#ho “seguito” altre persone stasera
Explore tagged Tumblr posts
Text
non male per un drago senza talento come me :>
eccomi a seguire gente a caso dal profilo per i nudini vediamo se succede qualcosa
8 notes
·
View notes
Text
𝟹𝟶/𝟷𝟶/𝟸𝟶
ti ricordi quel libro,
sono sicura di avertene parlato un milione di volte,
quel libro che ho sempre al lato della mensola di fianco al letto,
quello pieno di post it e sottolineature,
quello con la copertina nera,
quello che è composto dai pensieri del suo autore,
che alterna momenti di felicità a momenti di tristezza tremenda e sofferenza,
che avevo letto per la prima volta l’anno scorso nel mio massimo periodo no, a marzo.
il titolo di sicuro ti dirà qualcosa:
“va tutto bene”.
già, stasera per puro caso l’ho preso in mano e mi sono messa a scorrerne le pagine.
ho letto qualche frase a caso, ma quelle frasi mi hanno convinta a rileggerlo del tutto.
non velocemente però,
ho deciso che ogni sera ne leggerò un capitolo,
così da poterci poi riflettere su, e per potermelo godere di più.
sono sicura che ad oggi, con tutto quello che è successo nella mia vita, sono in grado di dare un peso diverso alle parole che leggo,
e soprattuto sono in grado di comprenderle appieno.
sono sicura anche che piangerò in alcuni punti, e che mi faranno male,
ma non fa nulla, in fondo “va tutto bene”.
cazzo quanto odiavo sentirti dire o scrivere quella frase.
era la cosa più falsa che le mie orecchie potessero sentire o che i miei occhi potessero leggere.
mi dava fastidio solo al pensiero che dietro quelle tre parole si nascondessero un mare di sofferenze, insicurezze, ferite, lacrime,
di tutto,
ma non di certo il volto di una persona che stava bene.
sapevo quando stavi bene sai ?
lo capivo senza che tu lo dicessi,
e difatti, quando stavi bene realmente non lo dicevi mai esplicitamente.
lo facevi capire a modo tuo.
e io lo sapevo e basta.
come sapevo tutti i modi possibili per farti spuntare il sorriso.
sei presente anche ora comunque, mentre scrivo, perché continua ad arrivarmi la notifica che tu sei su houseparty, quindi continui a comparirmi sullo schermo.
la citazione della foto è del libro di prima, e boh magari ne metterò altre in seguito oppure addirittura parti del libro, perché davvero è bellissimo, e anche se non è un genere di lettura troppo da te, sono sicura che ti colpirà tanto quanto ha colpito me.
secondo me è probabilmente uno dei libri che più si avvicinano a quelle che sono le reali emozioni di due persone che si sono amate tanto quanto hanno sofferto e il fatto che ora lo senta quasi del tutto “mio” è addirittura impressionante.
mi ci ritrovo davvero, per questo penso che lo possa fare anche tu.
ps: il video del tuo ultimo post è davvero bello, mi immagino l’impegno per farlo..
39 notes
·
View notes
Text
Cara mamma, scrivo questa lettara nel giorno della festa della mamma, io oggi non ti ho dato gli auguri, non perché ti odio, ma perché tu non riesci mai a capire gli altri; pretendi di essere sempre capita perché forse in passato non lo sei stata ma io non voglio e non posso più capirti, sei solamente accecata di odio da tutto, pensi che chiunque ti voglia male e che solo i tuoi fratelli ti vogliono bene ma mi dispiace dirtelo ma sono le uniche persone a non volertene e vuoi sapere perché? Perché loro non ci sono mai stati, non ti hanno mai chiamata, non ti hanno mai considerata, neache quando potevi andare da loro, sei sempre stata tu ad "inbucarti" nelle loro case ma sinceramente a me questo non interessa perché tanto chi li vede più.
Torniamo a noi, sai che non ho mai visto una mamma dire quello che dici tu ai figli? Nemmeno la mamma di Davide che è stata davvero malata, nemmeno lei. Io non so perché tu faccia così, cosa ti sia mancato da bambina per far pagare a me tutto, perché io l'unica sbaglio che ho fatto è stato crescere con un mio cervello che fosse diverso dal tuo. Io ammiro un sacco mia sorella per la sua forza di farsi scivolare tutto addosso, mi sono fatta scivolare tante cose nella vita nonostante abbia vent'anni e tu non sai nulla di tutto ciò, una mamma si dovrebbe accorgere di tutto ma tu non l'hai mai fatto. Sai quante volte sono tornata a casa con le lacrime agli occhi da scuola? Sai quante? No non lo sai, eri sempre distratta e a te bastava che ti dicessi "si va tutto bene", non sono stata una di quelle ragazze che è stata bocciata o è andata male a scuola perché aveva i "problemi", io ingoiavo tutto, come ho sempre fatto, da sempre, mi facevo dei pianti sull'autobus che nemmeno immagini, quando nessuno voleva sedere a scuola vicino a me, quando ho praticamente perso l'unica amica "vera" che pensavo di avere, quando nessuno mi voleva in stanza in gita o quando nessuno voleva uscire con me, non pensare che io sia come dici tu "cattiva" o "presuntuosa" o "cagacazzo", sono semplicemente io, nessuno è uguale e ognuno ha un suo carattere. Alle medie mi hanno fatto i migliori dispetti ma all'epoca si è piccoli quandi non ci si bada neache più di tanto ma a me sono comunque pesate. Ricorda che ogni volta che tu dici che io non ho un'amica, sinceramente ne sono fiera, sono fiera di essere stata me stessa senza cambiare per piacere a qualcuno, per avere un amicizia falsa. Io sono fiera di tutto quello che ho fatto fino ad oggi, l'ho fatto con il mio sudore, con le mie lacrime, e con i miei mille dispiaceri.
Tu parli di me senza sapere nulla, senza conoscermi, senza esserti mai interessata davvero a come stavo, ti accontentarvi sempre del "sto bene" e io andavo avanti, andavo avanti tra le lacrime come stasera da sola in bagno a scrivere perché è l'unico modo che riesco ad utilizzare e che mi fa stare bene, non sai neache che io ho un blog dove scrivo i miei pensieri ed è anche molto seguito da persone che mi conoscono attraverso la scrittura che non mi hanno mai visto, gli piaccio per quel che scrivo, e non sai che da grande avrei voluto fare la scrittrice perché io amo scrivere, invece tu l'ultima volta che hai letto qualcosa, mi hai detto che non so scrivere e che era sbagliato, wow grazie come sempre di sminuirmi ogni volta.
Riguardo altre cose che non sai boh forse che io con Luca stavo bene ma non eravamo fatti per stare insieme; la confidenza che tu avevi dato ad Enrico, come ti avevo detto anch'io non era giusta, solo che tu volevi parlare con qualcuno, anche in buona fede ma lui non aveva la buona fede e all'epoca tu le amiche non le avevi. Poi passiamo a Lorenzo che gli ho voluto davvero bene e sono stata malissimo quando lui mi ha lasciato, mettendomi le corna, per poi lasciarmi così, ed è inutile che tu continui a dire che c'entra Alessandro ecc perché io con Alessandro non ci ho fatto assolutamente nulla, a parte qualche bacio, perché si mi piaceva ed è un bel ragazzo ma era un passatempo, non come fidanzato, non aveva la testa. Di Lorenzo all'epoca mi piaceva la trasgressione, si lo ammetto, era il periodo in cui disubbidire era figo, ma poi con il tempo le cose non funzionavano, non c'erano argomenti. Parliamo di Giuseppe, di lui non ho molto da dire a parte che non sono davvero andata a Roma per lui, anche se fossi andata ad Ancona ci sarei potuta arrivare con l'autobus o lui con il treno (a parte che l'università ad Ancona sta su un colle ed era scomodissima e menomale che non ci sono andata perché si sono trovati tutti male) ma non è questo l'importante, Giuseppe era il classico ragazzo, campo sui genitori e io non faccio nulla, non aveva dato gli esami, non aveva la patente, per andare in giro si doveva uscire in 4 ma come cazzo si fa, poi aveva pretese di comando su di me, e quindi no. Arriviamo a Davide che ogni volta dici che mi deve lasciare perché secondo te, mi deve capitare quello che è successo a te, invece di farti un esame di coscienza sugli errori, commessi da entrambi, no macché, inveiamo contro la figlia maggiore. Vabbè sti cazzi tanto quando leggerai questa lettera tu sarai andata via e io e te avremmo chiuso per sempre, com'è giusto che sia. La cosa che più mi mancheranno mamma, saranno gli abbracci, quelli di un tempo, quelli delle medie, dove io ero piccola e tu non mi odiavi, e non dire che non mi odii perché è palese, se ne sono accorti tutti, anche se continuano a di dire che tu mi vuoi bene ecc; papà stasera mi ha detto che ti dovevo venire a dare gli auguri perché lui in fondo ci spera ancora e continua a dire "la mamma è sempre la mamma", ma io non ci credo più, e papà non fa altro che ripeterlo da sempre ma tu hai sempre detto che lui ti diceva male... Non ti sei sempre comportata bene tu ma neache io, ci sono volte in cui ho esagerato con le parole perché magari ero allo stremo, altre volte in cui l'hai fatto tu ma comunque, io non sarei mai arrivata a far dire da un fratello che se vedeva tua figlia, la uccideva, ci sono cose che io non cancello, mai, ci sono cose troppo gravi. Tu non ci hai saputo insegnare cos'è la famiglia, com'è quell'ambiente sereno, che qualcuno chiama casa, ogni volta che tornavo a casa dalle superiori speravo di andarmene all'università per non tornare più; io per tre anni di università non volevo tornare a casa perché c'eri tu, io non so se ti rendi conto, quando tutti vogliono tornare, io avrei preferito andare più lontano possibile. Hai reso la mia vita un inferno, e l'unica colpa che ho è quella di essere nata, perché io mi ricordo tutto, e sinceramente la nonna non c'entra nulla, ha solo cercato di fare il bene della casa perché si usava così, poi che tu ogni volta che scendevi gli dicevi male e ti mettevi a litigare dove IO ti dovevo fermare, con le unghie e con i denti, sono sempre stata io a mettermi in mezzo a te e papà per evitare tragedie, eh si perché potevano accadere tragedie, perché tu porti una persona a un livello di esasperazione allucinante. Vuoi sapere cos'ho imparato da Davide, ad essere forte, a rialzarmi, a pensare positivo, a fare tutto perché un domani andremo via dalle nostre case, ed è una cosa orrenda da pensare ma è così.
Poi inoltre parli in continuazione di me, male con chiunque, chiunque, ma un po' di vergogna non la provi, per sangue sono tua figlia, io non direi mai male a mia figlia, manco se fosse una drogata, io boh senza parole comunque ma tanto a te non interessa, né dei figli, né di nessuno, solo della tua bellissima vita che dovrai fare a cinquant'anni, insieme ai tuoi fratelli che non ti hanno cagato mai. Ma io queste cose te le ho sempre dette in faccia, tu invece dietro, come con il tuo avvocato che è una persona spregevole e cerca soldi, e tu solo con una persona simile a te potevi diventare amica perché quando si lavora, si mantiene un certo distacco con le persone, funziona così, ma tu il mondo non l'hai mai voluto capire, ti è estranea proprio l'idea che non funziona come al rione delle case popolari, il mondo esige Intelligenza, cultura, ambizione ecc cose che tu non hai e che non hai manco voluto acquisire e non prenderla a male perché io queste cose te le ho dette anche in faccia.
Io vado all'università, come dici tu "scienze delle merendine", ma cara mia io guadagno già da ora e tu non potresti manco parlare dato che non sai manco come si accende un PC, figuriamoci creare qualcosa, ma a te piace quella ragazza che fa la ragazza che vive alla giornata, io non sono quella, io sto costruendo un futuro, mi laureò e inizierò a lavorare (la tua simpatia per Serena che non fa nulla nella vita, fuma e beve è sempre più per me un mistero, una persona stupida come una capra però vabbè); la cosa bella mamma di tutto ciò è che sinceramente sarà già un po' che non ci sentiamo e ricordati che i figli non hanno bisogno del genitore per essere tali ma il genitore ha bisogno dei figli e questo non dimenticarlo mai. Sicuramente non verrò da te a farmi tenere i figli, si li conoscerai ma sai come una nonna lontana che verrà magari a qualche ricorrenza, perché io ho deciso di crescere e di crearmi una famiglia lontano da te, dal tuo modo di essere, dal tuo odio e dalla tua maleducazione, chissà se quando avrai 60/65 verrai a reclamare i nipoti, avrai quelli di giada e forse ti accudirà anche lei ma io di certo no. Per quanto riguarda la nonna, io spero viva per sempre, la nonna mi ha insegnato tanto, mi ha insegnato ad essere donna, mi ha insegnato che nella vita bisogna lavorare ed avere ambizione per costruirsi qualcosa, mi ha insegnato che la famiglia è una cosa che comunque vada ti accoglie sempre e non ti lascia mai indietro, mi ha insegnato tante cose, anche ad essere forte perché sapeva che saremmo rimaste da sole, io la nonna l'ammiro molto sia come donna che come imprenditrice, come moglie nonostante il nonno sia stato un uomo difficile e di altri tempi, come mamma perché ha saputo insegnare alla zia come si costruiva una famiglia, per papà, il mio caro papà, un papà che tu in primis mi hai rovinato, un papà che spero sappia insegnare a giada tutto quello che ha insegnato a me, un papà di cui io ho un ricordo bellissimo, ma che tu hai sempre descritto come un mostro, non l'hai fatto rispettare e l'hai deriso, non l'hai fatto rispettare dai tuoi fratelli in passato perché eri tu la prima a non rispettarlo; sono due anni e passa che io sto con Davide e l'unica cosa che non è mai mancata tra di noi è il rispetto reciproco come ho rispettato sua mamma e suo padre quando sono andata da loro, come ho rispettato sua zia che praticamente è diventata anche la mia (mi scrive tutti i giorni e mi aspetta sempre).
Aspetta ma tu hai anche (forse) qualche non colpa, non è colpa tua se tua mamma non ha saputo fare la mamma, non è colpa tua se tuo padre è morto giovane, non è colpa tua se ai tuoi fratelli mancano molte rotelle in testa, uno peggio dell'altro (forse si salva Benito ma per il semplice fatto che è stato con Giusi e quindi stando con persone che stimolano la tua intelligenza, si diventa intelligenti wow), a te non è mai interessato rapportati con gente colta, intelligente, per bene, ti piaceva andare con i poveretti che non ti potevano dare nulla a livello intellettuale, perché si, si frequentano le amicizie, le persone perché ti arricchiscono mentalmente, non ti devono impoverire. Una cosa la so però che tu non sarai mai la donna che io voglio essere da grande, non sarò mai la mamma che sei stata con me, non sarai mai la persona a cui ambirò perché? Perché cara mamma tu non hai arricchito me, mi hai impoverito, mi hai resa nervosa, schiva, maleducata, poco cordiale, intollerante alle cazzete, non sopporto le bugie (ne ho sentite troppe da te), insicura, ecc e io so che non sono così perché Davide parla sempre di me e forse lui ha visto qualcosa che nemmeno io non ancora riesco a vedere, so solo che sono sola, mi sento sola, mi sento più che è abbandonata, forse questa sensazione cambierà ma adesso è così. Vorrei aver avuto una famiglia diversa; mi brillavano gli occhi ogni volta che andavo a casa di qualche amica e i genitori erano così genitori, apprensivi, cordiali, sorridenti, mentre tu agli occhi degli altri appari un angelo ma quando non c'è nessuno dai il meglio di te. Mi ricordo ancora quando mi menavi, perché si tu mi menavi ma non come si menano ai figli, tu mi hai preso a calci, fatto sbattere la testa contro il muro e contro la finestra, ne hai fatte tu eh, ora con giada ci parli? Perché non hai parlato anche con me? Perché io avevo sempre la peggio anche quando non c'entravo nulla? Perché? Spiegami il motivo, io ero piccola, non avevo una grande forza, e tu mi facevi tutto questo. Ho anche molti ricordi belli di te, ma la maggior parte vengono offuscati da questi, da questo odio e rancore che provo anch'io ora, per avermi privato della spensieratezza, per avermi privato di non avere problemi per la testa, invece dovevo sempre stare a pensare "speriamo che a casa nessuno ha litigato", uscivo con questo pensiero e rientravo con questo pensiero, tu le cose non le sai, non le hai volute capire e quindi te le sto scrivendo, ti sto scrivendo tutto quello che non sono riuscita a dirti perché con te non si riesce a parlare, con te si litiga solo anche se nessuno vuole litigare, tu litighi da sola. Mi piacerebbe che un giorno tu ti renda conto della figlia che hai e smetta di sminuirla ed offenderla sempre, mi auguro che prima o poi con la lontana questo avvenga, ci spero sempre, ci ho sempre sperato che tu ti accorgessi di me, di come sono fatta e di come rispetto alle altre ragazze sia stata una brava figlia, ci spero davvero.
Ciao mamma.
Martina
#Mamma#Odio#Ti odio#Mi hai rovinato la vita#frasi#frasi mie#Frasi di odio#Madre#sapere#capire#Comprendere#Figlia#Figlio#Genitore#gente di merda#Genitori di merda#Scuola di merda#bullismo#anoressia#Amore#cuore rotto#senza cuore#cuore di ghiaccio#Pena
52 notes
·
View notes
Text
"Lettera a Carmen"
Carmen,
ti ho vista ieri pomeriggio. Eri seduta fuori, al tavolo di una caffetteria. Prendevi qualcosa, parlavi al telefonino, guardavi da un’altra parte.
Io ero all’angolo, avevo un cappello, gli occhiali da sole.
Non te la prendere, ma quando ti sei alzata, ho cominciato a seguirti.
Nella grande area pedonale, tu camminavi, la tua borsetta a tracolla che ti rimbalzava sul fianco, la gonna scura a fiori sopra il polpaccio, la giacca jeans e i lunghi capelli. Sotto tutto questo, le tue scarpette da tennis bianche. Eri proprio tu.
Nella grande area pedonale, tu camminavi, ed io, 10, 20, 30, 20 passi dietro di te, con il mio cappello, i miei occhiali da sole ed il mare di persone intorno.
Non te la prendere ma quando ti ho visto fermarti presso una mendicante, darle dei soldi in mano, dirle 2 parole e farle una carezza, ho pensato che non sei cambiata più di tanto. Sei sempre la solita sentimentale.
Quando ti sei fermata, io mi sono girato da un’altra parte, e ho fatto finta di non guardare. Ho fatto finta di prendere il telefonino. In quel momento, avrei voluto avere per lo meno un giornale tra le mani. Così facevo finta di leggerlo.
Con la mendicante, hai dato sfogo ai tuoi buoni sentimenti, ed hai ripreso a camminare. Ed io, 30, 20, 10 passi dietro di te.
Sai, non è molto che mi sono trasferito in questa grande città, ancora non mi sono abituato a tutti questi spazi, a tutto questo verde, a tutta questa gente. Il mio lavoro è di quelli che ti portano un po’ qui, un po’ lì. Ieri per un mese, oggi per un anno, domani chissà.
Camminando, tu, ti sei fermata di fronte a molte vetrine di vestiti. In particolare, una volta, davanti ad un abito nero da sera, e ho pensato, chissà che impegni ha stasera, forse una cena romantica?
Un’altra volta, di fronte a degli intimi, ed ho pensato, MOLTO romantica?
Ad un negozio sei entrata, e ti ho seguito. Dentro, non è un normale negozio d’abbigliamento. Vendono costumi. Ci sono maschere appese ai muri. Grandi affreschi di arlecchini e personaggi disneyani. Commessi vestiti da Shrek. Bambini dappertutto che le madri non riescono a tenere a guinzaglio. Tu sei andata decisa verso un reparto, e quando ho avuto l’impressione che ti stessi girando verso di me, che mi potessi scoprire, ho fatto finta di interessarmi alla prima cosa che mi è capitata sotto mano. Non mi fraintendere. Erano i vestiti della Barbie donna in carriera e Ken carpentiere macho. Facendo finta di scorrere i costumi tra le mie mani, in realtà osservavo te, con la coda dell’occhio, ti vedevo prendere un vestito e una maschera da pagliaccio.
Ho pensato alla cena romantica, a quella MOLTO romantica, ho immaginato te vestita da pagliaccio e mi è venuto da ridere solo come un cretino.
Non so perché, ma mi sono sentito sollevato.
Medico pediatra, era questo che dicevi sempre di voler diventare. Curare e far sorridere i bambini. Era questo che dicevi ti avrebbe fatto stare bene. Complimenti. Ho saputo.
Tu, con quel costume da pagliaccio, sei entrata in camerino, e a me è venuta un’idea.
Hai presente, quando eri nel camerino, quando un commesso da fuori imitando una voce da orco Shrek ti ha chiesto se avevi bisogno di qualcosa, e tu hai risposto sì, e “di una taglia più grande di questo costume” hai risposto, e hai aperto la porta, ma solo uno spiraglio, da cui sei uscita piegata solo con la testa ed un braccio teso con in mano il costume, hai presente quando lo hai consegnato al commesso con la maschera di Shrek, e gli hai detto grazie sorridendogli con un’espressione che voleva dire, -grazie, da qui così non posso proprio uscire!-, hai presente quel buffo faccione verde di fronte a te?
Be’, sorpresa. Quello Shrek ero io.
La maschera in quel momento, ha coperto il mio volto ma non la mia emozione.
