo sguardo. Magrissima, capelli lisci, castani, a caschetto, grandi occhi verdi.
Angela era una ragazza molto semplice, nata e cresciuta in una famiglia di lavoratori poco istruiti, un ambiente povero di stimoli, mentre Carmen era figlia di un medico e di una insegnante, figlia unica, coccolata ma non viziata. Carmen leggeva molto, sentiva molta musica, viaggiava coi genitori. Era una delle più evolute del paese.
Durante la serata le due ragazze si persero e si ritrovarono più volte, fino a che sedettero vicine su un muretto. Si conoscevano e si misero a parlare del più e del meno, fino a quando Angela, con una fasulla nonchalance chiese a Carmen se avesse dato già il suo primo bacio. Sicura l'amica le disse di sì, più di uno ad un paio di ragazzi. Angela abbassò lo sguardo sentendosi sfigata. Carmen le disse, che non c'era problema, come amica lei c'era. Angela sgranò gli occhi e la guardò. Carmen annuì sorridendo. Le disse di andare verso la fontana fuori dal paese seguendola a distanza.
Gli occhi di Angela seguirono la figura di Carmen che usciva dal complesso scolastico e che imboccava la via che usciva dal paese. Col cuore che batteva all'impazzata la seguì con la testa che faceva mulinare mille pensieri e paure. Così nervosa non era stata mai. Quando entrò nel buio percorse qualche decina di metri cercando di trovare l'amica, ma senza vederla. Di punto in bianco la voce di Carmen la chiamò ed Angela la vide. Le due sedettero su un muretto in mezzo alla vegetazione. Carmen carezzo le spalle dell'amica e cercò i suoi occhi nel buio. I due volti si avvicinarono. Angela, inesperta sbattè un labbro sui denti di Carmen, che sorrise e che poi unì le sue labbra a quelle di lei, per poi schiuderle piano ed iniziando una dolcissima danza di lingue e respiri. Il bacio fu breve. Le due si guardarono ed Angela ringraziò Carmen...una cosa piuttosto stupida da fare, pensò.
Alzatesi dal muretto, le ragazze tornarono alla festa. Per qualche strano motivo, da quel momento in poi il loro rapporto divenne assolutamente ordinario e quelle grandi emozioni che Angela aveva provato furono archiviate nella cassettiera dei ricordi. Perfino il sapore di quel bacio scomparve, nessuna delle due lo ritrovò mai.
V. Stefano
Il letto sfatto era illuminato dalla luce proveniente da una finestra su cui la pioggia si accaniva con violenza in quel mattino d'estate. Guido si faceva una doccia fresca ed era assetato. Stefano, il suo giovane compagno, dormiva pesantemente, ancora.
Uscito dalla doccia Guido andò a svegliare il ragazzo. I due si scambiarono un leggero bacio e si diressero in cucina a consumare una colazione a base di succo d'ananas ghiacciato, yogurt e frutta. Poco dopo Guido uscì per andare ad un appuntamento di lavoro. Stefano si lavò e si vestì. Mentre stava mettendosi la camicia il suo cellulare suonò con un numero sconosciuto. Il suo sguardo indugiò sullo schermo ma poi decise di non rispondere, salvo cambiare idea all'ultimo, ma la linea cadde. Con uno sbuffo il ragazzo si disse che con ogni probabilità era pubblicità.
Una volta pronto fece per uscire ed andare a lavoro, quando il telefono squillò nuovamente e questa volta rispose, ma dall'altra parte solo silenzio, poi la linea cadde di nuovo.
Senza pensarci troppo, Stefano si incamminò sotto i portici e si diresse al negozio che gestiva col fratello. Un negozio di musica vintage, dai dischi, agli strumenti, alla memorabilia. Al suo arrivo il fratello maggiore Gianni lo rimproverò per il ritardo, ma la giornata andò molto bene ed il battibecco fu presto dimenticato. Al momento della chiusura Guido chiamò per invitare Stefano a cena, ma il ragazzo rifiutò. Era stanco, quella sera avrebbe solo fatto un aperitivo con il fratello e la cognata, poi sarebbe andato a casa.
Dopo essere entrato nel suo piccolo appartamento in centro, Stefano si spogliò ed accese l'aria condizionata.
Gettatosi sul divano accese la tv, ma proprio in quel momento squillò ancora il telefono con quel numero sconosciuto. Innervosito Stefano rispose che lo scherzo non gli piaceva. A quel punto una voce giovane di ragazza si fece sentire, era Giulia, la sua ex. Il giovane cercò di mantenere una tono neutro ma lo sforzo fu vano perchè Giulia manifestamente cercava di ottenere le attenzioni di Stefano, il quale le ribadiva gentilmente di avere chiarito definitivamente il proprio orientamento sessuale.
Sentire il dolore di Giulia, tuttavia, gli provocava grande dispiacere. Erano stati non solo fidanzati ma anche molto amici e complici per anni. Un rapporto così non si cancellava con un colpo di spugna, doveva ammetterlo.
Durante la conversazione una pausa cadde improvvisa. Quella finestra di silenzio creò un inatteso inciampo. Giulia trattenne il respiro, mentre Stefano percorse i contorni del viso di lei, nella sua memoria. Non si vedevano da più di un anno...i suoi capelli chiari, lisci, a caschetto, i grandi occhi nocciola ed il fisico magro e minuto. Giulia era una ragazza dal carattere complesso e contraddittorio, frequentarla era stato piacevole, ma molto impegnativo, forse anche perchè Stefano sentiva sempre più intenso il desiderio verso figure maschili. Combattere con quella cosa non era stato facile e quando si decise a parlarne apertamente con lei le cose erano scoppiate, un intero mondo era andato in pezzi, schegge dolorose si erano sparse ovunque e si erano conficcate dentro entrambi.
Guido era arrivato qualche mese più tardi e la loro relazione era cominciata in modo difficile e stentato, ma poi si era assestata e Stefano aveva ricominciato a vivere in modo sereno.
Giulia, con quella chiamata, era ricomparsa in modo inaspettato e francamente Stefano non capiva il perchè visto come si erano lasciati. Durante quella pausa, quel silenzio lungo ed inatteso, mentre i ricordi riaffioravano, gli occhi di Stefano si inumidirono e lui deglutì, per poi asciugarsi le lacrime. La conversazione riprese con Stefano che chiese “Giulia, perchè? Perchè hai chiamato?”. La ragazza non rispose subito, poi disse “Mi manca...come mi facevi sentire...tanto”.
Stefano sospirò e rispose “Giulia, lo sai..dai..io sono diverso. Abbiamo avuto una storia molto intensa, ma io sono, ormai lo so...omosessuale. Non è che non pensi ai nostri tempi insieme, tu sei stata importantissima nella mia vita, per quasi nove anni, non è poco. Non è stato facile per me capire...capire tutto quello che sono, voglio dire, non solo l'orientamento sessuale, anzi forse quella è la cosa più semplice da accettare. Ho trascorso molto tempo a capire quali fossero i miei limiti, i miei desideri, i miei talenti. Ho ingoiato molte cose amare, mi sono odiato, ferito. Forse, anzi, sicuramente non sono stato il solo, non ho la presunzione di avere avuto l'esclusiva in questo senso. Ho avuto la fortuna di avere un fratello come Gianni ed una cognata come Deborah ed un nipote come Franco...loro sono sempre stati con me, colmando l'assenza dei miei genitori. E poi ho incontrato Guido, non lo hai mai incontrato e....è un uomo straordinario. Mi ha aiutato moltissimo a ricomporre i pezzi della mia vita, ad affrontare le implicazioni interiori ed esteriori della mia omosessualità. Guido mi tiene per mano, mi dona passione, sicurezza, tenerezza e poi è una persona ricca e profonda. Sono stato molto fortunato ad incontrarlo”.
Seguì un'altro piccolo silenzio e poi Giulia biascicò un “Vaffanculo!” appena udibile ma comprensibile e poi riprese la parola “Allora è vero...che sei solo...irrimediabilmente....”.
“Cosa?” chiese Stefano “Un frocio? Sì, lo sono, è quello che sono. Sei contenta? E' chiaro adesso?”.
Giulia eruppe in un pianto dirotto. Stefano non seppe né che dire né che fare. “Giulia, dai, non fare così..cosa...cosa pensavi...voglio dire...non è stato facile neppure per me. Non credere che solo perchè ho chiarito il mio orientamento sessuale il resto..voglio dire … la vita di prima sia scomparsa via, sparita nel nulla. Io, sono sempre Stefano, lo stesso che ha vissuto per anni con te, lo stesso che hai conosciuto e con cui hai condiviso tanto. Tu per me sei stata una delle persone più importanti della mia vita, non rinnegherò mai neppure un secondo della nostra vita insieme, neppure un secondo, fosse anche di dolore. Ti ho amata come mai avevo amato nessuno prima ed in un certo senso come forse non amerò nessuno mai. Quello che … quello che è successo, il fatto di comprendermi, accettarmi, la forza di prendere la mia strada è stato doloroso, te l'ho già detto. La fine della nostra storia mi ha disintegrato, credevo che nulla più sarebbe successo. Non mi importava essere gay o etero o qualunque altra cosa. Prima di tutto ero, sono, sarò una persona e...sprofondai in una depressione tremenda”.
Giulia sospirò “Stefano...scusa...io...mi dispiace, sono stata egoista, io...volevo solo..speravo che forse avremmo potuto in qualche riprovarci. Sono una cretina. Tu ormai sei lontano. Io non ho più avuto nessuno, ho sempre pregato che saresti tornato, che ci saremmo ritrovati ed avremmo messo a posto i pezzi di tutto quello che eravamo. Non ero sicura che tu fossi davvero...dai...hai capito. Pensavo fosse una cosa passeggera, una...curiosità, diciamo”.
