#frasi da parati
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schizografia · 4 months ago
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libero-de-mente · 5 years ago
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E VENNE L'ACQUA CHE NON SPENSE IL FUOCO, SUI CUI SOFFIÒ IL VENTO, CHE SPAZZÒ LA TERRA, CHE INIZIÒ A TREMARE, DOVE MIO PADRE LAVORÒ.
L'acqua alta di Venezia in questi giorni è lo specchio della situazione italiana in generale. Oltre ai danni materiali alla parte storica e artistica della città, chi ha subito i maggiori danneggiamenti sono i cittadini e tutti i negozianti/artigiani che operano nella città lagunare. Anche in questo caso si tratta di un evento che era prevedibile e come tale non si è fatto nulla per prevenire danni maggiori. La parte politica di Venezia e della Regione, come spesso accade, aveva promesso una soluzione. Il famoso Mose, pensato subito dopo l'alluvione del 1966, a distanza di 53 anni è ancora un'utopia. Si è vero il cantiere c'è ma tra burocrazia e sospensioni varie è solo un cantiere. Senza contare che la tecnologia fa passi da gigante e il progetto, a forza di lungaggini, è per alcuni aspetti tecnologicamente oggi obsoleto. Come da italica usanza il tutto è condito da inchieste, arresti, tangenti, mazzette e altre ruberie varie che coinvolgono grandi imprenditori, grandi politici e grandi pezzi di melma. Un "magna magna" generale che pesa sulle tasche dei contribuenti, si perché i prezzi stimati aumentano come tutti i costi, mai che si senta di un aumento delle buste paga in Italia. Chi paga le conseguenze di questa misero modo di gestire soldi pubblici sono gli artigiani veneziani, dal più piccolo bar o libreria ai negozi storici e di lusso. Non esiste proletario o borghese, l'acqua non fa sconti, quindi via con le solite frasi del "sono la colonna portante", "non mollate", "non siete soli" e altre frasi che una volta erano ad appannaggio dei politici, o dei vip, sulle testate giornalistiche e oggi sono i vari commenti della gente comune sui social. In realtà se non si rimboccano le maniche e non si danno da fare da soli nessuno interviene come da dovere. Alcuni chiuderanno, altri falliranno e molti perderanno molte cose. Brutto è fare paragoni con l'estero, però come non farlo? In Olanda mezzo paese vive sotto il livello del mare, in Giappone per le inondazioni che subiscono regolarmente certe zone hanno sistemi di paratie sulle porte di negozi e abitazioni che funzionano benissimo. Qui in Italia conosco chi ha progettato delle soluzioni, che per Venezia ad esempio, sarebbero davvero un passo avanti per rendere più sicura e vivibile la città da questi eventi che di eccezionale non hanno più nulla, vista la regolarità con cui accadono. Ma tutto è osteggiato dalla burocrazia, dal fatto che se non sei amico di chi conta o raccomandato il tuo progetto rimarrà nel cassetto, che spendere soldi per utilizzare sistemi vecchi fa "mangiare" molte persone. Ora tutte queste cose trasportatele in qualsiasi zona d'Italia, sostituite Venezia con altre città come Roma, come Genova e anche di paesi più piccoli in zone critiche. Sostituite l'acqua del mare con l'acqua che scende da cielo, con la terra che si muove o con quella che frana, usate pure il vento quando diventa una tromba d'aria o il fuoco che spesso divampa in alcune zone. Potrete usare tutti gli elementi acqua, aria, terra e fuoco aggiungendo amministratori incapaci, burocrazia voluta e cercata, sistemi mafiosi e corruzione molto simili sotto vari colori e appartenenze politiche ma avrete sempre i soliti risultati. Ci sarà sempre gente comune che pagherà sia le conseguenze sia con il denaro, le aziende grandi o piccole che pagheranno il conto salatissimo con chiusure, trasferimenti o fallimenti. Ci saranno sempre idee, progetti e strategie di persone capaci accantonate e ostacolate. L'Italia è un paese bellissimo, vero. Ricco di storia e arte, vero. Fucina di gente laboriosa e intellettualmente capace, vero. Ma l'Italia è un paese vecchio, quindi delicato, purtroppo spesso gestito da chi non è ne laborioso, ne intellettualmente capace e soprattutto onesto. Si dovrebbe cominciare a rimuovere da cariche e posizioni privilegiate i faccendieri di chi specula, avere una maggiore partecipazione locale (zona per zona) degli italiani validi e volenterosi. Noi tutti dovremmo appoggiare questi cambiamenti, meno slogan e più fatti reali. Meno urla dai pulpiti e più amministratori con le maniche rimboccate. Bene, ho contribuito anche io con questi post da "denuncia!!1!!" che non servono a nulla, perché tutti ce ne sbattiamo e si andrà avanti così. Ora vado, devo cercare di qualcuno corruttibile o che mi faccia diventare "amico" di quel pezzo grosso per poter lavorare, ho una famiglia da mantenere io. Mica li sfamo con l'utopia e le buone intenzioni. Cinismo, ci vuole cinismo e spietatezza. Vado e ci provo, ciao.
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fotopadova · 5 years ago
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Donatello Mancusi, ”Percezioni”: intuire storie, tempi, situazioni, ritmi.
di Gustavo Millozzi
  -- "Fotografia capovolta" ovvero il primato dell'osservatore. –
Ogni fotografo che realizza street photography testimonia il suo tempo rappresentando ciò che lo circonda quando "esce di casa" con lo scopo di cogliere ogni aspetto della vita, dell’anima, in sintesi, l’essenza stessa della sua società. A mio avviso questa è l'interpretazione che ne dà magistralmente anche Donatello Mancusi nella sua mostra Percezioni, declinandola in quattro diversi temi.
È fotografia di strada, traccia del tempo presente, quella che nasce nel momento in cui ognuno riprende con una reflex, una compatta, un telefonino o un qualsiasi tipo di fotocamera, una situazione in un luogo pubblico, sia all’esterno che all'interno, in cui il soggetto principale sia la presenza umana, diretta o indiretta, ossia anche attraverso oggetti che ne evochino soltanto la presenza.
Con un passaggio in più Mancusi ribalta la prospettiva: il punto di vista privilegiato non è più quello del fotografo, ma diventa quello dell'osservatore che è chiamato ad interrogarsi su chi sia il personaggio ritratto (Privato), su cosa stia accadendo in una determinata situazione (Piccole storie), di che cosa sia rappresentato (Carta da parati) fino ad indagare il senso stesso dell'immagine (Icona).
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 © Donatello Mancusi, da Percezioni (Privato)
Partendo dal primo nucleo, Privato, Mancusi raccoglie immagini fotografiche che si avvicinano al genere del ritratto, della figura ambientata, colte da un angolo di ripresa non convenzionale in quanto l’intera serie è costituita da personaggi anonimi visti da dietro.
Nelle scienze delle arti visive questo è un elemento dal significato simbolico: il dorso della figura riprodotto in due dimensioni consente allo spettatore di prendere il posto del soggetto della foto e vedere ciò che la persona raffigurata vede. È tradizionalmente un modo molto efficace per aumentare l’illusione di entrare nell'immagine, aiutando a penetrare lo spazio pittorico/fotografico, attirando lo sguardo dell'osservatore nella profondità del lavoro stesso.
La figura umana occupa praticamente tutto lo spazio, impedendo all'osservatore di decodificare l'immagine avendo la vista bloccata da un retro solo apparentemente anonimo con vestiti e abiti che poco raccontano della persona e della sua vita. Il soggetto sembra negarsi al fotografo e, dove prima si tentava di decifrare l'espressione facciale del ritrattato per conoscerlo, qui la comunicazione si sposta sulla schiena, sulla postura, sui pochi indizi che l'osservatore è chiamato ad indagare. Questo cambiamento di prospettiva, che potrebbe essere letto come disinteresse o rifiuto, appare invece come un messaggio diretto ed efficace che, aiutato da un’ambientazione quasi inesistente, diventa un appello all’osservatore. È chiaramente un’impostazione “anti selfie” e pertanto anche una negazione della tradizionale “foto ricordo”, più concentrata su cosa, enigmaticamente, il soggetto vede e - sul suo profondo pensare con lo sguardo verso l’indefinito - che alla rappresentazione del soggetto stesso. Un atteggiamento spontaneo, non importa se in posa, che nella nostra mente non associamo ad un artefatto, in cui il soggetto appare chiuso in sé stesso.
Si consideri inoltre come questo messaggio visivo possa assumere un altro importante significato dove lo studio sistematico di Mancusi interpreta una tipologia classificata dalla sociologia contemporanea di Gottfried Keller. Questi sarebbe stato sorpreso nel vedere il suo Kleider machen Leute (Gli abiti fanno le persone) reinterpretato nelle immagini del nostro autore: “la ricerca dell'identità diventa una filosofia che si fonde con l'ideologia e alla fine viene indossata sul proprio corpo”.
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 © Donatello Mancusi, da Percezioni (Piccole storie)
Ciò che Mancusi ci presenta poi in Piccole storie è un'evoluzione, per certi versi, del lavoro precedente. Aspetti della realtà in cui immagini di diverso contenuto, che non hanno alcun rapporto tra loro, si trovano assieme per semplice coincidenza, come in tutte le coincidenze della vita, combinando persone e luoghi reali, ma non necessariamente persone e luoghi naturalmente vicini. L’autore non ci spiega in alcun modo quanto avviene nelle scene del teatro della vita che ha scelto di "bloccare" con personaggi che recitano ruoli che lascia a noi interpretare. E ciò può avvenire in diverse maniere, senza darci alcun indizio, come fossero parole di frasi che non hanno né principio né fine: possono esser da noi composte e lette come espressione di sentimenti diversi - dolore, indifferenza, gioia, solitudine... - secondo lo spirito ed il particolare momento che stiamo vivendo.
Sono fotografie di forte potenzialità narrativa, scattate in strade, ambienti e situazioni che chiunque di noi ha certamente già potuto vedere, ma sulle quali non si è mai soffermato non avendo neppure mai pensato di coglierne il significato profondo.
Mancusi, come succede per le immagini di Philip Lorca di Corcia sceglie gli eventi quotidiani togliendoli dal regno della banalità, cercando di ispirare nell’osservatore una consapevolezza della psicologia e delle emozioni contenute nelle situazioni della vita reale; ci invita a soffermarci su di esse ed a scoprire particolari ed atteggiamenti per risolvere il loro mistero che, come tutte le immagini della street photography, è quello del quotidiano, come la pittura di Hopper ci ha ben insegnato, che velocemente fugge con noi e, come noi, fugge verso una mèta indefinita.
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 © Donatello Mancusi, da Percezioni (Carta da parati)
Il terzo lavoro ci riserva uno studio delle superfici, dei colori e della materia. Nel nostro mondo di ogni giorno ci imbattiamo in vetrine, banchi, bacheche ed altri mezzi da esposizione dove veniamo colpiti da oggetti, forme e colori che, in fondo, rappresentano l’uomo e il trascorrere della sua esistenza, segnandone, evidenziandone e sollecitandone i consumi, le vanità e i desideri. E’ un ulteriore aspetto della street photography che Mancusi con Carta da parati ha saputo efficacemente cogliere e presentare in una raffinata esecuzione, impreziosita dal particolare supporto cartaceo.
Ognuna di queste immagini porta in sé la sua personale interpretazione di una porzione scelta della realtà, racchiusa nell'inquadratura: non c’è bisogno di una voce narrante che descriva o di un testo allegato che spieghi in quanto la forma di comunicazione è puramente visiva. Per esprimere la loro funzione e raccontare la loro storia sono sufficienti gli elementi rappresentati e le loro relazioni che svolgono un ruolo ben preciso per veicolare al meglio il messaggio che l’autore ha voluto trasmetterci.
Nell’osservare questa serie nel suo complesso mi è tornata alla mente la Teoria della Gestalt (La Legge della Vicinanza) constatando come le immagini, vicine tra loro, abbiano la capacità di essere percepite come appartenenti ad un unicum divenendo non più, per chi le guarda, scindibili l’una dall’altra e facendo capire come il fotografo abbia organizzato la loro combinazione in funzione di un risultato ben chiaro nella sua mente.
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 © Donatello Mancusi, da Percezioni (Icona)
 Infine Icona. Cosa è per noi un manifesto? È una presenza continua nella nostra vita che troviamo spesso e ovunque: alle fermate dei bus, sui muri delle strade, sui tabelloni pubblicitari, nei luoghi pubblici, spesso in forme e contenuti semplici, di facile comprensione, oppure in soggetti complessi, sempre comunque con la sola funzione di richiamare la nostra attenzione. Ma quanto durano, se non vengono, come il più spesso accade, rimossi o ricoperti da altri? Spesso vengono strappati mostrando, sotto tali ferite, strati di precedenti loro simili. In tali condizioni sono stati spesso oggetto di particolare interesse da parte di pittori - Mimmo Rotella, Jacques Villéglé e Raimond Hains - che ne hanno tratto opere in cui gli accostamenti cromatici, più che le forme, sono l’elemento principale. Ma anche i fotografi ne hanno trovato ispirazione come Paolo Monti che negli anni Cinquanta dà avvio alla serie Manifesti strappati nell’ambito di una più ampia sperimentazione sulla fotografia astratta.
Talvolta, ed è quanto ha voluto sottolineare Mancusi, questi prodotti pubblicitari terminano la loro vita invecchiando, dissolvendosi naturalmente sino alla scomparsa della loro identità per azione degli agenti atmosferici, per cause naturali, in relazione alla caducità della loro materia, cosa che noi possiamo avvertire e seguire come succede per i graffiti e i murales. L’immagine iconica di Moira Orfei segue parallelamente il declino fisico dell’artista circense, come se la sua stessa immagine sui muri invecchiasse con lei per poi scomparire e morire. All'opposto la medesima immagine, in quanto icona, resta sempre in vita, eterna, sempre uguale a sé stessa. Come un multiplo di Andy Warhol che si trovasse a mutare, col mutare del tempo, o un ritratto di Dorian Gray "capovolto".
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Una versione di questo scritto è riportata nel catalogo di:
Percezioni: Mostra fotografica di Donatello Mancusi a cura di Gustavo Millozzi
Padova, Palazzo Angeli - Stanze della  Fotografia, Prato della Valle 1/a
dal 7 giugno al 28 luglio 2019, orario: 10.00 – 18.00, chiuso il martedì - Ingresso libero
Comune di Padova - Assessorato alla Cultura
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scampoliditesto · 7 years ago
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Lo Scalpello
Quando piove, i miei occhi diventano imprevedibili. Aiutato dai riflessi causati dalla patina d'acqua, a volte noto particolari che non avevo mai visto prima, roba tipo lo stemma del comune impresso sui tombini. Più spesso succede il contrario: costruzioni, persone e alberi diventano forme indistinguibili, oggetti di pongo nero modellati da un bambino con qualche disturbo dell'attenzione. E quindi sono a Montecatini sotto il diluvio che cerco l'hotel, ma potrei essere benissimo a Mosca, Berlino o Busto Arsizio che tanto non me ne accorgerei. Tra l’altro è pure sera. «Ma non siamo già passati da qui?» dice Laura, smanettando con i comandi del riscaldamento per cercare di non far appannare il vetro. «Mmmh. Dici?» «Mi ricordo quel negozio.» «Quale?» mormoro distratto mentre cerco di puntare la bocchetta verso il centro dell'abitacolo. «Quello» fa lei indicando qualcosa nel vuoto davanti a noi. Guardo il dito proprio come nel famoso proverbio. «Hai delle belle unghie» dico. «Scemo. Guarda la strada.» «Tanto non vedo un cazzo.» «Gira a destra.» «Ma sei sicura?» «Non credo che da queste parti ci siano molti negozi che si chiamano "La Boutique di Katiusha"» Metto la freccia e imbocco una strada lievemente in salita. Un paio di lampi anticipano altrettanti tuoni, d'altro canto la luce si propaga più veloce del suono anche a Montecatini.