Tra il costume più piccolo che mi hai dato, e la taglia più grande che ti ho riportato indietro, hanno attraversato la mia testa 3000 pensieri. Come proiettili sparati da una mitragliatrice. Frammenti di film mischiati a caso e riprodotti alla decima velocità. Il senso di un tempo passato/sprecato troppo in fretta. Fino a che non mi sono reso conto dei bambini che si arrampicavano su di me per tirarmi le mie grosse orecchie verdi, e mi sono detto, che cavolo sto facendo, e ho rimesso a posto il faccione di Shrek fra la delusione dei bambini per poi indossare l’altra maschera. La mia. Il mio cappello e i miei occhiali da sole.
Non te la prendere, ma nel camerino, quando sei uscita per la seconda volta e hai preso dalle mie mani il costume più grande, lo devo ammettere, ho provato a dare un sbirciata.
Sai, in quel negozio, fra le altre cose, tra le mille immagini che hanno attraversato la mia testa, dentro di me ho realizzato con precisione qual è stata l’ultima volta che sono stato me stesso con te.
È stato tanti anni fa. Eri di partenza, avevi il tuo treno, il giorno dopo dovevi affrontare i test d’ingresso alla facoltà di medicina. Inseguivi i tuoi sogni, inseguivi la tua vita, mentre la mia, di vita, mi aveva già intrappolato con un bel lavoro sicuro nell’impresa edile di mio padre. Tu, prima di partire, mi dicesti:
“Sei proprio sicuro di non voler partire con me?”
In seguito, ci saremmo rivisti, ma eravamo ormai altre persone. 2 destini separati. Ma che ora forse stavano per riunirsi. Questo ho pensato in quel negozio, in mezzo ai bambini e alle maschere, in mezzo agli arlecchini e ai pulcinella appesi ai muri come marionette, fra i palloncini e le stelle filanti dei commessi Shrek, mentre tu pagavi e prendevi la via dell’uscita.
Di nuovo fuori, all’aria, alla luce, alla gente, al movimento, tu camminavi con le tue scarpette da tennis bianche, la tua gonna scura a fiori, i tuoi capelli lunghi, e questo grosso pacco con il vestito da pagliaccio appena comprato. Ed io 30, 20, 30 passi dietro di te. 20 passi.
10.
5.
Solo 5 passi. Ho tolto gli occhiali. Solo 3 passi. Stavo per farlo.
C’era solo un passo tra me e il tuo costume da pagliaccio. Stavo per raggiungerti e chiamarti:
“Carmen!”
Ero talmente vicino che se avessi teso il braccio avrei potuto sfiorare quei capelli. Mi muovevo sulla tua scia. Ero talmente vicino che pure in mezzo alle voci e ai rumori della città ho potuto sentire il tuo telefonino squillare. La suoneria con la sigla dei Simpson. Eri proprio tu.
Allo squillo, io mi sono bloccato, tu hai preso il telefonino, hai risposto, hai continuato a camminare, lasciandomi indietro, come un treno che sgancia l’ultimo vagone, mi sono fermato, tu hai proseguito, ti ho vista allontanare. Proprio quando mi ero deciso, ho perso l’occasione.
Nella grande area pedonale, tu hai chiuso la telefonata, hai accelerato il passo, e vetrina dopo vetrina, portone dopo portone, isolato dopo isolato, sei tornata nello stesso bar da cui siamo partiti.
Ora ad un tavolo in piedi in completo marrone, con la cravatta, che sembra ti stia aspettando, a 20 passi da te, ben pettinato, che ti sta salutando, c’è quest’uomo, questo ragazzo, alto, bello, a 10 passi da te, che sì, lo devo ammettere, saluta proprio te, con una 24 ore in pelle poggiata su una sedia, saluta e ti sorride, mentre tu ti avvicini a lui, con il tuo pacco con dentro il costume, passando in mezzo ai tavoli, con la tua borsa sul fianco, la tua gonna che sfiora le sedie, tu nelle tue scarpette da tennis, fai l’ultimo passo. Lo abbracci felice. Lo baci.
Carmen, eri proprio tu, in quel momento, che baciavi un altro.
Io, io in quel momento ho sentito chiamarmi per nome.
È stato esattamente come quando dormi e qualcuno ti sveglia senza toccarti, solo chiamandoti.
Una voce che proviene da fuori campo, da un’altra dimensione, una lenza che a forza ti tira fuori dal mare in cui eri dolcemente sprofondato.
Lei mi chiama per nome, mi riporta alla realtà, mi dice, “ma dove sei stato?”, mi strilla, “è un’ORA che ti sto aspettando.”
Carmen, in quel momento, ho avuto questa sensazione, come se lì, in mezzo ai tavoli, come se si fosse istantaneamente creata una barriera di vetro tra te e me. Mi sono sentito isolato da te. Dietro quel vetro, sullo sfondo, tu con il tuo compagno mentre entusiasta gli mostri il costume che hai comprato. Vicino a me invece c’è Carla, la mia ragazza, che mi rimprovera per l’ora che è stata qui ad aspettarmi.
Carla.
Perdonami.
A lei, a Carla, ho detto che ho avuto un problema al lavoro. Un ritardo sulla forniture di laterizi.
E lei mi ha detto, “va bene, sei perdonato,” ha aggiunto, “lo sai che ti amo”, ha ripetuto, “ti amo”, con un’espressione del viso che voleva dire, -dimmelo anche tu se no ti tengo il muso tutto il giorno-, ed io, da sotto il mio cappello ed i miei occhiali, da dentro la mia maschera, le ho detto “ti amo” anch’io.
Ora potete appendermi a un muro insieme agli altri.
Ti amo, Carla. La menzogna più grande che mi sia mai uscita dalla bocca. Da quel momento in poi, la cosa più lontana dalla realtà.
La verità, come avrei potuto dirla? La verità, semplicemente, è che mi ero completamente dimenticato di lei. Carmen, la verità è che tu mi hai fatto completamente dimenticare della persona che credevo di amare. Seduta al tavolo di quella caffetteria, ieri ho visto te ed ho completamente dimenticato di essere lì per un altro appuntamento.
Mi hai preso e mi hai portato su un altro binario.
Mi hai dato un assaggio di come sarebbe stata la mia vita se avessi compiuto altre scelte.
Mi hai fatto capire che ogni volta che compiamo una scelta sbagliata, ci costringiamo sempre più dentro una maschera, che ci allontana dalle cose, ci separa da ciò che è veramente importante.
Carla, non te la prendere, ma questo è il mio modo brutale di dirti che non sono la persona giusta per te. Che non sei tu la persona giusta per me.
Sorpresa. Giù la maschera. Carla. Questa lettera è per te.
p.s.: così impari a spiare sempre tra le mie cose
p.p.s.: non odiarmi!
...
***************************************************-Achille Casciaro
3 notes
·
View notes
Text
28 maggio 2019
Siamo già al 28 maggio? Dio... Ieri in Accademia ho chiesto ad una ragazza se fosse il 24, e sono rimasta sconvolta nello scoprire che non era così.
Sono stanchissima, davvero stanchissima, e non so nemmeno bene spiegare perché. Sì okay, ho fatto cose, sono stata su e giù fra Lucca e Firenze... ma non credo di poter giustificare una stanchezza così. Forse tutto sommato è anche una stanchezza “emotiva”, dato che mi sento purtroppo anche molto vuota e con un senso di tristezza al quale non so attribuire un motivo specifico.
Depressione, la chiamano. Ed io penso che personificarla nella figura di un Dissennatore sia davvero un paragone perfetto. Non a caso c’è chi dice che la Rowling avesse immaginato i Dissennatori proprio come riflesso della sua, di depressione.
Stamattina sono stata dalla psicologa prima e dalla dietista poi. Dalla psicologa stavolta ho raccontato tanto, eventi passati che ancora non le avevo chiarito bene ma che già sapevo (dalle terapie effettuate in passato) che hanno grande impatto sul mio presente. Non è ce sia stato un incontro pesante, dato che sono fatti che già ho ripetuto molte volte... ma prevedo colloqui difficili nel prossimo futuro.
Dalla dietista è andata nì... nel senso che abbiamo preso il peso, stavolta accertandomi di essere nelle condizioni più “favorevoli” al prendere il mio peso più correttamente possibile... e non è che il riscontro sia stato così positivo. Da quando ho iniziato ad avere crolli emotivi maggiori il mio peso è sceso nuovamente un po’, in seguito ad un periodo di “stasi” pseudoconcordata (nel senso che la mia dietista vorrebbe che io ricominciassi a salire, ma ha accettato il fatto che in questo momento io non sia pronta). Il patto però era che io comunque non scendessi, ma sono sincera nel dire che non lo ho fatto apposta. Cercherò di stare più attenta, ma non è affatto facile...
Comunque forse qualcuno si starà chiedendo come sia andato lo scorso fine settimana, che tanto temevo, e come mai io ieri abbia scritto che non avrei pubblicato il diario perché stavo male.
(continua)
Questo fine settimana ci sono state finalmente le riprese del corto di cui già vi ho raccontato nei diari precedenti (li trovate anche con il tag “my journey”). Le abbiamo finite? No, perché uno degli altri due attori ci ha dato buca domenica perché lo hanno chiamato per altre riprese. C’è da dire che per quelle altre riprese lo pagavano mentre per noi era gratis, quindi posso colpevolizzarlo solo fino ad un certo punto. Il regista mi farà sapere poi se le inquadrature mancanti richiederanno anche la mia presenza o meno. Comunque stare là, sul set, come ogni volta è stato bellissimo. Sui set mi sento molto più a mio agio che nella vita reale, ed ormai ho capito che il mio posto nel mondo è lì.
Purtroppo, come avevo previsto, ci sono stati non pochi problemi con l’aspetto alimentare. Vi risparmio le acrobazie da “davanti a loro mangio mezza mela e poi mi nascondo per il resto del pasto” perché sarebbero davvero deprimenti e mi ci sono soffermata fin troppo nell’ultimo diario. Il vero problema, e non esagero, è stato sabato sera.
Firenze è ad un’ora e mezza di treno circa da dove sto io, quindi il regista (non sapendo a che ora avremmo finito, e dato che a causa sua già un’altra volta non ho disdetto l’ostello in tempo ed ho dovuto pagare una notte inutilmente) mi ha offerto il suo posto letto a casa dei suoi genitori, dato che lui ora convive da un’altra parte con la sua ragazza. I suoi erano a cena fuori, dunque per fortuna sarei stata per tutta la serata da sola. Ovviamente l’ultima cosa che avevo intenzione di fare era usare la loro cucina, dato che quella stanza era il Caos puro, quindi avevo programmato come già fatto altre volte di comprare qualcosa di pronto al supermercato. In genere, se è un qualcosa su cui sono scritti valori nutrizionali e tutto il resto, non ho particolari problemi.
Peccato che il supermercato fosse in chiusura, e l’unica cosa che sono riuscita a prendere è stato un pezzo di pizza. Certo, anch’esso imbustato con il peso e la tabella dei valori nutrizionali bella in vista... ma non è bastato.
Ci sono ancora alcuni alimenti, che qualcuno definisce “cibi fobici”, che mentalmente non riesco a sopportare. E la pizza è uno di questi. Nonostante dopo averla mangiata sapessi benissimo di non aver ecceduto di kcal rispetto al mio piano, nonostante sapessi che non aveva un senso logico... non sono riuscita a sopportare i sensi di colpa, ed ho vomitato anche l’anima. Sfinita, sono crollata a letto dopo essermi fatta una camomilla.
Questo. Questo è il disturbo alimentare. Il disturbo alimentare non è la ragazzina graziosa dalla taglia 36 che vedi mangiare un’albicocca e poi dire “sono sazia” mentre cammina per la strada con le sue gambe magrissime. Il disturbo alimentare è la stessa ragazza che piange, che si punisce, che vomita o che corre o che prende qualsiasi cosa le venga in mente “per compensare”, che sta male e vorrebbe solo che tutto finisse, lei compresa. O che tutto non fosse mai iniziato, lei compresa.
Sono le lacrime ed il sangue e l’insonnia ed il freddo e la sensazione di non avere più niente sotto controllo e la solitudine e la tristezza ed il veleno che sembra antidoto ma poi si rivela per quello che è. È lo sparire desiderando di apparire, è cercare la vita nella morte, è l’aggrapparti a qualcosa che credi ti salverà mentre è esso ad avvinghiarsi a te e ad impedirti di allontanarti.
È l’ansia che ti soffoca dal nulla durante una lezione, opprimendo il tuo petto ed irrigidendoti i muscoli. Facendoti sentire che nulla funzionerà mai, che sei solo una perdente ed un fallimento. E tu sai che quell’attacco d’ansia non ti ucciderà, ma quasi vorresti che lo facesse perché le sensazioni che ti rimanda sono fin troppo vere.
Sì. Questo mi è successo ieri in Accademia. Una crisi d’ansia fortissima mi ha presa all’improvviso, senza lasciarmi capire perché proprio in quel motivo. Nemmeno le gocce di ansiolitico che prendo al bisogno mi sono servite, e venti minuti dopo ero a piangere a dirotto sul terrazzo assieme ad una ragazza della segreteria che era riuscita a farmi respirare di nuovo.
Questo fine settimana sarò fuori per Vilegis, ma davvero non vorrei. Non ne ho voglia, non me la sento, non mi sento motivata. Magari mi divertirò tantissimo, ma in questo momento vedo solo quello che è andato storto lo scorso anno, quello che è andato storto in questi giorni, i soldi che ho speso, il tempo che potrei usare in altro modo. Vedo le persone che incontrerò, e so che a pochi importa davvero della mia presenza. E so che a Luca della mia presenza non importa quasi più, che anzi forse considera colei che un tempo voleva vicino a se come una scocciatura che lui stesso si è portato “in casa”.
E colei sarei io. Io, che la nostra amicizia la vorrei ancora ma che la ho vista da tempo svanire senza un perché.
Perdonatemi se anche stasera il tono del post è davvero basso. Spero non sia troppo noioso, spero che non sembri una ricerca di compatimento.
Sono le 22:20, sono sfinita, ma posso stare certa che ancora per ore non riuscirò a chiudere occhio.
Sweet dreams.
#still a sketch#diario#diary#mia storia#my story#anoressia#anoressia nervosa#malattie mentali#eating disorders recovery#anorexia recovery#bulimia recovery#mental illness recovery#depression#depressione#anxiety#ansia#anxiety attack#my journey#ana warrior#guarigione#disturbi alimentari#malattia#depression recovery#solitudine#paura#loneliness#fear#dementor#dream#i feel empty
8 notes
·
View notes
Note
Since you're on the roll.. What about a metamoro soulmate au? (You wrote it yourself in the tags) one when maybe is involved a particular mark on their backs somewhere that links them?
Hey you
You wanted a soulmates au?
And that’s what you’re gonna get
Prima di tutto, mettiamo delle linee guida base
E cioè come funziona questo mondo
Tutti nascono con una strana voglia sulla parte destra del petto
(Si ad altezza della tasca destra in alto)
Questa strana voglia rimane informe fin quando non incontri la tua soulmate
Which is all fun and games ma essendo un punto piuttosto coperto in genere e si incontrano millemila persone ogni giorno diventa problematico se magari è qualcuno con cui hai scambiato un “buongiorno” al supermercato
Which is why la gente che si cosa con le proprie vere soulmate non dico che è rara ma non sono neanche così tanti
Anche perché molti avvertono un formicolio sulla pelle, quando la voglia assume un significato preciso, ma that’s not necessarily true e dipende dalla sensibilità della persona quindi, metti che succede davvero una mattina mentre sei di turno al supermercato, come fai a ricordare e capire chi sia la tua soulmates?
A onor del vero, se sono soulmates di solito le ribecchi in altre occasioni, ma non è scontato e insomma si tiene in considerazione anche della capacità e della volontà individuale
e sopratutto, se è la tua soulmates davvero -eccetto in alcuni casi- la ribecchi in giro
veniamo a Ermal e Bizio
Fabrizio aveva rinunciato alla cosa dell’anima gemella da quando aveva circa 25 anni ed era già molto se ci voleva stare lui con se stesso, figuriamoci dover costringere un altra persona che magari poteva vivere una vita meno incasinata senza un peso simile
ora, a 43, ha una considerazione un po’ migliore di se stesso, ma rimane il fatto che per se non vuole manco considerare l’ipotesi
Con Giada era andata come era andata e okay, alcune cose potrebbero essere gestite meglio, ma aveva due figli bellissimi e una famiglia che funzionava a modo suo, quindi chi era per lamentarsi?
Ermal credeva alle anime gemelle…… ma per gli altri. Non del tipo “ah non troverò mai la mia oh no” (nonostante abbia passato un periodo così)(da hipsterino edgy nsomm), però non era neanche la sua preoccupazione massima
I mean, se non era Silvia - per cui era stato disposto a mandare al diavolo tutto quel sistema di credenze - chi altri avrebbe potuto?
quindi no, si occupava del suo lavoro, della sua musica, e stava benissimo così
jump to Sanremo 2017
e tutto il teatrino con Fabrizio che è antipatico eccetera eccetera
certo è che se lo becchi appena finisce le prove e sta spompato tipo dopo una maratona la colpa è anche un po’ tua, Ermalì
però a difesa di Ermal, lui stava tutto emozio-eccitato di incontrare uno degli artisti che seguiva da una vita figherrimo che solo gesù lo sa quanto ha rotto i coglioni a tutti e lui è—-kttv.
però va beh non è che ha il tempo mo’ per mettersi a vedere cose ha un festival a cui arrivare terzo, un Albano da cui farsi fregare i fiori e sopratutto il TOUR
il bello del tour, dei tour con gente che conosci e a cui vuoi bene, è che pare sempre di essere in gita di quinto
e lui amava da morire i suoi compagni di viaggio
sopratutto quando lo appoggiavano nelle puttanate
come fare i turni per dare fastidio a Marco ogni volta che la notte la passava a russare
o decidere di rubare lo spazzolino a Vige a ogni tappa, così che debba ricomprarselo ogni santa volta
e i cappellini di Emiliano. SU COSA SONO STATI QUEI CAPPELLINI.
O fermarsi vicino alla costa a fare i tuffi incuranti del fatto che potesse spezzarsi l’osso del collo
e esattamente in quella situazione i nostri magici amycy e in particolare Ermal hanno finalmente notato che la voglia sul petto di Ermal aveva smesso di essere un blob informe e !!!!!!!!!!!!! era qualcosa
“è una mela” “una spazzola” “un ragno” “SEH, SUPERMAN”
la forma poteva anche essere chiara ma in realtà non lo era manco per il cazzo
però di base è una cosa uguale per i due membri della coppia, quindi nel loro caso saranno confusi in due
EH MA CHI SARA’ MAI si domandano in coro i nostri ometti
“qualcuno che hai conosciuto di recente, no?” “Grazie al cazzo, Ma’, sai quanti cristiani ho conosciuto in stì mesi?” “ma scusa quando è l’ultima volta che ci hai fatto caso” “…” “marzo?” “…” “febbraio?” “..” “..”