Stefano sorrise ma Giulia non poteva vederlo “Sì, beh...pure io ci ho pensato alcune volte, ma è stato un pensiero ozioso, dettato da una nostalgia, dall'affetto evocato dai ricordi, ma no...non è più possibile. Quella che chiami curiosità me la sono tolta ed ho capito che non era tale. Vedi Giulia, non è che essere gai significa solo andare a letto con altri uomini, voglio dire...non è solo sesso. Io, noi, siamo persone e ci innamoriamo come tutti. Ci sono gay, cosi come etero, che desiderano una vita da single, in cui la componente sessuale non si lega ad un solo partner, così come esistono gay monogami o poliamorosi...è esattamente come per tutti. Io e Guido non condividiamo solo una mutua attrazione sessuale, ma anche sogni, progetti, guardiamo al presente ed al futuro...insieme. Siamo una coppia”.
Giulia abbassò lo sguardo verso il tappetino scendiletto, si passò una mano tra i capelli e mosse la testa in un lento sì “Ho....ho capito Stefano, ti prego, scusami. Sono stata inopportuna, avrei dovuto lasciare i ricordi dove stavano”.
“Non ti preoccupare, forse, al tuo posto avrei fatto lo stesso. Giulia, non dimenticarlo mai, io ti ho amata tanto e di voglio bene ancora. Se in qualche modo pensi che potremmo essere vicini, in un modo diverso...beh...io sono, sarò sempre qui per te”.
Giulia salutò Stefano e si stese sul letto, svuotata, con gli occhi fissi sul soffitto.
Stefano guardò lo schermo del cellulare. Lo appoggiò di fianco a se, si alzò ed andò in bagno, infilando la testa sotto l'acqua del lavandino, fredda.
Era l'ora dell'aperitivo, avrebbe fatto tardi.
VI. Raùl
Quella notte di fine settembre non sembrava voler portare con sé il sonno. Raùl spense la televisione, ne aveva guardata troppa. Era già mezzanotte passata. Si alzò dal divano ed andò alla finestra. La strada in cui abitava era illuminata da lampioni accesi alternativamente, per via del risparmio energetico. In giro non c'era nessuno, perlomeno non lì di sotto.
Meglio provare a prendere un po' d'aria, aria metropolitana.
Raùl indossò i suoi jeans neri, gli stivaletti in pelle piuttosto vissuti, una maglietta dei Deep Purple ed un vecchio gilet nero in pelle. Uscì dall'appartamento e prese l'ascensore. Il condominio era più buio e silenzioso di una maledetta tomba. I passi lungo il corridoio dei garage risuonavano con una eco amplificata. La porta metallica si aprì verso l'alto con un modesto cigolio e Raùl entrò, alzò la moto dal cavalletto e la spinse fuori, richiuse il garage, salì, accese il motore e uscì fuori nella notte. Il rumore rombante della sua custom arancione prese a martellate il silenzio e la coppia di acciaio e carne si diresse verso la Avenida Carlos V, ancora percorsa da molte auto. Raùl guidò per un bel po' senza meta, zigzagando tra le luci dei fari e dei lampioni fino a che non si fermò davanti ad un locale chiamato la Bodega Asturiana. Una volta ci lavorava un suo amico che adesso abitava in Austria. Non aveva mai capito come mai un latino avesse potuto infilarsi nel cuore del mondo germanico. Bah, affari suoi.
La moto si fermò davanti all'ingresso, il locale era ancora aperto. Raùl scese ed entrò per un piccolo spuntino di formaggio, prosciutto e vino rosso. Gli avventori, a quell'ora non erano tanti anche perchè la chiusura era imminente.
C'era un uomo sulla sessantina, coi capelli brizzolati. Sovrappeso, dallo sguardo perso in chissà quale pensiero, c'era una donna intenta a creare un piccolo origami con un fazzoletto di carta. Aveva i capelli biondi, era piuttosto magra, occhi azzurro slavati, indossava un vestitino piuttosto leggero, color carta da zucchero. Non aveva nulla che non andasse, ma nel complesso Raùl la trovava incongrua e fastidiosa.
Ad un tavolo lontano c'erano due ragazzi sulla trentina, probabilmente amici, che bevevano e scherzavano rumorosamente.
Terminata la sua consumazione, il motociclista uscì, sperando di trovare un'aria più fresca, ma quella notte la città non voleva lasciare che il vento la penetrasse e scorresse in lei, l'unico modo di respirare era guidare, senza sosta.
Come incrinando un leggero strato di ghiaccio il pensiero del lavoro aprì una crepa nella coscienza di Raùl. Il giorno dopo avrebbe dovuto alzarsi presto ed avrebbe avuto a lezione alcuni ragazzi difficili della scuola. Un tonfo di disagio gli si tuffò nello stomaco ed una imprecazione uscì dalle sue labbra mentre avviava la moto. Doveva tornare tornare a casa e dormire, a costo di ingollare qualche pasticca. Imboccando la grande rotatoria di Plaza De La Independencia, la moto sfrecciò verso Avenida Carlos V e poi verso Calle Pedro Antonio de Alarcòn, dove viveva Raùl.
Quando il centauro rientrò nel suo appartamento disordinato erano quasi le due. Non era stato via molto. Buttò i vestiti sulla poltrona, senza accendere le luci e poi si recò in bagno, prese una pastiglia di tranquillante e si mise a letto. Dopo un po' il sonno arrivò e fu una benedizione.
Il mattino dopo, alle 7.00, la sveglia prese a schiaffi l'aria della stanza e Raùl si alzò a sedere col cuore che batteva forte. Ma che cavolo...
Occorsero alcuni secondi per capire cosa, dove, come, quando e perchè (soprattutto), ed alla fine una doccia fresca riuscì nell'intento di riavviare i processi cognitivi dell'insegnante, il quale si vestì nel modo più decente possibile, scese dabbasso e prese la metro diretto alla scuola, con lo sguardo che saettava nel vagone a tracciare una mappa dei viaggiatori, tutti apparivano diversi, a giudicare dai loro volti, nel loro piglio mattutino.... Raùl scosse la testa e si disse che quel mattino, per lui almeno, non sarebbe stata proprio cosa.
VII. Darmon
Darmon camminava sfinito col suo zaino carico di cristalli di Puron, il sentiero polveroso sembrava non finire mai. La miniera penitenziario si estendeva a perdita d'occhio, in ogni direzione, le enormi macchine per la escavazione erano attive tutto il giorno e tutta la notte sul fondo di quell'enorme cratere. Infinite teorie di minatori percorrevano sentieri come quello su cui camminava lui. Uomini di tutte le età, alcuni vigorosi, altri macilenti, ma tutti stracarichi, avanzavano in fila verso i punti di raccolta per poi ripercorrere il tragitto in senso contrario, più e più volte al giorno.
Il cielo era color del rame, il respiro pieno di polvere, così come tutto il corpo ed i vestiti mezzi laceri.
La sera venne tardi, troppo tardi, così come tutti i giorni. Darmon ed i suoi compagni si radunarono fuori dai cancelli di ingresso in attesa dei trasporti che li avrebbero condotti ai loro alloggi, situati a circa venti km dal posto di lavoro. Si trattava di grandi palazzi popolari, composti di piccoli appartamenti. Nello stesso complesso si trovava un edificio che fungeva da refettorio ed ospedale.
Quando il trasporto arrivò, Darmon ebbe la fortuna di trovare un posto vicino al finestrino. Non c'era molto da vedere in realtà. Tutta quella regione era sostanzialmente desertica ed il paesaggio era di una gran monotonia, specie se si era distrutti dalla fatica.
Arrivato al centro dormitorio, il trasporto si fermò di fronte al grande refettorio e tutti gli operai sciamarono fuori. Darmon entrò nel luogo che tutto era fuorchè accogliente. Illuminato con neon verdastri, arredato in modo estremamente spartano, offriva una scelta di cibi assai limitata e spesso la qualità era quella che era.
Entrato nell'atrio del palazzo dormitorio, prese l'ascensore e salì fino al quindicesimo piano, dove si trovava il suo piccolo monolocale. Buttò la spesa sul tavolo e si fece una rapida doccia, poi guardò la olovisione, un piccolo lusso consentito ai detenuti. I programmi erano di una monotonia incredibile. Darmon non si interessava di politica, veniva da un piccolo villaggio lontano, così lontano che quasi ormai arrivava a pensare che la sua esistenza forse era frutto di un falso ricordo. Nonostante questo il giovane non si sentiva così rassegnato a quella vita, anche se la conduceva da molti anni. L'ologiornale costantemente magificava le opere del governo federale ed i risultati delle grandi compagnie industriali che trainavano l'economia del paese. Annoiato da tutta quella propaganda il minatore spense l'apparecchio e si stese crollando in un sonno profondo, troppo stanco anche per vomitare all'idea di un altro giorno alla miniera.
Il mattino dopo una pioggia insistente infradiciava i sentieri che divenivano stradelli di fango mentre le pareti della montagna si riempivano di rivoli che trascinavano acqua e graniglia. I vestiti zuppi erano fastidiosi e rendevano più scomodo il lavoro, così come le scarpe piene d'acqua. Una vera tortura.
Piovve quasi tutto il giorno e la pausa pranzo avvenne sotto una delle tettoie che fungevano da riparo per i macchinari, curioso..i macchinari avevano un riparo dedicato ed i minatori no, questo la diceva lunga..ma molti suoi compagni, per non dire tutti, accettavano a testa bassa quello che reputavano un destino ineluttabile, un ordine naturale delle cose. Darmon no, non sopportava oltre di scontare quella pena. Un paio di volte aveva sentito alcuni compagni lamentarsi a bassa voce. Erano due minatori più anziani di lui, stranieri. Non aveva idea di chi fossero, né di dove e da quella volta li aveva incrociati raramente e sempre da lontano.