Fermo la macchina davanti a un cancello con scritto "Parcheggio". La scritta è bella grossa e la spazzolo cono lo sguardo facendo un sorrisetto, cioè non proprio un sorrisetto, piuttosto la stessa faccia da cazzo che ho fatto quando ho scelto un albergo con il posto auto anche se non era tra quelli consigliati. Tiro giù il finestrino, sporgo la testa, accendo pure gli abbaglianti ma non vedo pulsanti, diavolerie citofoniche o roba simile. Il cancello sembra uno di quei varchi che si trovano nei videogiochi, quelli che per aprirli devi raggiungere un posto remoto del livello per attivare un improbabile meccanismo. Allora comincio a tirare pugni sul cancello, a suonare il clacson, a mormorare frasi sconnesse del tipo "cazzo, cazzo, forse dovevo tirare la catena del cesso all'autogrill di Lucca per entrare nel parcheggio." Cercando l'ombrello da qualche parte dietro il sedile, Laura dice che scende e va alla reception per chiedere di aprirmi. Non faccio in tempo a dire qualcosa che lei è già scesa.
Dopo qualche minuto, Laura rientra in macchina. Si siede e poi dice: «È pieno.» «Come sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che è pieno» fa Laura mimando il pieno con la mano. «Cazzo, ma anche l'anno scorso era pieno» dico ripetendo il suo gesto e, mentre lo faccio, mi rendo conto che non vuol dire proprio nulla, è una specie di asterisco-punto-asterisco della comunicazione, vale per tutto, insomma. Ingranando la marcia dico: «Chi cazzo ci viene qui a novembre?» Mentre sparisco nel diluvio per cercare parcheggio, Laura dice che non ci viene nessuno, che è il parcheggio è un trucco, uno specchietto per le allodole. In questi momenti mi pento di aver smesso di fumare, però non mi manca la nicotina: mi manca la disponibilità di una fiamma libera.
L'interno dell'hotel sembra l'inferno. E non solo per il colore rosso che impesta tutto: moquette, carta da parati, cuscini, tendaggi, un divanetto con delle macchie che preferisco non sapere cosa siano e le finiture di un tavolino che sostiene una pila di volantini sul parco a tema di Pinocchio. Dicevo, l'hotel sembra un inferno per via della temperatura. In preda al sudore e alla gola che si secca, porgo i documenti al portiere, un tipo sulla cinquantina intento a guardare la partita. Senza distogliere lo sguardo dalla televisione dice che la colazione è dalle 6 alle 9. «Ma che cazzo di orario è?» dico girandomi verso Laura. Lei mi sorride e poi mi fulmina: è una specie di entaglement sentimentale, un paradosso per cui approva ammonendomi contemporaneamente. C'è un fallo al limite dell'area di rigore, quindi anche le mie parole cadono nel vuoto, falciate. «E il parcheggio?» dico alzando la voce. «Eh, purtroppo siamo pieni» risponde il portiere. Poi abbozza un gesto in direzione della vetrata che si affaccia sul diluvio e sulla notte. «Almeno c'è Internet?» «In tutte le camere.» «Meraviglioso. E la password?» «Di Internet?» «Già.» «È "internet".» «Quasi quasi vado a prendere la macchina e provo a entrare nel parcheggio urlando “parcheggio”» dico acchiappando il manico della valigia viscida per la pioggia. «Quando arrivano gli altri ospiti?» «Appena trovano un posto per l’auto» rispondo. Laura tossisce per finta così dico che arriveranno più tardi. Ci infiliamo nell'ascensore e dico al mondo che ci vediamo domani. Nessuno risponde, pazienza.
L'indomani mattina ci incontriamo nella hall. Il portiere è proprio come lo ricordavo dalla sera prima: faccia lievemente più stanca e ricrescita della barba ormai evidente. Le uniche differenze degne di nota sono la televisione che ora trasmette un telegiornale e la situazione meteorologica. In confronto ad ora, il diluvio della sera prima sembra un soffione della doccia incrostato dal calcare. I nostri occhi si scambiano un messaggio abbastanza banale: nessuno vuole bagnarsi. Ad un certo punto, Keit prende sottobraccio la ballerina, dice che ha la macchina a puttane e si dirige verso l'uscita. Io abbraccio Laura e faccio lo stesso. Invece Matteo zoppica così tanto da sembrare immobile. «Sta' qui che ti vengo a prendere» fa La-hùra mentre traffica con la cerniera di una giacca dalle finiture in stile K-Way. Scende rapida quattro scalini e si allontana emettendo lo stesso rumore della risacca. Aggiustandosi lo zainetto sulle spalle, Matteo dice che ieri a Lucca ha camminato troppo, e che l'Aulin non gli sta facendo effetto. Poi, indicandomi la gamba, dice che la prenderebbe a martellate. Vorrei dirgli che so chi potrebbe farlo, ma sono già arrivati a prenderlo perché La-hùra si è fatta tutta la strada in retromarcia per fare prima. La macchina inchioda proprio dalla scalinata che congiunge la hall con la strada. Zoppicando, Matteo avanza fino a uscire dalla tettoia che offre un riparo minimo e con fatica sale sulla macchina.
Apro l'ombrello sulla testa di Laura e le chiedo se le ho mai raccontato la storia dell'ortopedico olandese. Annuisce e con un fazzoletto di carta cerca di pulire le lenti degli occhiali piene di goccioline. «Però raccontamela nuovamente» dice. «Visto che insisti» faccio ridendo. Camminiamo verso la nostra macchina e ci troviamo a respirare assetati di aria fresca, lasciandoci alle spalle una breve vacanza, l'albergo e un parcheggio che non c'era.
Comunque, la storia dell’ortopedico olandese è questa: inizio anni duemila, sono in Germania ad una festa della birra. Ad un certo punto, al mio tavolo arriva un tizio che parla un italiano incerto e sembra una specie di sosia di Adolfo Celi quando era sulla cinquantina. Comincia a parlare e mi dice che è di Genova come me, che siamo dello stesso gruppo e che lui è olandese. Non lo ricordo ma non ho nemmeno il tempo di attivare qualche poderoso processo sinaptico impantanato nell'alcool perché il tizio comincia a parlare. Però non è una roba tipo chiacchiere tra amici: così, in pochi istanti, vengo travolto da una slavina di parole tempestata da qualche sputo. Per sfuggirgli, mi alzo fingendo di dover pisciare, cosa che tra l'altro mi viene facile, ma dico "ahi" e rimango bloccato da una specie di colpo della strega. Allora il tizio dice che sono fortunato, dice proprio "Caro mio sei fortunato" e io lo guardo e non capisco se sia ubriaco o genuinamente convinto. Provo a interromperlo ma senza successo. Adesso dice che è ortopedico, che lavorava in Olanda ma è dovuto venire in Italia per dei problemi. «Quali problemi?» dico massaggiandomi la schiena. Allora lui tentenna e abbozza che non è proprio un ortopedico, ma quasi. «Quasi? Non è che puoi essere medico un po'...» sbotto svuotando il boccale e pulendomi il labbro inferiore con il dorso della mano. La quantità di bava indica che la sbronza è imminente. E insomma, il tizio dice che no, non è un medico e che usa uno scalpello di silicone e un martello di gomma e poi mima dei movimenti gesticolando con le braccia. Per farla breve, salta fuori che questo immobilizza la gente e poi - bum, bum, bum - la prende a martellate, in pratica le scolpisce come se fossero dei blocchi di marmo per far rientrare ernie, distendere muscoli contratti, far assorbire ematomi e trafficare con chissà che altre sfighe. Scrollo la testa e provo ad alzarmi dalla panca. Lui coglie la mia impasse cinetica e dice che ha gli attrezzi in macchina, magari dopo mi tratta. Deglutisco rumorosamente poi parlo, ancora oggi non so animato da cosa. «Ma lo hai fatto già altre volte?» «Migliaia. Te l'ho detto, lavoravo in Olanda.» «Magari prima sento qualche tuo paziente, insomma raccolgo qualche parere...» e dopo essermi dato uno slancio per mettermi in piedi, con dolore dico «...però peccato che non conosca nessuno da quelle parti.» «Come no? Avevo in cura Van Basten.»
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Capitolo 47 - Regali, incubi e palle da biliardo
Nel capitolo precedente: Meg e Angie invitano a casa loro Grace e Laura per una serata tra ragazze, Meg usa Angie come modella per un dipinto, Jeff e i ragazzi telefonano da Los Angeles, le ragazze fanno il gioco della verità e salta fuori che l’interesse di Eddie per Angie, e viceversa, non era passato inosservato neanche alle altre due amiche. I ragazzi sono in un bar, Sean è uscito in accappatoio e stivali per una scommessa, si parla delle ragazze e dell’eventualità che li raggiungano in tour, una parte è convinta che qualcuno verrà, l’altro gruppo pensa di no, scatta un’ulteriore scommessa, perfezionata dallo stesso Eddie: si farà una serata nella peggiore discoteca dei dintorni a cui i perdenti dovranno partecipare vestiti da Village People. Angie si sveglia sola in casa dopo la serata con le amiche e dopo un sogno molto strano su Eddie, mentre si prepara un bagno riceve le telefonate di Dave Grohl, che le rivela che sta frequentando un’altra ragazza, e dello stesso Eddie mentre è in vasca, Angie si vergogna di dire che è nella vasca da bagno e giustifica i rumori e l’uso del vivavoce con il dover lavare i piatti, i due parlano della cassetta fatta da Angie per Eddie e quando la ragazza si sorprende ad accarezzarsi un seno senza accorgersene mentre lui parla è imbarazzatissima e vorrebbe sotterrarsi, anche se lui non può saperlo.
“Tutto a posto, le ore piccole le ho fatte io con gli altri in giro per Los Angeles, praticamente sono tornato un'ora fa” forse un po' di più in realtà, quasi due. Ho rinunciato alla colazione con gli altri e sono tornato in albergo con una scusa... a dire il vero non ricordo nemmeno se mi sono preso la briga di inventarmi una scusa o meno. Di sicuro nessuno mi ha chiesto niente. Sono arrivato qui e avevo già il telefono in mano quando mi sono sentito improvvisamente stupido e l'ho rimesso al suo posto. Poi l'ho ripreso e ho iniziato a fare il numero, ho messo giù a metà perché mi sono ricordato che dopotutto era mattino presto e forse non era il caso di romperle i coglioni a quell'ora. Ma avevo troppa voglia di sentirla. La conclusione è che ho passato due ore sul letto vestito, con il telefono appoggiato sulla pancia, a contare le macchie sulla carta da parati e a fantasticare su Angie, cosa stesse facendo, se fosse già sveglia, che pigiama avesse indosso, cosa avesse sognato questa notte, indeciso se chiamarla o no. Quando l'orario mi è sembrato accettabile, ho meccanicamente sollevato la cornetta e composto il numero, trovandola fortunatamente sveglia.
“Eheh posso immaginare, ma ora sei in camera?”
“Sì, sono a letto” specifico, non so esattamente perché, forse per creare una maggiore intimità, perché dirle con precisione dove sono e cosa sto facendo mi da l'idea di averla più vicina.
“Aspetta, prendo una rivista e ti leggo qualcosa” sul momento non mi rendo conto di cosa intende dire, sarà la stanchezza o sarà che sono focalizzato sulla sua voce e su quanto sia dannatamente sexy al telefono. Voglio dire, la sua voce è sempre bella, calda e profonda, leggermente afona e calante di tanto in tanto, il che la rende ancora più intrigante. Ma al telefono, non so per quale cazzo di fenomeno acustico, la voce di Angela sembra sempre più presente, più mirata, come se uscisse dalla cornetta e mi entrasse direttamente nel cervello, senza attraversare nessuno spazio esterno, dandomi allo stesso tempo la sensazione di esserne completamente avviluppato. E ho anche la vaga impressione che tenda a salire di mezzo tono quando parla al telefono, non troppo, giusto un pelo, soprattutto sul finale delle frasi. Questa cosa mi fa impazzire e da anche una certa dipendenza, la tengo ore al telefono con la scusa del sonno e del patto da rispettare, quando in realtà crollerei tranquillamente anche da solo, semplicemente perché non riesco a smettere di ascoltarla.
“Oh no no, tranquilla! Non devo dormire! Cioè, sì, dovrei, ma non ti ho chiamata per quello” oggi non voglio limitarmi ad ascoltarla, voglio parlarci.
“Sicuro?”
“Certo, sicurissimo. Ma cos'è questo strano rumore che sento? Sembra acqua” per un attimo ho una specie di dejà vù, solo che non si tratta di un già visto ma di un già sentito. Penso sia il più classico flashback da trip, infatti giuro di aver sentito lo stesso identico sciabordio d'acqua sul portico di Cameron Crowe all'ultimo dell'anno, quando ero strafatto ed Angie mi parlava e io la vedevo come una sirena adagiata sugli scogli, su cui s'infrangevano le onde. O forse è solo che al mio inconscio piace fare questa associazione di idee in modo da farmi ripensare ad Angie vestita solo di capelli e conchiglie.
“Rumore? Ah, sì, ehm, sembra acqua perché... perché è acqua, sto... sono in cucina, sto lavando il casino di piatti, bicchieri e ciotole di ieri sera” risponde lei incerta, forse un po' imbarazzata per essere stata scoperta, magari non voleva sapessi che stava facendo altro mentre mi parlava. Ma io non mi offendo di certo.
“Ah capisco, povera!” le offro un po' di sostegno mentre immagino me stesso incastrato tra la sua spalla e il suo collo al posto della cornetta del telefono.
“Anzi, ti dispiace se metto in viva voce? Così posso continuare, sai com'è” aggiunge e la bolla delle mie fantasie scoppia di colpo.
“Ma ti disturbo? Se vuoi ti chiamo dopo...” forse non è imbarazzata, forse sta solo cercando di dirmi tra le righe e molto delicatamente che le sto rompendo i coglioni.
“NO!” grida lei dall'altra parte e mi pare di vederla mentre si agita così tanto che il telefono le sta per scivolare e nel recuperarlo fa ricadere un piatto o un bicchiere nel lavello “Ehm, no figurati, mica mi disturbi, mi fa piacere sentirti”
“Ok... beh come stai? Ieri non c'è stato modo di parlare più di tanto” le chiedo e mentre mi parla dell'università e mi rivela di aver seguito il mio consiglio accettando il voto dell'esame, cerco di capire se sia solo una frase di circostanza o se le faccia piacere veramente.
“Hai fatto bene, sono contento. Senti... volevo chiederti due cose...” azzardo io, visto che non ha ancora detto niente e la cosa mi sembra molto strana.
“Va bene, spara”
“La prima è se per caso hai ricevuto qualcosa in questi giorni” mentre parlo cerco di srotolare il filo del telefono che penso si porti dietro minimo tre anni di nodi.
“Qualcosa? Qualcosa cosa?”
“Un pacchetto, per posta...” mi sa che non l'ha ricevuto.
“No, perché? Che pacchetto?” appunto.
“Uhm no, niente” mi mordo la lingua perché la mia curiosità e la mia impazienza mi hanno portato a rovinare parte della sorpresa. E a scatenare l'ira di Angie che, come mi aspettavo, mi urla dietro per obbligarmi a parlare e quasi lo rompe davvero un bicchiere.