Pure Vige ha un po’ pietà per lui. Deeno se la rideva
Ermal non rideva popo pe’ niente che cazzo
quindi con un tacito accordo tutti decisero ovviamente di non far uscire la roba da là che già così era un macello, immagina se la gente si fosse fatta prendere dal fanatismo
“vuoi dire, di più?” commenta saggiamente Emiliano, mentre Roberto era impegnato ad aiutare Paolino negli spergiuri e le preghiere perché già così stavano messi male
quindi la vita fluisce tra i soliti casini, i concerti e le canzoni da inserire nel nuovo album e ora pure quest’altra roba
che si Ermal poteva pure dire che non gliene fregava niente e gne gne gne
ma in realtà gliene fregava a s s a i
almeno abbastanza da passare le notti con Macco, che tanto la sleep schedule era andata a farsi benedire da quando Anna era a NY
e manco le ragazzine nei peggio teendrama americani anuwanawei si mettono a vagliare le possibilità tra la gente che Ermal potrebbe aver incrociato
“ma possibile che non hai sentito proprio niente?” “none” “ma manco un bruciore? un solletico? un fricciorio?” “seh, so’ fatto Nino Manfredi”
“oh, io stavo per avere un infarto quando ho conosciuto Anna” “quello era il colpo di calore nel girare a Bologna a luglio a mezzogiorno”
E a Marco era venuto il pensiero di Bizio, si insomma, scorrendo i nomi della gente a Sanremo, sperando che non fosse l’assistente dell’assistente
però lui ci stava quando Ermal c’era rimasto male, e je dispiaceva ad aumentare il carico
però, però, PERO’
quando una sera Ermal si ritira sulla group chat #guessthatpockemon tutto gnegnino perché “no raga non indovinerete mai chi è vento stasera a parlare, roba da non crederci, pazzesco” perché Fabrizio Moro proprio lui proprio Bizio si era avvicinato a scambiare due chiacchiere, a Marco il dubbio gli ritorna
ma per bene placido se sta zitto che campa 100 anni
nel frattempo Ermal gestisce il fatto che nella sua già bella che incasinata vita si è aggiunto Fabrizio Moro che, a quanto pare, voleva a tutti i costi diventare suo amiketto
(mo’, cì, ci sono problemi più gravi da avere suvvia)
mentre i suoi amici se ne escono ogni giorno con spiegazioni più fantasiose al simbolo perché in teoria è legato a qualcosa di importante per le persone
ma il destino è stronzo quindi è “iMpOrTaNtE” a cazzi suoi, tipo per Marco e Anna era l'ombrellino del cocktail che Marco le ha regalato dal suo drink per fare il dolcino e nessuno dei due se ne sarebbe mai reso conto se non fosse stato iper ovvio
dicevo, il destino è stronzo
così stronzo che non solo Fabrizio vuole essere amiketto suo, ma deve pure essere BELLO DIVERTENTE SIMPATICO AFFASCINANTE SENSUALE TALENTUOSO E DEVE PURE SAPER CANTARE nello spazio vitale di Ermal
il disrispetto purissimo
ma a Fabrizio frega un cazzo di essere cortese buon giorno e per favore, visto che si stava insinuando nella vita del più piccolo sempre di più
e non è che Ermal “è chiuso, fa il calabrese di testa” E’ CHE GLI PIACE FINGERE DI AVERE UN CONTEGNO e non fare la scolaretta alla prima cotta che “prendimi, sono tua”
ma te faccio vedè come il contegno passa in settordicesimo piano quando Fabri gli propone la canzone assieme e “ah e pensavo di chiedere anche a —” “NON SERVE BASTIAMO NOI”
da scolaretta delle medie a ragazzina di quarto liceo che SA di dover sfruttare tutte le occasioni per stare con la sua crush è n'attimo eh
quindi via il contegno e indossiamo i nostri abiti più vulnerabili che vuoi che sia una canzone che tratta le ferite di entrambi e la loro vittoria su di esse per spiegarle al mondo, un giro di giostra proprio
e raga, Ermal davvero se potesse evitarlo lo farebbe, chiuderebbe baracca e burattini e andrebbe a Honolulu a vendere noci di cocco, tutto pur di non affrontare il fatto di starsi invaghendo per Fabrizio
Fabrizio così paziente e dolce, ma anche stronzissimo quando vuole
Fabrizio che gli ha aperto casa e vita come se non fosse manco la sua (beh, considerando che ci era appena andato ad abitare, quasi quasi manco lo era)
Fabrizio che era tantissime cose, ma sicuro non ne era due: innamorato di lui, ad esempio. E la sua anima gemella sorella vitasnella, per dirne un'altra.
e questa cosa sarebbe bello usarla per farsi passare la cotta, no? per stare bene
e invece ogni volta che si incontrano Ermal deve fare training mentale per non sospirare grandemente come la dramaqueen che è nell'anima
quella sciocchissima cotta non andava da nessuna parte ed avevano ancora tutto Sanremo davanti, e “oh il 16 canto all'Olimpico” “fantastico mettimi da parte un biglietto” “ma scusa a sto’ punto sali a cantare”
e le serate passate a parlare e scambiarsi idee su quel mondo così pazzesco e incasinato, ma che sembrava meno spaventoso con Fabrizio affianco
Ermal non era mai stato una persona particolarmente fisica, ma stava riscoprendo il piacere di essere stretti al punto che quando non succedeva per giorni di seguito cominciava a sentirne la mancanza
Però stava tenendo botta bene.
Se per bene intendiamo il momento più awkward della storia stile Rossana con la neve che scendeva e loro due che si salutano sulla porta di casa di Ermal a Roma e l'aria fredda che fa arrossare le guance e nessuno dei due che vuole tornare a casa
“Ermal te sei.. insostituibile” “insostituibile?” “Si. Perché non è che solo sei unico, o necessario, o importante, ma proprio che o sei tu o non se ne fa niente” “io… grazie.”
Macco and Vige singing kiss the girl in the background
Ermal vorrebbe dirgli quanto è anche lui insostituibile. Miracoloso. Vero. Tutte le cose belle del mondo e dell'universo.
“sai cos'è la galassia di Hoag?” dice invece, perché le cose semplici ci fanno schifo e no, Ermal, nessuno lo sa. “è un corpo celeste visto da questo tipo, Hoag, assolutamente assurdo, con un anello attorno, un centro luminoso e pulsante e il buio nel mezzo. Nessuno sa cosa ci sia dentro. Ecco, tu sei così - spettacolare, fuori. E hai permesso di far vedere al mondo parte del tuo io interiore, che è luminosissimo. Ma per sapere cosa ci sia tra le due cose uno deve stare con te, deve viverci, deve essere così fortunato che tu glielo permetta. Ma sono convinto ne valga la pena”
e dopo una dichiarazione del genere, chi ha la forza di biasimare Fabrizio se decide di baciarlo e far collassare tutti i sistemi e il cosmo di Ermal, roba che tutte le sue stelle sono diventate cadenti e i desideri se li era fregati tutti quel bucchino di Bizio
Ermal torna a casa quella sera che grazie al cielo erano due scale da salire che se avesse dovuto guidare sarebbe sicuro andato a sbattere
Fabrizio Moro!!!! aveva baciato!!! lui!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
“ma quindi ora state assieme?” chiede una assonnato Marco al telefono. Erano le tre del pomeriggio.
“figurati, chi si mette assieme dopo un bacio. Anzi, probabilmente per lui non ha avuto neanche tutta sta importanza, insomma”
come volevasi dimostrare, Ermal ha torto marcio perché Fabrizio gli scrive quella sera per cenare assieme e “ma guarda che è un appuntamento, capito?” “si si, capito”
si guarda lo strano simbolino sul petto, e pensa che il destino possa allegramente andarsene a importunare altri se proprio ci tiene
Una parte di lui, che suona stramaledettamente come Paolino, lo avverte di non far scoppiare casini prima o durante Sanremo e loro sono iper mega bravi a non far trasparire niente
così niente che al party pre-robe metà della gente aveva capito che gatta ci covava ma hey, è lo showbiz, tutti se la fanno con tutti and all your faves are gay
ma almeno non fanno gli infami e bisogna dare qualche credito a entrambi, nei primi tempi sono quasi professionali
poi, la COSAtm succede: pochi giorni prima di Sanremo, vanno a fare quella specie di intervista a Radio Italia (da cui sono uscite foto di esibizioni ad oggi mai viste grrrrrrr ma che sono così soft che mi sento a disagio a guardarle) e li becca una degli speaker con le solite domande di routine e Fabrizio dice una cosa MARIA MANDA L’RVM
#ATUPERTU
e appena l’intervistatrice sparì, Ermal capì. Capì la strana forma sul suo petto, capì perché con Fabrizio era tutto giusto come doveva essere, capì TUTTO.
BEH tutto, capì quello che doveva capire e fu abbastanza da prendere Fabrizio per infilarsi nel primo bagno disponibile a domandare spiegazioni
spiegazioni che a quanto pare Fabrizio non voleva dare visto che aveva cominciato a levarsi la maglia e ora si vedeva giusto la canotta e oh mucho calor vero Ermal? perché non ti spogli pure tu e maga—AH E’ PER VEDERE LA VOGLIA SCUSA FABBRì QUA SIAMO MENTI DEBOLI
“quindi.. tu lo sapevi?” “l’avevo capito dar primo momento” “dall’inizio?” “dar giorno in cui ce siamo conosciuti, dal momento stesso proprio” “e perché non mi hai detto niente scusa potevamo risparmiare un sacco di tempo”
“è che, cè, io ‘nme ce so voluto buttà subbito perché volevo prima capì se ce stavamo a amà perché sì o pe sta cosa de quattro segnacci su'a pelle, capito?” (cit. @chiamatemefla grazie amò)
E Ermal non gli poteva dar torto eh, cioè di base è pure il suo pensiero
però una cosa è sapere la roba IN POTENZA e magari pensare a come sarebbe andata la sua storia con Fabrizio, un conto è sapere che quella persona meravigliosa era stata messa al mondo solo per te
roba da rimanerci secchi
e ora guardava il simbolino gemello al suo, un trapezio con delle striscette sotto ed era perfettamente consapevole di cosa fosse, e si sentiva un enorme cretino a non aver riconosciuto la versione stilizzata di un diffusore
ma poi il suo sguardo si perse nel resto del petto dell’uomo davanti a se, le braccia, la barba e le labbra dolcissime, i capelli scombinati e gli occhi che lo scrutavano per capire se fosse arrabbiato o meno
e forse avrebbe dovuto, forse non gli sarebbe dovuta andare a genio la cosa tanto facilmente
ma quel bucchino birbante di Fabrizio ormai era tanto così al centro del suo cuore che l’unica cosa che sentiva era il bisogno impellente di stringerlo e ribadire ancora una volta che si erano trovati e amati e perché volevano, non perché qualcuno aveva deciso per loro, e un amore libero è un amore condannato a durare.
a few things:
-ho cercato di renderla più light possibile perché con me le soulmates!au sono sempre un peso micidiale boh roba epocale ed impossibile da racchiudere in un bullet point
-also sono pienamente consapevole di essere meno divertente del solito ma boh, oggi va così
-l’oggetto di Hoag (non galassia, Ermal, lo so che volevi fare il carino ma no.) esiste davvero ed è bellissimo
- nel caso qualcuno non ci fosse arrivato, è esattamente questo il simbolo sul petto di Ermal e Bizio ed è tutta la notte che ridacchio per sta cosa perdonatemi tutti (ovviamente nel mio fantastico mondo immaginario è disegnato meglio ma come la metti e come la volgi rimane un: diffusore)
(capirò se nessuno mi vorrà più promptare nulla e direi che me lo meriterei anche sorry)(ma non ho davvero resistito scusate il destino è stronzo ma io di più)
#metamoro#ermal meta#fabrizio moro#ask anon#soulmate!ask#diffusore!au#i am so sorry#lo giuro una volta ero normale#ora alle tre di notte ridacchio per sta cosa#mi disp
163 notes
·
View notes
Link
25 set 2020 11:34
FONTANA DI GUAI - NON È VERO CHE ATTILIO FONTANA HA SCOPERTO SOLO L’11 MAGGIO CHE LA REGIONE AVEVA AFFIDATO IL 16 APRILE E SENZA GARA LA FORNITURA DI CAMICI AL COGNATO. CHE IL 16 APRILE STESSO INFORMA LA SORELLA ROBERTA CON UN SMS: “ORDINE CAMICI ARRIVATO”. È PLAUSIBILE CHE LEI NON NE ABBIA PARLATO CON IL MARITO ATTILIO? – A POCHE ORE DALLA COPIA FORENSE ORDINATA DALLA PROCURA DI PAVIA, LA GUARDIA DI FINANZA HA BUSSATO DI NUOVO ALLA PORTA DEL GOVERNATORE…
-
1 – SEQUESTRATI ALTRI UNDICI CELLULARI UNO È DELLA MOGLIE DI FONTANA
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera”
A non sapere che le Procure di Pavia e Milano non si erano coordinate, e anzi forse nemmeno parlate, nessuno crederebbe a un caso. E invece, 24 ore dopo che i pm pavesi Venditti e Mazza (nell'inchiesta sull'accordo tra Fondazione Policlinico San Matteo e la multinazionale Diasorin per i test diagnostici Covid) avevano portato via l'intero contenuto del telefono del non indagato presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, nonché dell'assessore alla sanità Giulio Gallera e di altre 7 persone, ieri la Procura di Milano (nell'inchiesta sulla fornitura/donazione di camici alla Regione da parte della società Dama spa del cognato del governatore) manda la GdF a bussare di nuovo a casa Fontana: stavolta non per il telefono del governatore, pur indagato a Milano per l'ipotesi di concorso con il cognato nella «frode in pubbliche forniture», ma per il telefono della non indagata moglie Roberta Dini, e - contemporaneamente - di 10 persone, tra cui 2 assessori regionali (Raffaele Cattaneo all'Ambiente e Davide Caparini al Bilancio) e 5 dirigenti tutti non indagati.
Per Pavia i sequestri erano motivati dal recuperare, sui telefoni di interlocutori del presidente dell'ospedale Angelo Venturi, le chat che avrebbe cancellato poco prima di essere indagato; per Milano servono a colmare i segmenti mancanti nella storia dei camici quale ricostruita sui messaggi sequestrati in estate sul telefonino dell'indagato cognato di Fontana, Andrea Dini.
Diverso l'approccio dell'acquisizione milanese: parimenti aggressiva (perché non sono uno scherzo 11 telefoni di persone per lo più non indagate), ma più garantita perché selettiva: in una ottica di pertinenza e proporzionalità, infatti, i pm Furno-Scalas-Filippini hanno fissato oggi una ricerca con 50 parole-chiave nei telefoni solo sulla vicenda-camici, e per di più in contraddittorio con i legali e i periti degli indagati.
Ai professionisti che curarono la voluntary disclosure e le dichiarazioni dei redditi di Fontana è stato invece chiesto di esibire i documenti (in parte già noti all'Agenzia delle Entrate) sul suo scudo fiscale nel 2015 di 5,3 milioni illecitamente detenuti nel 2009-2013 in una banca svizzera da due trust delle Bahamas, nei quali la madre dentista (morta a 92 anni) figurava «intestataria», mentre il figlio era «soggetto delegato». Accertamenti analoghi sono stati svolti per avere certezza che, dietro un trust di controllo, la società del cognato (90%) e della moglie (10%) di Fontana sia appunto solo di fratello e sorella.
2 – Il cognato già il 6 aprile al fornitore di tessuti: «È stato il governatore a dirmi di contattarti»
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera”
Non è vero - come sinora ha sempre detto - che il presidente Attilio Fontana abbia scoperto soltanto l'11 maggio (dal proprio staff per caso) e poi in giugno (dalle interviste di Report) che la centrale acquisti della sua Regione Lombardia, Aria spa, aveva affidato il 16 aprile senza gara alla società Dama spa di suo cognato Andrea Dini (al 90%) e di sua moglie Roberta Dini (al 10%) una fornitura di 75.000 camici e 7.000 set da 513.000 euro.
Il telefonino di Dini, infatti, mostra che già quel 16 aprile alle 15.22 l'imprenditore informa subito via sms la sorella Roberta (moglie di Fontana) che «ordine camici arrivato», ma «ho preferito non scriverlo ad Atti», e la moglie di Fontana concorda: «Giusto, bene così».
Se ne ricava appunto che il presidente della Regione, salvo ora intenda dire che la moglie quella sera a casa non gli parlò di quanto il cognato aveva fatto attenzione a non scrivergli, seppe subito del conflitto di interessi innescatosi.
E per i pm è anche indice della «volontà di evitare di lasciare traccia del suo diffuso coinvolgimento mediante messaggi scritti». Ma un altro sms di Dini sembra retrodatare la consapevolezza di Fontana addirittura a prima del contratto (non 16 ma 6 aprile), e persino rivelarne un aiuto diretto a favore del cognato.
I pm, infatti, nello spiegare che l'assessore Raffaele Cattaneo (responsabile della task force regionale) ebbe «un ruolo decisivo per consentire a Dama spa di riconvertirsi e poter formulare una offerta», additano gli sms da cui traspare la sua «intermediazione nel trovare nell'interesse di Dini i tessuti da utilizzare per confezionare i camici» da proporre poi alla Regione, «anche intervenendo sui fornitori». Uno di essi, Paolo Maria Rossin di Indutex spa, il 6 aprile alle 9.50 si scusa con Dini perché ha già venduto ad altri tutti i tessuti che Dini cercava.
«Non capisco - reagisce male Dini -. È stato Cattaneo e mio cognato il governatore Fontana a dirmi di contattarLa. Dirò che si sono sbagliati». Dini avvisa Cattaneo. Cattaneo chiama Rossin. Che alle 13.32, «facendo seguito al colloquio odierno con l'assessore Cattaneo», comunica a Dini che si sono liberati 50mila mq di tessuto.
Fontana avrebbe dunque finto meraviglia ancora l'11 o 12 maggio (secondo le versioni contrastanti tra il direttore di Aria spa, Filippo Bongiovanni, e il capo segreteria di presidenza Giulia Martinelli): cioè il giorno in cui, stando alla versione ufficiale riportata da Martinelli alle indagini difensive del legale di Fontana, il presidente apprese dal proprio staff l'incresciosa scoperta. «Fontana mi chiese: "Ma non è una donazione?". Io risposi: "No".
Fontana ebbe una reazione attonita. Rimase in silenzio per un paio di minuti, poi mi disse: "Mia moglie ha il 10% di questa società". Prese le sue cose e se ne andò». Moglie e cognato appaiono talmente consapevoli del conflitto di interessi che Dini il 21 aprile (5 giorni dopo il contratto regionale) giunge a prospettare a Paolo Zanetta, procuratore della sua Dama spa, di precostituirsi una sorta di alibi (donazioni di mascherine anti Covid a vari ospedali) da opporre a chi in futuro avesse arricciato il naso sulla fornitura di camici: «Dobbiamo donare molte più mascherine ed averne però prova certa. Se ci rompono per le forniture di camici causa cognato, noi rispondiamo così».
La molla dei Dini fratello e sorella è per i pm la «grave tensione patrimoniale» della società di abbigliamento (con in pancia il marchio Paul & Shark) causata dalla cancellazione per il Covid di tutti gli ordini, tanto che il 29 febbraio lui profetizza cosa rischierà: «Che per la prima volta in tre generazioni parlerò con i sindacati per ridurre il personale, minimo 50 ma anche 100. Poi si chiudono se possibile (i negozi di, ndr ) New York e Montenapoleone».
Dopo due giorni è la moglie di Fontana a suggerire il salvagente: «Bisogna cercare di riconvertirsi in mascherine». Ed è sempre lei a dare a Dini il 25 maggio (5 giorni dopo la rinuncia del fratello al pagamento dei primi 49.000 camici consegnati alla Regione) la notizia che Fontana, per ristorare il cognato della perdita, ha bonificato alla Dama spa 250.000 euro, poi respinti dalla fiduciaria come operazione sospetta: «Mi chiama Attilio (già ti dice il cervello) per chiedermi numero fattura perché ti ha fatto bonifico ma manca il numero della fattura».
Notizia che, per la sua improponibilità, getta nello sconforto il pur teorico beneficiario cognato: «Non va bene un bonifico tra privati. Digli di non farlo. Fa più danni». «Spero non l'abbia già fatto», risponde la moglie, «aspetto stasera cerco di capire», e Dini concorda: «Importante è che almeno a casa abbia degli amici», altrimenti «così è anche peggio, mica posso fatturarglieli. Mette l'azienda nei casini». Come è accaduto.
0 notes
Text
A quanto pare il giovedì sera è il mio giorno fortunato, perché è due giovedì di seguito che ti vedo in giro. La scorsa settimana sei venuto in bar dove abito io con i tuoi amici. Forse sicuro che io non ci fossi perché sai che vado sempre in altri bar, tu ci sei andato lo stesso. Ti ho visto da lontano quel giorno, poi tu e i tuoi amici, dei quali conosco uno, avete deciso di mettervi nel tavolino accanto al nostro. Io, per non vederti, mi ero girata dall'altra parte ma con la coda dell'occhio capitava che il mio sguardo finisse su di te, o meglio sul tuo tavolo, soprattutto quando parlavo con le mie amiche. Capitava spesso che mi sentissi il tuo sguardo addosso e, a volte quando mi giravo, mi accorgevo che tu mi stavi guardando. Ho sempre fatto finta di niente quella sera, ho parlato, riso e scherzato con tutti come se niente fosse ma in realtà quando ti ho visto arrivare da lontano ho iniziato a tremare visibilmente al punto di non riuscire a scrivere un messaggio. Quando me n'ero andata sono passata davanti al bar in macchina e tu mi ha fissata. Andata via da lì, ero andata al mcdonald's con le mie amiche e per tutta la strada tremavo, ma quando tornavo a casa ero tranquilla, quasi serena e non ero più scossa. Ero molto preoccupata quella sera perché non avevo avuto reazioni eccessive, ero abbastanza tranquilla e tutta quella serenità mi preoccupava perché, quel giovedì ti vedevo per la prima volta dopo un mese e mezzo, ovvero da dopo l'ultima volta che eravamo usciti a luglio quindi mi aspettavo una reazione diversa, invece niente. Ne ho parlato quella sera con le mie amiche ma dopo il discorso era caduto lì perché non ne volevo più parlare.