Mentre stava consumando il suo pasto a base di riso, verdure, spezie e carne, i suoi occhi incrociarono quelli del vecchio Sabad, forse il più vecchio del suo turno. Darmon non avrebbe saputo dire quanti anni avesse, ma quell'uomo era incredibilmente forte in rapporto alla sua corporatura esile. Aveva due enormi occhi neri, luminosi, ed una folta barba bianchissima. Indossava un turbante scuro, un po' consumato, ma era l'unico tra tutti quelli che il ragazzo avesse visto lì dentro, ad indossare qualcosa di simile. Il vecchio ingoiò un boccone e poi sorrise coi suoi denti bianchissimi ed il ragazzo ricambiò. Senza sapere perchè, Darmon si alzò e lo raggiunse.
“Sabad, come stai? Credo che sia la prima volta che parliamo, vero?”.
L'uomo assentì con un cenno del capo ed invitò il ragazzo a sedere.
“Ti chiami Darmon vero? Di dove sei ragazzo?” chiese con voce dolce.
“Vengo da...Terleg..Terleg è un villaggio molto lontano da qui, così lontano che non saprei neppure trovare la via di casa se mai potessi tornare. Ci ho passato tutta l'infanzia e l'adolescenza. Era una vita molto diversa...da questa intendo. La mia era una famiglia povera ma mio nonno era insegnante e mi ha detto molte cose...tante cose...ma ho dimenticato quasi tutto, ormai da quasi dodici anni sono qui alla miniera, e solo per avere rubato qualcosa da mangiare. So, credo, che fuori di qui ci sia qualcosa, forse qualcosa di meglio intendo. L'olovisione mostra un mondo che credo non sia esattamente quello in cui viviamo. Ho questa sensazione ma non ho la minima idea di come poterne essere certo. Forse non importa, la mia vita credo che sarà sempre qui”.
Alle spalle di Darmon un minatore dalla pelle bruna fumava una sigaretta aromatica e prestava molta attenzione alle parole del ragazzo. La sua mano sinistra, nodosa, passò tra i capelli neri e bagnati. Ed i suoi occhi neri si chiusero per un momento, mentre dentro di sé un senso di ribellione si affacciò in silenzio.
Sabad mise una mano sulla spalla sinistra di Darmon e disse “Figliolo, come dici tu, fuori di qui c'è qualcosa, molto più di qualcosa. Io vengo da un posto lontanissimo, chiamato Cerlon, una grande isola nell'oceano orientale. La mia famiglia era piuttosto ricca, eravamo allevatori di bestiame e io stesso ho condotto una parte della mia esistenza nei campi, con gli animali. E' stato il periodo più felice della mia vita. Vivevo con i miei genitori ed i miei fratelli ed avevo persino una promessa sposa...pensa”. L'uomo aveva uno sguardo sognante guardando al suo passato.
“Come sei finito qui?” chiese il ragazzi
Sabad annuì “Hm, ragazzo, io sono qui perchè al mio paese fui coinvolto in uno scontro tra proprietari terrieri per un furto di bestiame e ci uscì il morto, ecco perche la giustizia mi ha gettato in questo buco. Ormai sono vecchio ed accoglierò la morte come una benedizione. Prego tutti i giorni e cerco di essere in armonia col mondo. E' l'unica cosa che posso fare”.
Una sirena avvisò del termine della pausa ed i minatori ripresero in spalla i propri carichi, dirigendosi faticosamente al punto di raccolta, sempre sotto una pioggia fitta e pesante.
Quella sera Darmon era sfinito e si sentiva un inizio di febbre. Mentre attendeva il trasporto si sedette su una pietra al margine della strada. Dopo poco lo raggiunse un minatore bruno, dal fisico asciutto ma muscoloso. Era l'uomo che aveva origliato la conversazione con Sabad.
“Ti chiami Darmon, giusto ragazzo?” chiese l'individuo dall'accento strano.
Il ragazzo lo guardò distrattamente, troppo stanco per pensare “Sì è il mio nome, tu chi sei?”.
L'interlocutore si presentò “Mi chiamo Uliruy e vengo dalla regione occidentale di Natoly, molto lontana da qui, è una regione di splendide montagne e boschi. Lavoravo in una fabbrica di legname laggiù. Il lavoro era duro, ma non come qui e per fortuna c'era una paga, ero un uomo libero, avevo persino una famiglia, una moglie, dei figli. Non li vedo da quasi sette anni, sai? Sono finito qui per una questione di debiti. Non è una storia molto interessante ne allegra. Ma tu come mai sei qui? Sei uno dei più giovani. In questo posto ci finiscono persone con pene severe, cosa hai combinato alla tua età?”.
Darmon si passò le mani sporche sul viso umido di pioggia e rispose “Al mio villaggio c'era una grande povertà, non c'erano prospettive di lavoro e mio padre aveva problemi di salute. Io e mia sorella Jeela abbiamo dovuto lasciare casa per cercare possibilità di sopravvivere. Io sono finito qui per qualche furto, Jeela lavora come infermiera in un ospedale più vicino a casa. Beata lei”.
“Capisco” disse l'uomo. “Pensi di restare ancora molto in questa topaia? Sei giovane per condannarti a questa vita...avrai circa l'età di mio figlio Ahmet...”. Il minatore scosse la testa piano e imprecò qualcosa che Darmon non comprese.
“Darmon, ragazzo, quando scade la tua pena?” chiese Uliruy.
Darmon rispose “Tra un paio d'anni mi pare, perchè?”. Il minatore bruno lo guardò e disse “Cosa ne diresti di andare via un po' prima?”.
Darmon sbarrò gli occhi e disse “Prima? Ma come...non si può, non è possibile, non...”.
“Preferisci vivere in questo schifo per altri 24 mesi? Accomodati, io no. E non solo io. Tra i minatori si è formato un gruppo che cerca di migliorare le condizioni di vita qui dentro. Non siamo riusciti ad ottenere quasi nulla nel tempo ed allora abbiamo iniziato a pianificare una fuga. Quando prima ti ho sentito parlare con Sabad, ho pensato che volessi tornare fuori ed ho pensato a mio figlio...a cosa avrei fatto per aiutare lui. Ecco perchè ti chiedo se ti va di unirti a noi”.
Quella sera Darmon si recò nell'alloggio di Uliruy, dove si trovavano altri cinque minatori. Assistere ad un piano di fuga era la cosa più strana cui avesse mai pensato, anche perchè continuava a considerare la miniera una prigione da cui fosse impossibile fuggire.
Nel corso della serata, Uliruy ed i suoi compagni presentarono a Darmon un piano ben congegnato ed apparentemente molto solido. Pur parzialmente riluttante, il ragazzo accettò a prendervi parte, il suo desiderio di uscire nel mondo esterno era forte. Pochi giorni dopo, in piena notte, il gruppo si ritrovò al confine settentrionale delle proprietà della compagnia. Anoty, uno dei fuggiaschi, era un tecnico elettronico molto tempo prima di essere imprigionato per un grosso furto diversi anni prima, grazie alle sue abilità era riuscito a disattivare i braccialetti di controllo che ognuno di loro indossava. La cosa non sarebbe stata risolutiva, ma avrebbe concesso loro qualche ora di vantaggio nella fuga. Il gruppo superò il confine calandosi con difficoltà un canalone di scarico rifiuti che si snodava per un po' nel territorio desertico che divideva il complesso minerario dalla regione del grande lago salato di Smeder, qualche decina di chilometri a nord.
Era una notte senza luna, fredda e buia, il cielo era trapunto di stelle. Il gruppo di fuggiaschi, silenzioso, avanzava in mezzo ai rifiuti più velocemente che poteva, considerando la stanchezza del giorno e le scarse calorie dei magri pasti che si poteva permettere normalmente.
La notte trascorse veloce ed all’alba un lieve lucore cominciò ad illuminare appena l’orizzonte orientale. Quando il sole si fu levato, la temperatura cominciò a salire e nel breve volgere di un’ora il gruppo di fuggiaschi si trovò a sudare e a faticare di più nella fuga. Uno degli uomini propose di ripararsi all’ombra ed a proseguire di notte. Procedere di giorno sarebbe stato faticoso e debilitante, ma la sua proposta venne rigettata dalla maggioranza, desiderosa di mettere più distanza possibile tra loro stessi e la miniera.
Darmon condivideva la posizione del prudente compagno, era sensato ripararsi e riposarsi, erano tutti sfiniti, ma alla fine proseguì anche lui nella fuga diurna.
Alla miniera gli addetti al recupero ed al controllo dei detenuti si accorsero dell’assenza dei fuggiaschi sin dal primissimo mattino e mandarono una squadra di ricerca, la quale pattugliò i dintorni dell’area mineraria, ma senza risultati. Il capo della sicurezza intuì che la fuga avrebbe potuto svilupparsi lungo il canalone dei rifiuti ma non sguinzagliò i suoi uomini lungo un percorso tanto accidentato e pericoloso, piuttosto decise di mandare una sonda volante armata alla ricerca di quei detenuti. L’ordine era quello di trovare ed eliminare.
La sonda percorse in volo rapidamente la maggior parte del percorso ed individuò il gruppo nei pressi della fine del canalone, a pochi km dal confine con la Repubblica Teocratica di Valistan, che si affacciava sull’enorme lago salato di Smeder.
Darmon si era fermato all’ombra di una roccia per urinare e godere di una leggera frescura, mentre i compagni avevano iniziato la risalita dal canalone, dirigendosi a nordest, verso il lago.
