#film di malavita
Explore tagged Tumblr posts
Text
Canary Black: Azione, Suspense e Dilemmi Morali nel Thriller con Kate Beckinsale su Prime Video. Un’agente della CIA in lotta contro il tempo e la malavita per salvare il marito e sventare una crisi globale in Canary Black
Disponibile su Prime Video e già al 6° posto tra i contenuti più visti in Italia, Canary Black è un thriller adrenalinico che vede protagonista Kate Beckinsale nel ruolo di Avery Graves, un’agente della CIA costretta a scegliere tra il suo dovere e la vit
Disponibile su Prime Video e già al 6° posto tra i contenuti più visti in Italia, Canary Black è un thriller adrenalinico che vede protagonista Kate Beckinsale nel ruolo di Avery Graves, un’agente della CIA costretta a scegliere tra il suo dovere e la vita del marito rapito. Diretta da Pierre Morel, la pellicola si snoda tra azione, intrighi internazionali e dilemmi morali, offrendo allo…
#agente CIA#avventura e suspense#azione mozzafiato#Canary Black#Cia#CIA e tradimenti#crisi globale#crisi internazionale#dilemmi morali#film adrenalina#film adrenalinico#film con Kate Beckinsale#film d’azione#film di azione e suspense#film di malavita#film di spionaggio#film di spionaggio su Prime Video#film drammatico#guerra contro il tempo#intrigo internazionale#intrigo politico#Kate Beckinsale#Kate Beckinsale thriller#malavita#moralità e sacrificio#Pierre Morel#Prime Video#Prime Video Italia#Prime Video Top#protagonista femminile
0 notes
Text
Novità (ma non solo...)
Il vostro affezionato staff delle Biblioteche di Milano vi imbandisce un piccolo antipasto letterario, prima delle pantagrueliche proposte natalizie.
Di Geoffrey Holiday Hall si sa soltanto che fu giornalista e scrittore. Elogiato da Leonardo Sciascia che lesse La fine è nota nel 1952, pubblicò solo due gialli e poi scomparve praticamente nel nulla. La fine è nota (uscito per la prima volta in Italia con il titolo La morte alla finestra) fu premiato in Francia nel 1953 come miglior poliziesco in lingua non francese. Il titolo originale (The end is known) deriva dal Giulio Cesare di Shakespeare: “Oh, se fosse dato all’uomo di conoscere la fine di questo giorno che incombe! Ma basta solo che il giorno trascorra e la sua fine è nota”. Un giallo di classe, strutturato come un viaggio a ritroso nella vita del protagonista di cui si ricostruisce la storia passo per passo, testimonianza per testimonianza, come un misterioso puzzle che si completa, ovviamente, solo nel finale. Molto godibile è anche il secondo titolo Qualcuno alla porta, dai toni più leggeri, nonostante gli omicidi e l’atmosfera della Vienna sotto l’occupazione sovietica nel secondo dopoguerra che non ricorda neppure lontanamente gli splendori dell’impero asburgico. “Sembra uno di quei soggetti che piacevano a Hitchcock (e non è detto che il pressoché ignoto Holiday Hall, scrivendo Qualcuno alla porta, non avesse in mente le figure di James Stewart e Doris Day, o di Cary Grant e Grace Kelly)”. La frizzante coppia americana che si trova, suo malgrado, a gestire le indagini ricorda anche il duo Tommy e Tuppence di Agatha Christie. Doppio colpo di scena sul finale: cosa chiedere di più a un libro giallo?
Ha un solo difetto Un volto nella folla di Budd Schulberg: è troppo breve. Parliamo ancora dell’autore di Perché corre Sammy? e I disincantati per questo racconto appena uscito e finora inedito in Italia, da cui Elia Kazan trasse il film omonimo con protagonista Andy Griffith (l’indimenticabile avvocato Matlock della fortunata serie televisiva, per intenderci). Il tema, fin troppo attuale, è quello della manipolazione del pensiero e dei comportamenti (e quindi del voto) delle masse da parte dei personaggi dello spettacolo: in questo caso si tratta di un finto sempliciotto proveniente da un paesino dell’Arkansas che, in virtù della sua sconcertante capacità di coinvolgimento, diventa il paradigma dell’America intera. Grazie alle sue canzoni folk, a vecchi luoghi comuni sulle tradizioni popolari e a un indubbio carisma, il nostro eroe riesce a condizionare il pubblico e ad arricchirsi con i lauti proventi della pubblicità. Cambia il tema negli altri due racconti della raccolta: i ‘dietro le quinte’ del mondo del cinema in Questa è Hollywood, che l’autore, sceneggiatore e figlio di un tycoon della Paramount, non solo conosceva bene, ma sapeva anche descrivere con agile penna, e L’imbonitore, sul mondo della boxe. Ricordiamo che per la sceneggiatura di Fronte del porto (che è anche un romanzo), celebre film con Marlon Brando, Schulberg si aggiudicò l’Oscar nel 1954.