“... eheh, no, tranquillo, non spacco nulla” ride lei imbarazzata e non so dove lo ha appoggiato il telefono in questo momento, ma ovunque l'abbia messo so per certo che lei si è voltata dall'altra parte, come se potessi vederla arrossire anche da qui. E in questo momento non vorrei nient'altro che poterla vedere, avvicinarmi alle sue spalle mentre è intenta a lavare i piatti, abbracciarla forte e appoggiare il mento sulla sua spalla e la guancia sulla sua per sentirla calda. Chissà se li sta lavando in pigiama quei piatti, chissà se ha addosso la mia vestaglia preferita. Chissà come sarebbe infilarci le mani sotto e...
“Comunque è un pensiero per te, l'ho spedito prima di partire e a quanto pare ho sopravvalutato la velocità del servizio postale a Seattle” le confesso e mentre lo faccio sono ancora piuttosto incredulo: è possibile che non l'abbia ricevuto? E se invece le fosse arrivato? Magari era... troppo... o magari non le è piaciuto quello che le ho scritto.
“Un pensiero? Per cosa?” per cosa? Come se ci fosse bisogno di un motivo
“Per te, te l'ho detto. Posso passare alla seconda domanda?” cerco di cambiare argomento perché sento che se continuiamo su questo discorso, tra la scarsa lucidità, le mie fantasie su di lei e la mancanza di ore di sonno, potrei spiattellarle tutto in un colpo e magari non avrò le idee ben chiare su cosa farci con i miei sentimenti per lei, ma non li ho certo tenuti per me tutto questo tempo per poi comunicarglieli così a cazzo per telefono.
“Sì...” le cose o si fanno per bene o non si fanno, porca puttana.
“B-52s?” sorrido pensando alla cassettina che ho praticamente consumato da quando siamo partiti.
“Ahahahah li adoro! Non ti piacciono?”
“Non è il mio genere, ma sì, è carina” ma lo dovevo dire per forza che non è il mio genere? Ma perché devo fare sempre lo stronzo?
“E poi quel pezzo è azzeccatissimo per il viaggio” io sapevo anche che aveva una serie di doppi sensi al suo interno e una gran parte di quei doppi sensi li sperimenterei volentieri con la ragazza all'altro capo del telefono.
“Devo dire che sono rimasto piuttosto sorpreso”
“Hai sentito solo quella?”
“Ma figurati, l'ho ascoltata tutta durante la prima ora di viaggio...” e mica una volta sola.
“E che ne pensi?”
“Mi è piaciuta molto, ma, ripeto, alcune cose mi hanno stupito” ribadisco e cerco di farle capire che non è che mi sia piaciuta la selezione di canzoni di per sé, non solo, ma adoro il modo in cui le ha messe assieme e, in generale, tutto quello che ci sta dietro. Cioè, si capisce che c'è tutto un lavoro dietro, una scelta non casuale, una sequenza studiata. Insomma, è chiaro che ci ha messo del tempo per farla, tempo in cui deve per forza aver pensato a me, e la cosa mi piace.
“Allora promossa?”
“Super promossa, col massimo dei voti” ma se vuoi ridare l'esame, anche più volte, io non mi offendo eh.
“Grazie prof!”
“E poi ci sei tu lì dentro, insomma, ti rispecchia in tutto, perciò è perfetta” perché tu sei perfetta, è questo il messaggio tra le righe, ma lei non sembra coglierlo, o forse non vuole farlo.
“Avevi detto che volevi conoscere la musica che per me è casa. Ovviamente quella è solo una parte, non ci stava tutto in una C60...” forse non hai capito che io voglio conoscere tutto quanto. Le cose che vorrei sapere di te, probabilmente non basterebbe una vita a pronunciarle tutte, altro che una C60.
“Allora me ne aspetto altre, magari anche di C90, che dici?”
“Eheh va bene, aggiudicato. Però a questo punto dovresti ricambiare anche tu, insomma, anch'io sono curiosa di conoscere la tua casa” la porta di casa mia è già spalancata per te, non serve nemmeno che bussi. Ma una volta conosciuta la mia casa, vorrei che mi prendessi e mi portassi via, da te, a vivere nella tua, nel tuo cuore e nel tuo letto. Cristo, io non lo so che mi prende, so solo che se avessi sentito le sue ultime parole dal vivo, pronunciate con quella voce, magari mentre mi offre un sorriso sghembo, con le mani ancora nell'acqua, forse... anzi, no, senza forse, sicuramente non avrei resistito e l'avrei baciata, toccata, stretta e se lei non mi avesse fermato o respinto sarei andato oltre, avrei anche fatto l'amore con lei su quel cazzo di lavandino.
“Mmm vedrò cosa posso fare” e tra le cose che posso fare, la compilation su cassetta è di certo l'ultima cosa a cui sto pensando in questo momento, anche a giudicare da cosa sta accadendo nei miei pantaloni.
Merda.
“Ci conto. Senti, suonate domani, giusto?” Angie parla, ma io non capisco esattamente il senso delle sue parole, anche perché è come se tutto il mio sangue fosse confluito là sotto, lasciando totalmente scoperto il cervello che al momento viene considerato un organo superfluo “Eddie? Ci sei? Sei sveglio?”
“EH?! Sì sì, scusa, mi ero distratto” torno brevemente in me, mi do una sistematina veloce e mi metto a sedere sul letto raddrizzando il cuscino dietro alle mie spalle, come se bastasse evitare la posizione distesa per azzerare i pensieri sconci.
“Ti stavi addormentando? Forse è meglio se riposi un po'”
“Nah, tranquilla, non sono stanco, dormirò quando sarò morto” o quando se ne andrà a dormire il mio uccello.
“Eheh come dice Warren Zevon”
“Conosci anche lui? Sono sempre più stupito” sono stupito e mentre mi stupisco cerco di pensare alla frangia rossa e alla barbetta del cantautore di Chicago per farmi passare qualsiasi tipo di eccitazione, ma Angie continua a parlare e la cosa non mi aiuta. Ma che cazzo?
“Quella la conoscono tutti...”
“Non proprio tutti” sarà che non faccio sesso da... da quanto? Il fatto che non me lo ricordi la dice lunga.
“Comunque ti avevo chiesto del concerto di domani sera. Sei pronto?” mi domanda con lo stesso tono in cui Paul Heaton mi chiederebbe di alzarmi e raggiungere la Carovana dell'amore, o almeno è così che suona alle mie orecchie.
“Prontissimo, non vedo l'ora”
“Beh, se dormi un po' il tempo passa più velocemente”
“Non mi va di dormire, anzi, dopo aver chiuso con te mi sa che andrò a cercare un po' di onde, c'è una spiaggia niente male qui vicino” rinfrescarmi le idee, ecco quello che mi serve.
“Ma si fa surf anche adesso? Non fa freddo?” è proprio quello che spero.
“Mmm no, la temperatura è gradevole. E' l'acqua che è gelata” un bagno ghiacciato è quello che ci vuole per raffreddare i bollenti spiriti.
“Appunto! Come fai?”
“Va beh, basta mettersi la muta”
“Aaaaah, con la muta!”
“Eheheh per forza, se no muori assiderato” anche se in realtà dipende, a volte ci può essere un'acqua fresca ma piacevole anche tra febbraio e marzo.
“Ma le parti che non sono coperte dalla muta non si assiderano ugualmente? Me lo sono sempre chiesta, la testa per esempio”
“Nella mia non c'è molto da congelare, quindi non ho mai avuto problemi” giusto adesso è meno vuota, è piena di immagini hardcore di me con Angie e se rimanessero congelate nella mia mente sarebbe un bel problema.
“Ahahahah questa era un po' scontata”
“Avete ragione, mia regina, mi perdonate questo scivolone nella comicità spicciola?” scherzo mentre mi do una seconda aggiustatina, che forse dura un po' più del normale.
“Cazzo!” la sento esclamare di soprassalto.
“Che succede? Tutto ok?” mi sfilo velocemente la mano dalle mutande e lo so che è impossibile, ma per un attimo ho come il terrore che mi abbia visto fare quello che stavo facendo.
“Sì sì, scusa, è che... mi stava cadendo un piatto! L'ho preso al volo eheh”
“Colpa mia che ti distraggo?” non sai quanto mi stai distraendo tu.
“Ma no, figurati! Comunque, ti lascio andare al surf se vuoi” ma col cazzo.
“Ho tutto il giorno per surfare, ci posso andare quando voglio. Adesso preferisco parlare ancora un po' con te, se ti va” insomma, devo riprendere il controllo di me stesso, basta farsi film porno mentali! Angie non è un oggetto sessuale, è una ragazza che mi piace da morire, nella sua totalità. E poi com'è che questi ormoni si scatenano adesso che siamo lontani migliaia di chilometri?
“Certo che mi va” risponde con un sorriso che esce dalla cornetta e mi avvolge come una coperta calda.
“Perfetto.” proseguo girandomi su un fianco e pregando che Jeff aspetti ancora un po' prima di rientrare “Allora, vogliamo parlare dei Violent Femmes?”
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Mi sveglio di soprassalto e, anche se non ho la possibilità di guardarmi dall'esterno, mi rendo conto che si è trattato del classico risveglio angosciato da film, in cui apri gli occhi e contemporaneamente ti sollevi ansimando e stringendo le coperte fino a sederti sul letto. Rimango così, col cuore che batte a mille e una bruttissima sensazione che mi opprime e non basta rendermi conto che è stato solo un sogno per farmela passare. Mi alzo, mi faccio la doccia e mi vesto ed evidentemente ci sto ancora sotto perché, quando raggiungo Meg in cucina, la mia coinquilina allarga gli occhi ancora addormentati non appena mi vede.
“Che è successo?”
“Buongiorno anche a te, Meg”
“Che faccia hai?” insiste aprendo il barattolo dello yogurt e leccandone il coperchietto.
“La stessa che ho avuto negli ultimi 18 anni, perché?”
“Hai la faccia scura. Dormito male?”
“Beh, in realtà sì. Ho fatto un sogno bruttissimo” rispondo mentre verso cereali e latte in una tazza.
“Del tipo?” Meg tuffa il cucchiaino nello yogurt senza distogliere il suo sguardo semi-vigile da me.
“Mmm no, non mi va di raccontarlo”
“Non cercherò di interpretarlo, promesso!”
“Eheh no, non è per questo. E' che... era davvero brutto, ecco, preferisco non parlarne” l'idea stessa di raccontarlo mi inorridisce, come se dirlo a qualcuno lo rendesse in qualche modo plausibile o reale.
“Va bene. Dopo la nottataccia, sei pronta per il turno della mattina?”
“Prontissima! Adoro lavorare al mattino” non perché non mi piaccia dormire, anzi, condivido la passione per il sonno con Meg, nonostante gli incubi indesiderati. E' solo che al mattino, non so per quale strano motivo, il tempo passa più in fretta, per lo meno quando sei al lavoro. A scuola le mattine sembrano eterne e paiono costituire il 90% della tua vita, invece al lavoro è l'opposto. Forse è perché faccio lavori in cui ho a che fare con dei clienti: le persone che vengono al minimarket o, come nel caso di oggi, alla tavola calda di mattina hanno le idee chiare, escono col chiaro intento di comprare qualcosa o di fare colazione, sanno quello che vogliono, vanno di fretta e non hanno voglia né di perdere tempo né di rompere i coglioni inutilmente o per il solo gusto di farlo; quindi va a finire che servi un sacco di persone una dietro l'altra, ti fai il culo e generalmente fila tutto talmente liscio che le ore passano e nemmeno te ne accorgi e magari il tempo scorre così veloce che non hai tempo di portare a termine tutte le altre mansioni collaterali che dovevi fare.
“Tu sei malata” commenta Meg col cucchiaino in bocca, guardandomi e scuotendo la testa spettinata. E la cosa mi fa venire in mente che...
“Senti, stasera hai qualche impegno?”
“Perché? Dove mi vuoi portare?” mi domanda improvvisamente risvegliata dalla curiosità.
“Da nessuna parte, è che volevo chiederti un favore”
“Non mi porti mai da nessuna parte!” Meg recita la parte della moglie trascurata alla perfezione “Spara, su”
“Mi potresti fare i capelli?”
“Eheh ok, stasera tornerò più tardi, ma magari tu comincia a farti lo shampoo, poi quando arrivo te li spunto, tranquilla” Meg si alza e butta il vasetto ormai vuoto dello yogurt nel cestino, trascinandosi poi verso la porta della cucina con una tazza di caffè uscita da chissà dove in mano.
“Ok, grazie. Comunque non è che li spunto, cioè, vorrei tagliarli un po' di più magari...” rispondo alzando leggermente la voce mentre tamburello con le dita sul tavolo.
“Va bene, te li scalo un po' sul davanti come l'altra volta, ok?”
“No, ecco, io pensavo proprio di fare un bel taglio. Vorrei cambiare, sono sempre uguale cazzo, mi sono stufata!”
“Un bel taglio... quanto?” Meg torna lentamente sui suoi passi e tira indietro il ciuffo scoprendo gli occhi ancora semi-chiusi.
“Beh un po'... più del solito... tipo alle spalle”
“ALLE SPALLE?? MA SEI SCEMA?!” la mia amica appoggia la tazza sul tavolo con poca grazia e strabuzza gli occhi, finalmente aperti e completamente svegli.
“Perché cazzo gridi? Che c'è che non va? Se devo fare una cosa, tanto vale farla bene, no?”
“Ma guarda che lunghi alle spalle vuol dire fin qui” Meg prende in prestito il cucchiaio con cui non ho ancora iniziato a mangiare i miei cereali e me lo punta all'altezza della testa dell'omero.
“No! Ma dai?! Grazie per la lezione di anatomia, Meg” ribatto riprendendomi il cucchiaio.
“Non fare la spiritosa, Angie. Hai i capelli lunghi fino al culo e anche se sei piccolina la distanza tra le tue spalle e il tuo culo è comunque considerevole. Vorrebbe dire tagliare tanto così” spiega allargando le mani per indicare la lunghezza approssimativa.
“Ti basta per farci una parrucca?”
“Angie, te ne pentiresti amaramente”
“No, invece. Te l'ho detto, mi sono stancata di essere sempre... sempre uguale a me stessa. Sono così da quando sono bambina. E adesso non sono più una bambina, sono un'adulta! Non posso fare un cazzo con questi capelli, il massimo del cambiamento è fare la riga da parte anziché in mezzo o fare la coda. Non si arricciano nemmeno, la piega mi dura mezz'ora. Voglio cambiare, mi sono rotta le palle di questi capelli da bambola. E poi dovermi prendere una serata libera ogni volta che devo lavarli. Mi sembra di essere schiava di questi capelli di merda”
“I tuoi capelli sono bellissimi, se proprio vuoi dargli un po' di movimento facciamo una permanente leggera leggera, che dici?”
“No! Voglio tagliarli, fine della questione. Ma poi, non sei tu che mi proponi sempre di cambiare pettinatura?”
“Cambiare pettinatura va bene, ma mi rifiuto di farteli fino alle spalle”
“Uffa!”
“Senti, te li taglio fin qui,” continua puntandomi indice e medio poco più su del centro della schiena “un bel cambiamento rispetto ad ora, ma non troppo drastico, così se per caso non ti piacciono fai sempre in tempo a farli ricrescere. Guarda che non sembra, ma i capelli fanno tanto, possono modificare la percezione dell'intero viso, potresti non riconoscerti neanche coi capelli così corti”
“Magari!”