Un bagliore nel cielo azzurro attirò l’attenzione del ragazzo. Soffermandosi ad osservare con attenzione, Darmon si rese conto che una sonda era sulle loro tracce. Urlò ai suoi compagni di tornare nel canalone e di trovare riparo, ma nessuno parve sentirlo, erano tutti troppo lontani. Il giovane urlò ancora ma proprio in quel momento la sonda aprì il fuoco sul gruppo. Con precisione i colpì freddarono tutti gli uomini emersi dalla fossa dei rifiuti. Darmon rimase di sale e si rintanò ancora di più sotto le sporgenze rocciose, col cuore che batteva all’impazzata; il giovane aveva persino paura che il battito cardiaco potesse tradirlo attirando l’attenzione della sonda. Un silenzio irreale parve riempire la zona.
Darmon pensò di dover sbirciare per verificare se la sonda fosse ancora in zona, ma la paura di venir ucciso lo trattenne tra le rocce. Passarono le ore e le ombre si allungarono sempre di più, la luce scemò e la notte venne, fredda. Il ragazzo decise di rischiare e si sporse dal suo riparo, perlustrando con lo sguardo il cielo vicino e la zona buia del canalone. Non gli parve di vedere nulla di particolare e si avviò verso l’uscita di quella fessura infernale. Dopo poco si imbattè nel cadavere di uno dei suoi compagni. Risalendo oltre il bordo trovò anche gli altri e rabbrividendo si mise a correre verso nordest. Quella notte trascorse in uno stato semiconfusionale. Darmon era rimasto turbato dalla morte dei suoi compagni e temeva di essere raggiunto da quella maledetta sonda, divenendo anch’egli un cadavere abbandonato tra le rocce sparse di quel terreno riarso.
Il suo sguardo febbricitante saettava continuamente tutto intorno a se, sudava copiosamente e negli occhi gocce salate scivolavano bruciando la vista. Il respiro era affannoso, La milza doleva e la gola era in fiamme. Una sete divorante lo tormentava. Avrebbe dovuto rallentare, ma no, doveva scappare, sempre più veloce.
Le ore passarono e l’oriente cominciò a schiarirsi. Darmon era sempre più allo stremo, si sentiva una febbre tremenda e la testa cominciò a girare, una vertigine cominciò a salire al capo e quando il sole si alzò la luce lo accecò. In quel momento avrebbe accettato persino la morte…non ce la faceva più. D’improvviso tutto divenne confuso, poi nero e poi più nulla.
Un rumore confuso entrò nelle orecchie, una luce rosata entrò attraverso le palpebre chiuse. Un dolore generalizzato si fece acuto, il corpo chiedeva aiuto e la gola riarsa bramava acqua. Le mani deboli si mossero piano e toccarono un tessuto ruvido e grezzo.
Darmon, con un grande sforzo, aprì gli occhi, ma la vista era annebbiata e la testa gli girava. Si sentiva ancora febbricitante. Un tocco freddo sulla fronte lo sorprese. Si rese conto che qualcuno doveva avergli messo una pezza bagnata.
Rendendosi conto che stava riprendendo conoscenza, un uomo seduto accanto al ragazzo disse qualcosa che Darmon non comprese. Era convinto di essere in condizioni tali da non comprendere nessuno, in realtà era una lingua straniera. Aprì di nuovo gli occhi e si sforzò di dire qualcosa, ma non si sentiva la lingua e doveva bere, la testa girava. Una mano gli sorresse il capo da dietro e qualcuno gli avvicinò una borraccia alla bocca. Darmon bevve avidamente l’acqua fredda di sorgente e riprese conoscenza a sufficienza. Si guardò intorno e vide tre uomini vestiti di scuro, con abiti di lino, il volto coperto, esclusi gli occhi. A giudicare da quel poco che si poteva intuire erano persone di mezza età.
Una luce entrava da una finestra. Darmon con poca voce domandò ai tre dove si trovasse. Nessuno di loro parve comprenderlo. Il suo sguardo andò oltre la finestra e mille barbagli di luce a breve distanza lo sorpresero. Occorse qualche attimo fino a che una consapevolezza facesse capolino attraverso la febbre e le vertigini.
Con un filo di voce ed indicando oltre la finestra chiese “Smeder”?
Uno degli uomini mostrò uno sguardo sorridente ed assentì. “V…Vali..Valistan?” domandò ancora stentatamente Darmon.
Lo stesso uomo assentì rispondendo qualcosa di incomprensibile ma dal tono gentile. Una mano del ragazzo passò sul volto sudato ed egli si stese, sospirando di sollievo e piombando in un sonno ristoratore.
VIII. Il Tuffo
La stanza era immersa nella penombra. La lampada sulla scrivania illuminava le copertine di alcuni manga ed un cd di Bob Marley. Filippo trovava che il reggae fosse interessante a dosi omeopatiche, ma che alla lunga risultasse di una monotonia sconvolgente. Non era mai stato interessato dalla filosofia rastafariana e da tutte quelle cose lì.
Silvia invece ci andava matta, ascoltava solo quel tipo di musica, si faceva le canne e la menava in lungo e in largo con l’essenza religiosa del reggae vero.
L’attenzione di Filippo non era centrata su questi pensieri, non in quel tardo pomeriggio invernale. Pioveva da ore, era buio..potevano essere quasi le 19.00, forse sì, un orario lì attorno con ogni probabilità. La bocca di Silvia non si staccava dalla sua, gli divorava il respiro, mentre i loro corpi si stringevano su quel letto un po’ stretto.
Le mani di Filippo entravano ed uscivano dai vestiti di lei e gli unici rumori in quella stanza erano i loro sospiri e respiri, il fruscio dei vestiti e qualche parola detta sottovoce.
Dopo un tempo indefinito la ragazza trovò il piacere e si strinse forte all’amico baciandogli il collo. Lui non aveva raggiunto lo stesso risultato, almeno non del tutto. Quando si ricomposero un poco Filippo sedette e controllò l’ora sul cellulare che stava ai piedi del letto. “Cazzo, sono le 20.30!!!” disse allarmato. Meno di un’ora dopo avrebbe dovuto suonare al Diagonal Pub, un locale un po’ strano, piccolo e frequentato da gente di tutti i tipi. Doveva ancora andare a casa, lavarsi, cambiarsi, prendere la chitarra ed andare per il soundcheck. Si alzò, prese il giubbotto, si mise gli anfibi e salutò frettolosamente l’amica. Silvia tentò di trattenerlo, ma Filippo corse via, salì sulla sua Peugeot 205 Diesel blu e corse (si fa per dire) a casa, dove si fiondò sotto la doccia, indugiando in una pulizia inutile che però era sintomo psicanalitico del fatto che Silvia non gli piaceva poi molto. Si rivestì indossando una maglietta nera e dei jeans mezzi strappati e gli anfibi. Aveva una fame assurda ma non poteva cenare, era in ritardo.
Con la custodia della chitarra nella mano sinistra scese le scale e corse in macchina, sotto la pioggia. In pochi minuti giunse davanti al locale e vide che era il primo ad essere arrivato. Sospirando scese, prese la chitarra dal bagagliaio ed entrò nel locale. A quell’ora gli avventori erano molto scarsi, non c’era quasi nessuno.
Filippo salì sul piccolo palco, estrasse la chitarra e l’accordò. Guardandosi intorno notò una ragazza non molto alta, coi capelli biondi e corti. Lei lo guardava. Il ragazzo scese dal palco e la raggiunse presentandosi. La ragazza fece lo stesso. Si chiamava Nicole ed era una studentessa. Prendendo l’iniziativa, Nicole offrì da bere a Filippo, ordinò un cocktail che lui non conosceva e brindò al suo concerto.
Il ragazzo diede un primo sorso e quella roba gli sferrò un cazzotto nello stomaco. “Porca puttana ma che cos’era!?!?”. In quel mentre arrivarono gli altri ragazzi del gruppo ed il chitarrista li raggiunse per un brevissimo soundcheck durante il quale il locale si riempì velocemente. Quando furono le 21.45 le bacchette di Roberto scandirono l’attacco del primo brano e tutti si misero in moto con energia. Alla fine del primo pezzo gli occhi di Filippo incrociarono quelli di Nicole e poi si spostarono sul bicchiere ghiacciato appoggiato sull’ampli. La mano destra l’afferrò ed il ragazzo trangugiò il contenuto con imprudente rapidità.
All’avvio del secondo brano Filippo mancò il tempo e perse il ritmo sotto lo sguardo feroce del cantante Alberto. Filippo cercava di rimediare, ma quello che usciva dalle casse era solo un pastone sonoro distorto.
La mano di Claudio, il bassista, lo afferrò per un braccio ed il compagno gli urlò all’orecchio “Filo, ma che cazzo fai?!?!”. Il chitarrista si voltò con espressione assente. Si sentiva di gomma, quel cocktail era troppo forte…lo aveva capito tardi. Ora si trovava a ciondolare mentre la chitarra andava in feedback e la band si era fermata tra i fischi del pubblico. Alberto prese una bottiglietta di acqua fredda e gliela versò sulla testa. Filippo sussultò sbarrando gli occhi e scuotendosi. Il resto del gruppo riprese a suonare con Guido, alle tastiere, che cercava di coprire le parti di chitarra. Il chitarrista non si muoveva, restava come un’idiota sul palco, ciondolando con la chitarra a tracolla. Nicole si avvicinò al palco e gli urlò qualcosa che non lui capì veramente, ma interpretò quelle parole come una incitazione a riprendersi. Passandosi una mano sul viso Filippo si girò ad afferrare una bottiglia di acqua fresca. Dopo averla scolata, riprese con forza la chitarra ed entrò nel pezzo con sufficiente sicurezza. La testa girava ancora, ma almeno le mani davano retta. I riff uscivano bene e Filippo si sentì uscire dal corpo..l’alcol faceva brutti scherzi a volte. Guardandosi dal soffitto del Diagonal il ragazzo vide come il suo corpo si era tuffato finalmente nel flusso della musica. In quel momento lo spirito non aveva intenzione di scendere giù, ma andava bene così, si disse.