Per la serie i grandi classici hanno sempre qualcosa da dire è stato ripubblicato da Mondadori e da Sellerio Brighton Rock di Graham Greene. Una lettura da consigliare sotto tutti i punti di vista: un giallo ben costruito con protagonisti tratti sia dalla malavita, sia dal caso che fa di un personaggio del tutto inaspettato un accanito segugio alla ricerca del colpevole, come fosse Porfirij Petrovic che insegue Raskolnikov o Javert che perseguita Jean Valjean, ma con uno spirito diverso, fresco e originale. “Nello specchio inclinato sopra il lavabo si poteva vedere riflesso, ma gli occhi si distolsero rapidamente da quell’immagine di guance livide e mal rasate, di capelli lisci e occhi da vecchio. Non lo interessava. Era troppo orgoglioso per preoccuparsi del suo aspetto”.
Nuova ristampa anche per Le vittime di Norwich (1935) uno dei gialli più famosi (insieme a The House of Dr. Edwardes che ispirò il film Io ti salverò diretto da Alfred Hitchcock) fra i 31 composti dalla coppia britannica John Leslie Palmer e Hilary Aidan St. George Saunders sotto lo pseudonimo di Francis Beeding.
Da La regina degli scacchi di Walter Tevis, lo scrittore di Lo spaccone e Il colore dei soldi, è stata tratta una miniserie televisiva di grande successo. Accade spesso che i geni abbiano avuto una vita difficile, siano dei disadattati, spesso asociali, in perenne conflitto con se stessi, il prossimo e il mondo che li circonda. È anche questo il caso della protagonista, la piccola Beth, cresciuta in orfanotrofio, che trova una riscossa alla sua grigia esistenza grazie alla passione per la scacchiera. Una curiosità sul ‘caso letterario’ di Tevis: dopo il successo dei primi libri, fu dimenticato anche a causa dei problemi con l’alcol. Quando decise di riprendere a scrivere, lo fece seguendo un corso di scrittura all’Università dove fu riconosciuto dal poeta Donald Justice che, stupito, gli chiese cosa ci facesse un grande autore come lui in mezzo agli studenti, quando avrebbe invece dovuto salire in cattedra. Breve fu purtroppo la sua seconda stagione creativa: Tevis morì a soli 56 anni per un tumore.
Il voyeurismo è il tema principale dell’ultimo romanzo di Simenon pubblicato da Adelphi, Delitto impunito: composto nel 1953 durante il soggiorno dello scrittore a Lakeville nel Connecticut, fu edito l’anno successivo in volume e a puntate sul settimanale «Les Nouvelles littéraires». Il secondo tema del libro è l’invidia, quella di chi non ha nulla, né bellezza né fascino nè denaro ed è stato defraudato perfino dell’affetto dei genitori, nei confronti di chi invece ha tutto questo e ne mena vanto, e gode nell’esibirlo senza ritegno. Una lotta accanita tra due personalità, che è la lotta atavica tra gli uomini per la supremazia. “A Élie non era mai successo di trovarsi davanti un uomo completamente felice, felice in tutto e per tutto, sempre e comunque, in ogni momento della giornata, e che approfittava con candore di tutto quel che lo circondava per accrescere il proprio piacere”.
Una nuova indagine per l’improbabile detective di Partanna Giovà, metronotte per caso, coinvolto in un duplice omicidio di stampo mafioso insieme a tutta la scombinata famiglia Di Dio. Sarà ancora una volta l’anziana madre, autentica virago arroccata alle salde tradizioni popolari e armata di un cervello dalla logica “acuminata”, ad avviare le indagini verso l’inevitabile conclusione. Ma cos’è La boffa allo scecco? Questo, almeno, ve lo possiamo svelare: si tratta di un gesto simil-apotropaico (in realtà un autentico sopruso) che a tutti è occorso di subire almeno una volta nella vita, ovvero lo schiaffo di rimando, come sfogo per un’ingiustizia patita che non si è in grado di vendicare altrimenti. Roberto Alajmo non delude le aspettative.