Stasera invece è stato totalmente diverso. Io ero in bar in un paese vicino a dove abiti tu. Ci andavo spesso con le mie amiche e non pensavo fosse un posto che tu frequentavi ma sai perfettamente che non sono ragazza che non frequenta più certi posti solo per bon vedere il proprio ex ma anzi continuo la mia vita normalmente come giusto che sia, a parere mio. Insomma, stasera ero seduta lì tranquilla, stavo bevendo la mia coca cola tranquilla mentre mi guardavo in giro e all'improvviso, alla mia sinistra, sei passato tu mano per mano con la tua ragazza. Suo momento non ti stavo guardando perché mi stavo semplicemente guardando in giro ma ad un certo punto mi sono sentita guardata, anzi, fissata e quando ti ho visto, quando i nostri sguardi si sono incrociati da lontano ho distolto subito lo guardo girandomi dall'altra parte. Pensando che la mia migliore amica mi avesse visti, le ho chiesto se vi aveva visti ma lei, insieme a tutte le altre, non vi aveva visti però poi, quando eravate già più lontani, si sono girate tutte a guardarvi. Dopo un po' siete tornati indietro e avete deciso di sedervi nel nostro stesso bar e tu, non contento, ti sei seduto nel posto rivolto verso me in modo tale da avermi di fronte. Non nego, a volte vi guardavo perché ero curiosa di sapere cosa facevate, ma, puntualmente, ogni volta che ti guardavo tu stavi già guardando me, nonostante la tua morosa fosse seduta accanto a me. Chissà se lei sa della mia esistenza e se sa, soprattutto, tutta la verità... sarei molto curiosa di saperlo. Quando vi guardavo tenervi per mano, o tu le toccavi la gamba o quando eravate così vicini sentivo una strana fitta allo stomaco. Non nego, mi ha fatto molto male vedervi insieme così, dopo tutto era la prima volta che ti vedevo con un'altra dopo di me l'ultima volta e soprattutto era la prima volta che vi vedevo voi due insieme di persona. Da quel momento in cui vi ho visti ho mal di testa, mi viene da piangere e da vomitare ma non riesco a piangere. Ho cambiato umore, sarà una cosa stupida ma sono diventata più triste. Alla fine credo sia più che normale la mia reazione così, sarebbe strano se fossi tranquilla anche questo giovedì dopo avervi visti insieme. Spero di non piangere stanotte ma per il momento ho un sorrisino malinconico, triste, dispiaciuto, nostalgico e un po' deluso ma passerà, non ho neanche voglia di parlarne con altre persone per il momento, devo elaborare
0 notes
Text
i miei concerti saltati all'ultimo (un post di aneddotica sui cazzi miei, che tanto ormai la giornata è buttata)
oggi sarei dovuto andare all'home festival, manifestazione musicale nostrana che sta tentando di fare, encomiabilmente, il salto di qualità. a causa del maltempo della nottata e dei danni causati da questo, la giornata di esibizioni di oggi è stata cancellata. posto che sono comprensibilissime le improperie di chi si era organizzato il viaggio da lontano con tanto di pernottamenti e scazzi vari (non io, fortunatamente, che abito ad un’oretta da lì) o anche solo la delusione di chi voleva vedere un concerto che magari aspettava da sempre, dando la giusta misura anche all'ovvia ironia dei messaggi dell'organizzazione che fino a ieri si diceva attrezzata anche in caso di nubifragio, è ovvio che, una volta che l'area viene dichiarata inagibile per la giornata, non è che ci sia molto da fare. vi consiglio comunque di andare sulla pagina facebook dell'home festival, o su quella twitter di liam gallagher, per godervi il putiferio che solo la internet sa scatenare. c'è maleducazione, buon senso, sarcasmo pesante, analfabetismo funzionale e tanto, tanto, tanto altro in un migliaio e passa di commenti sotto l'annuncio della cancellazione della data.
di mio sono ovviamente scazzato, anche per la giornata buttata, però bon, amen. non è che ci si possa far molto. il biglietto almeno è rimborsabile. sarà per la prossima, se ci sarà e si riesce*.
ciò detto, ecco una carrellata delle altre volte in cui è stato cancellato un concerto a cui sarei dovuto andare:
-la prima occasione del genere è stata all'independent days festival di bologna del 2005. line up notevolissima, ma io ci andavo essenzialmente per i bloc party, che avevano appena pubblicato il loro debutto, silent alarm, album tuttora tra i miei preferiti in assoluto (sui seguenti dischi della band, invece, diciamo che preferisco non soffermarmi)(ma silent alarm dovreste ascoltarlo tutti, almeno una volta nella vita)(poi se non vi piace non vi rimborso il tempo perduto, però vi do un abbraccione di consolazione quando ci troviamo). arrivo prestissimo, carico a molla, tutto contento -nei miei acerbi 22 anni di smilzo col ciuffone e le magliette dei gruppi roghenrol- perché sto per vedere una band che adoro. giracchio fischiettante per il festival a cancelli appena aperti, camminando a un metro da terra (sto per vedere i bloc party!), ripassando mentalmente i testi delle canzoni. arrivo al banco del merchandising e c'è un foglio a4 spiegazzato appeso al tendone che spiega che i bloc party hanno annullato l'esibizione per problemi alla gola del cantante. lato positivo: la line up era comunque effettivamente della madonna (per dirne una, alle due e mezza di pomeriggio suonò un gruppetto inglese piuttosto sconosciuto -saremmo stati più o meno in quaranta a guardare sotto al palco- che mi piacque moltissimo: erano gli editors), e un paio di mesi dopo i bloc party vennero a suonare al new age**. li incontrammo anche, prima e dopo il concerto. persone di un'educazione encomiabile, nonostante provenissero da un paese privo di bidet. faceva un freddo cane e si premurarono che quelli del locale ci tenessero al caldo. ho ancora il cd autografato e la scaletta. le soddisfazioni di gioventù.
-sempre parlando di festival, avevo i biglietti per l'heineken jammin’ festival del 2007 a venezia, parco san giuliano. smashing pumpkins e aerosmith. che i secondi bon, li avrei ascoltati volentieri eh, però a essere onesti a me interessava essenzialmente il pelatone. che io aspettavo solo il momento in cui sarebbe partita, che ne so, bullet with butterly wings, sapendo che in quei momenti sarebbe venuto giù tutto. e invece a venire giù fu tipo un tifone, il giorno prima del concerto. lato positivo: nessuno. non ho avuto altre occasioni fattibili per vederli, e ora come ora non so se mi accollerei le chilometrate per farlo. di nuovo, capita, che ci vuoi fare? se non altro ora billy corgan pesa duecento chili, se arriva un tifone lo allontana con un rutto e il concerto si fa.
-radiohead, 2012, codroipo. questa è triste, perché il concerto è stato rinviato a causa della morte di uno della loro crew a seguito di un incidente nella preparazione di una data di poco precedente. l'hanno recuperato pochi mesi dopo, ed è stato anche un bel concerto (grazie al cazzo), ma non sono così merda da considerarlo un lato positivo.
ma soprattutto:
-non ricordo neanche la data o l'anno, ma c'è stata una volta in cui riccardo sinigallia doveva suonare al new age (era prima dell'onnipresenza dei social, ci tengo a specificare, altrimenti la cosa non sarebbe potuta accadere, per ovvi motivi). avevamo proprio un volantino del new age con la data segnata, preso nel locale poco tempo prima, ad un altro concerto. arriviamo al locale. all’esterno non c'è nessuno. soprattutto, non c'è neanche mezzo poster indicante il concerto. mah, magari sinigallia non si mette a fare manifesti, ci diciamo. buttiamo un occhio dentro il locale: ci sono tre persone di numero. e sono le bariste. mah, sarà ancora presto, ci diciamo. ci avviciniamo alla cassa e chiediamo a un tizio (enorme) notizie del concerto. la conversazione è più o meno stata la seguente: "buonasera. mi scusi, ma stasera non c'è il concerto di sinigallia?" "il concerto di?" (nello sguardo il vuoto di un mcdonald aperto in una comune no global) "sinigallia." "..." "..." "..." mostriamo il volantino ufficiale. "..." indichiamo col dito. "vede? la data di oggi? c'è scritto 'riccardo sinigallia'." "..." "..." "un attimo." il tizio enorme (sembrava uno di quei biker da telefilm tipo walker texas ranger: rasato, con la barba, i tatuaggioni) si alza e se ne va. passa un tempo indefinito, poi torna, senza alcuna espressione sul volto. "non lo fanno." "ah. come mai?" "..." "..." passano dieci secondi buoni. ci guarda nel modo in cui guardo il vassoio del pandoro al pistacchio dopo che è finita anche l’ultima fetta. "si... è... sentito male." (col ben noto tono di chi dice qualcosa solo perché non gli si rompano più le scatole, tipo la mamma che spiega ai bambini che se babbo natale ha sbagliato modello di astronave degli exogini è per colpa delle traduttrici italofinlandesi sottopagate che assume per aiutarlo con le letterine) “chi?” “eh?” “chi si è sentito male?” "..." "..." altri dieci secondi di nulla. "il... bassista." (palesemente a caso, avrebbe potuto anche recitare la formazione della ternana dell’85/86 e avrebbe avuto lo stesso grado di plausibilità) "..." "..." "ah. ok. buona sera."
e io ancora oggi mi chiedo: ma il concerto c'era veramente? è stato annullato? se lo sono dimenticato tutti? qualcun altro sarà pur andato a chiedere informazioni a parte noi, o no? lato positivo: siamo stati parte di una commedia di ionesco (e comunque qualche tempo dopo sinigallia l'ho comunque visto, per cui bon). *non è che io sia un monaco zen, è che ho già assistito in altre circostanze a concerti di chi mi interessava maggiormente tra gli artisti della line-up odierna. fosse successo altrimenti starei prendendo a testate la maniglia dell’armadio da tre ore. **locale nel trevigiano che nella seconda metà degli anni zero aveva una programmazione meravigliosa per quanto riguarda il rock alternativo e il cantautorato indipendente. poi, forse perché si sono accorti che il pubblico per quel genere nel trevigiano non abbondava (io boh, davvero, la tristezza infinita nel vedere concerti di gente anche piuttosto famosa come, che ne so, i perturbazione, con un pubblico di poche decine di persone), negli ultimi anni hanno virato abbondantemente sul metal, decidendo sostanzialmente di poter fare a meno di me, brutto pelato quattrocchi che non sono altro. ma io non porto rancore e ti voglio bene lo stesso, amico new age.
21 notes
·
View notes
Text
Quante cose fai che ti perdi in un attimo?
Oggi il viaggio in treno mi ha distrutta. Sarà che sono particolarmente insofferente in questi giorni, ma quando devo passare 50 minuti in piedi, stipata tra un ragazzo che si soffia il naso ogni 15 secondi, una donna cinese sulla cinquantina che emana un certo odore di gatto fritto e una mamma con bimbo che grida al seguito, mi sento impazzire. E' normale penso, sono girata male per i fatti miei e vorrei che tutti rispettassero questa mio enorme bisogno di calma, serenità e posti a sedere sul treno. Ma come mi ha insegnato la mia mamma, le altre persone non mi leggono nel pensiero (grazie al cielo), hanno i loro problemi per la testa e non pensano sicuramente a me. Quando a Castel San Pietro terme sale un ragazzo e si piazza in mezzo a quella variopinta marea che sono i miei compagni di viaggio penso che potrei implodere su me stessa. Non ce la faccio. E' tipico, io faccio sempre così, nelle situazioni caotiche della vita di tutti i giorni mi faccio prendere dalla frenesia delle altre persone, dall'ansia che mi trasmettono quelli che camminano veloci e mi sbattono addosso senza neanche accorgersene, dal caldo che mi assale quando siamo 598 passeggeri dentro un autobus che ne può portare massimo 30 (se ben incastrati l'uno con l'altro). E allora mi arrabbio, con le altre persone ovviamente, ma non è che lo do a vedere, non mi metto certo a insultarli. Semplicemente alzo il volume della musica, metto su lo sguardo serio mentre lascio che la cattiveria mi salga dentro fino ad arrivare al cervello. E in questi momenti non mi rendo conto di quante cose, per colpa della mia stupida rabbia, mi sto perdendo. Non mi accorgo che il bambino grida con la madre perché si diverte come un matto a vedere le luci delle città che stiamo attraversando che scorrono sui finestrini. Non vedo che il ragazzo che si soffia il naso ogni 15 secondi sorride quando legge qualcosa sullo schermo del suo iPhone 6 nuovo di pacca perché magari la sua ragazza gli ha appena scritto un messaggio tenero che lo fa sentire meglio nonostante l'influenza. Non vedo nemmeno che la signora apparentemente cinese, non proprio tanto profumata, tiene gli occhi chiusi per tutto il viaggio, probabilmente perché stremata dal lavoro. Arriviamo in stazione a Bologna e mi sento sollevata, finalmente posso scendere da quel treno infernale che mi sta facendo diventare matta. La mamma con bambino urlante mi fa un cenno e mi lascia scendere per prima, allora mi rendo conto che mi viene spontaneo rispondere con un sorriso, non uno finto però, non tirato, un sorriso sincero. Per un momento mi sembra quasi di provare un po' di dispiacere nel lasciare i miei compagni di viaggio, alla fine abbiamo condiviso 50 minuti molto intensi e ora mi rendo conto che la mia rabbia mi ha appannato totalmente appannato la vista. Mi sento in colpa ora, mi sono lamentata della loro indifferenza nei miei confronti, di come mi urtasse la loro presenza sul treno, ma mi rendo conto che invece mi hanno tenuto compagnia, che hanno riempito il mio viaggio con i loro pezzi di vita (e con i loro germi). Che tristezza, come ho fatto a non prestare attenzione a una cosa così bella? Quando sono in piedi davanti alla fermata dell'autobus, ho ancora i postumi del viaggio in treno, mi accorgo che mi si è scaricato il telefono (il che implica niente più musica fino a casa) e sento la rabbia li in pole position, pronta ad esplodere di nuovo. Poi ad un certo punto sento un ragazzo dire: "Oh ma quanto si sta bene sta sera?" Allora alzo gli occhi e mi accorgo di quanto sia bella la città immersa nel traffico serale, con le sue luci, i suoi rumori, i suoi profumi (e perché no, le sue puzze). Chiudo un attimo gli occhi, lascio che l'aria di fine ottobre mi entri dentro al giubbotto e mi scompigli un po' i capelli. Mi guardo attorno, guardo bene tra la folla, non conosco nessuno, ma non mi sento sola. Mi sento forte, non ci sono i pregiudizi della gente a cui sono abituata a casa. O meglio, ci sono, ma io non ci faccio caso e mi sento libera di essere me stessa senza vergognarmi di niente, mi sento a posto con il mondo. La rabbia se n'è andata, non c'è più. Al suo posto c'è un senso di appartenenza a questo posto, un senso di tranquillità infinita che mi pervade dai capelli fino alle dita dei miei (bellissimi) piedi. Apro gli occhi, mi giro e guardo il ragazzo che aveva parlato poco prima, ora si sta soffiando il naso come un matto. Lo riconosco finalmente, è lui, il mio compagno di viaggio (grazie al quale probabilmente domani mi sveglierò con il mal di gola). Non importa niente però, gli sorrido, come a dire: "è vero, si sta proprio bene stasera, si sta bene qui". E mi rendo conto che non sento più nessun peso, nessuna stanchezza, niente rabbia. Ora come ora non vorrei essere in nessun altro posto.
1 note
·
View note
Text
Sono sempre stato un ecluso nel mondo. Fin da piccolo ero diverso da gli altri bambini: loro mi vedevano come quello stranno, quello a cui non piaceva fare le cose che invece a loro piaceva, quello che preferiva correre a giocare a calcio, quello che studiava e si impegnava.
Durante l'adolescenza poi la situazione non poté che peggiorare. Quando fu il periodo delle sigarette e dell'alcol io ero l'astemio del gruppo, quello che declinava sempre l'invito a farsi un tiro. Le ho sempre avvertite come cose sbagliate,da evitare,qualcosa che a lungo andare mi avrebbero corrotto l'anima e portato a essere chi non ero.
Indifferente verso chi fumava e beveva per divertirsi, cominciai presto a provare un gran dolore nel vederlo fare alle persone che tenevo maggioramente, a quelle persone che sapevo non lo avrebbero fatto se non fosse stata per una situazione critica e dolorosa nel loro cuore. Fu da allora che da parte mia nacque un sentimento di totale odio e ripudio verso qualsiasi forma di decadimento adolescienziale: avevo visto cosa potevano fare alle persone per bene, e la ferita era troppo profonda e recente per poter essere ricucita.
E da qui la maledizione continuò senza sosta. Per anni ho camminato tra l'oscuritá di questo mondo, impossibilitato dall'esser corroto o dal scegliere la via sbagliata, ma circondato da persone malvagie che con le loro trame corrompevano quelle buone, che puntualmente alla fine abbracciavano a loro volta il male. A volte ci rido, a volte ci piango, altre mi si gela solo il cuore, quando penso a come sia possibile che io sia l'unico che nonostante ogni avversitá passata resto integro e fedele a me stesso. Cosa ho di spiaciale? Cosa ho di sbagliato, di diverso? Perché non riesco mai a impedire alle persone che amo di cadere, di perdersi? É colpa mia, perché non ho fatto abbastanza per loro? O é colpa loro? Infondo io non ho nai avuto nessun ad aiutarmi,eppure sono rimasto io. Perché loro non ha fatto altrettanto? Hanno subito il male o lo hanno accolto volontariamente? Dove é la linea che separa le due cose?
Con queste domande vago ancora nell'oscuritá, continuando a scoprire volti amici, volti cari, ormai deturpati dal male.
Solo una volta sbagliai: scelsi l'egoismo all'alteuismo, o semplicemente non ragionai abbastanza,non fui abbastanza forte. Si può tollerare un unico sbaglio a fronte di molte scelte giuste e sofferte? L inesperto direbbe di sì, ma chi ha sofferto come me sa che la vita non perdona niente a nessuno e soprattutto le scelte sbagliati dei buoni sono quelle che poi alla fine rendono al mittente più dolore. Prima vi ho mentito,o meglio ho omesso un dettaglio: non sempre ho vagato da solo nelle tenebre del male. C é stato un periodo in cui al mio fianco c erano una persona, anche lei con la pelle ricoperta di ferite, il cuore e l'anima ancora sanguinanti. Lei non era come me, aveva commesso i suoi errori, fatto i auoi sbagli, ma era riuscita a tornare in sé. E questa fu una rarità a cui non sono più riuscito ad essistere. Lei é stata l'unica persona che é riuscita a tornare indietro, da sola, nonostante il mondo intorno a lei infuriasse di dolore.
Non mi sento un eroe, eppure con loro condivido la sorte tragica e la capacità di prendere la decisione più sbagliata di tutte nel momento decisivo. Vi ho detto che commisi un errore,un solo errore. Vi ho detto che a lungo ho camminato solo in balia delle tebebre, e che ancora oggi lo faccio. Vi ho detto che ci fu un periodo in cui un anima si era legata alla mia. Credo che siate abbastanza inteligenti a capire e abbastanza gentili a non costringermi a dire altro, a non straziare il mio cuore ulteriormente.
Di quella persona ora ho pochi contatti, ma dentro di me so che adesso é diventata come tutte le altre ombre che vedo passare, fantasmi del passato che ormai hanno smarrito loro stessi e scappano da un errore all'altro. Non mi aspetto che voi siate d'accordo con me, spesso queste stesse persone sono convinte che come facciano loro vada bene, che sia quella la loro identitá e che non sará di certo una sigaretta il sabato sera o un bacio dato a qualche sconosciuto nel locale a macchiare la loro anima, a renderle ombre tristi e vaganti. So di essere l'unico a pensarla così e quindi vi prego di non portare altro dolore al mio cuore. Perché al momento solo le tenebre ne compongono l'ossatura, e solo la piccola speranza che Lei possa ritrovare ancora se stessa lo tiene lontano dall'autostraziarsi. Ma col tempo la speranza svanisce, col tempo mi accorgo che quasi sicuramente il male l'ha avvolta.
Perché stasera ho visto un suo amico,uno dei suoi compagni di una vita dai tempi delle medie, uno che era stato puro come lei, come me, fumare e darsi arie in giro per il centro,ormai anche lui divenuto un'ombra malvagia. E allora per quale motivo lei non dovrebbe averlo seguito? Perché lei non docvebbe aver iniziato a fumare e bere?
Ormai io e il dolore siamo in tutt'uno, due realtá omogenee indivisibile e inseparabili. L'infelicitá é l'unico stato che conosca, e nonostante le promesse fatte alla persona che la più imporrante di tutte non credo riucirò a cambiare questo destino, questo fato. É la mia maledizione, e le maledizioni come negli antichi miti serpeggiano sopra le nostre teste come inevitabili profezie. Nessuna azione unana o divina può cambiare ciò che é destinsto ad essere, per quanto si combatta e si stringa i denti.
Ma io combatterò lo stesso. Perché é l'unica cosa che so fare, perché ho fatto delle promesse, e perché ho visto la luce in quella persona e farò di tutto per rivederla,dovessi Consumarmi fino all'ultima cellula del corpo.l
Giá una volta questi pensieri mi hanno poetato a odiare il mondo,soprattutto l mia generazione, intenta solo a bere fumare fare sesso e inquinare il mondo, incapaci di pensare e fare la scelta giusta. Giá una volta questi sentimenti mi hanno inacidito il cuore e svuatato la mente. Non permetterò risucceda, ci volesse tutta l'energia di questo mondo, tutto il sacrificio di questo corpo.
Combatterò, resisterò, e un giorno me ne andró
0 notes
Text
Il fiume Tronto scorre adagio emettendo l’unico rumore udibile nella notte. La Salaria è deserta e la mia macchina ha ben pensato di lasciarmi a piedi poco dopo il confine tra Marche e Lazio. Chissà se il Dio della “partitelle” ha voluto punirmi per il poco tempo che gli ho dedicato ultimamente. Di sicuro ricorderò a lungo questa partita. E non solo per lo spettacolo vissuto all’interno del Riviera delle Palme.
Passo buona parte della nottata a pochi chilometri da Accumoli, facendomene una ragione allorquando una pattuglia dei carabinieri arriva e con fare sicuro sfodera tutto il proprio genio: “Ragazzo, devi chiamare un carroattrezzi. È l’unica soluzione”.
“Ha da passà ‘a nuttata”, citando una celebre frase di “Napoli milionaria!”.
Ma se il finale di questa giornata è stato a dir poco scalognato, riavvolgendo il nastro posso soltanto parlare di una bella domenica passata in riva all’Adriatico. Una di quelle che mi ha fatto apprezzare lo stadio, il tifo e anche il calcio. Sarà che venivo da un periodo di scoramento e sensibile distacco verso questo ambiente. Spesso mi è capitato di pensare a cosa mi spinga ancora nell’andare a vedere partite, parlare di ultras e analizzare ogni loro singolo atteggiamento.
Cos’è che non ho visto ormai in un contesto italiano dove l’appiattimento e la mediocrità sono spesso i padroni? Forse nulla. Ma di sicuro occorre stare alla finestra, saper raccogliere quel poco di buono che ancora germoglia e portarlo appieno nei propri polmoni.