“Te li taglio fin lì, prendere o lasciare” Meg chiude gli occhi e fa un respiro profondo prima di fare la sua ultima offerta, decidendo ignorare la mia battuta.
“Ok ok, prendo”
“Brava”
“Però allora mi fai anche il colore!”
“PURE IL COLORE? Senti, ho capito che vuoi voltare pagina, ma il colore no”
“Ma fai così anche con le clienti del salone? Li farai chiudere”
“Tu sei matta, hai i capelli neri naturali più belli che io abbia mai visto, non te li tocco neanche se mi paghi!”
“DAIIIIII”
“Che cazzo di colore vorresti fare, sentiamo”
“Io pensavo tipo... rosso”
“Ricomincio a sospettare che ti droghi, sappilo”
“O viola!”
“Tipico colore da persona adulta”
“Da quando in qua sei bigotta?”
“Vado a vestirmi và”
“Blu? Dai, giusto qualche ciocca”
“NON TI SENTO!”
“Uno shampoo riflessante?”
Dopo una lunga contrattazione portata avanti attraverso la porta del bagno e della sua camera, riesco a strapparle la promessa di un taglio di lunghezza media e delle schiariture, tanto per cominciare. Che poi sa benissimo che potrei andare da qualunque parrucchiere di Seattle e farmi fare qualsiasi cosa ai capelli, ma io so anche che lei non me lo perdonerebbe mai, quindi preferisco evitare. E forse lei sa anche questo. Una volta pronte, con le divise anni Cinquanta sotto i giacconi, stiamo per uscire dalla porta quando sentiamo suonare il campanello.
“Chi cazzo può essere a quest'ora?” mi chiedo imbronciata, ma cambio espressione non appena Meg apre la porta e vedo comparire il protagonista del mio sogno.
“Ehi ciao, Chris!”
“Un buon buongiorno alle mie vicine pref-” il cantante si blocca nel momento in cui lo prendo alla sprovvista placcandolo con un abbraccio stritolante.
“Che diavolo le prende?” domanda, con tutta probabilità indicando me, che ho ancora la faccia affondata nella sua giacca di pelle.
“Boh, è da stamattina che è strana. Vuole rasarsi a zero e farsi una cresta viola, dice che ha fatto un  incubo, mah”
“Non voglio rasarmi a zero” ribatto rivolgendomi per un attimo alla mia coinquilina, senza mollare la presa su Cornell.
“Ah allora hai cambiato fidanzato?” mi chiede Chris, perciò torno a concentrarmi su di lui, guardandolo indispettita.
“Non ho cambiato fidanzato”
“Generalmente le donne si tagliano i capelli quando si sono mollate col tipo”
“Non mi sono mollata con nessuno”
“Stai sempre con lo stesso allora?”
“Non sto con nessuno” ribadisco cercando di mantenere la calma e non arrabbiarmi come al solito alle sue battute.
“E' per questo che hai bisogno di affetto?”
“Uffa, non posso semplicemente aver voglia di abbracciare un amico??”
“Tu non abbracci mai nessuno. Almeno non da sobria”
“Né da sveglia” aggiunge Meg, che viene prontamente fulminata da un mio sguardo.
“Sai qualcosa che io non so?” le chiede Cornell incuriosito.
“Eheh no no, era... per dire!” si corregge subito Meg in una maniera talmente finta che chiunque avrebbe sgamato in un nanosecondo.
“Comunque, tutto bene? Insomma, come stai?”
“Io sto bene, dolcezza, tu mi sa che hai ancora la febbre invece” risponde tastandomi la fronte per scherzo.
“Sicuro che vada tutto bene?” insisto cercando di fargli capire che sono seria.
“Sì, Angie, a parte la costante mancanza di cibo nel mio frigorifero, tutto ok”
“Allora sei venuto per questo? Non l'avrei mai detto!” commenta sarcastica Meg, allontanandosi poi verso la cucina.
“Non solo per quello”
“Posso chiederti una cosa, Chris?” gli domando sottovoce, nel momento in cui rimaniamo da soli, ancora abbracciati nell'ingresso.
“Non posso, Angie”
“Non puoi cosa?” chiedo perplessa.
“Sono già impegnato. E poi non sono il tipo giusto per te”
“Pff non era questo che ti volevo chiedere...”
“Ah no?”
“Eheh no, non sono interessata”
“E perché? Non sono niente male” ribatte fingendosi offeso.
“Volevo chiederti se sei felice”
“Eh?”
“Sei davvero felice, Chris?”
“No,” mi risponde improvvisamente serio “a te non posso mentire, dolcezza”
“Oh”
“Posso fregare tutti, ma non te, giusto?” aggiunge stringendomi a sua volta “Non sono felice”
“Chris...”
“Ho una pistola in tasca” questa volta invece me l'ha fatta e adesso sta lì a gongolare per la sua battuta fissandomi col suo sorrisetto ebete.
“VAFFANCULO, CORNELL” mi stacco da lui inviperita, ma anche sollevata, e mi scappa da ridere.
“Oh, adesso ti riconosco, finalmente!” Meg torna proprio in questo momento e ha in mano il bidone del succo d'arancia e un sacchetto di biscotti al cioccolato. Biscotti al cioccolato?
“E quelli da dove saltano fuori?” chiedo meravigliata.
“Dal mio nascondiglio segreto” risponde porgendo il tutto a Chris, che non aspettava altro.
“Grazie, Meg. Però danne qualcuno anche ad Angie, l'astinenza dagli zuccheri non le sta facendo per niente bene”
“Ah-ah”
“E non solo quella da zuccheri”
“CHRISTOPHER!” gli urlo in faccia inseguendolo in giro per l'appartamento per picchiarlo, mentre lui scappa cercando di non far cadere succo e biscotti e, allo stesso tempo, usandoli per farsi scudo, e Meg ci osserva, piegata in due dalle risate.
“E dai scherzavo!” protesta lui guardandomi dall'altro lato del tavolo della cucina e cercando di capire come fare a scappare, visto che gli sto di fronte e gli blocco la via di fuga verso la porta.
“Scherzavi facendo una battuta stupida e maschilista!”
“E no! Stupida sì, maschilista no! Quell'astinenza lì fa uscire di testa tutti, mica solo a te perché sei donna”
“Piantala!”
“Dai, mi arrendo”
“Non aspetto altro” commento sfregandomi le mani.
“Non mi puoi torturare se mi arrendo, mi appello alla Convenzione di Ginevra!”
“Mi ci pulisco il culo”
“Ahahahahahah siete uno spasso, continuate vi prego!” Meg se la ride ancora dalla porta della cucina.
“E va bene, dai, ti chiedo scusa, Angie. Ho sbagliato e ti chiedo umilmente perdono, non lo farò mai più” Chris appoggia il nostro cibo sul tavolo, si porta una mano sul cuore e una in alto per fare questa sottospecie di giuramento.
“Ok”
“Oh grazie!” recupera tutto e si avvicina a me.
“Ti darò una sberla sola, molto forte” rispondo appena ce l'ho sotto tiro e lo prendo sul braccio.
“Ehi! Quelle erano due sberle, non una!” protesta mentre tutti e tre torniamo verso l'ingresso.
“Ops”
“Vorrà dire che quello che ti avevo portato lo terrò per me...” buttà lì distrattamente mentre tiene biscotti e succo con una mano in modo da avere l'altra libera per aprire la porta.
“Perché? Che mi hai portato?” spingo la porta e la richiudo di botto.
“Te l'hanno mai detto che sei inquietante a volte?” chiede serissimo.
“Allora?”
“Tieni un attimo:” Chris mi passa il bidone e il pacchetto di biscotti e si infila una mano all'interno della giacca di pelle “il postino deve aver sbagliato cassetta, non chiedermi come, visto che tra Cornell-Cameron e Pacifico non c'è nemmeno una lettera in comune. Non so da quanto tempo è-” tira fuori un pacchetto e capisco immediatamente di cosa si tratta. Ecco perché glielo strappo letteralmente di mano.
“Oh grazie Chris, lo stavo proprio aspettando!” esclamo ridandogli succo e biscotti.
“Che cos'è? E comunque di lettere in comune ce ne sono, due con Cornell e tre con Cameron. Come mai non gliel'hai fatto notare? La Angie che conosco gliel'avrebbe fatto notare eccome? Ma che cos'è?” Meg mi insegue, mentre vado prima sul divano, poi in cucina e infine in camera col pacchetto.
“Ehi! Non sono più interessante adesso? Nessuno s'interessa della mia felicità? Non mi abbraccia più nessuno?” Chris ci chiama in lontananza.
“No! Vai pure, grazie Chris!” gli rispondo mentre cerco di chiudermi la porta alle spalle, ma Meg infila uno strategico piede per bloccarla.
“Ok, tanto ormai il cibo ce l'ho. Ciao dolcezza, ciao Meg!”
“Ciao!” lo salutiamo in coro quando mi arrendo e faccio entrare anche lei nella mia camera.
“Ah e se lo senti, dì a Eddie che anche a me piacerebbe ricevere un regalino. Insomma, non è bello sentirsi trascurati” Chris ricompare tutto d'un tratto fuori dalla porta della mia stanza facendoci saltare entrambe sul letto dallo spavento, per poi andarsene come se niente fosse.
“E' un idiota” commento scuotendo la testa.
“Allora è questo che aspettavi! Che ti ha mandato Eddie?” la faccia di Meg si è trasformata di nuovo in quella dello Stregatto e so già che non potrò uscire da questa stanza senza aver prima aperto questo pacchetto davanti a lei, però ci provo lo stesso.
“Non lo so, dopo guardo, adesso è tardi” faccio per infilarlo in borsa e alzarmi, ma Meg mi tira di nuovo giù a sedere sul letto.
“Credi veramente di potertela cavare così?”
“Ehm no”
“Ok, allora muoviti, non abbiamo molto tempo”
“Ma se non abbiamo tempo...”
“Andiamo in macchina, così facciamo prima”
“Devo fare benzina”
“Prendiamo la mia. Dai, su!”
Mi arrendo e tiro fuori il pacchetto e finalmente lo osservo bene, finora non c'ero riuscita in tutto il trambusto. Carta gialla, il colore della follia, che mi riporta subito a una delle nostre prime conversazioni, su cui ha disegnato una cornicetta fatta di onde e scritto il mio nome e indirizzo a pennarello: la A appuntita e stretta, la N larga in orizzontale con le stanghette corte, la G tonda e arricciata, la I piccolissima sovrastata da un puntino invisibile e la E che si estende come una mano tesa. Non mi soffermo sulle altre lettere perché Meg sospira, incrocia le braccia e mi lancia uno sguardo eloquente come per dire 'E allora?'. Come mio solito apro il pacchetto cercando di non romperlo, ma allo stesso tempo cerco di fare veloce per non fare spazientire Meg. All'interno c'è un altro pacchettino più piccolo e una busta con su scritto 'LEGGI PRIMA QUESTO'.
“C'è anche una lettera, la cosa si fa interessante!” incrocio lo sguardo di Meg che mi rivolge un ammiccante occhiolino.
“Sarà una cassetta” seguo le istruzioni e apro la busta, non leggo ad alta voce, ma non ce n'è bisogno dato che Meg sbircia senza ritegno e io non ci provo neanche a nascondergliela:
Signorina Pacifico,
o avrei dovuto dire Sua Maestà? Mi sembra di vedere la tua faccia in questo momento e nella mia visione stai sorridendo. Questo perché hai aperto la busta prima di scartare il regalo, so che farai così, che rispetti sempre le regole e ti piace farlo. Se invece avessi deciso di stupirmi e sovvertire le regole e aprire per primo il pacchetto, probabilmente la tua espressione sarebbe un po' più corrucciata, per non dire incazzata, ma altrettanto gradita dal sottoscritto come visione. Ecco... questo è un regalo per te. E' esattamente l'1:01 di notte di venerdì 1 Febbraio. Alle 7 partiamo per la California e per l'inizio del nostro primo vero tour. Questo l'ho preso per te con un po' di coraggio 71 minuti fa. Volevo a tutti i costi che tu l'avessi come simbolo di questa notte, di questo momento, di quel QUI E ORA su cui sono tanto fissato e per cui tu mi prendi così deliziosamente in giro. Io ne ho una... tu ne hai una... siamo legati e siamo vivi. E ancora, che questo possa essere un simbolo anche di quello che siamo e che saremo. Con un altro po' di coraggio.
Con affetto, Eddie
“Cazzo” mormoro io, totalmente incurante di chi o cosa mi stia attorno.
“O. MIO. DIO.” scandisce Meg teatralmente “Questo è... è...”
“E' un coglione”
“Un cogl... come un coglione?” la mia amica mi sta probabilmente guardando con due enormi punti interrogativi al posto degli occhi.
“IO LO AMMAZZO” ringhio mentre strappo senza ritegno l'incarto del secondo pacchetto. E' una scatoletta, ne apro un lato e guardandoci dentro vedo una vecchia lampadina incrostata.
“Cos'è?” sono così sconvolta che non la tiro neanche fuori dalla scatola e la porgo semplicemente a Meg, alzandomi dal letto e cominciando a girare per la stanza prima e per casa poi, imprecando e ripetendo che non è possibile che uno sia così coglione. E non vedo l'ora di dirglielo dal vivo quanto è coglione. Con affetto, s'intende.
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“Quanto ci hai messo a capirlo?” chiedo a Jerry mentre mi metto in tasca i soldi che ho appena vinto.
“Che bluffavi? Eheheh cinque minuti, uno che è bravo a giocare a biliardo si riconosce, anche quando fa finta di essere una schiappa” risponde con la sua tipica risata, mentre riappende le stecche al muro.
Il fumoso bar di Los Angeles in cui siamo finiti è uguale ai tanti altri in cui siamo passati in queste sere e sarà anche l'ultimo della serie, almeno per il momento, perché fra poche ore partiremo per la mia San Diego. Altri posti, altri bar, altri tavoli da biliardo, altri volti vecchi e nuovi, stesso oceano. Non vedo l'ora. Gli altri sono andati via già da un pezzo e con altri intendo non solo i nostri rispettivi compagni di band, ma anche la gran parte dei clienti del locale.
“Però hai insistito lo stesso chiedendo rivincita e controrivincita”
“Non mi piace arrendermi senza combattere.” Jerry accartoccia il pacchetto di sigarette vuoto e ne tira fuori dalla tasca uno nuovo, aprendolo e offrendomene una prima di servirsi “Posso farti una domanda, Eddie?”
“Certo”
“E' una domanda del cazzo. Cioè, lo penserai sicuramente...” continua mentre prende l'accendino e accende la mia e la sua sigaretta.
“Mettimi alla prova”
“Nella mia posizione, è una domanda che non dovrei nemmeno fare, cioè-”
“Vuoi sapere di Angie?” gli chiedo senza tanti giri di parole appoggiando il sedere al tavolo da biliardo.
“Sì. Come... ehm, come sta?” ammette e poi, notando il mio silenzio, continua “Io ti avevo avvertito che era una domanda del cazzo”
“Sta bene”
“Gli esami?”
“Li ha passati, anche se non era soddisfattissima dei voti”
“Figuriamoci, perfezionista del cazzo” commenta sorridendo e scuotendo la testa.
“Comunque sta bene, poi, ecco, non so cosa vuoi sapere...” dire che mi sento a disagio a parlare di Angie con lui è poco. La situazione è imbarazzante, sto parlando con il chitarrista della band con cui siamo in tour, e con cui condividiamo i manager, della sua ex ragazza, che casualmente è quella che vorrei diventasse la mia ragazza.