Per quanto riguarda Sarà assente l’autore di Giampaolo Simi, si può dire che, se esiste una sana via di mezzo tra assecondare a priori i gusti dei lettori meno esigenti e scrivere in modo che solo l’autore possa comprendere i propri contenuti, Simi l’ha sicuramente trovata e ce la propone in queste succulente paginette. Dedicato a chi ha la voglia, la necessità, l’urgenza di ridere a crepapelle.
Nell’ultimo nato della serie del BarLume di Marco Malvaldi, La morra cinese, gli inossidabili vecchietti sono alle prese con l’omicidio niente di meno che di un giovane filologo romanzo alle prese con un carteggio appartenente alla famiglia di un nobile “arci-decaduto” del luogo, in cui, pare, compariva addirittura un’epistola inedita di Giacomo Leopardi. Ma questo non è l’unico movente per un delitto che non resterà a lungo irrisolto.
#geoffrey holiday hall#budd schulberg#elia kazan#marlon brando#graham greene#roberto alajmo#francis beeding#alfred hitchcock#walter tevis#georges simenon#francesco recami#giampaolo simi#marco malvaldi
10 notes
·
View notes
Text
Sta per uscire il memoir ' Sonny Boy ' di Al Pacino
In uscita il libro di Al Pacino. Nel libro racconta le difficoltà vissute durante la prima pandemia, le sensazioni dell'essere (ri)diventato padre ad 84 anni, le sue ultime opere artistiche: lui è l'attore e icona del Cinema mondiale Al Pacino, che nel corso di un'intervista ad una settimana dall'uscita del memoir ha ripercorso in pratica un'intera esistenza. Il Covid-19 e la paura della morte Circa trecento pagine per raccontare la propria vita non sono poi molte, nessun'immagine è allora più forte della trama di un attimo che quella vita stava per portarsela via: "Nel salotto di casa, me ne sono andato. Non mi batteva più il cuore" ha dichiarato parlando di quanto vissuto durante la prima pandemia da Covid-19 nel 2020. "L'ambulanza davanti a casa. Sei infermieri e due medici vestiti come astronauti. Non ci avevo mai pensato prima. Ma sai come sono gli attori. Suona bello dire che sei morto una volta" ha aggiunto ironizzando sulla cosa. La gioia della paternità a 84 anni e l'incontro con Marlon Brando In una teatrale contrapposizione con quanto accaduto durante il Covid, la vita è sempre foriera di grande sorprese, come l'essere ridiventato padre a 84 anni grazie alla nascita di Roman, avuto dalla compagna 30enne Noor Alfallah, uno dei motivi che l'hanno condotto a scrivere il libro: "Il bambino mi ha portato la voglia di restare in giro ancora per un poco se mi è possibile. Fare di nuovo il papà a 84 anni è divertente" ha commentato al riguardo. Non solo vita privata, 'Sonny Boy' è un lungo viaggio anche nella sua carriera nel cinema. Un capitolo importante del libro è così dedicato all'incontro con Marlon Brando, avvenuto sul set de "Il Padrino": "Non volevo davvero parlarci. Pensavo non fosse necessario. Il disagio che provavo al solo pensiero di dover pranzare con lui mi terrorizzava, sul serio. Era il più grande attore vivente del nostro tempo. Sono cresciuto con attori come lui ma mi dissero devi farlo, così lo feci". "Mangiava pollo alla cacciatora con le mani. Aveva le mani piene di sugo rosso. Anche il suo viso. E per tutto il tempo, quello era ciò a cui riuscivo a pensare" ha simpaticamente aggiunto mostrando un animo intimo e vulnerabile, insito di una 'timidezza' e riverenza lontana dall'immagine del duro e spietato gangster che spesso lo ha caratterizzato sullo schermo. Nel 2023 uno degli ultimi film, 'La memoria dell'assassino' Quella di Al Pacino è stata una carriera costellata di grandi successi, da Il Padrino a Scarface passando per Heat-La Sfida e L'avvocato del Diavolo - solo per fare qualche nome -, l'attore italo-americano dimostra ancora di non volersi fermare nonostante gli 80 anni già abbondantemente compiuti. È del 2023 uno degli ultimi film, La memoria dell'assassino, in cui ad un killer a contratto affetto da una forma di demenza dal decorso molto rapido viene data l'opportunità di ottenere un'ultima grande rivincita salvando la vita del figlio adulto da cui nel frattempo si era allontanato. Al Pacino interpreta Xavier Crane, un boss della malavita che è un vecchio amico del killer protagonista della trama (John Knox interpretato da Michael Keaton) ma anche l'uomo per cui all'atto pratico lavora, che lo aiuta nel compiere la sua impresa. Read the full article
0 notes
Text
25 mag 2024 14:00
"QUANDO MI CHIAMANO 'MARIANGELA' MI ARRABBIO E RISPONDO: 'IO SONO PLINIO FERNANDO'" - L'ATTORE 76ENNE CHE HA INTERPRETATO LA FIGLIA DI UGO FANTOZZI: "SEMBRA CHE LA GENTE NON RIESCA A SEPARARE L’ATTORE DAL PERSONAGGIO. QUANDO FECI IL PROVINO PER FANTOZZI E MI DISSERO CHE DOVEVO INTERPRETARE UNA DONNA CI RIMASI DI SASSO, MIO PADRE MI DISSE..." - LA CHICCA: "IO SONO INNAMORATO DI TUTTE LE DONNE. MI PIACE CORTEGGIARE" - VIDEO -
Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per www.repubblica.it
L’appuntamento è in un bar di piazza Bologna a Roma, il quartiere dove vive da sempre. “Qua mi conoscono tutti, sono come il sindaco”, scherza Plinio Fernando, l’attore che ha prestato il volto a una delle maschere più famose del cinema italiano: Mariangela Fantozzi.