Sambenedettese-Cosenza è innanzitutto una sfida tra due compagini blasonate. Due club che hanno scritto – nel loro piccolo – la storia del calcio di seconda fascia. Ricordo, negli anni ’90, il Cosenza dei Tomaso Tatti e Giuliano Sonzogni. Erano le ultime stagioni di B per i silani, prima della caduta nel baratro, con seguenti fallimenti e ripartenze tra i dilettanti. Non che sia andata meglio ai marchigiani: i fasti degli anni ’80 e della cadetteria sono lontani, mentre vicini e ancora vivissimi nei ricordi anche dei più giovani restano incastonati fallimenti sportivi e decretati dai tribunali. Fino a tragicomiche promozioni seguite da repentini ritorni in Eccellenza.
Nelle ultime stagioni però, rivieraschi e calabresi sembrano aver trovato un minimo di equilibrio, confermandosi in Serie C e mettendosi anche in mostra con discreti campionati. Dispiace quasi – non me ne voglia nessuno – che oggi una delle due debba lasciare la contesa mentre troppo spesso sodalizi privi di storia, tradizione e seguito riescono nella scalata a palcoscenici che (diciamocela tutta) faticano ad appartenergli.
Su San Benedetto del Tronto si è detto tanto e tanto ancora si potrebbe dire. Una cittadina con poco meno di 50.000 abitanti che da sempre è rimasta fedele alla propria squadra, ignorando categorie e umiliazioni. Ricambiate quasi sempre con numeri importanti e atti di indiscutibile fedeltà. Non c’è quindi da sorprendersi se i botteghini sono stati presi d’assalto prima di questa partita e alla fine si registrino circa 11.000 spettatori.
La “voglia di Samba che cresce” – come cantano in una loro celebre canzone – è palpabile facendo un semplice giro in città. Dal Lungomare al Borgo Antico ci si imbatte sovente in vessilli rossoblù e già tre ore prima del fischio d’inizio sono tanti i motorini imbandierati e chiassosi che sfrecciano in direzione stadio. Persino un profano capirebbe che non è il classico giorno degli “occasionali”. Qua la gente allo stadio c’è sempre andata e la Sambenedettese è un sentimento, un pezzo d’identità, radicato nelle vene di un’intera cittadinanza. Chi ha preso un biglietto per la partita sa che dovrà dare il suo contributo per spingere la palla in rete e rendere l’ambiente infernale.
Del resto l’idea del forte collante tra tutte le componenti lo ha dato anche la reazione di tutti i supporter rossoblù alla vicenda Fanesi, il tifoso marchigiano lungamente in coma dopo alcune cariche della polizia post Vicenza-Samb e da qualche settimana destinatario di un Daspo di cinque anni. Oltre il danno la beffa.
E se si volesse essere più cinici e polemici ci sarebbe da approfondire l’indegno sistema con cui – nella fattispecie – la Questura di Vicenza ha gestito e sta gestendo i fatti. Oltre alla sanzione amministrativa comminata a Fanesi, infatti, ce ne sono altre 27 (arrivate proprio a ridosso della sfida d’andata al San Vito) indirizzate ad altrettante persone presenti quel giorno. Nella maggior parte dei casi mancano vere e proprie prove per certificare il comportamento violento degli stessi, basti pensare che qualcuno è stato diffidato con la sola colpa di essere immortalato mentre correva nel momento delle cariche.
La celerità e la solerzia con cui sono state prese tali decisioni non sono state purtroppo ancora utilizzate per far luce su come Luca Fanesi sia finito in coma e sulle responsabilità effettive di chi quel giorno era chiamato ad espletare il servizio d’ordine fuori dallo stadio Menti. Un atteggiamento che rientra di diritto in quel continuo strappo che le istituzioni sembrano voler perpetrare nei confronti di tifosi e cittadini, preferendo offuscare comportamenti sopra le righe da parte degli agenti anziché condannarli pubblicamente con lo scopo di migliorare sia il loro lavoro che i rapporti con i loro interlocutori (in questo caso i tifosi).
San Benedetto del Tronto ha appoggiato sin da subito la Nord e le sue iniziative, applaudendo sempre gli striscioni esposti in merito e cercando di non far dimenticare al mondo esterno l’ennesima ingiustizia che si sta consumando e di cui – purtroppo – conosciamo ormai prequel, storia e sequel.
I provvedimenti di cui sopra, colpendo quasi tutte figure di spicco, hanno ovviamente obbligato gli ultras sambenedettesi a rivedere l’economia della propria curva. Dovendo ritirare l’accredito al botteghino ospiti sono costretto a passare sotto il Distinto e scorgo giocoforza una parte della Nord, vedendo appeso lo striscione Curva Nord Massimo Cioffi. Chiaro segnale di come per l’occasione si sia voluta dare un’idea di compattezza, pur mantenendo “vive” le insegne dei vari gruppi, che infatti saranno esposte a più riprese durante la partita.
Quando manca una mezz’ora al fischio d’inizio e dopo aver fatto un paio di volte il giro dello stadio, riesco nell’impresa di ritirare l’accredito, superare i controlli ed entrare in campo. Il caldo umido è davvero micidiale e mi viene quasi da ridere pensando all’ultima volta che sono venuto da queste parti: era l’inverno scorso, si giocava Samb-Vicenza e in campo i miei piedi erano diventati ghiaccioli a causa del freddo e della fanghiglia.
Il colpo d’occhio è logicamente importante. Così come la presenza nel settore ospiti. I bruzi hanno staccato circa 750 biglietti e sin da subito spicca tra loro la presenza degli anconetani, motivo delle prime scaramucce tra le tifoserie.
Cerco di essere sincero e andare a ruota libera: venendo a questa partita non sapevo bene cosa aspettarmi dai cosentini. Se in casa bene o male ne ho capito le dinamiche, in trasferta faccio sempre fatica a comprendere talune movenze. Sempre per essere onesti: negli anni precedenti non mi hanno mai convinto in trasferta. Troppo spesso pochi e sparpagliati. Quasi disorganizzati oserei dire. Anche a causa delle divergenze sulla tessera, che hanno ovviamente tagliato fuori dalle trasferte una buona fetta. Un peccato per una piazza che ha contribuito a scrivere la storia del nostro movimento e che certamente ha sempre avuto un’importante base attiva e pensante.
Pertanto entrare sul manto verde, girare gli occhi e vedere una bella macchia rossoblù compatta, nel settore superiore, è un indubbio piacere. Nella parte inferiore sono presenti invece i ragazzi della Tribuna A, in un centinaio di unità. Rimarranno in silenzio per tutti i 90′. Continuando sulla linea della schiettezza (perdonatemi, ma lo devo innanzitutto a chi mi legge) ma senza voler entrare in questioni che ovviamente non mi/ci competono, da osservatore esterno devo dire che questa divisione è senza dubbio un altro peccato. Penso che la tifoseria vista al Riviera delle Palme, al netto di tutti i suoi effettivi uniti e univoci, potrebbe davvero dire la sua e tornare su altissimi livelli. Sia in casa che fuori.
A questo vanno ovviamente anche aggiunti i risultati sportivi che – volente o nolente – portano entusiasmo e ampliano la portata di qualsiasi lavoro di aggregazione. I Lupi militano in C ormai da diversi anni, senza però riuscire mai ad entusiasmare il proprio pubblico con campionati degni di nota. E spesso la mediocrità funzionale fa molto peggio di qualsiasi retrocessione.
Si capisce sin da subito che i calabresi sono carichi, tanto che i loro cori partiranno ben prima del fischio d’inizio per interrompersi praticamente solo a fine partita. Salvo la canonica pausa dell’intervallo. A fungere da benzina al loro fuoco ci pensa anche la partita, con il Cosenza che trova il vantaggio dopo pochi minuti grazie a Mungo. La sua realizzazione manda in visibilio il settore ospiti, che tiene alti i decibel e sfoggia molto colore con bandierine e sciarpe. Molto belle anche le tante manate.
Sul fronte opposto l’entusiasmo iniziale, caratterizzato dalla bella coreografia dei distinti e dall’ottimo colpo d’occhio offerto dalla Nord con torce, fumogeni e sciarpe, viene leggermente fiaccato dal vantaggio ospite e da una Sambenedettese che stasera sembra davvero non essere scesa in campo. Tuttavia con il passare dei minuti gli ultras marchigiani ingranano, facendo perno come sempre sulla bella sincronia delle manate, sui cori a rispondere e sulla partecipazione di tutto il settore.
Nella ripresa i padroni di casa tentano di prendere il dominio del campo, ma il tutto si rivela sterile. Di conclusioni in porta se ne vedono poche e la fragilità del centrocampo finisce per regalare al Cosenza l’inerzia della partita. A mettere la pietra tombale sulla qualificazione ci pensa Baclet, che realizza nel finale un calcio di rigore.
Gli animi sono contrapposti. Tra i sambenedettesi qualcuno piange, prendendo coscienza dell’ennesima delusione patita. Ma in balaustra si fa cenno che la gara non è ancora finita, almeno quella degli spalti. E allora si fa spazio alle bandiere, alle sciarpe e ai classici cori del repertorio rossoblù. Oltre che a una buona dose di pirotecnica. Che non guasta mai.
Neanche a dirlo l’umore dei cosentini è a mille. Il settore ospiti salta, festeggia e si esibisce in una bella sciarpata. Per esplodere al fischio finale quando “…con le bandiere, con gli striscioni, perché così salutiamo i campioni…”.
Faccio gli ultimi scatti e poi lascio il Riviera delle Palme.
Sì, questi campi hanno ancora qualcosa da trasmettere e regalare. Sono emozioni, gioie, contrapposizioni e storie. Storie infinite fondamentalmente. Che non puoi smettere di apprezzare se ami il calcio e tutto quello che gli gira attorno.
Per la Samb ci sarà un altro anno per provarci. Per il Cosenza la prossima meta è Bolzano, per l’andata della semifinale contro l’Alto Adige. Là sapremo se i silani potranno tornare a Pescara per coltivare un sogno. Esattamente come nel 1991, quando all’Adriatico un gol di Marulla permise ai rossoblu di rimanere in cadetteria.
Simone Meloni
Sambenedettese-Cosenza, playoff: al bivio dove i sogni crollano o volano Il fiume Tronto scorre adagio emettendo l'unico rumore udibile nella notte. La Salaria è deserta e la mia macchina ha ben pensato di lasciarmi a piedi poco dopo il confine tra Marche e Lazio.
0 notes
Text
Quaderno 26
Due giorni che penso a quando camminando parlavamo della specialità delle persone che scegliamo e della fatica che facciamo, di quanto si diventi selettivi con l'età, di quanto bisognerebbe fermarsi ed essere felici; ma tu parlavi di un paio di bretelle dimenticate in un palazzo all'angolo di un viale, e poi subito dopo di un bambino che aveva imparato a gattonare e che aveva gettato nei tuoi pensieri un ragionamento che non ho ben capito, il ragionamento dei due ragazzi stanchissimi che l'avevano dato alla luce, il ragionamento sulla loro confessione di essere stressati, e vicino al Po hai detto: Che paura. E volevi intendere che nemmeno quelli che avevano fatto un figlio ti sembravano felici e che il pensarci ti disorientava e che quel bambino che gattonava da qualsiasi parte - che aveva un nome innocente e adorabile tipo Pino - ti faceva pensare alle persone che si lasciano e soffrono e che tutto questo ti faceva paura, l'idea di perdere qualcuno dopo averlo seguito fino in Scozia, l'idea di perdere qualcuno, di perdere qualcuno lì, di perderlo lì, proprio di fronte ai tuoi piedi, mentre parli, a un centimetro dalla tua mano sulla riva di un fiume che chiameremo Po. Piazza San Carlo era piena di gente e noi schivavamo le persone con un senso di fastidio inevitabile, tu avevi l'aria delle guide turistiche stremate e insofferenti, con un vago sentimento molto sepolto di felicità e orgoglio, comunque, che ti faceva raccontare ancora quegli aneddoti sulle bretelle o sulle statue alle sei del pomeriggio, sotto le quali pare si sentano gli strilli dei bambini che piangono. E intorno a noi c'erano persone che si amavano e che si lasciavano, e avrei voluto fabbricarti degli occhiali tridimensionali per guardare le cose in prospettiva, per chiederti se avresti mai pensato, una settimana prima, di passeggiare in quella Torino così calda e morbosa, di passeggiare con me, di vedermi addosso un vestito a pois, di raccontarmi degli operai della Fiat appoggiato alla ringhiera, di sederti con qualcuno nella pizzeria dove di solito mangi da solo. Mi indicavi il tavolo al quale ceni senza compagnia, era tutta una mappa di solitudini e pensieri densi come sassi gettati in una pozza, aveva tutto il rumore di qualcosa che sprofonda, e tra quelle cose c'era il mio cuore così stremato e così felice, nonostante tutto, di avere ancora il pretesto per dirti una cosa normale tipo Se vedi il cameriere gli chiederesti un'altra bottiglia di acqua frizzante? Vorrei dirti una serie di cose stupide e banali - ricordati di fare la spesa, hai gonfiato le ruote della bicicletta, domani scade l'affitto, ci hanno mandato la bolletta sbagliata, ho giocato al gratta e vinci e ho vinto cinquanta euro: stasera ti porto a mangiare la pizza. La pizza che ti faceva ridere e mettere una mano sugli occhi a stropicciarti la faccia come un bambino per nascondere l'eccitazione mentre ti leccavo, le nostre pizze, le pizze che abbiamo mangiato insieme, tu incredibilmente sempre più veloce di me, sei stato l'unico a battermi sul tempo. Ci meritavamo cose normali come quella, cercare i coltelli nel cassetto di una cucina sconosciuta o litigare col pizzaiolo che non ci ha preparato la tua margherita con le olive nere per l'orario pattuito; ci meritavamo di andare a fare la spesa alle nove o di fare la doccia insieme per risparmiare l'acqua, ci meritavamo di fare piani per l'estate e poi fallirli e scappare in tenda in Trentino, o di passare almeno una domenica sul Piave a guardare quanto sono belle le montagne che se ne fottono delle nostre piccole e misere paure. Mi sarebbe piaciuto aspettarti seduta sul letto annusando la tua camicia cercando di capire dove finisce l'odore del bucato e comincia quello della tua pelle così solida, così personale, quell'odore che si avverte ogni tanto nell'aria e che mi mette su un magone dolce e infrangibile, come i bambini che imparano a camminare, come Pino, come te che avevi paura, come il lurido Po che nonostante tutto era bellissimo sotto i ponti, come le erbacce che nessuno si preoccupa di tagliare o le oche che litigano mentre porti avanti i tuoi discorsi sul diritto di rimanere da soli e sul dovere che abbiamo di essere infelici, i tuoi discorsi sulle bretelle o sulle serate passate ad asciugare i piatti che lava un'altra ragazza, una cosa che mi manda ancora fuori di testa, una gelosia folle, impunita e assurda, pure se quando mi parlavi di altre donne dicevi: Preferirei infilarlo in una grattugia.
0 notes
Text
Gestione della rabbia
John Wick
• Hotel Continental - New York City, venerdì 31 marzo 2017 •
«Mi hai cercato?» La voce stanca e monocorde di John raggiunse Winston che aveva gli occhi abbassati su un giornale e alzò lo sguardo sorridendo di rimando. -Certo John, ho un compito speciale per te.- John lo osservò in silenzio, visibilmente confuso, ma riuscendo a nasconderlo abbastanza bene. «E sei tu a darmelo?», solitamente Winston si occupava della gestione del Continental e non metteva il naso apertamente in certe faccende. -Sì certo, ma non è come credi. Prego, siediti. Qualcosa da bere?- Il locale sotterraneo del Continental era gremito di altri membri dell’Ordine, ma salvo un leggero brusio, non c’era eccessivo rumore. Winston se ne stava seduto con il giornale tra le mani e un bicchiere di Martini appoggiato al centro del tavolino. John annuì confuso mentre Winston con due dita sembrava chiamare a sé una barista. -Senti John, volevo affidarti questo compito speciale perché so che saresti in grado di uscirne vivo, nonostante tutto.- La barista sembrò arrivare con un Bourbon, “il solito” per John. Winston sorseggiò il suo Martini e deglutì sonoramente mentre cercava di recuperare il filo del discorso. -E dunque vorrei mandarti da una “nuova lama”, come si suol dire.- «Una recluta?», John sollevò il bicchiere dal tavolo e ne osservò il contenuto, facendolo roteare un po’. -Esatto. Non è detto che accetti, anzi, non è detto che non provi a farti fuori ancora prima di sentirti parlare.- John sollevò appena un sopracciglio ironicamente. «Un temperamento invidiabile.» John sorseggiò il suo Bourbon mentre spostava gli occhi color pece su Winston «Cosa ti fa credere che possa accettare nel caso vada io.» -Innanzitutto magari un avversario degno. Oppure la tua aria così rassicurante.- Winston ridacchiò sommessamente, mentre leggeva (o non leggeva) il giornale attraverso gli occhiali appoggiati sul naso. «Devo seguire qualche pista?» Winston scosse la testa per poi estrarre una penna dal taschino, togliere il sottobicchiere e girarlo. Scrisse un indirizzo sulla carta spessa del sottobicchiere e lo porse a John, distrattamente. -Non ce n’è bisogno, sappiamo benissimo dove sia. Ti consiglio di muoverti, o dovrai aspettare un'altra settimana. Buon lavoro John.- John annuì lentamente, si intascò il sottobicchiere e si alzò, portando con sé il Bourbon che non aveva quasi nemmeno assaggiato.
• New York, la sera stessa • Rimase in attesa per quasi un’ora, fermo davanti alle porte antipanico chiuse. Finalmente dopo un mormorio più consistente, sentì rumore di sedie che venivano spostate e trascinate, seguito a ruota dalle porte spalancate da un ragazzo, lentamente un gruppo di persone intente a parlare tra di loro lasciò la stanza, nessuno fece caso a lui. Avanzò lentamente, assicurandosi di essere il solo rimasto, si fermò più volte durante il tragitto, forse per non sembrare pericoloso e si avvicinò alla giovane donna. Con movimenti molto lenti e misurati, sfilò la mano dalla tasca, estraendo una moneta d’oro e porgendogliela, non appena la donna si fosse accorta del suo arrivo. «Tieni anche colloqui privati?», chiese John monocorde, in modo appena udibile. Senza attendere una sua risposta si sedette su una delle sedie, con modi puliti, sistematici e silenziosi, forse fin troppo.