IX. Acfrido
I guerrieri capeggiati da Acfrido erano un gruppo sparuto ed avanzavano a cavallo in un’area boschiva ad est del Reno. Era un autunno freddo e piovoso, ma tutti gli uomini eccetto il capo erano vestiti solo di una leggera tunica. Lance, scudi e framee erano gli equipaggiamenti dei guerrieri. Solo Acfrido indossava un’armatura, un elmo e possedeva una spada in ferro, arma molto rara presso i germani.
Quei boschi scuri e silenziosi sembravano una sorta di cattedrale ombrosa, resa fredda dall’incessante pioggia di quei giorni. Il terreno era zuppo e fangoso ed anche procedere a cavallo era disagevole.
La folta barba rossa del capo era fradicia d’acqua, così come le sue vesti poste sotto la corazza e come i capelli che uscivano dall’elmo. Acfrido aveva una lunga e folta chioma rossa come il rame e due luminosi occhi azzurri. Non era molto più alto dei suoi, ma era dotato di una muscolatura possente ed era un guerriero indomabile e letale, nonostante la giovane età.
Durante gli anni precedenti aveva posto sotto il suo dominio qualcosa come dieci clan, creandosi un piccolo regno, proprio oltre le zone controllate dai romani.
Quegli uomini bruni provenienti da una terra lontana avevano costruito un impero sterminato e disponevano di un esercito enorme ed invincibile. Per quanto li odiasse in quanto nemici dei germani, ne ammirava le capacità belliche e la spietata determinazione. Personalmente non si era mai imbattuto in qualche distaccamento delle loro forze, ma la necessità di controllare i propri confini lo spingeva spesso ad occidente, in una sorta di terra di nessuno. Non temeva quelle genti, questo no, ma sapeva di non avere un esercito numeroso e coeso, questo lo impensieriva. Era probabile che di fronte ad una operazione pianificata dai romani i suoi avrebbero ceduto in breve tempo. Era difficile tenere disciplinate le sue genti.
Nel pomeriggio il manto di nubi si aprì parzialmente ed un sole timido si affacciò sulla foresta, disegnando ombre nel sottobosco. Acfrido comandò ai suoi di fermarsi per una sosta. Gli uomini scesero da cavallo e consumarono un pasto frugale composto da carne secca, acqua fredda e focaccia. Subito dopo risalirono a cavallo per percorrere l’ultimo tratto del percorso perlustrativo prima di tornare a casa. Mentre avanzavano, un sibilo acuto ruppe il silenzio, uno dei guerrieri emise un suono strozzato e cadde da cavallo. Gli uomini si fermarono di colpo scandagliando con lo sguardo il bosco. Un altro sibilo ed un cavallo cadde in ginocchio disarcionando il guerriero. “Giù al riparo dietro gli alberi!” urlò Acfrido. Gli uomini reagirono con prontezza. Il nemico era da qualche parte alla loro sinistra, ma non era visibile, nel fitto della vegetazione. La ventina di guerrieri al comando di Acfrido si scambiavano occhiate interrogative, mentre il loro capo estraeva la spada con uno sguardo determinato. Il buonsenso, tuttavia, gli impedì di lanciarsi all’attacco senza un obiettivo preciso e senza sapere quali forze si nascondevano aldilà della macchia. Questo dubbio fu parzialmente fugato da una voce perentoria che si alzò da quella parte della foresta.
Una frase del tutto incomprensibile, ma dal tono minaccioso giunse all’orecchio dei guerrieri, che si guardarono con sguardo interrogativo.
Acfrido comprese subito che doveva trattarsi di romani, anche se non ne conosceva la lingua. Non sapeva come agire, in quel momento si sentiva spiazzato, ma non fece trapelare nulla ai suoi uomini e rispose a quella voce gridando “Sono Acrfido, re di questa regione, uscite dal mio territorio o sarà guerra!”. Ci fu un breve attimo di silenzio, poi dalla parte dei romani si sentì ridere a voce alta ed una voce, diversa, rispose “non temiamo i vostri guerrieri, molti ne abbiamo vinti e di più ne vinceremo. Lasciate questa terra o non vivrete!”
Stupefatto Acfrido si chiese chi potesse essere a parlare la sua lingua tra quelle genti, certamente un traditore o un prigioniero. Di rimando rispose “Questa terra non è vostra e combatteremo fino alla fine. Non passerete!”.
Il germano rispose “Il centurione Armenius non ha tempo da perdere! Arrendetevi o vi schiacceremo”. Un sibilo, questa volta diverso, attraversò l’aria ed un urlo acuto si levò alle spalle del capo. Uno dei suoi uomini era stato trafitto ad una spella da una freccia.
Una rabbia furiosa si impadronì di Acfrido, che abbandonò la prudenza e ordinò ai suoi uomini di attaccare allargandosi ai lati, presunti, dello schieramento romano. I germani giunsero rapidamente in contatto col nemico, ma si trovarono di fronte ad un distaccamento piuttosto numeroso di fanteria romana e di ausiliari. Armenius dava ordini con comandi secchi e decisi ed i fanti romani disarcionarono quasi tutti i guerrieri, finendoli rapidamente.
Acfrido riuscì ad uccidere parecchi nemici e decise di puntare contro Armenius, anch’egli a cavallo. I due comandanti ingaggiarono uno scontro con le spade e combatterono a lungo, nonostante i germani fossero stati trucidati. Con gli occhi verdi iniettati di sangue Armenius combatteva furiosamente, con una energia inesauribile. Era un veterano di molte battaglie. Originario della lontanissima Armenia, aveva servito l’Impero in molti teatri di guerra ed ora, in terre barbariche, si trovava a combattere nemici molto diversi da quelli mediterranei o asiatici. Determinato a finire quel combattente, non dava tregua al nemico ed i suoi colpi erano sempre più intensi e gli attacchi serrati.
Acfrido, per quanto forte e capace, stava iniziando ad accusare fatica e questo lo esponeva sempre di più alla furia del nemico. Era sempre più difficile mantenere l’attenzione, era sempre più complicato rispondere agli assalti ed attaccare. Dopo un tempo che parve infinito, la lama di Armenius colpì in un punto scoperto della corazza di Acfrido, penetrando in profondità. Il guerriero germanico sussultò tentando di prendere fiato, ma sputò sangue e la barba ramata si striò di rivoli rossi. Un dolore lancinante si irradiava attraverso il suo possente corpo.
Armenius fu tentato di finirlo colpendolo alla gola, ma poi abbandonò quel pensiero. Acfrido cadde da cavallo e stramazzò sul suolo fangoso. La sua pelle divenne grigiastra, i suoi occhi azzurri si appannarono guardando le cime degli alberi scuri. I rantoli dall’agonia lo scuotevano, mentre nelle orecchie risuonavano gli insulti dei legionari e qualche sputo lo colpiva.
Armenius urlò qualcosa e zittì i suoi uomini, poi si chinò sul nemico, gli strappò la spada dalla mano ed ordinò a tutti di andare, lasciando Acfrido ai suoi ultimi respiri.
Un ultimo pensiero balenò nella mente pervasa dal dolore dello sconfitto..le porte del Valhalla.
X. Portatemi con voi
Il sole era sorto già da un’ora e stava cominciando a fare caldo. Eufrem imprecò, doveva alzarsi prima. Estrasse una pesca succosa dalla bisaccia e la addentò affamato ed assetato, guardando la sua cavalla che brucava erba legata al ramo di un albero vicino. La familiare sensazione di pericolo si riaffacciò nella mente del ragazzo. Quella incessante paranoia lo tormentava da anni e lo aveva logorato molto. Le guerre separatiste avevano infuriato per ben otto anni ed avevano trascinato nel loro gorgo di morte, dolore e distruzione, milioni di persone, moltissime città e villaggi. Tutto il mondo che Eufrem aveva conosciuto da piccolo era stato spazzato via, in nome di una lotta per le identità. L’istinto di sopravvivenza aveva spinto il ragazzo ad una continua fuga. Fuga dal dolore per la perdita dei suoi, fuga dalla sua città, dalle sue terre d’origine. Non si era mai aggregato a gruppi di profughi o di partigiani, ma aveva imparato a sparare ed aveva sempre trovato il modo di procurarsi armi, cibo, acqua. Era dura, tutti i giorni erano un ricominciare daccapo anche se, col tempo, il ragazzo aveva notato che le presenze dei militari si erano diradate, così come quelle dei civili. Aveva pensato ad evacuazioni, deportazioni, chissà…non sapeva che fine stessero facendo tutti e neppure come stesse andando la guerra o se ancora si combattesse.
Da un po’ di tempo non incontrava nessuno. Stava percorrendo da molti giorni sentieri di montagna, tra boschi e valli senza presenze di villaggi o di persone.
Indossando i suoi abiti di lino, i suoi scarponcini estivi e il suo copricapo con visiera (una accozzaglia di uniformi ed abiti civili), salì a cavallo fissando la bisaccia, la grande borsa da viaggio e sistemando il suo fucile al plasma. Aveva avuto forse armi migliori e piu recenti, ma soggette al problema della necessita di essere ricaricate. Il fucile al plasma, sebbene ampiamente in disuso, non aveva questo problema. Era un residuato delle guerre repubblicane, combattute qualcosa come trent’anni prima. Quel secolo era stato troppo insanguinato.
Per proteggere quell’arma preziosa trovata qualche tempo prima, Eufrem ne aveva avvolto la canna con strisce di stoffa, e lo stesso per il calcio. Il potere distruttivo di quel coso ingombrante era notevole, così come la sua velocità, ma non era un’arma perfetta. Comunque era utile per la caccia.