E anche chi non è del posto lo riconosce al primo sguardo. Tanti i giovani che si fermano e chiedono: “Ma è proprio lui?”, “Sei la figlia di Fantozzi?”. Selfie e sorrisi, Fernando non si sottrae con un'educazione e una gentilezza d’altri tempi. […]
Be’, il ruolo di Mariangela Fantozzi le ha regalato una fama imperitura.
Per carità, è vero ma c’è anche il risvolto della medaglia. Con Mariangela Fantozzi sono rimasto imprigionato nel tempo. Il cinema l’ho abbandonato nel 1994 e ho fatto tanto altro, soprattutto come scultore. Ma sembra che la gente non riesca a separare l’attore dal personaggio.
Insomma, quando le dicono “ciao Mariangela” non le fa piacere.
Mi arrabbio da morire e rispondo subito: “Io sono Plinio Fernando”.
Dal mondo di Fantozzi è impossibile liberarsi?
In un certo senso è così, ma vale per tutti noi che abbiamo fatto quell’avventura. Prenda per esempio Milena Vukotic. Parliamo di un’attrice straordinaria e di una gran signora. Non so quanti film abbia fatto e quanti spettacoli a teatro, ma anche all’ultimo David di Donatello hanno cercato di ricordarla solo per Fantozzi con il conduttore che ripeteva “Pinaaaaa”.
Vukotic ha vinto il David alla carriera.
Se lo merita tutto, ma la cerimonia non mi è piaciuta.
Si sente ancora con Vukotic?
Certo, ci facciamo lunghe telefonate. Parliamo in francese, a entrambi piace tanto il francese. […]
Quando ha capito che la recitazione era la sua strada?
Non è che lo capisco, mi piaceva il cinema. Ammiravo i grandi attori come Marcello Mastroianni. Così mi sono iscritto all'Accademia di recitazione Stanislavskij al teatro Anfitrione e non avevo nemmeno 30 anni.
Ecco l’esordio a teatro.
Faccio due commedie: Allegro... con cadavere e Pupi e pupe della malavita. In uno comandavo un plotone d’esecuzione, nell’altro facevo il gangster.
Poi arriva il momento che le cambia la vita, il provino per il primo Fantozzi.
Nel mondo del teatro iniziavo a farmi conoscere e una persona mi dice che Luciano Salce faceva dei provini nella sede della Rizzoli in via Monte Zebio. Così vado e mi prendono. Ma quando mi dicono che devo fare la figlia di Fantozzi ci rimango di sasso. Pensare di interpretare una donna mi suonava strano, ero un po’ riluttante.
Perché ha detto sì?
Ne ho parlato subito con mio padre: “Vogliono che faccia una donna”. E papà mi ha detto: “Il lavoro è lavoro”. Così mi sono convinto. E poi nella storia del cinema ci sono state grande interpretazioni di uomini che impersonano donne.
Come è stato l’incontro con Paolo Villaggio, suo padre nella finzione?
Era un vero professionista e un grande attore.
Avevate rapporti fuori dal set?
No, il nostro era un rapporto molto superficiale legato al lavoro. Però sempre di grande stima. Ma è stato così un po’ con tutti gli altri attori. Si stava sul set sempre in maniera piacevole, poi basta. Come ho già detto, sono rimasto in rapporti solo con Milena Vukotic.