“E' che, insomma, so che voi siete amici e magari vi sentite. L'hai sentita in questi giorni, no?”
“Sì, beh, un paio di volte per telefono” grandi amici io e Angie.
“Penserai che sono uno stronzo e che non sono affari miei”
“Non lo penso” lo penso eccome, ma non te lo dico perché mi faccio i film sulla tua ex e, anche se tu l'hai trattata di merda, non me la sento di infierire.
“Ma, che tu ci creda o no, anche se sembra assurdo, io ci tengo ad Angie e mi preoccupo per lei. E' anche per questo che la sto evitando, so che vedermi e pensare a me la fa ancora soffrire. E se la evito, non posso certo palarci e chiederle come sta e cose del genere, capisci”
“Capisco perfettamente, tranquillo. E non è poi così assurdo” certo che ti capisco, stavi con Angie e hai mandato tutto a puttane, è ovvio che ora tu ti senta in colpa.
“Mi fa strano perfino stare qui a parlare con te, che comunque sei suo amico e magari lei si è pure confidata e ti avrà raccontato tutte le cazzate che ho combinato e ora come ora vorresti solo prendermi a pugni” solo ora scrolla la sigaretta nel posacenere e io vorrei dirgli, per favore, Jerry, non darmi suggerimenti. E poi, sapessi quanto fa strano a me!
“Quelle sono cose vostre, io non mi intrometto, non voglio intromettermi” come se non ci fossi già dentro fino al collo.
“Beh ma ti avrà detto qualcosa, insomma, lei... ecco, lei parla di me? Ogni tanto? Non bene immagino” immagini bene.
“Sì, ma non di recente. Ovviamente sei saltato fuori in qualche discorso, ma non mi ha detto più di tanto”
“Ovvio, adesso esce col batterista, magari le serve per dimenticarmi più in fretta”
“Non esce col batterista, sono solo amici” non so neanch'io perché faccio questa precisazione, perché mi dà fastidio anche solo sentire che qualcuno pensi che stia con lui? Per consolare Jerry? Per illuderlo? Perché sono brillo? Perché sono masochista?
“Davvero? Ne sei sicuro?” Jerry spegne la sigaretta e si volta verso di me, interessatissimo alle mie rivelazioni.
“Questo è quello che mi ha detto lei, non vedo perché avrebbe dovuto mentirmi” adesso sono diventato anche lo spacciatore di gossip sulla vita di Angie.
“Bene. Cioè, bene, non che per me cambi qualcosa, s'intende! Era... era per dire” certo, per dire.
“Quindi non vuoi riprovarci con lei?” questa volta sono più diretto.
“Ahahahah riprovarci? Per farmi mandare al diavolo? Non credo proprio!” risponde fingendosi divertito e io non posso che tirare un sospiro di sollievo interno, che però mi si strozza in gola subito dopo “Almeno, non per ora”
“Per ora?”
“Beh, in futuro chissà. Per ora non è possibile, non avrei speranze, mi sono comportato troppo male e la cosa è ancora troppo recente. Ora come ora già il fatto di poter tornare ad essere suo amico mi sembra un'utopia”
“Amico?” ma che cazzo stai dicendo?
“Sì, vorrei essere suo amico, mi basterebbe quello. Che mi personasse e mi volesse come amico, tutto qui”
“Ma tu riusciresti ad esserle amico, solo amico? Riusciresti a vederla come un'amica?” non ci credo neanche se me lo giura sulla sua chitarra.
“Angie non sarà mai solo un'amica per me, ma questo non conta” appunto.
“Sì che conta, invece”
“Quello che vorrei è tornare nella sua vita come una persona positiva, uno che ha un senso, che non sta lì solo per ricordarle i suoi sbagli e farla soffrire, ma che nel suo piccolo può anche farla felice. Questo è quello che conta, non i miei sentimenti. Quelli li posso tenere a bada”
“Sicuro?” come hai tenuto a bada il cazzo quando ci stavi assieme?
“Più che sicuro. Quando stavo con lei pensavo solo a me stesso, anche quando la tradivo, pensavo a che casino sarebbe successo se mi avesse scoperto e vedevo tutto nero, ma solo per me. Immaginavo i possibili scenari in cui venivo scaricato e sputtanato e umiliato e non pensavo minimamente che una cosa del genere avrebbe fatto soffrire anche lei. Lo so, sembra stupido, ma davo per scontato che ci avrei rimesso solo io, che lei mi avrebbe fatto il culo e si sarebbe dimenticata di me il giorno dopo, pensavo che ci sarebbe rimasta male... ma non così male, non so se mi capisci”
“Scarsa autostima o egocentrismo?” o stupidità.
“Eheheh non ne ho idea”
“E quando avrà un ragazzo? O le piacerà qualcuno? Come la prenderai?” butto lì ipotesi del tutto casuali e senza alcun tipo di riferimento a fatti reali.
“Di merda, ovvio. Ma quello me lo terrei per me, anche perché non avrei diritto di dire un cazzo di niente. Potrei solo essere contento se lei è felice”
“Un'amicizia piuttosto masochista quella che ti si prospetta” sempre che stia dicendo la verità e non siano solo chiacchiere da bar.
“Eheh sì, decisamente. Però, non lo so, credo che per una come Angie ne valga la pena. Tu che dici?” mi sa che questo povero stronzo sta dicendo la verità.
“Io? Beh, sì, insomma è una ragazza in gamba” e io sono perdutamente innamorato di lei e anziché essere onesto e confessartelo, sto qui ad ascoltare le tue confidenze sentimentali favorite quasi sicuramente dall'alcol facendo finta di niente, come un cagasotto qualsiasi.
“Già. Scusa se ti ho tirato in mezzo comunque” mi mette una mano sulla spalla e fa segno di uscire dalla saletta del biliardo.
“Nah, figurati” scrollo le spalle e lo seguo.
“E scusa se ti ho tirato un pippone su Angie, Layne si è rotto il cazzo di sentirmi e non è certo un discorso che posso fare con gente come Mike o Sean. E poi l'alcol mi scioglie la lingua”
“Lo immaginavo, tranquillo, nessun problema”
“Ti offro un altro giro per farmi perdonare?” propone indicando il bancone del bar.
“Eheh no, grazie, preferisco tornare al motel”
“Di già? Guarda che è presto, anche se non sembra a giudicare dalla desolazione di questo posto”
“Sì, lo so, ma domattina partiamo all'alba e io ho assoluto bisogno di riposarmi un attimo, fare una doccia e chiamare un paio di amici” in quel paio di amici è compresa anche Angie, ma pure questo preferisco non dirlo al chitarrista, che si accomoda su uno sgabello del bar e mi augura la buona notte.
Quando raggiungo la mia stanza sono tentato di chiamarla subito, ma poi ci ripenso e vado prima a farmi la doccia, come se volessi presentarmi nel migliore dei modi a questo appuntamento telefonico. Quando esco dal bagno, però, trovo Jeff concentrato sulla replica di una partita di basket in tv e mi maledico per non aver fatto prima quella cazzo di telefonata. Esco con la scusa di comprare le sigarette, scusa che il bassista non avrà bevuto nemmeno per un secondo, e mi infilo nella cabina telefonica più vicina.
“Pronto” risponde la voce che aspetto di sentire da quattro giorni.
“Ehi, ciao An-” non faccio neanche in tempo a pronunciare il suo nome per intero.
“SEI TU, BRUTTO IDIOTA!”
“Ehm, tutto ok?”
“NO, NON C'E' NIENTE DI OK!”
“Che succede?”
“Succede che ho a che fare con un pazzo, ecco che succede. Come hai potuto fare una follia del genere? Ti rendi conto!” risponde abbassando leggermente la voce e finalmente unisco i puntini.
“Hai ricevuto il mio regalo” sorrido mentre infilo altre monete nel telefono.
“Dimmi che non ci sei andato sul serio, dimmi che è uno scherzo del cazzo”
“Beh...”
“Dimmi che hai rubato una lampadina da qualche vecchia insegna a caso e me l'hai spedita per vedere una mia reazione”
“Uhm se vuoi te lo dico, però...”
“NON CI POSSO CREDERE!”
“Ma non ti fa neanche un po' piacere?” comincio a sospettare che non sia stata proprio una grande idea.
“NO!” il sospetto si fa via via meno vago.
“Sono andato lassù per te”
“No, tu ci sei andato per te, per fare il Tarzan della situazione, quando io ti avevo chiesto espressamente di non farlo”
“Tarzan non si arrampicava sui grattacieli, al massimo il King Kong della situazione”
“Non ti mettere a correggermi sui riferimenti cinematografici, Eddie, non sei nella posizione di potertelo permettere al momento!” ribatte Angie dopo una lunga pausa molto drammatica.
“Scusa” quand'è che mi raggiungi? Ho in mente vari modi per farmi perdonare...
“Mi hai spaventata a morte, lo sai?”
“Come hai fatto a spaventarti se non sapevi neanche che ci ero andato? Quando l'hai saputo ero già sceso dallo Space Needle da giorni”
“Non lo so, sta di fatto che mi hai spaventata ugualmente!”
“Allora ti preoccupi per me?”
“Certo che mi preoccupo, specialmente ora che so che sei un folle!”
“E il messaggio? L'hai letto?” cerco di portare il discorso sulla parte più importante, il contenuto di quella cazzo di lettera.
“Sì, e-”
“Scommetto che l'hai letto per primo”
“Sì, l'ho letto per primo. Contento?” moltissimo.
“Abbastanza. L'hai letto e...?”
“E cosa?”
“Hai detto 'Sì, e...' poi io ti ho interrotto. Sì, e... che ne pensi?” non capisco, a volte ho idea che sia totalmente ignara dei miei sentimenti, altre volte ho l'impressione che mi tenga sulle spine apposta.
“... e penso che è stato un pensiero molto carino, ma che avrei preferito scegliessi qualcos'altro come simbolo della nostra amicizia, non so, qualcosa che si può trovare a meno di 160 metri d'altezza magari, tu che dici?” amicizia. Altro che sulle spine, la mia regina non ha proprio capito un cazzo.
“Mmm non so, non mi viene in mente niente”
“Una compilation su cassetta per esempio”
“Quella era la mia prima idea, poi me l'hai rubata tu. Ho dovuto arrangiarmi”
“Eheheh tu sei completamente pazzo Eddie, lo sai?”
Sì, di te.
“Ho avuto qualche sospetto qua e là, ma se lo dici tu ci credo”
“Come stai? Come vanno i concerti?” ride e mi chiede come sto, allora non è poi così arrabbiata.
“Bene, abbiamo suonato ieri a Long Beach ed è stato figo, c'era bella gente e la security era un po' meno rompicazzo di quella del Florentine”
“Il prossimo?”
“Domani, a San Diego”
“Ah, finalmente torni a casa!”
“Già, domattina partiamo prestissimo. Fosse per me partirei anche adesso, non vedo l'ora di surfare nella mia spiaggia preferita” rispondo inserendo un altro chilo di monete nell'apposita fessura del telefono.
“Eheh chissà perché, ma sapevo che avresti detto una cosa del genere”
“Sono così prevedibile?”
“Sempre, a parte quando ti metti a scalare lo Space Needle” Angie mi lancia un'altra frecciata, ma io faccio finta di nulla.
“Comunque il posto dove suoniamo è un locale dove praticamente sto di casa, ci ho suonato parecchie volte con le mie vecchie band. Il pacco è che poi lunedì sera suoniamo qui a Hollywood, quindi dobbiamo tornare indietro, però va beh, alla fine sono tre orette di macchina. Se non volessi bene a Kelly Curtis direi che chi ha organizzato queste date è un malato di mente”
“Quindi domani siete a San Diego, lunedì a Hollywood, e poi?”
“Poi mercoledì 12 siamo di nuovo a San Diego, a San Valentino siamo ad Oakland, dopodiché abbiamo un concerto a sera praticamente, San Francisco, Sacramento, poi non mi ricordo se c'era qualcos'altro qui in California o siamo già in Oregon”
“Capito, beh da domani si inizia a fare sul serio allora?”
“Eheh già, finora abbiamo scherzato con due concerti, ma la prossima settimana dobbiamo darci dentro”
“Sono sicura che andrà bene. Dopotutto, se hai scalato lo Space Needle, questo in confronto sarà una bazzeccola”
“Hai intenzione di rinfacciarmelo per molto?”
“Sì, dopotutto non è per questo che mi hai mandato quella lampadina? Come simbolo di quanto mi piace infierire su di te?” puoi infierire quanto vuoi...
“Anche. Tu invece, come te la passi?”
“Bene, dai. E c'è qualche novità, ma te ne parlerò quando ci vediamo”
“Che novità?” mi metto subito in allarme, saranno novità universitarie, lavorative o sentimentali? Ma poi queste novità deve averle proprio adesso che non ci sono?
“Quale parte di te lo dico quando ci vediamo non ti è chiara?”
“E quando ci vediamo?” chiedo speranzoso, domani a San Diego sarebbe la mia risposta preferita.
“Eheh quando tornate a Seattle”
“Mancano più di dieci giorni, sei sadica”
“Ti do un piccolo indizio: non mi sono arrampicata sullo Space Needle”
“Vaffanculo, Angie” dico con la stessa intonazione e lo stesso trasporto con cui le avrei detto ti amo. Anche se forse sarebbe stato più utile dirle Ti amo con lo stesso tono con cui l'avrei mandata affanculo.
“Ahah anch'io ti voglio bene, Eddie” o forse no.