Eufrem aveva combattuto raramente e sempre soltanto per potersi dare alla fuga o difendersi. Non era un soldato, ne nulla di simile, era un fuggiasco, perennemente determinato a lasciarsi alle spalle, dolore, morte, distruzione. Non riusciva mai completamente a sentirsi al sicuro, neppure durante quel periodo.
Quel giorno il suo cammino lo portò attraverso un sentiero in salita che da un bosco di acacie si inerpicava lungo un fianco della montagna. Durante la salita finalmente la vegetazione si diradò e d il viandante fermò il cavallo. Estraendo il binocolo elettronico dalla borsa da viaggio si mise a scandagliare la valle sottostante e trasalì quando, in lontananza, vide alcune macchie chiare, con tutta evidenza si trattava di edifici. Una parte di sé accese un campanello di prudenza, mentre un’altra lo spinse a scendere a valle. Poteva essere un luogo dove trovare provviste ed acqua. Eufrem decise di scendere. Con lentezza il cavallo proseguì tra bosco e prati, fino a raggiungere il fondovalle, dove un torrente trasparente, di acqua ghiacciata scorreva tumultuoso.
Avvicinandosi all’abitato Eufrem notò che un silenzio tombale pareva coprire il luogo. Una sensazione di scoramento lo attraversò. Perlustrando le strade, si accorse che non c’era nessuno. Tutto sembrava ovviamente in rovina per colpa della guerra, ma non c’erano cadaveri, nulla. Ad ogni modo frugando qua e la il viaggiatore trovò parecchie provviste e riempì le borracce d’acqua fredda. Su una panchina sbrecciata si sedette sospirando e mangiando qualcosa. La piazza del paese era piena di polvere e calcinacci.
improvvisamente uno strano ronzio proveniente dall’alto gli fece alzare lo sguardo e con grande stupore vide un oggetto ellittico, color metallo opaco, scendere e posarsi sulla piazza. Le dimensioni potevano essere circa quelle di un autobus. A bocca aperta ed occhi sbarrati osservò la scena. Lentamente si aprì un portellone da cui uscirono cinque uomini che indossavano abiti grigi, simili ad uniformi. Uno di loro, dai tratti mediterranei, si avvicinò prudente e si guardò lentamente intorno per poi rivolgersi al giovane “Salve, siamo in volo da giorni e…ovunque è così. Dove sono finiti tutti?”.
Eufrem guardò a terra e poi fissò i suoi occhi in quelli interrogativi dell’uomo che aveva di fronte. Sospirando rispose “C’era..c’è stata una guerra, ma…devo avere vinto, credo”.
L’uomo uscito dall’oggetto guardò i suoi compagni con sguardo interrogativo, poi di nuovo la sua attenzione si spostò sul ragazzo, il quale riprese la parola “per favore, vi prego, portatemi con voi..”
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“Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile”. Come si traduce la poesia russa? Intervista a tre voci: Maurizia Calusio, Alessandro Niero, Serena Vitale
“Tanto grande e popolare la diffusione delle opere dei grandi prosatori dell’Ottocento, quanto scarsa e manchevole la conoscenza, anche nell’ambiente letterario, dei poeti lirici russi”. Con queste parole, nel 1949 Franco Fortini (recensendo l’antologia Il fiore del verso russo di Renato Poggioli) constatava la scarsa diffusione della poesia russa in Italia. Anche oggi, certamente, quando si parla della grande letteratura russa si fanno prima di tutto i nomi di Tolstoj e Dostoevskij, eppure molto è cambiato da quel 1949: Puškin, Mandel’štam, Cvetaeva, Pasternak, Brodskij e molti altri hanno infittito gli scaffali di poesia nelle nostre librerie, grazie agli sforzi di numerosi traduttori che si sono adoperati per dar loro una voce italiana. Tre di questi traduttori (Maurizia Calusio, Alessandro Niero e Serena Vitale) hanno accettato di rispondere a quattro domande sulla poesia russa e su che cosa significhi tradurla.
Quali sono le qualità e gli strumenti necessari a un traduttore di poesia? E cosa di specifico richiede e offre la poesia russa?
Maurizia Calusio Un traduttore di poesia deve essere un lettore di poesia, ossia deve essersi formato dentro la propria tradizione poetica, avere familiarità, nel nostro caso, con la poesia italiana. Deve avere orecchio, perché altrimenti non potrà cogliere e restituire il ritmo della poesia, e per farsi l’orecchio può essere di grande aiuto imparare a memoria molte poesie italiane, e poi cercare di tradurre poeti russi che in qualche modo non siano lontani dai poeti lontani amati. Puoi essere ferratissimo nella metricologia, ma se non hai orecchio, se per te la tradizione poetica italiana non è qualcosa di vivo e costantemente frequentato, è difficile che si avverta la poesia dell’originale nelle tue traduzioni. Se non è un poeta, un traduttore di poesia deve essere un filologo dotato di orecchio. Nel mio caso, non essendo poeta, utilizzo gli strumenti del filologo. E il filologo deve studiare l’opera del poeta che si appresta a tradurre, e sulla base di questa conoscenza scegliere le edizioni migliori da cui trarre i testi (la scelta dell’edizione dice già molto della qualità di una traduzione). Occorre poi usare i (numerosi) vocabolari giusti: penso a Dal’, Ušakov, Ožegov, a seconda dell’autore che si ha davanti. È importante anche conoscere bene tutte le migliori traduzioni già esistenti dell’autore, in italiano, come anche nelle altre lingue più o meno note. Accostarsi alla traduzione con una voce originale, portando con sé ciò che ci ha spinti a tradurre un poeta, non significa farlo “ingenuamente”, ignorando per esempio quanto prima di noi è stato fatto. Il traduttore di poesia si inserisce infatti in una doppia tradizione: quella della poesia italiana (sulla quale il poeta che traduce è destinato a influire – perlomeno, se ha scelto di tradurre un grande poeta) e quella della traduzione poetica italiana, e in particolare dal russo.
Alessandro Niero Credo che un traduttore di poesia debba essere, come minimo, un suo frequentatore assiduo, nelle varie forme in cui ciò può avvenire; ossia deve essere, imprescindibilmente, un lettore (appassionato ma non superficiale) e un grande utente della lingua, cioè avere la consapevolezza tecnica di cosa significhi comporre versi. Se, poi, a questi due aspetti (già, a loro modo, operativi e pratici), si affianca anche una qualche forma di “produzione propria”, meglio ancora, anche se ciò – vorrei precisare – non credo che sia da considerarsi né un obbligo né una norma. La poesia russa, oltre ad aver sempre intrattenuto un rapporto vero con la dimensione popolare (anche folclorica) della poesia е con i suoi strati non culti, ha di specifico un non tramontato e naturale attaccamento ai presìdi formali (metro, rima, strofa), sebbene sempre meno. Ciò pone al traduttore il dilemma se sforzarsi o meno di riproporre analoghi presìdi anche nella lingua di arrivo.
Serena Vitale Qualità? Pazienza e testardaggine. È necessario un buon orecchio (musicale). Più di tutto, forse, è necessaria una buona (preferibilmente ottima) conoscenza della lingua come pure della letteratura – in particolare la poesia – italiana. La conoscenza della lingua e della cultura russa mi sembra l’ovvio punto di partenza. “Strumenti” per tradurre? I dizionari – non ne vedo altri, ma a chi traduce poesia serviranno ben poco. Molto più utile, credo, è cercare nel Korpus della lingua russa le occorrenze del vocabolo che si vuole tradurre, ricostruirne la “storia”, i contesti in cui è già apparso. Sono convinta che volgere versi russi in italiano non presenti al traduttore difficoltà e/o problemi diversi da quelli che pone ogni traduzione poetica, salvo forse la maggiore libertà della poesia italiana, dal ’900 in poi, nei confronti della metrica e delle rime.
«Se il traduttore è una persona coscienziosa, cercherà di imitare la forma». Così categoricamente si esprimeva Iosif Brodskij nel 1979, in un’intervista con Eva Burch e David Chin. Siete d’accordo con quello che dice Brodskij? La riproduzione della forma è un elemento imprescindibile della traduzione poetica?
Maurizia Calusio Per me tradurre significa cercare di portare quanto più possibile del testo originale russo nella lingua italiana. Non si può portare tutto, le perdite sono irrimediabili, e implicite nell’atto stesso del tradurre. Nelle mie traduzioni, il metro e la rima dell’originale vanno perduti, mentre cerco di conservare quanto più possibile sintassi, immagini, lessico. In ogni caso, il rimando alla tradizione russa contenuto nella scelta di un metro come di un singolo vocabolo va pressoché sempre irrimediabilmente perduto. Il ritmo che mi sforzo di conservare è quello della sintassi (cercando di preservare la posizione delle parole a fine verso, ad esempio) e per fare questo cerco di procurarmi (quando ci sono) letture del testo russo, se possibile d’autore, altrimenti di un madrelingua (meglio se poeta in proprio). In questo senso anche il ritmo della lettura può essere una guida per restituire la sintassi.