Ha preso parte a otto film di Fantozzi. C’è stato qualche momento in cui avrebbe voluto mollare?
Credo di aver smesso nel momento giusto. Poi talvolta era impegnativo fare tutte quelle riprese, soprattutto quando dovevo interpretare il doppio ruolo di Mariangela e della nipote Uga. […]
Negli anni d’oro era difficile passare inosservato.
Le racconto una storia. All’inizio degli anni ‘90 ero a Rimini in vacanza, amo molto la Romagna dove andavo spesso d’estate. Una sera ero a ballare e mi riconoscono. Iniziano a seguirmi, ma erano decine e decine di persone. Mi è toccato scappare fino all’albergo dove il direttore ha dovuto chiudere le porte e minacciare di chiamare la polizia.
Poi c’è stato Neri Parenti.
Con Neri ho avuto un rapporto più stretto, c’è stato più affiatamento quasi come con un fratello maggiore. […]
Le piacerebbe tornare al cinema?
Il mio tempo ormai è passato, ma se mi offrissero un ruolo comico interessante potrei prenderlo in considerazione.
A un reality ha mai pensato?
Ai reality non credo, non parteciperei mai.
In tv non si vede mai.
Ma cosa dovrei andare a dire? Alla fine mi chiedono sempre le stesse cose. Poi le devo dire la verità, la diretta mi mette ansia.
Come trascorre la sua vita oggi?
Una vita semplice. Giro per il quartiere, mi piace cucinare: me la cavo bene con le lasagne al forno e i risotti. Poi adoro giocare a scacchi. E mi tocca fare ginnastica posturale per la schiena.
Lei è molto riservato, della sua vita privata si sa poco. È innamorato?
Guardi, io sono innamorato di tutte le donne. Sono un tipo galante, mi piace corteggiare.
C’è qualche donna in particolare?
Terrò sempre nella mente il ricordo di una ragazza. Ma parliamo di tanti anni fa.
Ha qualche rimpianto?
Direi di no. Forse mi sarebbe piaciuto fare un film con Brigitte Bardot, a proposito di donne.
Cosa le manca?
pierfrancesco villaggio plinio fernando plinio fernando paolo villaggio anna mazzamauro PAOLO VILLAGGIO plinio fernando le vacanze di fantozzi plinio fernando (3)
Facile, mi manca la giovinezza.
0 notes
Text
“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI - Vita e opinioni d’un ladro (diciamo) gentiluomo.
di MICHELE CAPITANI ♦ «A Reggina Coeli i mattaccini stavano tutti addobbati…» Quando parla Enrico, mi pare di trovarmi in un film poliziottesco dei nostri anni Settanta. Lui è della vecchia malavita romana, ha sessant’anni benissimo portati, e si trova, qui nella scuola carceraria, in classe con giovanotti spauriti, ragazzi africani, e qualche altro adulto italiano che però si sbottona ben…
View On WordPress
0 notes
Photo
Restiamo in Francia per un'altra commedia esilarante, "Il rompiballe" di Edouard Molinaro. Qui assistiamo alle vicissitudini di un sicario della malavita (Lino Ventura), a cui è affidato il compito di assassinare un testimon scomodo, e un tizio depresso e nevrotico (Jacques Brel), che interferisce continuamente con il progetto criminoso del primo. Il film fu oggetto di un rifacimento negli Stati Uniti da parte di Billy Wilder, con Jack Lemmon e Walter Matthau. Ma nonostante il livello altissimo del regista e degli interpreti, "Buddy Buddy", a mio avviso, rimane un gradino al di sotto dell'originale. — view on Instagram https://ift.tt/yCH1aRj
0 notes
Text
✨🎈
#la paranza dei bambini#Nicolas#Letizia#palloncini#francesco di napoli#Viviana aprea#amore vero#Amore#amore folle#camorra#napoli#film#cinema#malavita#motorino
11 notes
·
View notes
Text
Il grande caldo
Stasera, un film di Lang: "Il grande caldo". “Il titolo originale del film, «The big heat», non indica solo un'estate torrida: nel gergo della malavita americana, è l'elevarsi del livello di guardia della polizia nei confronti della criminalità”, chiarisce WikiPedìa.
Vista l'insonnia, lo vedrò dopo le chiacchiere di gruppo su una lettura condivisa: Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Wollstonecraft Godwin Shelley.