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balletnocturnes · 5 years ago
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𝑨𝒕𝒕𝒐 𝑰𝑰𝑰
Sono trascorsi solamente 25 minuti da quando Jongin è entrato in quell’aula maledetta eppure pare a tutti che sia lì dentro da una settimana. I suoi compagni, tutti attendono impazienti il momento in cui il ragazzo farà capolino dalla classe per tartassarlo di domande e chiedere qualche consiglio, anche Sehun che di solito riesce a far fronte alla tensione con la spavalderia, adesso se ne sta accovacciato sulla panchina in corridoio guardando infastidito l’orologio sulla parete intonacata che ticchetta incessantemente. D’un tratto la maniglia della porta si abbassa e poco dopo il viso provato di Jongin un stanco ma soddisfatto fa capolino. I compagni esplodono in un fracasso fragoroso e velocemente lo accerchiano e lo abbracciano, facendo sballottare lo sventurato da un paio di mani all’altro. Anche Sehun come Jongin, a cui è incollato, sorride spensierato e gli passa una mano fra i capelli sudati, scompigliandoglieli amichevolmente. All’improvviso tutta l’ansia e la tensione che si potevano respirare e tagliare con il coltello parevano essere svaniti nel nulla. E’ come se Jongin avesse fermato il tempo, donando un attimo di tregua ai suoi compagni. A differenza di loro Jongin non riesce a credere di essere stato dentro così a lungo ed insistentemente scuote la testa ridacchiando mentre ascolta i commenti e le battute degli altri. Dopo qualche istante la figura ossuta e fredda dell’insegnante si fa nuovamente presente, dritta in piedi sullo stipite della porta e con unp dei suoi soliti colpi di tosse stizzito richiama gli studenti all'ordine, chiamando un altro nome. “Monsieur Oh, tocca a lei”. Sehun drizza rigidamente le spalle e prima di sparire dietro la porta lancia un’occhiata a Jongin che ricambia il suo sguardo con un sorriso rassicurante ed una stretta appena più serrata, per poi lasciarlo andare fra le grinfie della strega che serra nuovamente il portone di legno con un tonfo. Chanyeol è poco distante, appoggiato al muro con le braccia incrociate ed una gamba piegata, premuta sulla parete. Con sguardo serio ma sollevato osserva Jongin venire accolto dai suoi compagni ed il cuore gli sembra essere diventato improvvisamente più leggero, svuotato da un peso che nemmeno lui pensava di avere. Un professore passa per il corridoio ed esorta gli studenti a non fare chiasso, così gli ultimi festeggiamenti per il successo di Jongin vengono subito messi a tacere. Il minore è visibilmente distrutto e con un piccolo cenno del capo saluta gli altri per andare verso Chanyeol che, silenzioso, lo attende alla fine del corridoio. Lo sguardo con cui accoglie il minore è impassibile, come quello di una statua e non lascia trapelare la violenta agitazione e felicità che prova nel vederlo. Jongin gli lancia un’occhiata, quasi a voler sbirciare la sua reazione e velocemente riabbassa lo sguardo con aria quasi affrante. Chanyeol prende a camminare dietro di lui e non capisce perché ma vedere gli occhi scuri del minore spegnersi appena dopo averlo guardato lo fa stare un po’ male, come se un piccolo nodo gli impedisse di respirare bene. Non ha senso, ma osservare Jongin ora, gli fa venire un’irrimediabile voglia di abbracciarlo e dirgli che è stato bravo, anzi bravissimo. Vorrebbe poter vedere il suo sorriso soddisfatto ancora una volta e magari, un giorno, essere lui stesso il motivo di quel sorriso. Stupidaggini, solo stupidaggini. Con un cenno del capo spazza via quei pensieri e con un colpo di tosse scorte il minore attraverso le aule. Per quanto gli dolga ammetterlo Sehun ha ragione, Jongin è soffocato da lui, intrappolato ovunque vada e Chanyeol ne è complice e colpevole. Probabilmente Jongin lo odia e non avrebbe tutti i torti, Chanyeol non ha fatto altro che ostacolarlo fin dal primo giorno in cui si sono conosciuti senza mai esprimere la minima emozione di fronte a lui. Come potrebbe mai provare qualcosa per lui se non il rancore?  Jongin tiene lo sguardo basso e cammina al suo fianco, tamponandosi il sudore con un asciugamano di spugna bianco e soffice mentre entrambi attraversano i corridoi ampi dell'edificio che si fanno a mano a mano più bui e silenziosi. Non vola nemmeno una parola fra i due, nemmeno un sospiro, eppure Chanyeol ne avrebbe dentro di cose da dire, parole a miliardi pronte ad esplodere da un momento all’altro. Vorrebbe sapere com'è andata, chiedergli cosa ha provato, se si è sentito solo in quell'aula fredda e desolata sotto gli occhi di quella megera o se invece si è sentito libero di potersi esprimere e danzare, se ha pensato a lui, se lo ha cercato fra la carta da parati e le tende o se invece non ha pensato a niente che non fossero quelle note dolci. Chanyeol è un vulcano anche se fuori il suo aspetto non si scompone minimamente se non per lo sguardo che a tratti vacilla fra la moquette bordeaux che ricopre il pavimento e la figura al suo fianco. Anche uno come lui, uno che non ha mai timore di niente adesso ha paura a parlare con Jongin, quasi avesse il pensiero di ferirlo o di infastidirlo. Il prigioniero viene finalmente riaccompagnato nella sua prigione con un cenno di ringraziamento da parte del minore che sparisce dietro la porta bianca in un attimo, per poi spogliarsi ed infilarsi velocemente sotto la doccia bollente. Chanyeol rimane invece davanti alla sua porta ancora per qualche minuto, incapace di muovere anche il minimo passo. Si sente improvvisamente pesante eppure vuoto, triste, stanco, pensieroso, sono troppe le cose che prova, troppo articolate e scompagnate per avere un senso vero e proprio, così rinuncia a pensarci, passando una mano fra i capelli scuri per pettinarli indietro. Pochi passi ed eccolo nuovamente nella sua camera, una stanza sontuosa, forse troppo per uno come lui abituato a posti ben più umili e privi di tanti comfort. Qua e là sono sparsi i vestiti sporchi e quelli non ancora stirati, tutti monocolore, tutti estremamente tristi. Sul tavolo una bottiglia mezza vuota di un qualche liquore dall'odore nauseante e più avanti un letto matrimoniale pomposo di un bianco sgargiante e acceso con la testiera intarsiata con figure ondulate e morbide e su di esso la trapunta e le coperte color avorio completamente disfatte e aggrovigliate. La luce è soffusa, calda, e dà quasi la sensazione di trovarsi in una casa, la casa di sempre, quella di famiglia. Chanyeol sfila via la giacca di tweed grigio scuro che ricade pesante su una poltroncina bombata, posta ai piedi del letto, e con un passo che pare essere fatto nel vuoto più assoluto sprofonda fra le lenzuola con un tonfo sordo. Le occhiaie sottolineano la sua stanchezza che non è data solo dai ritmi serrati e disumani a cui deve sottostare per poter controllare Jongin giorno e notte, ma più che altro è causata da quel fastidioso ronzio che sente costantemente nella testa, quel continuo pensare, meditare, scervellarsi. Chanyeol si gira fra le coperte morbide e, occhi al soffitto, rimane lì sdraiato in silenzio. Perchè mai gli importava tanto di Jongin, poi. Era per lui solo un cliente, niente di più. Un lavoro facile, fin troppo semplice. Fin dall'inizio non aveva capito bene il motivo di quella grande preoccupazione da parte dei genitori. Gli pareva più una paranoia, un vezzo da ricchi che hanno tempo e soldi da sprecare. Alla fine quelle erano state solo le parole di una pazza qualunque. Chanyeol le conosceva bene quelle persone, pronte a vendere l’anima per un po’ di soldi facili e veloci. E poi, a ragionarci un po’ uno si sarebbe accorto che non c'era mai stato un problema a parte le piccole fughe innocenti del minore. Perchè darsi tante preoccupazioni, per un paio di frasi dette con aria apocalittica, per due carte uscite a caso. Chanyeol proprio non riusciva a capire, ma alla fine a lui bastava avere i soldi in fondo al mese ed un posto dove stare. Anzi, tutto sommato non gli dispiaceva affatto essere finito lì anche se si sentiva completamente fuori posto. E non era tanto l'atmosfera di ricchezza spocchiosa e buone maniere a farlo sentire un pesce fuor d'acqua, quanto gli sguardi fastidiosi degli studenti e dei professori che non mancavano mai di squadrarlo dall'alto in basso con la puzza sotto al naso. Chanyeol li detestava dal primo all’ultimo, ma dopotutto c'era abituato e, dopo anni, aveva imparato ad ignorarli. Eppure l'unico che non riusciva a farsci scivolare addosso era proprio Jongin. C'era qualcosa in lui, non sapeva dire esattamente cosa, ma quel qualcosa era diverso, unico, una cosa mai vista prima. Una cosa che lo teneva ore incollato a lui, una sorta di energia, quasi una questione di chimica, una forza che lo attraeva a lui e lui soltanto. Era come se Jongin emanasse un'aura di assoluta bellezza e non bellezza puramente estetica ma bellezza d'animo, la sensazione di star guardando un'opera d'arte, una di quelle che ti lasciano a bocca aperta e ti annientano davanti alla loro grandiosità, facendoti sentire piccolo piccolo al loro cospetto. E Chanyeol non era certo l'unico a subire questa sorta di gravità, ognuno, per quanto alcuni si rifiutassero di mostrarlo o ammetterlo, era attratto da lui. Jongin era luce pura, bianca e limpida e a guardarlo danzare leggero si veniva investiti da quella luce. Era così che si sentiva Chanyeol, evanescente, ad un passo dal paradiso, proprio lui, il peggiore dei diavoli, aveva visto la perfezione più sacra e più pura, forse la cosa più vicina al divino. Ed era come una droga, come l'alcol, di cui non poteva fare a meno. Di più, ne voleva di più ogni volta, voleva quasi esserne consumato completamente fino quasi a distruggersi. Avrebbe smesso anche di bere se quello avesse significato poter vedere Jongin danzare all'infinito. Quei pensieri si affollano numerosi e vorticosi nella mente di Chanyeol che a poco a poco chiude gli occhi e si lascia andare alla propria mente, addormentandosi lentamente.
Dall'altra parte del muro Jongin è seppellito sotto chili di coperte, il corpo rannicchiato stretto attorno ad un cuscino pesantemente stropicciato. I capelli sono ancora leggermente bagnati e qualche ciuffo più mosso ed indisciplinato ricade ai lati del suo viso, dandogli un'aria più giovane ed innocente. Esattamente come Chanyeol anche Jongin sta dormendo, completamente esausto dopo la giornata appena trascorsa. Non sono passate nemmeno due ore da quando Jongin si è infilato sotto le coperte che il telefono vibra fra le lenzuola, illuminandosi. Jongin storce il naso ed aggrotta le sopracciglia, stringendo impulsivamente il cuscino fra le dita. Pochi secondi ed un altro paio di vibrazioni disturbano il suo sonno, facendogli aprire gli occhi di punto in bianco. Ancora con la testa nel mondo dei sogni, il minore allunga una mano verso il cellulare che afferra e porta vicino al viso sfoggiando una smorfia contrariata quando la luce accecante dello schermo lo investetro senza troppi complimenti.
" Jongin. .."    (1:05)
" Sei sveglio ??" (1:06)
" Jongin !!!!!!! SVEGLIATI." (1:09)
"Muoviti, ti aspetto giù all'entrata, poi ti spiego." (1:10)
"Ah, cerca di non farti seguire dal tuo gorilla.." (1:10)
Oh Sehun. Possibile che quel ragazzo fosse sempre attivo? Jongin lascia che uno sbuffo infastidito gli sfugga dalle labbra lievemente arricciate, mentre con le dita digita un veloce e seccante "Arrivo !". Fortunatamente non era riuscito a trovare il pigiama di cotone, gettato chissà dove in quel marasma di camera e quindi si era appisolato con i primi vestiti puliti che aveva trovato. Un problema in meno, un problema non da poco per Jongin che ancora con gli occhi gonfi scende dal letto goffamente. Sempre fortunatamente, era riuscito a riposare abbastanza bene ...fino a quando aveva potuto farlo, per lo meno. In realtà, i problemi veri erano ben altri per Jongin, tipo il “non farsi seguire dal gorilla”. Come se fosse semplice, sfuggire a Chanyeol. Quello era un professionista e, inutile mentire, Jongin lo temeva il più delle volte. Aveva come l’aria di uno che di cose ne aveva viste e che non avrebbe esitato un attimo a nascondere un cadavere ucciso così su due piedi. Buttando giù un po' di saliva, butta giù anche il groppo che ha in gola ed in punta di piedi si avvicina al muro che lo separa dal più grande. Di solito Jongin riusciva sempre a sentire cosa faceva l'altro e ogni tanto sghignazzava maligno quando lo sentiva sbattere qua e là o cadere dal letto al mattino. Orecchio poggiato sull'intonaco freddo, Jongin non percepisce alcun rumore se non per un lieve sussurare, anzi no, respirare. Probabilmente Chanyeol doveva essere crollato esattamente come lui e a quel pensiero, il cuore del più piccolo pare stringersi appena, sentendosi mortificato. Dopotutto anche lui era umano ..e presumibilmente distrutto quanto o più di lui. Un'occasione più unica che rara per scappare. Subito corre verso la porta, afferrando un cappotto ed un paio di scarpe belle imbottite e calde, per poi precipitarsi in corridoio. Sente il cuore battergli freneticamente in gola e fino alla punta delle orecchie che si tingono di un leggero color rosso, non tanto per la velocità con cui si abbatte sulle scale di marmo bianco venato di nero, ma più per l'adrenalina che gli scorre in corpo e nelle vene all'idea di essere finalmente e completamente libero. Nell'atrio Sehun lo sta aspettando, bardato da capo a piedi con tanto di guanti e cappello. Jongin non ha fatto in tempo nemmeno ad abbottonarsi il cappotto ma non gli importa, va bene così, ed afferrato il più piccolo per il braccio, corre verso il pesante portone all'entrata sghignazzando a più non posso col compare. L'aria è gelida, glaciale e qua e là si sono già posati i primi cumuli di neve bianca. Jongin non l'ha mai vista dal vivo e ne rimane ora abbagliato, completamente incantato ma Sehun ha altri piani per la serata e strattonandolo lo tira via con sé verso un taxi giallo su cui i due salgono per poi sparire nel viale alberato dell'accademia.
Jongin non può crederci, ci è riuscito davvero. E' riuscito a volare via libero, anche se solo per qualche ora, anche solo per una notte. Si sente così felice, così energico da non percepire nemmeno il freddo di quella sera polare, anzi, potrebbe quasi mettersi a ballare lì su quei sedili di pelle consumata senza pensarci due volte. Sehun lo guarda ghignando felice, non ha mai visto l'amico così raggiante. E' ora di festeggiare. E' ora di divertirsi. Entrambi hanno passato il loro primo esame ed ora è arrivato il momento della meritata ricompensa. Qualche minuto più tardi il taxi li scarica in città, davanti ad un locale insolito. Le luci viola e fucsia dei neon sono brillanti, tanto da disturbare se fissate troppo a lungo e la musica trapela ovattata dalle pareti esterne e dalla porta nera che lascia intravedere un ambiente vivo e colorato da due piccoli oblò. Jongin non riesce ad aspettare un attimo di più e subito si fionda all'interno, seguito dal più piccolo che lo spinge al centro della pista. L'ambiente è piccolo, più di quanto uno potesse immaginare e l'unica sala che c'è è drammaticamente affollata, tanto da non riuscire a passare senza pestare qualcuno ed essere pestato a sua volta. A differenza del giardino dell'accademia, qua la temperatura è uguale all’inferno e subito una leggera patina di sudore si forma sul viso di Jongin che scivola via dal suo cappotto, gettandolo da qualche parte in uno sgabuzzino all’entrata. Dopo qualche spintone, i due fuggiaschi riescono a raggiungere un gruppo di amici che li saluta con tutti i doverosi urli e schiamazzi ed è in quel momento che per Jongin inizia la festa vera e propria. La musica pompa nella vene e l'alcol scorre a fiumi, le ragazze non mancano di certo e il corpo di Jongin sente un'irrimediabile voglia di gettarsi in pista e ballare, danzare fino a morire. I drink profumati scendono giù che è un piacere e a poco a poco l'alcol prende il sopravvento, arrivando alla testa. Jongin si sente strano, è come se niente si fermasse e tutto intorno a lui corresse frenetico e veloce, le facce, le grida, le risate, la musica, le luci. Sono tutte mischiate e confuse e lui, lui non smette di ridere e danzare, sbattere addosso a corpi sudati quanto e più del suo ed è divertente. E' immensamente liberatorio potersi divertire senza pensieri. Sentirsi vivo, normale, almeno per una volta. Jongin è assuefatto da quella sensazione e ne vuole di più, trangugiando senza pietà un bicchiere dopo l'altro di quel nettare prezioso, una pozione magica di cui non vuole fare a meno.  
Le ore passano e i bicchieri si svuotano fra tintinni e risate. Il tempo pare quasi non esistere fra quelle mura e anche le preoccupazioni sono rimaste fuori dalla porta con gli oblò, al freddo fra la neve che scende lenta e delicata. Sehun e Jongin sono ormai completamente ubriachi e forse per Jongin è pure la prima volta, non lo sa. Non sa più niente ormai, nemmeno come si chiama. E' completamente sudato e stranito, sdraiato su uno dei divanetti bordeaux della discoteca col fiatone, insieme al compagno. Sehun allunga improvvisamente una mano verso la tasca dei pantaloni, cercando freneticamente il cellulare. Lo afferra ed osserva l'orario proiettato sullo schermo: 4:28.  Fottuti, sono stramaledettamente fottuti. Il più piccolo scatta velocemente in piedi, iniziando a zampettare sul posto come su un letto di braci. 