Alessandro Niero Credo che le opinioni di Brodskij vadano viste alla luce della sua vicenda privata e delle sue predilezioni personali. Essendo egli stesso un acceso cultore della forma (anche se, con il tempo, divenne più allentata, sempre meno pressante), non poteva che richiamare il traduttore al rispetto della stessa; tanto più che si trovò nella singolare situazione di chi decise, a un certo punto, di autotradursi e, quindi, di sperimentare, con tutte le difficoltà del caso, ma anche con autorevolezza e autorialità, cosa voglia dire traghettare se stesso su altre sponde linguistiche cercando di trasmettere “tutto”. Quanto alle predilezioni personali, ricorderei che Brodskij (e non solo lui, ovviamente) stimava grandemente figure di calibro mondiale come Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak; i quali sono tutti autori primonovecenteschi che, nella loro scrittura, si sintonizzavano “fisiologicamente” sulle esigenze dettate da un certo tradizionalismo formale. Brodskij, da madrelingua qual era, ma anche da figura in grado di inserirsi potentemente nel contesto anglo-americano che lo adottò nel 1972 dopo l’emigrazione forzata dall’URSS, non poteva che leggere come inadeguati gli sforzi di chi impiegava uno strumento apparentemente lassista come il verso libero per spostare da una cultura all’altra testi di straordinario valore contenutistico e formale. Se poi questa sia una posizione da condividere pienamente, è un altro discorso. Traducendo poesia si cade inevitabilmente nel contesto di arrivo, dove vigono regole, spesso tacite, che reindirizzano quella stessa poesia, la adattano a ciò che quel contesto ritiene lecito, praticabile, rientrante nel gusto. È tra due confini – la spinta a rispettare gli istituti formali dell’originale e la cultura di accoglienza – che il traduttore deve ricavarsi uno spazio praticabile, una specie di “zona franca”. In questo non ci sono regole e non vi è nulla di scontato. Se posso, rimanderei, per complicare ulteriormente la cosa (e farmi un po’ di goffa pubblicità), a un mio volume che affronta queste tematiche: Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi (Quodlibet, 2019).
Serena Vitale Chissà se ha detto proprio “imitare”… E chissà se il termine “riproduzione” si può applicare all’arte del tradurre. Per la poesia russa la “forma” è un elemento imprescindibile, una necessità quasi ontologica. Nel 2000 sempre Brodskij ha detto: “…Il poeta dovrebbe ripercorrere le strade della letteratura che lo ha preceduto, cioè passare attraverso una scuola formale. Altrimenti il peso specifico della parola nel verso si azzera”. La “forma” per Brodskij, è strettamente legata al Tempo, e il metro gli offre la possibilità (o soltanto l’illusione) di riorganizzare un tempo quasi mai amico. Del resto Brodskij ricorre al metro con una grande libertà e, seppure raramente, si cimenta anche nel vers libre, capace di rendere il “miracolo della lingua quotidiana”.
Esistono poeti russi intraducibili? Se sì, quali e perché?
Maurizia Calusio Puškin, naturalmente. In Puškin c’è una perfezione originaria che è al contempo il massimo della semplicità e il massimo della raffinatezza. L’italiano, con i suoi meravigliosi e ingombranti ottocento anni di tradizione poetica, è del tutto impotente a restituirla. Bisognerebbe tornare alla purezza della lingua primigenia di Dante, e coniugarla con la felicità di tutta la poesia successiva… bisognerebbe mettere dentro tutto, e questo non si può fare. Un altro poeta che si avvicina per difficoltà a Puškin è l’ultimo Boratynskij, quello della raccolta Sumerki (Crepuscolo), un poeta che io amo molto. Si può tradurne bene la sintassi, ma il suo lessico – al contempo lessico filosofico e lessico dell’elegia russa – è molto difficile da rendere. Continuo a provarci.
Alessandro Niero Se volessi essere sbrigativo e categorico le direi che in varia misura lo sono tutti. Ma sarebbe una posizione inutile, non produttiva e, soprattutto, irrispettosa di quanto è stato ottimamente fatto da molti traduttori italiani. Un nome, però, mi sento di farlo, ed è, paradossalmente, quello del poeta più grande di tutti, ossia Aleksandr Puškin (1799-1837), soprattutto per quanto riguarda la sua lirica (il suo miracoloso romanzo in versi Evgenij Onegin è un capitolo a parte). Con tutto il rispetto per i miei colleghi traduttori, devo dire che in pochi, pochissimi casi mi è capitato di sentire una voce italiana che abbia saputo contemplare, nel volgere di un testo, il romanticismo ammantato di eleganza classica, la capacità di essere tragico ma con straordinaria levità, la scarsa inclinazione alla pirotecnia formale esibita e perfino all’uso dei tropi e l’invidiabile tecnica di versificazione che costituiscono, ancorché sommariamente, la mia idea di Puškin.
Serena Vitale Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile. Sono stati tradotti poeti, ad esempio, come Chlebnikov e Cvetaeva, che pure in alcune loro opere sembrano rifiutarsi a ogni tentativo di resa in un’altra lingua.
Quali sono i poeti russi che non hanno ancora voce in Italia, o che aspettano una ritraduzione?
Maurizia Calusio Tra i poeti novecenteschi che non hanno voce in Italia c’è sicuramente Boris Poplavskij (1903-1935), grande talento della giovane generazione dell’emigrazione russa. Poplavskij è un autore su cui sto lavorando e che spero di poter pubblicare in un futuro non troppo lontano. Poi ci sono casi come quello di Nikolaj Zabolockij, poeta dell’età sovietica che, come non pochi altri russi, è noto solo per qualche scelta antologica.
In generale sarebbe importante anche dare versioni aggiornate di antologie che – come quelle di Ripellino e Poggioli – hanno consentito la ricezione dei poeti russi nel ’900 italiano. Oggi sarebbe il caso di riunire gli sforzi di più traduttori, che potrebbero lavorare ciascuno sui poeti e i testi più amati e meglio studiati. Un progetto che poi si potrebbe ampliare, grazie alle possibilità che oggi offre il digitale, per riprodurre la trama delle relazioni strettissime tra poeti russi e italiani. E sul fatto che per i poeti italiani i poeti russi siano importantissimi, non credo servano qui degli esempi.
Alessandro Niero Per quanto riguarda il XVIII secolo, sarebbe opportuno riproporre un poeta come Gavrila Deržavin. L’Ottocento – come dicevo sopra – ha il “problema” di Puškin. Il primo Novecento è stato ampiamente frequentato e annovera ormai dei lavori che sono o si avviano a essere dei “classici della traduzione” (penso ai lavori di Angelo Maria Ripellino, soprattutto, e più recentemente, a Serena Vitale, Remo Faccani e Caterina Graziadei). Ciò non significa che non si debba procedere a “rinfrescare”, per esempio, la ricezione italiana di Anna Achmatova e di Velimir Chlebnikov, così come quella di un autore ingiustamente negletto, Nikolaj Zabolockij. La poesia dell’emigrazione, poi, manca in Italia dei nomi di Boris Poplavskij e di una scelta vasta di Georgij Ivanov. Per il secondo Novecento, le cose si fanno certamente più complicate, giacché non esiste ancora un “canone” stabilizzato del who is who. Certo, un poeta come Iosif Brodskij – già in parte tradotto – andrebbe riconsiderato, così come andrebbero riconsiderate la sua generazione e quella immediatamente successiva, che comunque ha visto già alcuni volumi editi, ma aspetta ancora il traduttore di Bachyt Kenžeev, Inna Lisnjanskaja, Jurij Kublanovskij, Oleg Čuchoncev. Forse un’idea complessiva della poesia di Evgenij Evtušenko e di Andrej Voznesenskij pure non sarebbe da trascurare… Ma sono sicuro di aver fatto torto a qualcuno. Ecco perché, se ci spostiamo verso il contemporaneo in senso stretto, temo che i nomi si infoltiscano a tal punto da indurmi a scaricare la patata bollente sul collega e traduttore Massimo Maurizio, che ne sa più di me e che ha già strumenti affilati per distinguere il grano dal loglio.
Serena Vitale A mio avviso tutte le buone traduzioni (di poesia o prosa) sono sempre importanti e benvenute, quindi anche le “ritraduzioni” – purché affrontate con modestia, amore, senza alcuna pretesa di dimostrare “quanto sono più bravo io di X o Y”… Tra i poeti “che non hanno ancora voce in Italia” (salvo qualche lirica in raccolte antologiche e una versione non a stampa, che si può leggere on line, dеllo splendido poema Terra bruciata) devo forzatamente limitarmi e segnalo soltanto Nikolaj Kljuev, un grande del ’900 russo.
*Interiste a cura di Stefano Fumagalli; in copertina: Anna Achmatova (1889-1966)
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16/07/2020 - 31/07/2020 #Comaneci+Mara Cerri
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Inizia oggi la residenza creativa per la ricerca e la composizione del concerto di Comaneci e Mara Cerri
Anguille è un progetto di residenza condiviso da L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale ::: Centro di Residenza Emilia-Romagna.
L’anguilla rappresenta un enigma. È pesce ma anche altro, serpente, verme, mostro marino. La sua enigmaticità muove curiosità e diventa eco di interrogativi comuni a molti. La figura dell’anguilla spinge a perseverare nella ricerca, a prescindere da quanto tempo sia necessario o da quanto disperata sia l’impresa. La sua vita è un dilemma che spinge i ricercatori all’ostinatezza.
I lavori di Comaneci e Mara Cerri sono accomunati da una suggestione onirica, che conduce il fruitore in una dimensione altra, nella quale poter vagare tra forme note e illusioni, tra il tangibile e il subcosciente. Il progetto di collaborazione nasce dalla volontà di trovare punti di contatto tra musica, parole e immagini in movimento, in cui i rispettivi immaginari possano coesistere, contaminarsi a vicenda, e creare un territorio comune. Il lavoro mira all’elaborazione di forme sottilmente illusorie, all’apparizione di pareidolie momentanee e in costante movimento, le quali anziché risolvere l’ambiguità del presente lo rendano ancora più misterioso.
Muovendo da queste suggestioni Comaneci e Mara Cerri lavoreranno insieme all’elaborazione di nuovi materiali per la creazione di un concerto spettacolo audiovisivo.
Comaneci formazione musicale che nasce nel 2005 a Ravenna fondata da Francesca Amati, alla quale dal 2009 si affianca Glauco Salvo con chitarra e banjo. Seguono una lunga serie di concerti in Italia e all’estero accompagnati tra il 2009 e il 2012 dalla produzione di due dischi. Dal 2017 il batterista Simone Cavina entra in pianta stabile nella formazione.