7 notes
·
View notes
Text
Beware of the thief
How do you become the longest-lived criminal in the history of Italian comics? For LUCA MARINELLI it all started as a child, at the zoo. Before the eyes of a panther
«The cold determination of a panther that silently approaches its prey: this is the expression I tried to instill in our Diabolik's gaze». When Luca Marinelli frowns and lights up the panther's eyes - the writer has had the opportunity to get a taste of it during the interview - the first instinct is to flee that look: too intense. It will be him, armed with a dagger and dressed in the famous tight black jumpsuit, with a hood that leaves only the icy eyes uncovered, to interpret the anti-hero born from the imagination of Angela and Luciana Giussani - the two sisters of Milan well known in history as the Queens of Terror - in the awaited cinematic adaptation of the comic directed by the Manetti Bros. (Ammore e malavita), in cinemas from December 31st.
«Fifty years in the homes of Italians. 150 million copies sold. Impressive numbers. Diabolik is an icon, it belongs to the IMAGINARY of hundreds of thousands of people"
During a walk along the Kreuzberg canal in Berlin, his adopted city since 2012, the Roman actor explains that the choice to be inspired by the feline for the interpretation of the character is not accidental. «Fans will know that Diabolik takes his name from a panther. Their meeting, which lasts a few moments, is significant: after a high-tension face-to-face, the feline decides to spare the boy, almost as if he had smelled a fellow in him. The panther was one of my favorite animals as a child. I remember like it was yesterday the day my parents took me to see it at the zoo, and my amazement in front of that creature, that night-black mantle, shiny and iridescent, with bluish reflections, and that deep, rhythmic breathing. Finally, particularly indelible in my mind is the feeling of sovereign calm that emanated from the animal». “From the beginning, I had a good feeling about this film,” continues the actor. «The first meeting with the Manettis, which I have been following with interest since the time of Zora the Vampire, took place in Rome, in the neighborhood where both Antonio and Marco and I grew up. They explained to me that they had a very specific vision of the character's personality, but that they would like to see what I could offer them. We auditioned together, which was very useful in igniting the spark of collaboration. I have a clear memory of that day and the subsequent exchange of emotions and thoughts. When I later found out that I was chosen for the part, I was very happy».
Luca Marinelli is certainly not new to acting challenges. From the dazed Mattia in ‘The solitude of prime numbers’ (2010), the character with whom he conquers notoriety, over the years he engages in roles that are not very easy, very different from each other ("The only thing they have in common is my nose", ironically, pointing to his face), showing great versatility and an extraordinary capacity for psychological identification. Among his most convincing interpretations, that of the Zingaro in ‘They call me Jeeg’ and that of Martin Eden in the homonymous film by Pietro Marcello, with which he won, respectively, the Silver Ribbon and a David di Donatello as best supporting actor and the Coppa Volpi as best actor. But dealing with a myth like Diabolik, the object of an almost sacred cult, is a new challenge.
«Fifty years in the homes of Italians. 150 million copies sold. Impressive numbers. Diabolik is an icon, and for this reason it belongs to the imagination of hundreds of thousands of people. If you think you can satisfy them all, you start off on the wrong foot: you risk that the final result is not what you really want to stage, but I'm sure the public will not be disappointed, or at least I hope. You will see how much love and respect there was in implementing this transposition", explains the actor, who speaks with full knowledge of the challenge of interpreting an icon: in 2018 he plays a true sacred monster, Fabrizio De André, in ‘Principe Libero’ by Luca Facchini. A friend told him: you're crazy to take this part. But he, careless, immerses himself in the biography of the singer-songwriter, ventures like a shrink into the maze of his psyche, and he returns to the man of that icon, receiving critical acclaim for that insidious role. The only flaw, some malevolent purists observe, is his Roman accent.
Despite being a comic book hero, to face Diabolik, the actor «decided to avoid any comic characterization of the character, trying to give a convincing representation from a human, psychological point of view. Who is this mysterious man, who with his criminal findings terrorizes the rich city of Clerville? What vicissitudes lead him to become a king of crime? Questions that have become the starting point of my research. For months and months, my flat was flooded with comics, scattered all over the place. And for every hundred I read, the Manettis - who I suspect know all the 800 and more numbers in the series - were ready to lend me as many». Day after day, Marinelli has thus sneaked into the lair of the King of Terror: he spied on his objects, opened his wardrobe, rummaged in his drawers. “I fell in love with him, unconditionally, without giving in to the temptation to express a condemnation or an acquittal. It is a precious lesson, which was passed on to me in the Academy: never judge your character. You risk that a distance will form between you and him which, I play hard, is negatively reflected in the quality of the interpretation».