Margot Forrester L'orologio sulla parete del centro di Rage Management batté le 20:00. Margot aveva scelto la sedia che le garantiva una visuale sufficientemente pulita della porta d'ingresso ma che allo stesso tempo non la costringesse a dare le spalle alla finestra: paranoia da killer professionista. Al contrario di tutte le altre donne sedute in cerchio in mezzo alla sala, la ragazza sembrava fin troppo rilassata, divertita persino, probabilmente perché era l'unica che si trovasse in quel posto per volontà propria e non dietro sentenza di un giudice. Aveva sollevato le ginocchia portandole al petto, con i piedi appoggiati al bordo della sedia, un braccio a cingere le gambe e l'altro impegnato a reggere il solito lollipop alla ciliegia. La scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi era tragicomica: la signora tracagnotta di mezz'età che aveva preso la parola si chiamava Katy o Taty o Sady, nessuno l'aveva capito, come d'altra parte nessuno stava riuscendo ad afferrare una sillaba in quel garbuglio di singhiozzi e suoni inarticolati che uscivano dalla sua bocca. Era paonazza in viso, aveva gli occhi gonfi di pianto e le mani grassocce piene di fazzoletti di carta sbrindellati in cui, di tanto in tanto, si soffiava il naso rumorosamente. Margot si guardò intorno con un sorriso sardonico stampato in faccia: gli occhi delle pazienti viravano in sfumature di confusione, costernazione e turbamento di fronte a quello spettacolo grottesco, ma l'espressione migliore era senza dubbio quella della terapista che, con una mano posata sulla bocca, si sforzava di mantenere uno sguardo attento e comprensivo, mentre in realtà era chiaro come il sole che si stesse domandando per quale assurdo motivo aveva deciso di prendere psicologia al college. Infine, la psicologa si decise ad interrompere la dama piangente: « Ti ringrazio per aver condiviso con noi la tua... illuminante esperienza, Sally, credo tu abbia dato spunti di riflessione interessanti alle tue compagne. Ora, vediamo un po'... Lei signorina. Cosa la porta in mezzo a noi, stasera? » L'assassina sfilò il dolce dalla bocca e rispose: « Mi chiamo Anna... Nicole, Anna Nicole, sì » annuì con convinzione e diede un colpo di tosse per evitare di scoppiare a ridere « e non uso le parole. Ecco, una volta, per esempio, avevo prestato una camicia ad una mia amica. No, non una camicia, la mia camicia preferita. Doveva uscire con questo tizio, un certo Don – e sottolineò l'appellativo del ragazzo con un'espressione schifata – che cavolo di nome è Don? Voglio dire, che razza di genitori chiamano il proprio figlio, la creatura su cui riversano tutte le proprie aspettative e speranze per il futuro, Don? Ve lo immaginate un Don alla scrivania della Casa Bianca? Un Don non diventerà mai presidente degli Stati Uniti. Anzi, sono quasi sicura che ci sia una voce specifica a riguardo nella Costituzione. Comunque torniamo a noi: la mia amica doveva uscire con Mr Nome Ridicolo e mi aveva chiesto di prestarle la mia camicia preferita, ci siamo? Me l'ha restituita un mese dopo, strappata. STRAPPATA, capite? Perché quando è tornata a casa con DON, quella sera e le cose si sono fatte bollenti, DON, in un impeto di passione, gliel'ha letteralmente strappata di dosso. Ma vogliamo scherzare? Un tizio di nome DON ha strappato la mia camicia preferita. Beh, gli ho passato nel trita rifiuti tutto il guardaroba. Mi sembra giusto, no? Occhio per occhio. A me sembra una cosa sacrosanta, un diritto, ma a quanto pare il giudice non la pensa allo stesso modo, quindi eccomi qui. » La terapista si rivolse alle pazienti: « Considerazioni da fare, signore? Cosa possiamo dire sul racconto di Anna Nicole? » Una ragazza carina dai ricci capelli color paglia si sistemò i giganteschi occhiali sul naso e si schiarì la voce per prendere la parola: « Beh, forse Anna viene da famiglia che ha difficoltà ad ascoltare, magari nessuno le ha chiesto mai come la pensasse su qualcosa, si aspettavano solo che eseguisse ciò che le veniva detto senza interrogarsi sui suoi sentimenti, quindi ora ha sviluppato un modo violento per farsi ascoltare. Comportandosi in questa maniera ora tutti sono costretti a prestarle attenzione. » Margot inarcò le sopracciglia curate e fece ciondolare il capo impressionata: « Qualcosa del genere, immagino. » La sveglia posata sul tavolino di fronte alla terapista dichiarò la fine della seduta e le pazienti tirarono un sospiro di sollievo. Quando le porte si aprirono e il gruppetto si riversò all'esterno, la ragazza notò una figura maschile completamente vestita di nero immobile, appena fuori, in attesa. L'espressione fredda e concentrata di lui la mise sull'attenti e istintivamente allungò una mano verso lo stivaletto destro, dove aveva nascosto un coltello. Infilò nuovamente il leccalecca in bocca e attese che l'uomo misterioso si avvicinasse. Afferrò l'oggetto che le porse senza interrompere il contatto visivo e poté notare come il suo viso fosse coperto da tagli, alcuni in via di guarigione, altri più freschi. Quando le rivolse la domanda circa i colloqui, gli rivolse un'espressione sarcastica e indicò il centro della sala con il pollice. « Credi che io sia una strizzacervelli? » quando non ricevette alcuna risposta, anche il suo sorriso morì « A meno che tu non ti riferisca a qualche altro tipo di colloquio, ma in quel caso, dovresti sapere che non accetto mai commissioni dirette e che costo. Parecchio. » Si decise finalmente a guardare l'oggetto che le era stato offerto. Si mise immediatamente composta sulla sedia e osservò la moneta più da vicino, carezzando le incisioni sulla superficie. I suoi occhi si ridussero a due fessure sospettose quando tornarono a posarsi sull'uomo: « È quello che penso che sia? »
John Wick La dottoressa, o strizzacervelli, si era presa parecchio tempo per segnare vari appunti sul proprio diario, riporre le proprie cose, infilarsi una giacca leggera e iniziare a lasciare la stanza. Sembrò titubare quando adocchiò Margot, dalle spalle dell’uomo in giacca e cravatta, ma vedendola tranquilla, lasciò la stanza a passi lenti e misurati. L’assassino si guardò intorno tranquillo, forse un po’ troppo rigido in quel completo elegante, dopo di che tornò a osservarla, evitando di dare troppo peso alla moneta pur rispondendo alla domanda su di essa «Sì, è decisamente quello che pensi che sia.» L’uomo appoggiò i palmi delle mani sulle proprie cosce e esibì una sorta di espressione incerta sul da farsi, dopotutto non era una di quelle cose che usava fare molto spesso. Aveva un principio di emicrania, molto probabilmente dovuta alla nottataccia e alle scarse ore di sonno. Era appena tornato al Continental e si era appena seduto a letto, quando Winston lo aveva chiamato e costretto a scendere e sentire di cosa avesse bisogno. John teneva gli occhi su di lei, anche se di tanto in tanto lo sguardo color pece vagava sulle finestre, sulla porta, sugli oggetti che abitavano la stanza. Era molto attento, al contempo però non sembrava volerlo dare a vedere. Gli sembrava che ormai il fastidio di tutte le ferite, quelle fresche e quelle meno recenti, si annullasse. Probabilmente, però, era solo l’adrenalina che cominciava a pompare.
• Si immaginò per qualche istante di essere uno di quei pazienti, seduto su una sedia, intento a raccogliere cocci di ricordi e racconti e metterli insieme per dare un senso a quel disagio che doveva rovinare un’intera vita. Così su due piedi non avrebbe nemmeno saputo da dove partire: molestie, violenze, il carcere o la morte della moglie Helen. O forse di quella volta in cui aveva tentato di uscirne ed era stato costretto a tornare, perché il figlio viziato di un boss aveva deciso di rubargli l’auto. E ammazzargli il cane. John provò davvero a raccattare qualche stralcio, ma comprese che togliere strato dopo strato avrebbe solo reso le cose più nebulose e instabili. •
Per qualche istante osservò di nuovo la moneta che la ragazza teneva tra le dita, egli non sapeva molto sul conto di lei. In un primo momento avrebbe forse dubitato di quelle parole così tanto gonfie di elogi rivolti a sé, quel suo essere costosa e di fare una cernita sulle richiese di lavoro, eppure se Winston lo aveva mandato lì, era perché le parole di lei non avevano nulla a che vedere con vanità o boria, ma dimostravano solo la cruda verità. Si augurava che non avesse provato a reagire e cercare una colluttazione, ma nel caso non avrebbe fatto altro che renderla inoffensiva, per poi lasciare il luogo come se nulla fosse.
• Si chiedeva a cosa avrebbe pensato Helen se solo un giorno fosse tornata dal mondo dei morti e lo avesse visto catapultato di nuovo in quella realtà, ma soprattutto cosa avrebbe pensato di lui, dopo aver vissuto come un civile per cinque anni, vedendolo riprendere in mano i ferri con così tanta rabbia sepolta sotto una corteccia impenetrabile. •
«Non sono qui per assoldarti. Il motivo della mia visita è un altro.», l’uomo parlava a voce molto bassa, appena udibile, monocorde. «Mi chiamo John Wick. Tu devi essere Miss Margot, giusto?» Cercò di rendere la sua voce più calda, più accomodante. Dopo di che si raddrizzò un poco sulla sedia scricchiolante e decise di appoggiarsi allo schienale, donando l’immagine di qualcuno che è lì soltanto per parlare e non mettersi all’opera. Sicuramente la donna aveva fatto i suoi calcoli e aveva già raggiunto ogni conclusione sull’occupazione dell’uomo che aveva di fronte, non serviva sprecare altro tempo cercando di indorare la pillola. Cercò di ricordarsi il giorno in cui Winston era venuto a prelevarlo dal carcere di Mosca, non era passato poi così tanto tempo, eppure sembrava un’altra epoca. Di certo John non era come Winston, non riusciva a essere affabile e caloroso, non avrebbe di certo implorato Miss Margot di ascoltarlo anche solo per un istante. Probabilmente le avrebbe solo parlato e alla fine se ne sarebbe andato, con la certezza che Miss Margot non avrebbe mai potuto rifiutare una nuova vita così comoda.
Margot Forrester La ragazza ridacchiò: « Miss Margot... Nessuno mi chiama così. » In effetti nessuno usava mai il suo nome di battesimo, a parte la sua famiglia e lei non ricordava nemmeno l'ultima volta che era tornata presso la tribù lescanzi, in Canada, a trovare i suoi. Per lo più i suoi clienti e contatti si riferivano a lei con lo pseudonimo di Aspis e talvolta le ci volevano un paio di secondi per collegare il suo nome a se stessa. Ogni tanto temeva di finire per dimenticarsene. « Sono io, sì. » Si rigirò la moneta tra le mani rimirandola come farebbe un bambino di fronte a quel giocattolo tanto desiderato che mai si sarebbe sognato di ricevere. Era più grande di una moneta normale e non riproduceva alcun design conosciuto per le valute di scambio. Passò un dito lungo il bordo zigrinato e ammirò le incisioni di cui aveva sentito solo parlare fino a quel momento: un lato raffigurava la personificazione di Pace e Violenza, mentre l'altro un leone, simbolo di Forza e uno scudo effige di Protezione. Il suo sguardo trasognato sembrò pietrificarsi, piombando nuovamente alla dura realtà quando si posò sulle frasi sbalzate. Una recitava “Ex Unitate Vires”, dall'unità la forza, mentre l'altra “Ens Causa Sui”. Il latino era l'alta lingua dei cieli e le riportava alla mente memorie scomode. La sua scelta non aveva risolto niente, aveva solo messo in pausa qualcosa che era destinato comunque ad accedere. Aveva nascosto sotto al tappeto un problema gigantesco facendo finta che non esistesse, ma la realtà era che prima o poi le sarebbe esploso in faccia. “Ens Causa Sui”, lesse di nuovo: un concetto filosofico complicato e borioso che descriveva qualcosa che racchiudesse in sé la causa e la conseguenza, pensiero e sostanza riuniti in un'unica entità inscindibile, il principio di inizio e fine, l'Assoluto. Persino in quel mondo che si era scelta, in una dimensione in cui a volte sentiva di aver trovato il suo posto, Dio trovava il modo di tormentarla. Sentì montare la rabbia, ma cercò di non darlo a vedere. Strinse la mascella e una vena le pulsò a livello della tempia. Preso un respiro profondo per calmarsi e tornò a concentrarsi sull'uomo in nero. Notò come si sforzava di smorzare la sua aria austera per apparire meno minaccioso e se fosse stata meno attratta dal pericolo, probabilmente avrebbe avuto paura, ma anni di dipendenza dall'adrenalina e da uno stile di vita che la costringeva a stare in bilico sul filo del rasoio le facevano trovare la situazione divertente. « John Wick... » dove aveva già sentito questo nome? Ripensò alla moneta d'oro. In una vecchia leggenda che circolava tra gli assassini indipendenti, una storia che parlava di alberghi extra lusso che offrivano ogni genere di tentazione per un killer di professione, armi di ultima generazione e tessuti antiproiettile all'avanguardia, si parlava di una moneta proprio come quella, usata come valuta tra sicari di alta classe e come simbolo di appartenenza all'Ordine che li guidava. In quelle stesse leggende si parlava anche di un assassino in particolare, il migliore in circolazione. Veniva soprannominato “Baba jaga”, l'uomo nero, non perché fosse effettivamente l'uomo nero, ma perché costui era il sicario che si assoldava per far fuori l'uomo nero. Il suo nome era... « John Wick! Quel John Wick? Vuoi farmi credere che esiste davvero? E saresti tu? Cavolo, tu sei una specie di supereroe, sei il Superman dei killer. » Lo studiò meglio, con un misto di sospetto e ammirazione, come se potesse trarre conferma o smentita sulla veridicità della sua affermazione dai dettagli del suo viso. Gli puntò addosso il lollipop: « Senti un po', ma... è vero che hai ucciso tre tizi con una matita? Una cazzo di matita?! Robe da pazzi e poi danno a me della psicopatica suonata. » In tutto quel tripudio di emozioni, un dettaglio di conversazione aveva rischiato di passare in sordina: « Non vuoi assumermi, beh certo. Se davvero sei chi dici di essere, non hai certo bisogno di qualcuno che faccia il lavoro sporco al posto tuo. Ma allora che fai qui? Vuoi una consulenza per un lavoro? Naaah, tu sembri più un lupo solitario, non ti vedo a cercare compagni d'avventura. Mh, vediamo: vuoi andare in terapia e hai bisogno del mio aiuto per essere indirizzato verso il miglior centro di Rage Management qui a New York? Posso darti il nome di qualche strizzacervelli se vuoi, qualcuno di discreto che chiuda un occhio sulla nostra... beh, attività lavorativa e che non ti denunci alla polizia. Se posso darti un consiglio però, non credo che la terapia abbia grande effetto su quelli come noi. L'unico dottore che può aiutarti davvero a sentirti meglio con te stesso è il buon vecchio alcol. Posso tenerla questa? » domandò riferendosi alla moneta che aveva ancora in mano « Com'è l'Ordine? È proprio come lo descrivono? Lo so che è un'organizzazione segreta, ma chi vuoi che lo venga a sapere? Io di certo non mi metto a fare la spia. »
John Wick Inizialmente la donna si era chiusa in una sorta di riflessione, che però John aveva trovato del tutto lecita. Quella moneta era piuttosto conosciuta, sebbene in molti fingessero che non fosse così. Nei posti giusti quel cerchio dorato poteva aprire molte porte e richiedere svariati servizi. Quella moneta faceva viaggiare in prima classe, ti dava il posto migliore su qualsiasi mezzo e persino ti permetteva di ordinare un tavolo per parecchie persone, che in gergo significava “far sparire un certo numero di cadaveri e ripulire la zona del delitto”. Quando però la donna aveva ripreso a parlare era stato travolto dalla sua parlantina, quasi restandone sbalordito. Non tutti coloro che svolgevano quel tipo di mansione erano simili, per questo John non si stupì più di tanto. Quando Miss Margot espose tutti quei pensieri su di lui, John sembrò curvare appena le labbra in maniera criptica, in un sorriso di vago disagio talmente impercettibile che chiunque avrebbe dubitato persino che fosse realmente un sorriso. «Pare proprio che io esista, Miss Margot.» ammise infine, con il suo solito tono piatto e piuttosto basso, «In quel momento non avevo a disposizione altro.» aggiunse per confermare in parte quella notizia che si era diffusa ormai come una leggenda metropolitana tipica di New York. Ascoltò con interesse le sue supposizioni, rimanendo sempre molto rigido e a modo suo composto, tanto quando i suoi capelli, perfettamente pettinati all’indietro. «Miss Margot, è proprio per via dell’Ordine che sono qui. Qualcuno ha avuto modo di osservare e studiare il tuo operato e per questo avrebbe acquisito un vero interesse nel proporti un posto nell’Ordine.» Gli occhi scuri di John si erano poi spostati per qualche istante sulla moneta, prima di tornare fissi su di lei. «E per quanto riguarda la moneta» John fece una breve pausa durante la quale tornò a sedersi in modo rigido, allontanando la propria schiena dallo schienale «Puoi tenerla. Ho pagato la tua attenzione, immagino.» Quella che era una frase quasi bisbigliata e meno monocorde del solito, con una lieve inflessione più tiepida finale, doveva essere una sorta di battuta, John comunque non era sicuro che una sconosciuta la avrebbe colta. «Questa volta fungo da emissario, qualcuno pare abbia immaginato che fossi la persona più adatta ad avvicinarti senza rischiare qualsivoglia reazione. L’Ordine si augura di accogliere al più presto un nuovo membro con le tue capacità.» La sua voce era rimasta bassa, ma tiepida. Sembrava quasi che l’uomo non fosse poi così abituato a parlare, sebbene le sue parole fossero molto educate e misurate. «Da quello che mi sembra di capire, credo che tu sappia già abbastanza sull’Ordine. Posso toglierti qualche dubbio?» Ora John sembrava lontanamente impacciato, quella situazione era decisamente qualcosa che non sapeva affrontare al meglio. John Wick forse poteva anche essere concentrazione pura, impegno totale, volontà ferrea, ma le sue interazioni sociali erano poche e dal retrogusto molto formale. Di certo, pensava, non avrebbe mai ritrovato quella serenità e pace, non come con quella donna che lo aveva lasciato quasi improvvisamente, togliendogli tutto quello che pensava di essersi ingiustamente meritato dopotutto. Gli occhi di John vagarono un’ultima volta sulle finestre e di nuovo sulla porta d’uscita, in un gesto che sembrava essere la normalità per lui.
Margot Forrester Un sorriso si fece strada sulle labbra di Margot. Di nuovo quel “Miss Margot”, non era abituata a tanta formalità. Da quando aveva cominciato la sua attività non aveva visto altro che praticità e immediatezza, prima nell'ambiente militare e poi a contatto con cittadini privati e con altri sicari indipendenti. In tutta la sua vita non era mai stata immersa nell'eleganza, nella raffinatezza dell'alta classe, era cresciuta in una comunità nomade. Prima di quel momento non ci aveva mai pensato, d'altra parte, non era mai stato un problema per lei. La pacatezza composta di Mr Wick però le ricordava la serietà della sua vita precedente, nel regno dei cieli e dei giorni trascorsi con i suoi fratelli, in particolare il cavaliere bianco. C'era qualcosa nell'uomo che le ricordava la severità austera del detentore della vittoria, di colui che rappresentava la conquista militare. Non aveva molti ricordi di ciò che precedeva la rottura del sigillo, alcune memorie erano sopraggiunte all'improvviso, durante il suo percorso di crescita, altre erano svanite con il passare degli anni. Per lo più le balzavano alla mente delle brevi immagini, ogni qualvolta trovasse un dettaglio, nel mondo degli uomini, che potesse associare all'esperienza dello spirito del cavaliere che la sua figura celava. Ogni tanto le mancava il regno dei cieli, doveva ammetterlo, ma era più forte il turbamento nei confronti delle forze celesti e infernali e del loro operato. Si immaginò di essere un membro dell'Ordine, di ricevere un vestito elegante proprio come quello che indossava John in quel momento e di sentire il peso di monete, proprio come quella che stava tenendo in mano, nella propria tasca, prima di posarle sul bancone della reception di uno di quegli alberghi di cui aveva sentito parlare. Si domandò come avrebbe potuto essere per lei, cosa avrebbe provato, se avrebbe prevalso la sua esperienza umana, facendola sentire fuori posto in quell'ambiente, o se al contrario avrebbe risvegliato il suo spirito di Guerra, avvicinandola nuovamente allo sfarzo della casa del Padre. Come se gli avesse letto nel pensiero, l'uomo le rivelò di averla cercata proprio per proporle un posto alle dipendenze dell'Ordine. Lei lo fissò con sguardo esterrefatto, prima di scoppiare a ridere: « Un posto nell'Ordine? Per me? E mandano il famigerato John Wick ad invitarmi? O questa è la truffa meglio congegnata della storia, oppure è arrivato Natale e io non me ne sono neanche accorta. » Aveva pronunciato la frase come una battuta, ma improvvisamente venne assalita dal dubbio che quella potesse essere effettivamente una montatura. Forse si era lasciata convincere troppo in fretta. Si sentì improvvisamente stupida. Era la seconda volta in quel periodo che commetteva una leggerezza di quel calibro, possibile che stesse perdendo le sue doti di stratega? Tutti quegli anni sulla Terra, in quel corpo di carne, l'avevano forse rammollita? Tornò seria: « Se per caso questo dovesse rivelarsi uno scherzo di cattivo gusto, o peggio ancora, un tentativo originale di farmi abbassare la guardia e farmi fuori, sappi che mi arrabbierò molto e mi studierò una morte così tremenda per te e i tuoi complici che l'impresa della matita a confronto sembrerà un nonnulla. » Ripensò proprio a quella vicenda, l'omicidio brutale compiuto con quell'oggetto apparentemente innocuo e il commento che lui le aveva fornito a riguardo. « Ci si arrangia con quello che si può. » concordò « A me non è mai capitato di dover improvvisare un'arma raccattando oggetti di fortuna, fin'ora. La cosa più strana che ho usato è stata una pochette glitterata come supporto per un Marui M-16 pluriaccessoriato. Un magnifico fucile davvero, ottimo sulla lunga distanza. Oserei dire uno dei miei preferiti. La maggior parte del mio arsenale, però, è modificato da me. » Si decise ad estrarre il coltello che nascondeva nello stivale e a passarlo a John. Non aveva con sé pistole, ma aveva una lima per le unghie nella tasca. Se l'uomo avesse tentato di farla fuori con la sua stessa lama, sarebbe stata l'occasione propizia per sperimentare un'arma ricavata da un oggetto di uso comune. « A dir la verità non so molto sull'Ordine, fatta eccezione per le voci che circolano nell'ambiente, ma non so cosa sia vero e cosa sia leggenda. So che queste monete servono come identificativo e pagamento, so che disponete di armi di ultima generazione e che siete gente tutta d'un pezzo. Non so come facciate a collaborare tra voi e riusciate a fidarvi uno dell'altro, immagino che abbiate una sorta di accordo... un, codice? Non so, se penso ad un'organizzazione antica e segreta mi vengono in mente un sacco di regole barbose. Ma sono solo supposizioni. » Abbassò lo sguardo sul coltello che gli aveva prestato e le iridi cerulee si posarono sulle rune incise sul manico. Si domandò se l'organizzazione avesse mai avuto a che vedere con il sovrannaturale e se tutti i suoi membri fossero umani. John era solo un uomo? Possibile che un semplice mortale potesse avere le sue capacità? Sembrò tentennare per un momento: « Hai mai... ricevete mai incarichi... particolari? Sai, si sentono un sacco di racconti bizzarri. Una volta mi avevano assoldato per occuparmi di un presunto lupo mannaro che stava mietendo vittime in un paesino sperduto nel Kansas e... beh, alla fine venne fuori che era solo un tizio con un problema ormonale, un sociopatico, certo, ma umano. Avete mai visto cose di questo genere? » non le sembrò una domanda stupida perché sapeva per certo che i mostri esistevano, però allo stesso tempo era consapevole del fatto che la maggior parte degli umani fossero convinti che si trattasse solo invenzioni, quindi si sentì lievemente in imbarazzo. Temeva che che il grande John Wick potesse reputarla fuori di testa. Non che non lo fosse, certo.