"Jongin, cazzo, Jongin …! Siamo nella merda ..cazzo, lo sapevo ..Non ci sono più bus, né taxi …"
"Come cazzo facciamo, Jongin...? Jongin....................? Non dormire, cazzo !" 
Jongin è probabilmente più di là che di qua e non smette di osservare l'amico ubriaco che si agita, schernendolo con un risolino stupido e senza senso.   "Andiamo a piedi...." commenta il maggiore con un piccolo singhiozzo e in quel momento pare aver detto la cosa più intelligente del mondo perché Sehun lo guarda come se avesse appena scoperto l’America.  "Cazzo hai ragione" sbotta sboccato il minore e con uno strattone fa alzare Jongin, il quale non ne vuole sapere di stare in piedi da solo. La musica è ancora assordante ma le persone sono diminuite. Ora si riesce a camminare senza urtare contro nessuno, anche se entrambi non riescono a stare dritti e quindi finiscono per urtare comunque qualcuno fra un passo e l’altro. Jongin corre verso l'entrata, incespicando sui propri piedi ed invano cerca il proprio cappotto, perso chissà dove, mentre Sehun lo spinge fuori a forza.  L'accademia è distante, forse troppo per due che non sanno nemmeno da che parte muoversi eppure a poco a poco si incamminano mentre fuori la neve scende silenziosa, avvolgendoli. Non ci vuole molto prima che Jongin inizi a sentire freddo, anche se le sue sensazioni sono tutte modificate. E' come se fosse dissociato dal proprio corpo, come se quello che vedesse non gli tornasse. Vede un paio di mani, color rosso violaceo, eppure non gli sembrano le sue e anche i piedi, che continuano a camminare nella neve,  non sono i suoi ..o lo sono ? Wow, gli sembra tutto così magico e poetico nonostante la sua temperatura corporea stia scendendo drasticamente e il viso si colori a poco a poco di toni più pallidi. Jongin non riesce a smettere di ridere e sghignazzare mentre Sehun cammina al suo fianco tirando su col naso e borbottando incessantemente qualche imprecazione.
L'accademia tace immersa in un sonno profondo ed i corridoi non sembrano nemmeno gli stessi del giorno precedente, completamente affollati e costantemente brulicanti di persone. Chanyeol apre gli occhi all'improvviso e con respiro affannato trasale, saltando giù dal letto. Gli sembra di aver dormito un'eternità, come se fosse caduto in un sonno profondo uno di quelli da cui non ci si può risvegliare, come nelle favole. La stanza è sottosopra, esattamente come l'ha lasciata la sera prima quando è crollato fra le lenzuola. Anche l'abat-jour è ancora accesa e di fianco ad essa la sveglia proietta l'orario giusto. 5:30, a momenti Jongin si sarebbe svegliato e un’altra giornata di duro lavoro sarebbe iniziata. Meglio darsi una rinfrescata. La figura snella e longilinea si trascina pesantemente verso il bagno e mentre si sciacqua il viso con l'acqua calda sente dall'altra parte del muro la sveglia del minore suonare con il suo inconfondibile rumore fastidioso e pungente. Chanyeol soffoca una piccola risata, pensando alla smorfia infastidita del più piccolo che forse adesso si sta svegliando di soprassalto, proprio come lui. Eppure c'è qualcosa che non torna. Quella sveglia non smette di suonare e sì, è capitato a volte che Jongin dormisse talmente profondamente da non sentirla, ma non così tanto, non così a lungo. Qualcosa inizia a puzzare e  Chanyeol inizia a percepire come una sensazione fastidiosa che gli pizzica il naso e che lo fa sentire sulle spine, un brivido lungo le braccia che gli dice che forse è meglio andare a controllare. Un triste nero cambio d’abito dopo Chanyeol è fuori dalla camera e con una manciata di passi la sua figura è davanti alla porta candida dell'altro su cui la propria ombra scura si estende. Una mano si posa sul legno sottile e delicatamente bussa, mentre la sveglia continua a suonare precisa e seccante. Niente, nessuna risposta. Quell’assenza di risposta e la sensazione fastidiosa insieme ai brividi si fanno più frenetici finchè Chanyeol non resiste più e decide di entrare, quasi sfondando la porta. "Jongin !" esclama con la voce bassa e roca e il cuore gli pare quasi potergli schizzare via dal petto alla vista delle lenzuola vuote. Chanyeol sprofonda nel terrore e con fare quasi violento inizia a ribaltare la stanza sottosopra, lo cerca, lo cerca ovunque e lo chiama a gran voce ma Jongin non risponde come svanito nel nulla. Ed è la sensazione più brutta del mondo, Chanyeol si sente completamente perso e si vede sprofondare nel pavimento, mentre il panico si impossessa di lui, facendolo correre nei corridoi bui e freddi della scuola mentre urla il nome di Jongin invano. Il senso di colpa si fa sempre più imponente e lentamente il ragazzo sente un groppo formarsi nella gola, gli occhi che bruciano arrosati. Jongin non può essere andato lontano, non deve essere andato lontano. Non saprebbe dove andare, con cosa poi, con chi. E poi ha lasciato tutto lì. E se qualcuno lo avesse rapito? Se la profezia fosse stat vera e Chanyeol fosse stato troppo ottuso e stupido per crederci ? Mille pensieri iniziano ad angosciarlo, soffocandolo e quasi in preda alla pazzia, il ragazzo si getta fuori dall'edificio, venendo investito dall'aria gelida del mattino e da un manto candido che ricopre tutto, mutando il paesaggio. Chanyeol corre, corre a più non posso, non sa nemmeno dove, ma sente che è la cosa giusta da fare. Corre e cerca indizi, delle impronte, dei vestiti, qualcosa che lo porti da Jongin. Non vuole arrendersi per niente al mondo e deciso, sfreccia fra le siepi e le aiuole completamente bianche, procedendo spedito, dritto di fronte a sé finchè non raggiunge il cancello principale. Un portale d'oro zecchino così alto da far invidia a Versailles. Lì gli pare di vedere qualcosa, anzi, qualcuno al di là della foschia e pare che quel qualcuno lo stia chiamando, quasi come se cercasse la sua attenzione sbraitando a più non posso. Chanyeol riprende a corre ancora più veloce di prima finchè non lo raggiunge e non scopre l'identità di quella misteriosa figura. Sehun, dall'aspetto quasi cadaverico ed emaciato è avvinghiato alle sbarre della cancellata chiusa a chiave da un mastodontico lucchetto di ferro vecchio, pesante, talmente pesante da richiedere un ingente sforzo anche solo per spostarlo. Chanyeol lo squadra da lontano mentre rallenta ed aggrottando lo sguardo si avvicina a lui. L'espressione di Sehun cambia, muta in più nuances, tutte estremamente eloquenti e nessuna di queste che prometta qualcosa di buono. Chanyeol è stranito da quella situazione ma non riesce a trattenere un ghigno soddisfatto nel vedere l'altro in una situazione che pare a dir poco dispiacevole, se non del tutto pessima. Al contrario il più piccolo rimane in silenzioso, con le mani violacee ed esangui strette al cancello, mentre raccoglie tutto il coraggio che ha in corpo per farfugliare una richiesta di aiuto a denti stretti. Chanyeol è stramaledettamente tentato di fare retro front ed andarsene, lasciando quello spocchioso viziato nei casini in cui pare essersi messo da solo, ma sa che alla fine le grane sarebbero tutte per lui e poi, magari potrebbe tornargli utile nella ricerca di Jongin. Con una smorfia tra lo schifato e l'infastidito osserva il minore e poi il lucchetto rugginoso. Un lavoro un po’ complicato per cui Chanyeol avrebbe bisogno di almeno qualche ferro, ma Sehun pare mettergli fretta e così, estremamente scocciato, Chanyeol si ritrova a dover improvvisare il prima possibile. Con un sasso appuntito e pesante il più grande si scaglia addosso a quel ferro vecchio che dopo un paio di colpi ben assestati molla la presa, cadendo a terra completamente fracassato. Con dei gesti veloci riesce ad aprire un varco quanto basta per uscire e gettarsi furioso addosso a Sehun così da afferrarlo per i lembi della camicia e guardarlo negli occhi. Non sa perchè ma ha la fastidiosa sensazione che Sehun c’entri qualcosa con la misteriosa scomparsa di Jongin e vuole indagare a fondo fino a scoprire la verità. Al contrario, il minore pare avere una fretta sempre più pressante ed allungate le mani verso di lui le afferra, stringendole, mentre con aria preoccupata lo tira via, strattonandolo come ad intimarlo di seguirlo. Chanyeol non capisce ma lo segue senza dire una parola fino a raggiungere un cumulo di vestiti un po' più in là. Sehun molla la stretta e velocemente si inginocchia verso Jongin, disteso su un mucchio di neve. Chanyeol sente il sangue gelarsi nelle vene alla vista del minore completamente privo di sensi e subito si getta su di lui per chiamarlo con voce graffiante, quasi ad un passo dalle lacrime. Senza pensarci due volte lo solleva di peso prendendolo in braccio e con gli occhi pieni di terrore lo scruta senza pace. Jongin è completamente congelato e debolmente lascia ricadere la testa sulla spalla di Chanyeol, sfiorando il suo collo con la fronte velata dal sudore. E' assurdo pensare una cosa del genere ma anche in quella situazione Jongin pare etereo, bellissimo nonostante il colorito smorto e pallido. Chanyeol lo stringe forte a sé come a volerlo proteggere e riscaldare nonostante la fronte del più piccolo scotti in maniera assurda e in quel momento gli occhi del più grande si fanno umidi. Chanyeol sente il proprio cuore colmarsi, un po’ per l’apprensione, un po’ per la gioia. Lo sente battere, pompare sangue che ribolle sotto pelle. E’ preoccupato, estremamente preoccupato, eppure è felice, contento di aver ritrovato il suo tesoro perduto: Jongin, che ora trasporta all'interno dell'edificio, seguito da Sehun che tira su col naso a testa bassa, mentre cammina con lo sguardo mortificato e l'aria di qualcuno che si sta dannando per l'eternità.
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pangeanews · 6 years ago
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“Mussolini? Ha il fascino del conturbante, è un esorcismo, è un piacere pornografico”: dialogo con Mario Baudino
Il gioco narrativo, qui, è di elusioni e di evasioni, una lenta prigionia di specchi, dove la Storia è un’ombra e la verità ha il nitore del miagolio. Nell’estate romagnola di un paio di anni fa – mai anonima e uguale a se stessa, nonostante la monotonia agostana – s’accese il giallo: da un fausto albergo riccionese (a Riccione, ricordo ad uso dei turisti, c’è ancora la villa, alla foce di viale Ceccarini, in cui soggiornò a lungo il Duce, Lui, Benito Mussolini, lo ricorda Giorgio Bassani, romanzando, ne Gli occhiali d’oro) un ignoto Mandrake si portò via il fatidico violino di Mussolini. Così titolava il Resto del Carlino – pare d’essere nel pieno degli anni Trenta – “Riccione, rubato da un hotel il violino di Mussolini. Lo strumento apparteneva a un albergatore riccionese: ‘L’avevo comprato da suo figlio’”. Questa è la realtà dei fatti: ignoro quanto abbia lavorato nella testa di Mario Baudino, un panda del giornalismo culturale – nel senso che è tra i rarissimi specialisti in quel ‘genere’, autore, per altro, di saggi di raffinata sapienza, come Il Gran rifiuto, Ne uccide più la penna, Lei non sa chi sono io – nato come poeta – nel 1978, nella culla de La parola innamorata, antologia epocale edita da Feltrinelli per la cura di Pontiggia+De Mauro; l’anno scorso Aragno ha pubblicato una rassegna di “Poesie scelte” con il titolo La forza della disabitudine – ed evoluto come romanziere (cito, almeno, Per amore o per ridere e Lo sguardo della farfalla), l’evento di cronaca. Fatto è che Il violino di Mussolini (ergo: “Una storia grossomodo s’amore”) è il titolo del suo ultimo romanzo, stampa Bompiani. In questo caso, però, Mussolini – ma anche il fascismo e perfino il violino, noto strumento imbracciato dal demonio – è un sugoso preteso per un ‘giallo’ bibliofilo e catastrofico – ma non catastrofista – che ha per oggetto un libro (La catastrofe del Duce, appunto) dedito a raccontare la vera morte di Mussolini, disintegrato dal “piombo dell’inglese” mentre suona il fatal violino, in un estremo singulto teatrale. Il punto, però, non è il fascino ineluttabile del fascismo – che tanta fortuna adduce all’editoria patria, oggi – ma la vivacità della narrazione, nell’oggi, lieve, ironica, fantomatica, che sonda la palude politica e la tracotanza dei potentati, consapevole che “le cose della vita non sono mai particolarmente originali” (ma poi diventano originalissime) e che “tutti noi non siamo altro se non libri rilegati in pelle umana”, come diceva Manganelli. Un valzer di frasi, un balzo fulmineo, una battuta: i romanzi a volte possono avere la freschezza del vento, e una certa gioia, un poco rétro, un tanto salutare. (d.b.)
Domanda al giornalista (e dunque allo scrittore). Mussolini, per così dire, ha un successo editoriale pimpante. Se si scrive del Duce e del fascismo, E uno spietato fascino coglie i lettori: come mai?
Mussolini e la sua corte sono sempre stati popolari, dal primissimo dopoguerra: pensa ai falsi diari, o a come le riviste più diffuse hanno scavato costantemente su misteri, amori, traffici vari. Ho l’impressione che rappresenti in qualche modo l’inconscio della Nazione. In caso contrario, che senso avrebbero a tanti anni di distanza i neofascisti parati a lutto, con gagliardetti e saluti romani? Ha il fascino del conturbante. Ingenera sempre il sospetto, nel lettore, che “di te fabula narratur”. È nello stesso tempo un esorcismo e un piacere pornografico. Detto questo, mi chiederai perché ho la faccia tosta di evocarlo nel mio libro…. Potrei risponderti che non ho nulla contro la pornografia.
Nel tuo romanzo. Mussolini, in fondo, è un pretesto per una indagine biblio-mantica. I libri sono i protagonisti del libro, mi pare, le prime edizioni di Corazzini, “cimeli introvabili”, l’apoftegma di Manganelli per cui “tutti noi non siamo altro se non libri rilegati in pelle umana”. Insomma, il romanzo come omaggio al libro, al collezionismo, ai cacciatori di libri: è così?
Infatti. Nel Violino di Mussolini, lui, il mascellone, c’entra e non c’entra. O meglio, c’entra come caricatura di un mondo. È un romanzo che – divertendosi e cercando di divertire – parla di libri, e del venire dopo milioni di libri, e di essere impastato di libri. I libri sono la nostra carne, non solo per quel c’è scritto, ma proprio per quel che “sono”.
Quando, dove, come ti è sorta in testa l’idea del Mussolini neroniano, ucciso dal “piombo dell’inglese” mentre suona il violino, Nerone redivivo? Ma, poi, Mussolini sapeva davvero suonare il violino (magari come il diavolo, da mancino)?