The result is a film that is radically different from the first film adaptation, directed by Mario Bava, in 1968. "Among its strengths, there is a fascinating 1960s aesthetic, made up of machines, costumes, places and a thousand technological inventions of our Diabolik», he says. “To my great pleasure, I was involved in the discussion of the character's look right from the start. Particularly difficult was the development of the mask and the legendary black suit, designed by Diabolik himself and equipped with fantastic characteristics, not repeatable in reality. An almost impossible mission, but after weeks of attempts, thanks to the collaboration of all departments, we arrived at a result that was very satisfied: we did it by working together. I want to emphasize the all together. When you work with the Manetti Bros., this aspect is deeply tangible: everything takes place in an atmosphere of great exchange and collaboration. Many have known each other within the crew for years, and one almost has the impression of having been adopted by a large family, rather than working on a normal set ».
“Who is this mysterious man who terrorizes the rich city of Clerville? What led him to become what he is? For months these questions have been my RESEARCH"
The film - which the Manettis defined as "darkly romantic" - will also tell, to the delight of fans, the prodromes of the love story between Diabolik and his partner in crime, Eva Kant (Miriam Leone). "Two special, different people who first sniff each other with suspicion, only to recognize each other as soul mates," he explains. “I really like their level of complicity. Diabolik, however, is a very tough and reserved character, who rarely shows a feeling: this is certainly one of the differences, perhaps the clearest, between him and me. I am his opposite: as a good romantic and empathetic, I confess, I often cry. I think that doing so can be an important moment of openness, growth and awareness, which we should learn to actively seek. Are you feeling down? Play the saddest song you know and give yourself a treat: enjoy your tears, a friend once told me. Holy words: woe to keep everything inside. You run the risk of walling yourself up alive behind a senseless wall of hardness».
Although "very interesting", the actor prefers to gloss over future film projects out of luck. "At the moment my wife and I (the German actress Alissa Jung) are very busy with our association: we are about to open the headquarters of PenPaper-Peace in Italy, the association founded by Alissa in Germany, with which we built two schools in Haiti after the disastrous earthquake of 2010». As the actor launches into the memories of his first trip to the Caribbean island, the weeping willows of the Kreuzberg canal that framed the interview mentally give way, for a moment, to the lush vegetation of the Caribbean. «Indelible memories. Two years after the disastrous earthquake, I found a country on its knees, surrounded by rubble, pain and despair, but also many smiles and a contagious desire to live", he says. As the name of our association suggests, all you need is a sheet of paper and a pen, and you can give a child education, and with it a possibility, a future. And this not only in Haiti, but all over the world. At the moment we are focusing on a project in Italy that will support the boys and girls who are going through this difficult period of the pandemic».
GQ Italia
Just wanted to translate this interview for the non-italian’s fans ^^ (sorry for my English)
170 notes
·
View notes
Text
Napoli è una città ricca di storia, cultura e tradizioni.
Perché scegliere di vivere a Napoli?
Non è un contesto semplice: spesso le regole non vengono rispettate, la malavita esiste e non possiamo negarlo e tante altre cose che sicuramente avrete sentito della città partenopea.
Però Napoli non è esattamente quello che vedete nei film o in Gomorra, perché a Napoli c'è anche la brava gente, ma brava gente perché ha l'animo buono: non potete entrare in una casa napoletana senza sorriso e non mancherà mai "a tazzulelle e cafè", che non vi riscalda solo il palato, ma anche il cuore.
A Napoli non ci sono solo i "mariuoli", non esistono solo gli "scippi" sui motorini, Napoli soprattutto, è la città dove la gente lavora per garantire un futuro diverso ai propri figli, per renderle persone che lavoreranno altrettanto onestamente.
Napoli è la patria della pizza, vivere a Napoli vuol dire ordinare 7/8 pizze il sabato sera per vedere la partita tutti insieme, perché il calcio e la pizza fanno anche un po' questo: ci uniscono.
Perché questa è Napoli, è la città della gente che "t vo ben".
È la città del sole e del mare, a noi l'estate inzia a fine Aprile e finisce a fine Ottobre perché portare i bambini spesso al mare, secondo i nostri avi, vuol dire farli godere di una buona salute.
Napoli è anche questa e chi non lo riconosce, non è mai stato nella mia città.
2 notes
·
View notes
Text
Milano indaga
Si è appena conclusa l’iniziativa Milano in giallo e noi vogliamo tracciare una sintetica panoramica degli autori più noti. “Milano come Chicago“: titolava così il 29 novembre 1976 la prima pagina de «La Notte», storico giornale milanese poi chiuso negli anni Novanta. Ecco spiegata la moltiplicazione di libri (e film) gialli e, di conseguenza, di ispettori, detective, commissari che hanno popolato e tuttora investigano nella nostra città.