John Wick L’uomo non sembrò scomporsi più di tanto, nemmeno quando la scettica Margot suggerì che poteva esserci la possibilità che quello fosse solo un modo molto elaborato per farla fuori. Chiunque avesse mai conosciuto John, la avrebbe rassicurata, dicendole che probabilmente nel caso in cui qualcuno avesse mandato l’assassino a farla fuori, non lo avrebbe visto che per qualche breve istante, solo in caso di colluttazione. Non rispose a quella minaccia, non ce n’era il motivo. Soprattutto non c’era la ragione di dover difendere un qualsivoglia onore, poiché l’Ordine non si poneva di certo questi problemi di immagine. John rivelò un sorriso piuttosto sfocato, l’angolo della bocca che si era sollevato appena, sentendo il racconto della pochette e del fucile. «Personalmente preferisco gli M24 SWS, sono leggeri, non devi necessariamente abbandonarli in caso di problemi e sono solidi. Ottimo rinculo. Ma anche gli AIAW non sono male, ma pesano quasi due chili in più.» John poi spostò lo sguardo sul coltello che la donna gli aveva porto, senza essersi accorto di aver formato una frase più lunga del solito, con un tono molto più acceso del normale. Era un argomento leggero quello di cui stavano parlando, per un attimo aveva lasciato alle spalle tutte le sue guerre mentali. Poggiò la lama sulla punta delle dita della mano sinistra, mentre apriva la destra per osservare l’arma nella sua interezza, le rune e la forma del coltello stesso, sinuosa e molto ergonomica. Dopo un’attenta analisi aveva stretto l’impugnatura e soppesato il bilanciamento dell’arma, sia con la destra che con la sinistra. «Se modifichi tu stessa le tue armi, significa che hai anche il tempo di recuperarle in caso le cose vadano male. Non ti troverai spesso nella mischia, giusto? Sei più... un cecchino, deduco.» Con un breve movimento di polso rigirò l’arma, prendendo la lama con delicatezza e porgendole il coltello dalla parte del manico. «Sì, abbiamo un codice, qualche regola. Al Continental c’è una sorta di territorio neutrale, all’interno di esso, in teoria, nessuno deve tentare di attaccare gli altri, nemmeno in presenza di conti aperti, le cosiddette taglie.» Dopo averle restituito il coltello, John tornò a poggiare le mani sulle proprie ginocchia, senza accorgersi si essere ancora fin troppo formale. «Una volta fuori dal Continental ci conosciamo un po’ tutti. Se hai la sfortuna di farti mettere una taglia allora devi muoverti con molta cautela. Quelli dell’Ordine sono un po’ dappertutto. Personalmente non mi interessa inseguire chi ha una taglia o ha qualche problema con altri dell’Ordine, non per mio libero arbitrio, come anche per molti altri vale la stessa cosa. Sono scelte, non tutti però sono così rispettosi gli uni degli altri.» Margot d’un tratto cambiò tono, era diventata un po’ vaga, cercava di liberarsi di una curiosità insolita, che probabilmente chiunque avrebbe faticato a gettare in pasto a sconosciuti. L’assassino annuì senza rispondere, fece una lunga pausa, durante la quale raccolse una fila di parole logicamente intrecciate tra loro e divenne altrettanto vago. «Sono cose molto annebbiate, non tutti sanno spiegarsi certe cose e non tutti vogliono rifletterci troppo, non so se mi spiego. Personalmente ho visto talmente tante cose che non mi stupisco più di nulla. La miglior frase fatta di sempre.» John aveva sorriso di nuovo, questa volta in modo leggermente meno discreto e si era alzato lentamente, abbottonandosi meglio la giacca che poco prima, durante l’attesa, aveva slacciato. «Il mio lavoro qui è quasi terminato. Miss Margot se vuoi seguirmi ti condurrò direttamente dal direttore del Continental di New York, altrimenti quella moneta ti tornerà utile nel momento in cui vorrai metterti in contatto con noi.» Margot si trovava di fronte a un bivio molto più roseo di quanto lo avesse avuto lui qualche anno prima, ovvero quando Winston era andato a prelevarlo in un carcere di massima sicurezza nel dintorni di Mosca. La donna avrebbe potuto scegliere tra due vite del tutto soddisfacenti, John dopotutto non aveva avuto molta scelta, eppure non se ne era mai pentito. «Credo che potrai discutere con lui di tutto il resto. Non sembra, ma il direttore è molto disponibile quando si tratta di fare affari con persone professionali.» John aveva infilato le mani nelle tasche dei pantaloni e si era spostato dietro alla sedia su cui fino a poco prima era rimasto appollaiato, era pronto ad andarsene e lasciare quella situazione piuttosto scomoda, quasi certo che Margot non lo avrebbe seguito dopo un colloquio così corto. «Per la cronaca» tagliò di nuovo il silenzio con le sue frasi misurate e monocorde «Puoi consegnare quella moneta a Brad, quello che vende gli hot dog qui all’angolo. Chiamerà un’auto per farti scortare fino al Continental.»
Margot Forrester Margot fece un quarto di giro sulla sedia per poter guardare meglio il proprio interlocutore: « Davvero? Sei un tipo da M24? Sì, è logico direi, mi sembri più la persona che si butta al centro dell'azione. » Una finta espressione colpevole le si dipinse sul viso « Beccata. Sono un cecchino, sì. Amo il caos, ma non puoi realmente godertelo quando sei in mezzo alla mischia. Al centro della scena l'atmosfera è troppo rovente, succede tutto troppo in fretta. Niente è meglio della calma glaciale che ti avvolge le membra, quando segui il tuo obiettivo attraverso il mirino di precisione e attendi il momento propizio. Tutta la preparazione che precede il momento in cui spari il colpo, il calcolo della forza del vento, della distanza, l'angolo di inclinazione dell'arma, tutto deve essere assolutamente preciso perché hai un solo tentativo a disposizione, poi l'effetto sorpresa è rovinato e la tua posizione compromessa. Adrenalina e concentrazione, sembrano un'accoppiata piuttosto contraddittoria ma sono ingredienti fondamentali. Poi, nel silenzio asettico, il proiettile esplode e allora cala la confusione anarchica: le urla, la fuga, persone sconvolte che si guardano attorno convulsamente per cercare di ricostruire il percorso della pallottola. Tutto assolutamente perfetto e puoi goderti il tuo mezzo secondo di sterminatore di pace. » Sorrise alle sue stesse parole, come se avesse appena descritto la scena più idilliaca che le fosse mai capitato di vedere, prima di tornare ad ascoltare le spiegazioni di John sulle regole dell'Ordine. Si domandò tra sé e sé dove fosse questa isola neutra, il Continental che aveva nominato, e che aspetto potesse avere. Si rabbuiò un poco quando l'argomento toccò la faccenda delle taglie. « Accidenti che razza di avvoltoi. Uccidere i propri colleghi di propria iniziativa solo per un gruzzolo in più? Voglio dire, sicuramente saranno bei soldi, ma andiamo, un minimo di onore. Tra l'altro, per quanto mi riguarda, è una mossa idiota. Anche i killer hanno amici e alleati, falli fuori e ti ritroverai tutta la cavalleria alle calcagna in men che non si dica. È così che nascono faide inutili. Fatica e sangue sprecati, ecco come la penso. » Meditò per qualche secondo sulle proprie esperienze passate: « Da quando ho cominciato a lavorare, mi è capitato solo una volta di farmi carico di un'impresa personale. Stavo lavorando ad un caso in California, a San Vincente. Dovevo parlare con un detenuto del carcere locale per avere informazioni sul target che mi era stato assegnato e mi sono imbattuta in un tizio, un certo Pernell Harris, trattenuto con l'accusa di omicidio. Era un giudice di grande potere, la sua famiglia aveva contribuito alla fondazione della città, corrotto fino al midollo e fattelo dire, non se la stava passando affatto bene dietro le sbarre. Doveva essere processato in quanto sospettato numero uno con tanto di testimone oculare che sosteneva di averlo visto mentre si liberava del cadavere, in un caso di omicidio, come dicevo, in cui la vittima era un poliziotto. Un'autorità in campo giudiziario non ha mai vita facile al fresco, non quando tre quarti dei suoi compagni di reclusione li ha sbattuti dentro di propria mano, ma se per caso tocchi un membro delle forze dell'ordine, hai finito di vivere. Le guardie lasciavano che gli altri detenuti lo pestassero, senza alzare un dito e beh si facevano loro stessi causa della violenza. Non dico che fosse uno stinco di santo, ma era passato dalle stelle alle stalle nel giro di quanto? Un mese? Aveva cominciato ad andargli tutto male dopo il suicidio dell'unico figlio, un cervellone, ideatore di un software vattelapesca che tutti in quella dannata città smaniavano per avere. Chissà che diavolo poteva fare. Con tutto quel trambusto che si è tirato dietro, mi aspetterei come minimo che tramutasse l'acqua in oro. Insomma, per farla breve, aveva bisogno di aiuto contro i nemici che si era fatto nel corso della vita e io mi sono presentata. Che vuoi che ti dica, forse sono un tipo sentimentale dopo tutto. Una psicopatica sentimentale, questa sì che farebbe girare la testa a quegli strizzacervelli da strapazzo » disse indicando la sedia su cui era stata seduta la terapista. Il vero motivo per cui aveva deciso di farsi carico dei problemi della famiglia Harris era che Pernell era diventato oggetto di interesse dell'Altissimo. Riceveva visioni mistiche e visite dai suoi emissari che giocavano con la sua mente, per influenzarlo e spingerlo a diventare uno strumento nelle mani del Padre. Proprio lì in carcere aveva visto l'angelo Ramiel, vestito da guardia, a tormentarlo. In quanto creatura sovrannaturale, lei era l'unica oltre a Mr Harris che potesse vederlo, quindi nessuno si dava pena del deperimento mentale dell'ex giudice. Quelle erano esattamente il genere di stronzate per cui aveva deciso di mollare il Cielo, quindi aveva deciso di intervenire e fare in modo che il libero arbitrio dell'uomo non venisse ulteriormente influenzato. Aveva risolto il problema ed Harris era tornato a casa da uomo libero. « Ripensandoci, con il senno di poi, è stata la decisione più stupida che potessi prendere. » Infatti gli avversari del giudice, irritati da quell'inaspettato volgersi degli eventi, lo avevano fatto fuori in meno di ventiquattro ore, facendo guadagnare a Lucifero una nuova anima prima del tempo. Quella sera stessa Margot aveva deciso di concedersi una sana sbronza da frustrazione ed era stata accolta, nel bar che aveva scelto, da un bel gruppo di demoni maggiori che si fingevano avventori casuali. Non appena la videro, ciascuno, seduto al proprio tavolo o intento ad abbassare la manopola di una slot machine, aveva alzato un bicchiere o le aveva rivolto un cenno di ringraziamento. « Già, una mossa davvero imbecille, non c'è dubbio. Da quel giorno ho giurato a me stessa di farmi gli affari miei » e di rimanere neutrale, senza impicciarsi nell'eterna disputa tra Bene e Male. Quando John accennò al Continental, si alzò per prepararsi ad uscire: « Capisco di non essere un campione di socialità, ma ci siamo appena conosciuti e già vuoi mollarmi ad un altro? Non ti libererai così facilmente di me, Wick. Poi non hai una responsabilità nei miei confronti? Se hanno mandato te ad assoldarmi significa che sono pericolosa. Il tuo amico Brad potrebbe dover dire addio al carretto degli hot dog. Andiamo. »
John Wick Si incamminarono lungo i corridoi di quello stabile che si affacciavano su altre stanze, destinate a chissà quali usi. John camminava a passi piuttosto lenti guardandosi intorno, ora non aveva l’aria da assassino, ma piuttosto di qualcuno che se la stesse prendendo comoda. Ascoltò con attenzione il racconto di Margot, trovò che per essere un’assassina fosse incredibilmente loquace, una dota strana se associata al tipo di lavoro che facevano. «Non era il tipo di “questione personale” che mi ero immaginato. Di solito quando uno intende “personale” comprende parenti o torti subiti in prima persona.» Rifletté ancora un po’ sulla faccenda che Margot aveva inteso come personale e non poté fare a meno di pensare all’ultima volta in cui lui stesso si era imbattuto in qualcosa di personale, in quel caso era davvero personale. Ricordava quell’incontro alla stazione di servizio, a quel russo che lo aveva avvicinato mentre osservava la sua auto, la stessa auto che ora aveva di fronte agli occhi, parcheggiata a un centinaio di metri dall’entrata. Ripensò al rifiuto di vendere quel gioiello a uno sconosciuto e soprattutto ripensò al pestaggio avvenuto nella sua stessa casa. Incauto da parte loro, si disse per tutto il tempo, entrare in quell’unica casa che tutti cercavano di evitare o guardavano con silenzioso rispetto. Quei russi non solo lo avevano pestato e gli avevano rubato l’auto, gli avevano ucciso il cane: ultimo ricordo di Helen. John si incupì per qualche istante, mentre cercava le chiavi dell’auto in fondo alla tasca dei pantaloni neri, poi riprese ad avanzare verso il proprio mezzo, fino ad affiancarlo e aprire le portiere. Posò la mano sulla maniglia, ma si fermò prima di aprire lo sportello e salire, guardò Margot al di sopra della capote e assunse un’espressione di vago disagio. «L’ultima faccenda personale che mi ha coinvolto riguardava proprio quest’auto, quindi diciamo che non sono abituato a sentire la parola “personale” associata a una buona azione di generosità nei confronti di uno sconosciuto.» In realtà senza volerlo John Wick faceva tante azioni di generosità, ogni qualvolta decideva di accettare un contratto che spesso coinvolgeva persone poco raccomandabili, violente e pericolose. Tirò la maniglia e salì agilmente in auto, richiudendo lo sportello con delicatezza. Con movimenti fluidi inserì le chiavi nel quadro e mise in moto, solo dopo che la donna fu seduta comodamente al suo fianco. «Il Continental si trova piuttosto in centro, strano come una cosa che dovrebbe rimanere nascosta, sia invece sotto gli occhi di tutti. È stata la prima cosa che mi sono detto una volta arrivato la prima volta al Continental di New York.» Il rombo del motore sembrò indicare subito la potenza e la peculiarità di quel mezzo d’epoca, John Wick sembrava quasi un’altra persona ora che era seduto finalmente sulla sua auto. Partì guardando negli specchietti, solo dopo pochi metri accelerò notevolmente, senza però dare l’impressione di essere incapace alla guida. Nonostante la velocità sostenuta e le sue cinquanta miglia orarie proprio tra le larghe strade newyorkesi, la guida era fluida, affidabile. «Se mai dovessi entrare a far parte dei nostri, potrai contare su uno o più Continental in ogni grande città: Sacramento, Miami, Atlanta, Denver. E poi ancora Londra, Parigi, Roma, Madrid, Stoccolma per citarne alcune in Europa. L’Ordine ha i suoi rifugi e le sue roccaforti un po’ ovunque. Ha i suoi emissari un po’ dappertutto.» L’auto scivolò incontrando solo una manciata di semafori e qualche rallentamento tipico della grande mela, infine l’auto si fermò proprio sull’angolo. John scese e lasciò le chiavi a un parcheggiatore dall’aria molto seria. «Benvenuta al Continental, Miss Margot.»
Margot Forrester Prima di lasciare l'edificio, Margot aveva fermato John con un cenno e si era avvicinata al tavolo del rinfresco, sistemato in un angolo della stanza. Per rendere gli incontri più confortevoli e l'atmosfera più familiare, la terapista aveva incaricato ciascun paziente di portare uno snack o una bevanda, in modo che prima di ogni colloquio, ci si potesse rilassare sgranocchiando qualcosa e chiacchierando del più e del meno. Un modo intelligente di rompere il ghiaccio, senza dubbio, ma erano concesse solo bibite analcoliche e ovviamente l'assassina non poteva sopportare una tale sequela di lagne senza nemmeno una goccia di liquore in corpo. Talvolta trovava gruppi iracondi e vivaci al punto giusto, tanto che l'atmosfera, tra i membri della seduta, cominciava a vibrare di nervosismo e minacciava di esplodere in una rissa, ma altre volte le lacrime e la frustrazione si impadronivano dell'umore generale e allora il clima diventava insopportabile. Margot partecipava per solleticare il suo lato sadico, non certo per deprimersi, quindi per sicurezza, pagava sempre il tizio incaricato di testare le vivande, affinché correggesse di nascosto una bottiglia a sua scelta. Cominciò a svitarle una ad una e annusarne il contenuto. Ogni volta che percepiva un aroma dolciastro o che delle bollicine frizzanti si libravano nell'aria, pizzicandole le narici, scuoteva la testa. Finalmente un odore pungente le irritò le mucose, allora allontanò di scatto la bottiglia e strizzò gli occhi, senza fiato. « Oh... Decisamente tu non sei Coca Cola. » Recuperò la fiaschetta d'alluminio dalla borsa e la riempì con nonchalance, quindi ne bevve un lungo sorso e raggiunse il suo compagno, con un sorriso soddisfatto stampato sul viso. « Adesso possiamo andare. » Annunciò. Non appena ebbero abbandonato il centro terapeutico e vide John avvicinarsi ad una macchina d'epoca grigio metallizzata, l'assassina inarcò le sopracciglia, sorpresa: « Una Ford Mustang vecchio modello? Accidenti, non me lo sarei mai aspettata. Credevo che il grande John Wick fosse più un tipo da macchine di ultima generazione superaccessoriate. Mi aspettavo... che ne so, una specie di Batmobile. Non fraintendermi, è una bellezza, ma se mi avessero detto che John Wick si lancia in pericolosi inseguimenti e sfide all'ultimo proiettile su un mezzo del genere, non ci avrei mai creduto. » Si accomodò sul sedile, sfiorando gli interni tirati a lucido con la punta dell'indice. Sembrava molto curata, evidentemente doveva tenerci sul serio. Che fosse un patito di auto? O magari era legata a qualcuno a cui John era affezionato? La curiosità di conoscere tutti i dettagli della vita di una leggenda vivente era tanta, ma allo stesso tempo, non voleva passare per la classica femmina ficcanaso. Voleva fare una buona impressione. Chissà che idea si era fatto di lei, dalla breve conversazione che avevano avuto. Probabilmente pensava che parlava troppo. Sì, doveva essere così, anche in quel momento i pensieri le stavano ingozzando la mente, rincorrendosi e spintonandosi, ansiosi di arrivare alla destinazione prima degli altri. In fondo cosa le importava, però? Mr Wick avrebbe anche potuto essere un mito tra i sicari, ma lei era lo spirito di un cavaliere celeste, per la miseria! Non c'era paragone. Una brusca accelerazione la distolse dal suo sproloquio mentale e la costrinse ad aggrapparsi al sedile. Lanciò un'occhiata indagatrice al guidatore che, dal canto suo, non sembrò minimamente battere ciglio. L'uomo aveva ripreso il controllo dell'auto e si stava destreggiando nel traffico cittadino senza il minimo problema. Se l'avesse fatto di proposito o meno non lo dava a vedere. Margot trattenne a stento un sorriso e sussurrò a denti stretti: « Esibizionista... » Ascoltò le sue spiegazioni, annuendo appena e cercando di imprimerle nella memoria. Non aveva mai avuto regole all'infuori di quelle che si prefiggeva lei stessa, sperava di abituarsi in fretta a quel nuovo mondo e che con un po' d'esperienza, quelle norme sarebbero diventate parte naturale del suo modus operandi. Il Continental di New York aveva una forma davvero curiosa, sembrava issarsi in linea verticale, altissimo, nel cielo della metropoli, e da lì distendersi lateralmente, come se fosse elastico e una forza invisibile lo stesse tendendo. A parte la strana architettura e la targa dorata che luccicava sopra la porta, da fuori, nulla lasciava intendere che fosse un albergo di lusso. Sembrava un condominio residenziale come tanti altri. L'ingresso era piuttosto spoglio e tetro, il corridoio che accompagnava gli avventori alla reception era lungo e lucido di marmo, le ricordava, per certi versi, la navata centrale di una chiesa. “Curioso paragone”, si trovò a pensare, contando che quello era un rifugio per chi si macchiava del più grave dei peccati. Forse l'avevano studiato in quel modo proprio per quel motivo: era un'isola neutra, ritrovo di predatori spietati, ma dove qualsiasi forma di violenza era bandita. Un luogo di pace apparente, dove i peggiori assassini potevano trovare momentaneamente pace dal sangue. Sbirciò nella sala adiacente, arredata in modo impeccabile con stile ultra moderno ed elegante. Quando John le diede il benvenuto, si voltò verso di lui e ammiccò: « Notevole. Adesso che si fa? Mi porti dal direttore? » si strinse la camicetta tra le dita, improvvisamente consapevole del suo abbigliamento casual « Non credo di essere vestita in modo appropriato per un colloquio del genere. »
John Wick John fece un cenno così breve e impercettibile che l’intento non fu chiaro. «Non abbiamo un codice così ferreo sugli abiti che indossiamo. E poi vedrai che non c’è nulla così così professionale nell’incontro di oggi.» Il sicario la precedette, avvicinandosi al banco della hall, dove un uomo molto alto dalla carnagione scurissima attendeva di poter accogliere gli ospiti. «Già di ritorno, Mr Wick.», chiese l’uomo con aria affabile e calda. «Pare di sì. Lei è Miss Margot, ha un appuntamento con Winston.», mormorò John con voce neutra e piuttosto formale. «Lo chiamo per avvisarlo del vostro arrivo. Buona permanenza Miss Margot.» John lo ringraziò con un cenno e poco dopo aveva ripreso di nuovo a camminare fluido tra corridoi e sale comuni, fino a raggiungere una porta, che dava su un antro con delle scale. L’ambiente lì era differente dal resto, era piuttosto spoglio e asettico. John entrò tranquillo e trattenne la porta da bravo gentiluomo, affinché Margot passasse. Subito dopo iniziò a scendere le scale piuttosto strette, che lo costringevano ogni volta ad accostarsi al muro per scenderle quasi d sbieco. Un rumore ovattato di musica da bar proveniva dal piano di sotto, John sembrò scivolare a suo agio verso la porta nera che li separava da quel luogo. Bussò tre volte e una lamiera di ferro si spostò di lato, all’altezza delle sue spalle. John fece un passo indietro per farsi vedere in compagnia della giovane e la porta subito si aprì. Furono inondati dalla musica jazz e dal chiacchiericcio sommesso di un qualsiasi bar, i tavolini erano sparsi un po’ ovunque, non c’era nulla di quel luogo che lasciasse presagire la natura di chi lo frequentasse. John sembrò tirare subito dritto, raggiungendo il bancone. Una donna se ne stava sola, ma con un sorriso divertito dipinto sulle labbra, ad asciugare bicchieri e rassettare il bancone. «Ciao Addy.» La ragazza piegò la testa in avanti, assumendo una sorta di aria divertita e in qualche modo civettuola. «Jonathan. Stai cercando Winston immagino.» Addy si era sporta un po’ di lato, cercando di osservare la ragazza che accompagnava John e che in quel momento sembrava eclissata alle sue spalle, «Recluta?» John annuì brevemente e Addy sollevò mollemente una mano, tendendo poi il dito e indicando l’ultimo tavolino in fondo. «Ti ringrazio Addy.» La ragazza aveva salutato entrambi muovendo le dita lentamente, lanciando un’occhiolino giocoso. Il sicario raggiunse poi il luogo indicatogli e una volta di fronte a Winston si fece di lato, invitando Margot a sedersi, accompagnandola con una mano appena posata tra le sue scapole. «Vi lascio-» «No, resta pure John. Della nostra conversazione nulla sarà privato. Non ancora per lo meno.» Winston sorrise cordialmente alla donna, la osservava come se fosse una gemma preziosa, su cui finalmente aveva messo le mani. «Piacere, mi chiamo Winston e sono il direttore del Continental di New York. Ti chiederai come abbia fatto a sapere di te e soprattutto il perché di questa convocazione, ma ogni cosa a suo tempo. Spero che tu abbia piacere a unirti a noi, qualcuno come te non può far altro che portare ancora più in auge il nostro nome nel mondo.» John era rimasto in piedi, leggermente alle spalle di Margot, con le braccia lungo i fianchi, ascoltando attentamente le parole di Winston. «Se ci concederai la tua affiliazione in cambio avrai accesso a molti lussi che nel nostro campo fanno comodo. Come tutor ho deciso di affiancarti John, è molto paziente e saprà sicuramente guidarti al meglio durante i tuoi primi giorni qui.» gli occhi di Winston poi avevano incrociato quelli scuri di John, «E poi sto cercando di tenere John il meno impegnato possibile, ha qualche acciacco ultimamente.» John comprese subito che Winston si riferiva al foro di proiettile che pulsava caldo sulla propria schiena. «Al termine del periodo di adattamento ho una missione per te, Margot. Non appena ti sentirai pronta vieni a parlarmi. Si tratta di un obiettivo da cinquanta monete d’oro. A testa.» Winston aveva sollevato gli occhi di nuovo verso John che aveva aggrottato la fronte, trattenendo solo per qualche istante i suoi dubbi. Difatti con voce elegante e calda intervenne. «Winston, perdona il disappunto, ma credo che Miss Margot possa iniziare con qualcosa di più semplice.» Winston sorrise e tornò a guardare Margot. «Devo ancora capire se è apprensivo nei tuoi confronti o si vuole beccare un centinaio di monete senza dividerle con nessuno.» Winston aveva poi indicato il bar a entrambi, ma solo dopo che Margot si era allontanata Winston aveva afferrato delicatamente una manica della giacca di John, impedendogli di andare. «Mi ringrazierai, vedrai.» Dopo di che tornò a controllare i suoi registri, con gli occhiali appollaiati sulla punta del naso e una Mon Blanc tra le dita.