Ho fatto un po’ di ricerche, al proposito. La mia conclusione è che non si sa bene come suonasse. Gli agiografi scrissero che era un fenomeno, gli oppositori che era uno strazio. Certo, considerando i molti impegni che aveva – portare un Paese al disastro è un lavoro, mica si può fare nei ritagli di tempo – è difficile pensare a lui come un bravo musicista. Anche i diplomati di conservatorio, se poi si dedicano ad altre attività, tendono a perdere la mano. Nulla toglie che fosse un passabile dilettante.  Ma non è questo che mi interessava. Avrei potuto costruire la storia anche partendo da un qualsiasi altro cimelio. Il violino, per le sue risonanze letterarie, mi piaceva e mi affascinava – in fondo come osservi giustamente c’è di mezzo anche il diavolo: e dunque perché non Nerone? Non in quanto redivivo, né tantomeno in quanto probabilmente calunniato (da Svetonio) ma in quanto simbolo di un passato imperiale, della romanità di cartapesta esaltata dal Regime. E poi perché a me Nerone è stato sempre simpatico (al contrario del Batrace o Giuda imbombettato che dir si voglia, eredoluetico e primo maresciallo del cacchio, tanto per citare Gadda: anzi, se non suonasse come un’enormità direi che ho tentato pur timidamente di ispirami a Eros e Priapo. O almeno, sono sicuro che i miei personaggi abbiano letto quel libro grande e folle, facendone debitamente tesoro).
Tecnica narrativa. Tanti dialoghi, un umorismo dilagante, lo stratagemma del ‘giallo’, qualche puntura di ‘attualità’ (balugina pure il Sindaco di Predappio, “comunista”). Quali sono le tue ‘fonti’ narrative? Cosa leggi, a chi ti ispiri, insomma?
Leggo come te e come tutti una marea di libri. La mia Sacra Trimurti è però composta da Somerset Maugham, Evelyn Waugh e Muriel Spark. In generale sono poco attento all’intreccio, molto di più alle possibili sorprese stilistiche. Spero di avere imparato qualcosa da Fruttero & Lucentini: li ho studiati un bel po’, soprattutto per quanto riguarda le strutture romanzesche.
Domanda al poeta. L’anno scorso, per Aragno, hai raccolto le tue poesie, dacché, in effetti, quarant’anni fa, esordisci come poeta. Perché titolare quel libro La forza della disabitudine, che è quasi un ossimoro? Come si tempra la tua prosa con la poesia? E poi: che ne è, oggi, della poesia?
La forza della disabitudine è un ossimoro certo (forse apparente), per indicare l’abitare, e tutta l’area semantica che gli sta intorno. Per esempio l’abito. E il disabitare. E la vecchia faccenda che nessuno di noi ha avuto una sola casa, una sola cosa, un solo caso. Quando scrivi devi sempre essere pronto ad altro, e questo per me vale sia per la poesia sia per la prosa, anche se ogni storia, come ogni verso, vuole la sua propria cadenza stilistica, quella e non altra. Per quanto riguarda il giornalismo, va da sé, la faccenda è diversa (non troppo diversa, però). Rubando una definizione a Javier Cercas, potrei dire che il giornalismo propone una verità fattuale, la letteratura una verità fantastica. Lo stile, come l’intendenza segue. La poesia oggi? A me pare molto viva, nutrita e rafforzata dalla sua marginalità sociale – ad onta dei poetry slam e dei tentativi a volte riusciti di teatralizzazione. C’è semmai, o almeno c’è per me, una difficoltà maggiore a distinguere, a “leggere” i versi che arrivano, e che rimangono poveri e misteriosi. Archiviato il tempo delle teorie e delle poetiche, mi pare di vedere tutto intorno un diffuso sentimentalismo, o come dice un mio amico artista per quanto riguarda le “belle arti”, un barocco involontario. Mi pare che Alfonso Berardinelli abbia parlato di “populismo poetico”. Ecco.
Domanda, ora, al giornalista di cultura. Che fine ha fatto il giornalismo culturale? Che fine ha fatto il giornalismo, in generale?
E chi lo sa. Se ti dico una brutta fine, cado nella trappola del laudator temporis acti. Si sta trasformando, senza forse capire dove lo sia trascinano la corrente. La rete, i social, i nuovi sistemi di fruizione stanno uccidendo quel che c’era senza che ancora si capisca se qualcosa – e che cosa – stia nascendo. Il giornalismo culturale, per esempio, è stato per lungo tempo una delle armi con cui i grandi giornali si facevano concorrenza, è stato importante persino economicamente. Ora il mondo dei media investe poco in generale, pochissimo sulla cultura, anche se magari qualche supplemento si trova ad avere di tanto in tanto un po’ di pagine in più. Il problema non sono gli spazi, ma le redazioni – in termini proprio di quantità, più che di qualità.  Ci si affida sempre più agli “esperti” anziché ai giornalisti: è più comodo e molto più economico. Ma così si perde il disegno d’insieme. Ci sono colleghi bravissimi, che non possono fare tutto da soli. Poi ci si copia molto a vicenda, spesso senza troppe verifiche, e per citare un antico adagio si preferisce sbagliare collettivamente piuttosto che avere ragione individualmente. Ma forse questo succede da sempre. Prima, però, si notava di meno.
*In copertina: Mario Baudino nella fotografia di Leonardo Céndamo
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paoloxl · 6 years ago
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Storie come anticorpi all’inverno salvinista che avanza
Le voci e le narrazioni delle operatrici e degli operatori rappresentano un punto di vista irrinunciabile per comprendere quello che accade nel contraddittorio mondo dell’accoglienza, e possono contribuire a mettere a fuoco quali sono le sfide principali. 
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Autore: Sara Forcella
Di porte in faccia, David ne aveva ricevute davvero tante. Sembravano farlo apposta, o che il destino gli avesse giocato qualche brutto tiro. Una sfilza di “no, non puoi”, “no, non c’è niente”, gli si erano parati davanti negli ultimi anni e, ancor di più, negli ultimi mesi. Autotreni che paiono venire addosso, per non far rialzare, come colpi bassi ben assestati, nel punto giusto, al centro dello stomaco o al basso ventre, così da fiaccare il corpo e annebbiare la mente. Avrebbero steso anche il più inguaribile ottimista, quei “no”, specie nella sua situazione.
David, però, rimaneva in piedi, con la forza della tigna e dei nervi, per uno strano orgoglio che non ne voleva sapere di farsi indietro, un orgoglio timido, vergognoso, ma che proprio non gli si zittiva. E lo costringeva ad andare avanti, a ripresentare il suo bel viso di fronte all’ennesimo rifiuto come un bravo pugile, sempre pronto ad incassare.
Di primo acchito, non gli si dava una lira a vederlo così; silenzioso, remissivo, sempre incurvato, come a proteggersi dalle legnate che sarebbe presto arrivate, da una parte o dall’altra. Non interveniva mai, se non direttamente chiamato, non si affannava a dire la sua; le parole gli andavano sempre tirate a forza, come se avesse paura di pronunciarle troppo forte. Ogni volta che parlava lo faceva pianissimo.
Tutti gli si dovevano avvicinare se volevano sentire qualcosa, e gli chiedevano sempre di ripetere almeno due volte. Alla fine, il suo respiro si arrendeva e cacciava fuori le parole, malgrado lui. Il resto erano silenzi. Quello che lui non diceva andava intuito sul suo volto bello, ma dai lineamenti così rigidi che gli si vedeva la sofferenza nel non riuscire quasi a muoverli.
Non aveva nemmeno trentanni, David, anche se sui documenti ce ne erano scritti almeno dieci di meno. Succede spesso, qualche volta perché all’arrivo, nel trambusto, i ragazzi sbagliano a dire l’età, a fare i conti; altre volte lo fanno apposta: togliere qualche anno, in fondo, può sempre fare comodo.
David non era uno che colpiva, in mezzo al gruppo. Più volte era passato inosservato, così taciturno, con l’occhio basso difficile da incrociare, difficile da notare. Per tanto tempo avevano faticato persino a ricordarne il nome. “Come si chiama, quello con il berretto blu. Quello con la felpetta sempre addosso”. Non si sentiva, non chiedeva, non aveva segni particolari. Non creava mai problemi, anzi sembrava volersi fare così piccolo, da occupare nello sguardo di chi lo aveva a tiro il minor spazio possibile. A lungo, perciò, dentro il centro di accoglienza nessuno s’era curato di lui.
Eppure David c’era. Era, inoltre, un grande osservatore. Di quelli per i quali il silenzio rappresenta, oltre che uno strascico di timidezza, anche una scelta. E le due cose coincidevano perfettamente in lui: una certa ritrosia alle adunate di gruppo, e parlare poco, per parlare bene. A maggior ragione l’italiano, che non si sa mai, qualche scherzetto, con la sua grammatica pignola, può sempre tirarlo. Se poi si trattava di esprimersi in pubblico, allora l’emozione lo stremava e non c’era niente da fare, finiva sempre, inevitabilmente e con sua grande frustrazione, per incespicare. Fortuna che il rossore, se mai irrorava la sua pelle scura, non gli si vedeva.
David insomma c’era, e c’era sempre, anche se non visto. Non mancava un appuntamento, e non gli sfuggiva nulla. Ti spiazzava. Quando meno te lo aspettavi, quel ragazzo apparentemente imbarazzato e confuso tirava fuori una frase ricercata, una frase che c’era voluto un po’ a pensarla. Le parole se le era andate a pescare, con cura, nella rete giovane del suo italiano, e le aveva infilate una per una come con una collana di perle. Lo sentivi raramente, ma quelle poche frasi non erano nate a caso. Le aveva fatte sue, erano qualcosa che gli apparteneva, così rifinite da non potersi più sfilacciare. Sembrava, insomma, le avesse lette in qualche libro; e della letteratura, a volte, avevano anche quel tocco di poesia.
Fu questo che ce lo fece notare. Quel modo di parlare che sembrava non azzeccarci niente con tutto il resto, per la ricchezza di occhi pazienti, che avevano osservato a lungo e non si erano persi nel silenzio dell’inizio, sempre così necessario. 
Che David non si sarebbe fermato, uno sguardo attento lo aveva capiva già da subito. Poi ci fu quel giorno al mare, un momento di svago come tanti, quando dalle piccole cose, da una frase o da un volto, si apre lo spiraglio su una vita. L’acqua. L’acqua che sì, aveva visto da lontano, in passato. E pure da vicino; a dire il vero, l’aveva anche attraversata.
Forse per qualcuno che non aveva mai saputo nuotare, avere il primo rapporto con l’acqua a bordo di un barcone, avrebbe dovuto lasciare una paura enorme. Se non altro, una certa repulsione. David no. Soltanto, non sapeva nuotare.
Quel giorno rimaneva nell’acqua bassa, e guardava insistentemente un altro che si era spinto lontano, sicuro e a suo agio come se ci fosse cresciuto, in mezzo al mare. David fu discreto, come sempre. Lo seguì con gli occhi, lo osservò, cercò di imparare qualcosa solo guardando. Poi lo aspettò, e quando quello gli fu vicino, gli chiese come si faceva a nuotare. “Io voglio imparare”, disse, “Devo andare a scuola anche per questo. Non posso fermarmi mai, di imparare”.
Nella famiglia di David, gli uomini hanno tutti la barba lunga. Tutti, tranne lui. David non ha mai spiegato bene il perché di questa scelta. Il suo è stato un semplice “no”.
Hanno provato a convincerlo, hanno cercato pure di farlo sentire in colpa per aver abbandonato una tradizione di famiglia. Lui ha tirato dritto, non ha tentennato. Forse David aveva capito molto, già allora. Non gli bastava una barba, per abbellirsi il viso.
Sara Forcella
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thearkitalk · 6 years ago
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Camera da letto: 7 sorprendenti idee per la testiera del letto
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La camera da letto è il cuore più intimo della nostra casa. Ospita un arredo di per sé impegnativo che difficilmente permette di modificarne la disposizione: spostare letto e guardaroba non è affatto agevole e spesso gli spazi e l'impiantistica non consentono disposizioni alternative.
Ecco quindi sette idee facilmente realizzabili ma di grande effetto per rinnovare la camera , partendo dalla testiera del letto. 1. UNA CARTA DA PARATI D'EFFETTO Negli ultimi anni le carte da parati sono tornate di gran moda. Non solo le classiche tappezzerie a tema florerale, ma vere e proprie stampe fotografiche, quadri astratti e texture iperrealistiche. Perché non utilizzarle anche per dare carattere alla camera da letto posizionandole sulla parete della testiera?
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Carta da parati di LondonArt - via Pinterest
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via Pinterest 2. UNA PARETE "MATERICA" Il letto può essere messo in evidenza addossandolo ad una parete rivestita con materiali dalle texture a contrasto rispetto al resto dell'ambiente: boiserie, tessuto, pannelli in legno.
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Progetto: Francesca Guidetti Architetto In questa immagine, il letto è addossato ad una parete realizzata su misura, che crea una nicchia in cui è inserita la testiera; attorno si sviluppa una parete attrezzata con ante a scomparsa. Anche i comodini sono integrati in questa realizzazione. 3. UNA CONTROPARETE CON LE NICCHIE Questa soluzione è particolarmente utile se, oltre a voler rimodernare la camera da letto, ci sono problemi di spazio che non permettono di accostare in modo classico i comodini al letto. 
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Francesca Guidetti Architetto - Guarda altre foto di idee per la casa In questo progetto, la posizione del letto al centro della stanza impediva di utilizzare i comodini al suo fianco. E' stato quindi progettato un setto in cartongesso con una nicchia che fungesse da ripiano/comodino, enfatizzata da un rivestimento in legno e da un'accurata illuminazione.  4.UN COLORE A CONTRASTO  Tinteggiare a contrasto la parete del letto è una scelta tanto semplice quanto efficace. E' importante tuttavia utilizzare piccoli accorgimenti, quali la scelta di nuance tra di loro armoniose e adatte all'ambiente notte. Via libera quindi ai neutri, ai greige, alle tonalità del blu e del verde.
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via Pinterest
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via Pinterest 5. I WALL STICKERS E IL LETTERING Sono facilmente reperibili in commercio stick adesivi o quadri che riportano frasi e citazioni famose e non, dalle grafiche accattivanti che richiamano la tecnica del lettering, utilizzata in ambito grafico ed editoriale. Sia che si scelga una stampa incorniciata o un adesivo murale, è una modalità di relooking semplice, economica e alla portata di tutti.
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Quadri acquistabili su Etsy. Immagine via Pinterest
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Quadro acquistabile su Etsy. Immagine via Pinterest Ecco qualche esempio di wall sticker per la camera facilmente acquistabile su Amazon:   6. UN LETTO CON LA TESTIERA IMPORTANTE Se il letto ha già una forte personalità, la parete che lo ospita dovrà necessariamente essere minimal, per non rubare la scena al protagonista della stanza.
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Letto Majal di Flou
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Letto Contrast di Bonaldo 7. LA DECORAZIONE FAI DA TE Se avete un po' di manualità (e tanta pazienza!), perché non cimentarsi con una decorazione fai da te, come questa parete che ricorda un paesaggio montano. Online si trovano tantissimi tutorials per questo genere di decorazione.
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Vi è venuta voglia di rinnovare la camera da letto? Quale tecnica utilizzereste? Fatemi sapere nei commenti qui sotto! Read the full article
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schizografia · 2 months ago
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Frasi da parati
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schizografia · 4 months ago
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Frasi da Parati
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schizografia · 4 months ago
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Frasi da Parati
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schizografia · 4 months ago
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Frasi da Parati
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schizografia · 4 months ago
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Frasi da Parati
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schizografia · 4 months ago
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Frasi da Parati
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schizografia · 4 months ago
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