Mara Cerri è una illustratrice nata a Pesaro nel 1978. Tra gli albi illustrati che ha pubblicato con la casa editrice Orecchio acerbo: Via Curiel 8 e A una stella cadente di cui è autrice anche dei testi, Il nuotatore di Paolo Cognetti, La pantera sotto il letto di Andrea Bajani, E non mi fermo di Albino Pierro. Occhi di vetro dei Fratelli Mancuso per Else Edizioni e La spiaggia di notte di Elena Ferrante per E/O edizioni. Per Einaudi ha illustrato il Millennio dal titolo I libri di Oz, tradotti e raccontati da Chiara Lagani. Il corto animato Via Curiel 8, realizzato in collaborazione con Magda Guidi, ha vinto nel 2011 la sezione Corti Italia del Torino Film Festival. Per il cinema ha disegnato il manifesto del film di Alice Rohrwacher Lazzaro felice e A sud di Pavese di Matteo Bellizzi.
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Entro in casa convinto di trovare Grace mezza addormentata sul divano mentre guardava la televisione e invece trovo le luci spente.
La sua auto è parcheggiata fuori perciò accendo le luci per capirne di più.
Mi sfilo la giacca e le scarpe lasciando tutto all'entrata e tiro fuori dai pantaloni la camicia infilata questa mattina.
Un maglione azzurro sul pavimento cattura la mia attenzione e alzando lo sguardo trovo anche un paio di jeans neri a metà scala.
Raccolgo il maglione e salgo le scale afferrando i jeans e trovando alla fine della scala un calzino.
Trovo il secondo calzino a metà del corridoio, insieme a un paio di mutandine in pizzo nere che conosco perfettamente.
Raccolgo tutto e infilo le mutandine nella tasca della camicia, sorridendo e cercando di pensare a quale assurdo piano passasse nella sua perversa mente nel momento in cui ha deciso di sparpagliare i suoi vestiti per la casa.
Convinto di trovare anche il reggiseno mi guardo intorno, trovandolo appeso sulla maniglia di uno dei due bagni.
Lo prendo e apro la porta del bagno. Vengo accolto dal caldo prodotto dalla vasca idromassaggio che all'interno accoglie la mia dolce e nuda Grace.
«Ce ne hai messo di tempo» mi sorride con i capelli raccolti in cima alla testa e l'acqua che mi nasconde il suo bel seno.
«Ma che combini?»
«Mi rilasso. Ti vuoi unire?»
Lascio i vestiti cadere a terra e mi sbottono la camicia, i jeans, sfilo i calzini e lascio che raggiungano i vestiti di Grace sul pavimento.
«Anche quelli» dice indicando i boxer sorridente.
La guardo negli occhi mentre me li tolgo, notando come lei non ricambia il mio sguardo ma lo tiene puntato sul mio cazzo che inizia pian piano a diventare sempre più duro.
Entro nella vasca e fa partire le bollicine.
«Com'è andata oggi?» mi chiede quando le sono davanti, con le mani che raggiungono il suo corpo avvolgendolo.
«Bene. A te?» La prendo per i fianchi e l'avvicino a me.
«Bene.»
Momentaneamente, nel movimento che fa per raggiungermi, le sue tette escono dall'acqua mostrandosi belle come al solito e con i capezzoli già turgidi.
Il mio pene a quella vista diventa più eretto e quando avvolge le gambe intorno ai miei fianchi sento il sangue affluire sempre in un punto, facendomi così alzare il cazzo da essere eretto tra noi due.
«Stamattina andando a lavoro mi sono masturbata.»
«Ah sì?» replico compiaciuto.
Annuisce. «Ero in macchina e pensavo: mi sei venuto in mente tu.»
Si stringe a me, premendo il seno sul mio petto.
«E poi?»
«Ho pensato a quando mi penetri e a cosa provo quando ti sento entrare e poi ti muovi.»
Infila le mani tra i miei capelli.
«Cos'hai fatto?»
«Avevo una voglia stamattina così per sicurezza mi sono portata via un giochino...» lascia sul vago e posso immaginare, ma voglio sentirglielo dire. Annuisco.
«Ad un semaforo mi sono abbassata i pantaloni, l'ho acceso e me lo sono infilata dentro.» Mi guarda negli occhi, mordendosi il labbro inferiore.
Immagini di lei, sedute in macchina alla guida mentre gode mi passano veloci come un film e sento il bisogno di vederla adesso mentre gode quando la scopo.
«Dovevo sfogarmi così mi sono fermata su un parcheggio e pensandoti mi sono fatta venire due orgasmi» conclude la storia.
Se solo sapesse quante volte me l'ha fatto venire duro in pubblico quando la pensavo casualmente e dovevo segarmi perché non riuscivo a calmarmi...
«È stato bello?» le domando avvicinando le mie labbra alle sue.
«Sì, ma con te è meglio.»
Catturo le mie labbra sulle sue, sentendola subito ricambiare il bacio e provare a infilarmi la lingua in bocca. Ma la precedo e le accarezzo la lingua con la mia avvicinando i suoi fianchi ai miei più di quando non lo sia di già.
«Mmh» mugugna.
Sposto una mia mano sulle sue chiappe abbassandomi sempre di più sentendo sotto le mie dita il suo culo, che così poche volte ho il piacere di scopare, e poi la sua vagina nel quale infilo un dito per sentire dentro quanto è bagnata.
«Thomas» geme sulla mia bocca, avventandosi più vogliosa sulle mie labbra.
A tastoni cerco il pulsante delle bollicine e lo spengo. Continuando a baciare Grace, mi siedo su uno dei due posti nella vasca e lei si sistema sulle mie gambe.
«Mi fai diventare pazzo» le dico spostandomi poi a baciare il suo collo e scendendo sempre di più fino al seno.
Con una mano massaggio quello a sinistra mentre dell'altro prendo il capezzolo in bocca succhiandolo e mordendolo, procurando a Grace ansimi e gemiti. Mi concentro in particolare su una porzione di pelle vicino al capezzolo per fare un succhiotto ben evidente per poi spostarmi su quello a sinistra per farne degli altri più piccoli e meno rossi.
D'un tratto sento la mano di Grace avvolgermi il cazzo, bloccandomi il respiro in gola e i movimenti che stavo compiendo.
Muove il polso lentamente procurandomi scariche elettriche lungo il corpo che vanno a concentrarsi sempre lì in mezzo.
Si avvicina al mio orecchio con un sorrisino troppo poco innocente.
«Fottimi.»
Sostituisco la sua mano con la mia e mentre mi massaggio lentamente, la faccio alzare dalle mie cosce il poco che basta da allineare il mio cazzo alla sua entrata. Lentamente si abbassa sulla lunghezza e mi godo il calore delle sue pareti che mi avvolgono dalla punta alla base guardando il suo viso appagarsi: gli occhi le vanno all'indietro e socchiudendosi, la bocca si apre in una O e la testa le cade all'indietro.
Non le faccio aspettare altro tempo e, tenendola per il culo con le mani, mi alzo in piedi appoggiandola alla parete del bagno e muovo velocemente i fianchi contro di lei, collidendo le nostre pelli, ascoltando i suoi gemiti e la sensazione che provo quando le pareti che attraverso in lei procurano piacere ad entrambi.
«Oh sì, sì! Così!» Mi stringe con le mani i capelli, tirandomi la testa all'indietro e mordendosi le labbra per non urlare.
È così dannatamente sensuale, bella ed eccitante.
Rallento il ritmo che mantenevo per cambiare posizione.
Rimanendo sempre in lei e mantenendola in braccio, esco dalla vasca ideomassaggio e dal bagno andando diretto in camera da letto.
La faccio stendere sul letto e le divarico le gambe fino al materasso.
Allineo nuovamente il mio cazzo in lei e con un colpo secco affondo ancora in lei.
Stando sulle ginocchia e mantenendo i suoi fianchi contro il materasso, ricomincio a muovermi sopra di lei velocemente. In questo modo riesco a scoparla un po' più a fondo, raggiungendo punti che so la fanno andare in estasi, come quando mi inclino leggermente verso destra colpendole qualche punto in lei a sinistra.
Un paradiso.
Perciò mi alterno e quando sposta le sue mani dalle tette che stava stringendo a più in basso, sul clitoride, guardo la scena incantano mentre continuo a scoparla.
Guardarla mentre si tocca è bellissimo. Vedere come muove le dita su di lei, andando a stimolare i punti più precisi che la portano all'orgasmo e a come quando, dentro di lei, sento le pareti stringersi intorno a me più velocemente, stimolando entrambi.
«Più forte» geme ancora.
Così mi concentro, sentendomi vicino all'orgasmo pure io.
Il mio cazzo, più duro che mai, attraversa la sua vagina colante e quando penso a come me lo farò succhiare più tardi, esplodo e vengo in lei.
Mi muovo per prolungare l'orgasmo, e mi abbasso in lei per aiutarla a venire.
«Stringimi forte in te, fammi sentire quanto bene ti faccio godere» le sussurro all'orecchio muovendo veloce i fianchi su di lei.
Inizia a muovere i suoi fianchi contro i miei.
«Ancora.»
Sta per venire. Le manca poco.
La sua vagina continua ad avvolgermi ritmata sempre di più perciò infilo una mano tra noi massaggiandole il clitoride con due dita.
«Quanto sei eccitante. Le tue tette che danzano mentre mi accogli in te e ti sbatto. Vieni, piccola mia, fammi sentire quanto ti senti bene» continuo mentre diventiamo un miscuglio di movimenti.
«Oh, oh mio...» mormora smettendo di muoversi contro di me.
Sento il suo succo rendermi più scivoloso e le prolungo l'orgasmo muovendomi lentamente ma profondo in lei, continuando a massaggiarle il clitoride.
Racconti
itsgraceee123
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