0 notes
Text
Mercoledì 14 giugno 2017 gli Of Mice & Men si sono esibiti all’interno del In.Fest Music Festival 2017 al Circolo Magnolia a Milano.
Setlist del concerto: 1) Bones Exposed 2) Would You Still Be There 3) Unbreakable 4) Back To Me 5) Public Service Announcement 6) Never Giving Up 7) Broken Generation 8) Pain 9) You Make Me Sick 10) The Flood 11) You’re Not Alone 12) The Dephts
Ecco i vostri report della giornata
Il giorno 14 giugno ho finalmente visto la band che mi ha letteralmente salvato la vita. Che dire di tutto ciò? É stata un’emozione unica. Gli Of Mice & Men sono più di una band, sono dei ragazzi bravissimi ed il loro concerto mi ha solo fatto capire che il tatuaggio che ho dedicato a loro ne vale la pena. Non sono molto brava nel mettere per iscritto i miei pensieri, ma ci proverò. Sono stata proprio toccata nel cuore quel giorno dal carissimo Aaron Pauley, che, quando l’ho visto fuori dal backstage mi ha fatto pensare “ma perché non vado a parlarci?”, nonostante abbia avuto del timore iniziale. Ciò che mi ha più colpito é stata la sua gentilezza, poiché appena gli ho detto “Voglio solo dirti grazie di tutto”, ha allargato le braccia per stringermi vedendomi sull’orlo delle lacrime ((per inciso: é proprio morbido come Winnie The Pooh)) e per dirmi “Divertiti stasera allo show”. Non ho avuto modo di mostrargli il tatuaggio perché in quel momento il mio cervello aveva smesso di funzionare, ma un giorno sarò in grado di mostrarglielo di persona. Ho avuto anche modo di parlare qualche attimo con Alan (che poi é andato a mangiarsi la pizza senza offrila, mah) e Tino, mentre con Phil no, ma sarà per la prossima volta. Non ho foto con loro ma questo mi basta e avanza. Il concerto é stato bellissimo, nonostante si sia sentita la mancanza di Austin (cosa che mi ha spezzato il cuore), ma ciò non mi ha impedito di piangere come una bambina per tutta la durata. Non so mettere per iscritto ciò che ho provato, so solamente che sono fiera di essere fan di questa band che, a distanza di anni, sa ancora regalarmi le stesse emozioni. Non ho molto altro da aggiungere (non so cosa sia uscito fuori da questo discorso e se sia chiaro), vorrei concludere dicendo che senza di loro non sarei qui e come cantano in una delle loro canzoni “You’re not alone, you’re with me“. Of Mice & Men ∞
Alessia
This slideshow requires JavaScript.
“Vorrei iniziare questo mio racconto di come ho passato il concerto della mia band preferita, gli Of Mice & Men, dicendo che quel pomeriggio ero in piena crisi perché avrei dovuto passare la serata da sola. Arrivata al Circolo Magnolia infatti ero nel panico totale, non era affollatissimo ma c’erano già molte persone ad ascoltare una band sul secondo palco… Ci ho messo una buona mezz’ora per farmi coraggio e rivolgere la parola a qualcuno: e si dia il caso che quel qualcuno era Elly, una delle due ragazze che gestiscono questa bellissima pagina dedicata agli Of Mice & Men! La notai perché indossava una loro maglietta e aveva la bandiera italiana con su scritto “Welcome to Italy Of Mice & Men “, questo mi diede abbastanza confidenza per iniziare una conversazione con lei. Prima degli Of Mice & Men hanno suonato due gruppi che già conoscevo: i Motionless In White e i Suicide Silence. Ascoltando i primi, me ne sono subito innamorata, sono molto bravi; non posso dire che lo stesso effetto mi hanno dato i Suicide Silence ma ehi, sono gusti… Nella pausa per il cambio di strumenti io ed Ellly abbiamo avvistato Valentino, il nostro batterista con un mohawk che spacca, dirigersi verso il tendone della band merch e così siamo partite in una corsetta per raggiungerlo e mostrargli la bandiera, lui era di fretta ma si è fermato un secondo per vederla e farci i complimenti per questa! Tornate al nostro posto in transenna, abbiamo cercato di attirare l’attenzione di Johann, il fotografo ufficiale della band, dopo svariati tentativi ci ha notate ed è venuto da noi; si è complimentato anche lui per la bandiera ed è stato così gentile da farci alcune foto con essa, dicendo che durante il concerto ci avrebbe addirittura riprese per poi metterci nel prossimo video che faranno! È stato davvero un tesoro con noi, abbiamo parlato un pochino ma poi il loro set stava per iniziare, quindi ci ha lasciate per prepararsi a fare il suo lavoro. Ora, il concerto: è stato semplicemente epico, gli Of Mice & Men sono stati magnifici come sempre. Purtroppo quel giorno ha piovuto parecchio anche se a momenti, quindi noi non potevamo fare moltissime foto o video, ma ce la siamo cavata nei momenti asciutti… io per esempio sono molto contenta di alcune foto che per fortuna mi sono venute bene! Penso che Aaron sia stato bravissimo a cantare anche le parti di Austin, ne sono rimasta colpita perchè è un vero talento riuscire ad avere le forze per cantare sia in clean che scream, grandissimo AP! Uno dei miei momenti preferiti della serata è stato quando hanno suonato The Depths, Aaron ci ha fatti mettere tutti in ginocchio per poi saltare a inizio testo, così facendo c’è stato un crescendo di musica e alla fine un’esplosione di energia, semplicemente magnifico! Sinceramente non saprei che altro dire… mi sono divertita un sacco, è stato tutto bellissimo (pioggia compresa) e sarò sempre grata a Elly per avermi tenuto compagnia quella sera. Non vedo l’ora di rivederli al più presto e nulla, li adoro troppo ed è stata un’esperienza che rifarei volentieri senza pensarci due volte!”
Marta
This slideshow requires JavaScript.
Ero talmente tanto agitata che la notte prima avevo dormito poco. Appena ho realizzato che avrei visto una delle mie band preferite per la prima volta, dopo tanti anni che li seguo mi sembrava un sogno che finalmente si realizzava. Quel giorno ero fuori di me, Sylvia e Gufo mi hanno supportata e cercavano invano di calmarmi. Arrivano le 16 e mi dirigo verso il Circolo Magnolia, l’ansia a mille. Avevo una missione da compiere: consegnare la bandiera italiana alla band.
Entro al festival e ci sono già tante persone sedute sotto al palco principale, dove poche ore dopo (finalmente) avrei visto gli Of Mice. Mi dirigo verso lo stand del merchandise e dopo aver fatto lo shopping di rito mi dirigo verso lo stage. Li mi siedo e conosco altre ragazze che erano li per gli Of Mice, alcune per i Motionless In White e altre per gli Architects. Intanto che stiamo parlando una ragazza mi dice che ha visto Tino dirigersi verso lo stand del merchandise e io e Marta lo rincorriamo. Dopo averlo richiamato più di una volta, si gira verso di noi e io gli mostro la bandiera. Lui mi sorride e mi ringrazia e se ne va perchè è di fretta. Torno sotto al palco speranzosa di incrociare qualche altro membro della band e trovo Johann (il fotografo che segue i ragazzi in questo tour) e carinissimo ci fa le foto mentre teniamo la bandiera e ci dice che le foto finiranno nel prossimo video. Nel frattempo i concerti sullo Stage B sono finiti e iniziano a suonare i Motionless In White sullo Stage A. Subito dopo salgono sul palco i Suicide Silence che caricano bene i presenti. Durante l’esibizione di questi ultimi dal lato del palco spuntano le teste di Aaron, Phil, Tino e per qualche breve momento anche di Alan.
Durante il cambio palco le ragazze conosciute prima mi danno una mano a sistemare la bandiera sulle transenne e alle 21 le luci si spengono e il mio cuore si ferma per qualche istante. Sale sul palco Tino, seguito da Alan e Phil. Partono i primi riff di Bones Exposed ed ecco che fa il suo ingresso anche Aaron che inizia a caricare subito il pubblico con il suo scream. L’emozione cresce sempre di più e finalmente realizzo che loro sono su quel palco a pochi passi da me. Inizia Would You Still Be There e mi scendono due lacrime, dal vivo è ancora più bella (certo si sente che manca Austin, ma anche Aaron riesce a trasmette bene le sensazioni che mi fa provare quella canzone). Aaron introduce i due nuovi singoli: Unbreakable e Back To Me e sento alcune persone dietro di me che non le hanno mai sentite e dopo l’ascolto sembravano soddisfatte. L’ora a disposizione della band scorre veloce, loro si fermano solo qualche secondo per ascuigarsi il sudore e poi riprendono con Public Service Announcement, Never Giving Up e poi Alan si tira su il cappuccio della felpa smanicata e capisco che è il momento di Broken Generation. Inizia l’intro di Pain e il mio pensiero va ad Austin. Non vederlo su quel palco mi fa strano. I ragazzi se la cavano molto bene sul palco, sono carichi e forse stanchi perchè rispetto al solito si muovono poco. L’unico che saltella su e giù per il palco è Ashby. Aaron screama e incita il pubblico a cantare. Phil (e Alan) fa headbanging ma è più calmo del solito. Tino, invece, pesta pesante dietro le pelli ma anche lui sembra più tranquillo rispetto ai video che avevo visto degli show precedenti. You Make Me Sick e The Flood scandiscono gli ultimi brani della scaletta. Poi il mio cuore ha un nuovo sussulto. Le lacrime tornano a farsi sentire. Iniziano le prime note di You’re Not Alone e tutto il pubblico (o quasi) la canta a squarciagola e li mi sono sentita davvero meno sola. Chiude la setlist The Dephts. Aaron fa segno al pubblico di abbassarsi e solo quando lui da il via il Circolo si alza tutto insieme e inizia a saltare. E’ una vera e propria bomba di energia. I ragazzi raccolgono le ultime energie per caricare i fan, salutano ed escono.
Pochi istanti dopo la fine dello show Alan scende dal palco e viene a prendere la bandiera italiana che aveva notato durante gli ultimi brani. Da la mano alle ragazze che mi hanno aiutato a sorregerla e a me. Poi scappa nel backstage.
Io e altre ragazze ci accampiamo vicino al backstage nella speranza che qualche membro della band uscisse. Dopo mezz’ora abbondante esce Alan mano nella mano con Allison (la nuova fidanzata). Noi li fermiamo e chiediamo a Ginger delle foto e degli autografi. Io lo abbraccio forte e lo ringrazio per essere venuto a prendere la bandiera. Poi come due piccioncini i due si allontanano , poi ritornano con delle pizze e spariscono nel backstage. Dopo quasi un’ora si riaffacciano Ashby e Allison e poco più indietro Phil. Li fermiamo ma tempo di farmi fare un autografo al volo da quest’ultimo che spariscono nuovamente per tornare ovviamente con delle pizze e dirci che sarebbero tornati dopo. Inutile dire che non è più uscito nessuno.
Devo fare un ringraziamento speciale a tutte le persone che mi hanno supportata e soprattutto sopportata. In primis grazie a Sylvia che anche se non era presente mi incoraggiava; grazie a Dami & Angela che mi hanno sopportata nei momenti di crisi pre e post concerto; grazie a Gufo perchè sopportarmi per tutte quelle ore di scleri non deve essere stato facile; grazie a Marta & Giulia che ho conosciuto li e mi hanno aiutata con la bandiera e gli appostamenti; grazie ad Alessia perchè mi ha raccontato del suo incontro con Aaron ed è stata con me fino a che il tour bus non se n’è andato; grazie alle fan degli Architects che mi hanno aiutata a far notare la bandiera ad Alan e mi hanno aiutata a sistemarla sulle transenne; grazie alle ragazze che hanno aspettato invano che qualcuno uscisse fuori dai cancelli dopo il concerto; grazie ad Alan & Phil per gli autografi; grazie a Johann per le foto e i video; grazie alla crew degli Of Mice e del Circolo Magnolia per la pazienza; grazie a Matt per aver organizzato un meraviglioso festival che da la possibilità ai ragazzi di condividere le proprie passioni con altri ragazzi e incontrare i propri beniamini. GRAZIE.
Elly
This slideshow requires JavaScript.
Se volete inviarci i vostri report e le vostre foto sull’In.Fest o altri concerti (recenti e non) che avete visto degli Of Mice & Men inviateceli a [email protected] oppure su Facebook, Twitter o Instagram.
Report – Of Mice & Men in Italia (14 giugno 2017, In.Fest @Circolo Magnolia – Milano) Mercoledì 14 giugno 2017 gli Of Mice & Men si sono esibiti all'interno del In.Fest Music Festival 2017 al Circolo Magnolia a Milano.
#concert#InFest#InFest2017#InFestItaly#OfMiceAndMen#OfMiceAndMeninItalia#OfMiceAndMenItalia#photo#Reportage
0 notes
Link
31 ago 2018 14:56
TUTTI PAZZI PER IL “SARRIBALL” – VIVE IN CAMPAGNA NEL SURREY, PARLA “UN DECENTE INGLESE”, NON RIPOSA MAI, STA SEMPRE IN TUTA E IN CAMPO MASTICA UN MOZZICONE: LO STILE DELL’EX TECNICO DEL NAPOLI CONQUISTA LA PERFIDA ALBIONE – INTANTO I SUOI CALCIATORI GIA’ LO AMANO. ECCO PERCHE’…
-
Enrico Franceschini per la Repubblica
Da un mese e mezzo è il nuovo allenatore del Chelsea. E il Chelsea è una squadra, oltre che un quartiere, di Londra. Ma finora a Londra di Maurizio Sarri non si vede neanche l' ombra, a parte quando è in panchina a Stamford Bridge.
Di casa abita in un appartamento di cinque stanze a Cobham, il grande e moderno centro allenamenti dei Blues, a 40 chilometri dalla capitale, in un villaggio di 9 mila persone immerso nella campagna del Surrey. E l' espressione "tempo libero", in inglese, non ha ancora avuto bisogno di apprenderla.
«Da quando sono in Inghilterra ho passato a Londra soltanto una sera», confida il tecnico napoletano. «Dopo la partita con l' Arsenal avevo deciso di fermarmi a fare una passeggiata in città. Senonché ho incontrato dei tifosi del Napoli e abbiamo passato il tempo a parlare della mia ex-squadra».
Il football lo ha seguito anche lì. L' uomo che ha cominciato ad allenare in serie A soltanto dopo i 50 anni non può vivere senza il pallone: in campo o in testa. «Non riesco a staccare», ammette. «È il mio modo di intendere il calcio». E di risparmiare sull' abbigliamento: è sempre vestito allo stesso modo.
Gli basta la tuta sportiva del Chelsea.
Di allenatori ossessionati dal calcio, naturalmente, a Cobham ne hanno visti altri. Un certo portoghese. O l' ultimo licenziato, Antonio Conte. Ma c' è ossessione e ossessione. Rispetto a Conte, scrivono i giornali inglesi, al centro allenamenti l' atmosfera si è notevolmente rasserenata.
«Sarri ha introdotto un regime più rilassato», osserva il Daily Mail. Gli allenamenti cominciano più tardi, perché il mister vuole che i giocatori possano trascorrere più tempo con i figli al mattino. Una decisione che lo ha reso popolare in fretta.
«Avendo lavorato in banca fino a 40 anni, sa che c' è una vita al di fuori del football», nota il Sun, «perciò ci tiene che i suoi calciatori siano felici. E funziona». Tre vittorie su tre gare, una partenza perfetta che lo ha portato in vetta alla Premier insieme alle altre grandi. Con la possibilità di restarci e prolungare la serie positiva, se sabato batte il non insuperabile Bournemouth in casa.
«Voglio giocare un calcio divertente e penso che divertendoci verranno anche buoni risultati», ripete Sarri (in un "decente inglese", lo loda il Times) alle conferenze stampa.
Musica per le orecchie del proprietario Roman Abramovich, che ha sempre desiderato un calcio spettacolo, al di là dei risultati, e raramente lo ha avuto dai pur grandi allenatori assunti alla sua corte.
Ma Sarri mette le mani avanti: «Ci vuole tempo per imparare il mio metodo». Quanto? «Almeno tre mesi. I difensori per esempio devono imparare a seguire la palla, non l' avversario che marcano. È difficile, specie se hai 28 anni e da dieci difendi in altra maniera. Ma se ci riesci poi fai meno fatica e puoi pressare per 90 minuti». Rafa Benitez, dopo che il suo Newcastle ha ceduto ai Blues, non ha dubbi: «Questo Chelsea lotterà per il titolo».
Media e tifosi sono così favorevolmente impressionati che gli hanno perdonato quello che da queste parti è un peccato mortale: il vizio della nicotina (80 sigarette al giorno). I fotografi l' hanno beccato con un mozzicone in bocca perfino durante una gara, spento però: qui negli stadi è vietato fumare.«Fumerò stasera», ha detto lui dopo la vittoria thriller con l' Arsenal. «O magari smetto per un anno o due e poi ricomincio».
Come che sia, il suo ufficio a Cobham ha un ampio balcone. Se vuole dare un tiro, non deve andare lontano. Ragione di più per non muoversi da lì.
0 notes