In realtà la ‘predisposizione��� di Milano ad essere terreno fertile per indagini criminali risale più indietro nel tempo, a quello che è considerato il padre di questo genere letterario, Augusto de Angelis: noto antifascista e giallista in un’epoca in cui il Minculpop aveva disposto il sequestro “di tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita”, innamorato di una donna ebrea, incarcerato e poi picchiato da un fascista: morì in seguito alle ferite riportate a soli 56 anni. Il suo eroe, il commissario De Vincenzi, egregiamente interpretato da Paolo Stoppa in una serie di sceneggiati Rai, opera prevalentemente nella nostra città.
Forse anche l’atmosfera, soprattutto invernale, fatta di nebbia e cieli plumbei, ha favorito lo sviluppo di questo tipo di letteratura: un misterioso delitto nella caligine notturna di Palestro apre le pagine di Motivo d’allarme di Eric Ambler, ambientato durante gli anni del ventennio.
Al dopoguerra si ispira Dario Crapanzano: “Mario Arrigoni, capocomissario di Porta Venezia (che è come dire arcimilanese, meneghino al quadrato), si muove in una Milano impegnata a ricostruire ma non ancora toccata dalla febbre dal boom, dove insieme a fabbriche e uffici riaprono anche i teatri, come il Piccolo di Strehler; dove le auto sono poche e ci si sposta in tramvai, tutt’al più in Vespa; dove brunch e happy hour non sono stati ancora inventati e al massimo nelle fumose osterie si può mangiare un panino, anzi, un ‘sanguis’, traslitterazione milanese della parola sandwich”.
Dal dopoguerra la città si è ingrandita a dismisura, la periferia “ha fagocitato cascine, campi coltivati e borghi storici, e si è ritrovata, senza rendersene conto, una metropoli” (così scrive Michele Turazzi nell’utile volumetto Milano di carta). Sono gli anni del boom economico “di una società approdata al consumismo senza aver davvero capito di essere uscita dalla povertà”, e l’equazione ricchezza = criminalità dà i suoi risultati nella cronaca nera come nelle pagine dei romanzi gialli. Dalla vecchia ligera locale “malavita estrosa e un po’ scalcagnata” che quasi mai uccideva (quella cantata da Jannacci e Gaber, per intenderci) si passa alla delinquenza efferata con cui si trova a combattere l’investigatore Duca Lamberti (protagonista anche di alcuni film) creato dalla veloce penna di Giorgio Scerbanenco. Sono gli anni della famigerata ‘banda Cavallero’ (che ha ispirato il film di Lizzani Banditi a Milano, con Gian Maria Volonté), di Francis Turatello e di Vallanzasca.
La mala degli anni ’60-70 è descritta da Paolo Roversi in Milano criminale, prequel di Solo il tempo di morire, ambientato tra il 1972 e il 1984, ancora prima della cosiddetta ‘Milano da bere’.
Al 1978 risale il l’esordio di Renato Olivieri. Ecco come Andrea Camilleri (nella prefazione di Il romanzo poliziesco di Yves Reuter) descrive il suo eroe: “Il commissario Giulio Ambrosio, innamorato stendhalianamente della sua Milano, è un uomo colto, dalle abitudini borghesi, sostanzialmente malinconico”. Ricordiamo anche il bellissimo film I giorni del commissario Ambrosio con Ugo Tognazzi.
“Ma l’eredità maggiore di Scerbanenco si ritrova in tutti quei commissari, vicequestori e detective improvvisati che hanno invaso gli scaffali delle librerie nell’ultimo mezzo secolo, rendendo Milano la città d’elezione per le indagini letterarie nel nostro Paese. Questi investigatori agiscono ovunque, in qualsiasi quartiere di una città che, dal punto di vista del crimine, non conosce pace”.
È la Milano degli anni Ottanta quella di Piero Colaprico, il giornalista che ha coniato il termine ‘tangentopoli’ (la sua esperienza in tema di criminalità milanese gli ha dettato il saggio di recente pubblicazione Manager calibro 9), nonché padre, insieme a Pietro Valpreda, del maresciallo Binda “un investigatore che si inserisce perfettamente nella tradizione del giallo. Classico per la meticolosità dei suoi ragionamenti, moderno per la sua abilità nel districarsi nei vari strati sociali di una Milano colma di divergenze, Binda risulta un personaggio con il quale non si può non simpatizzare. Padre e marito modello, imperturbabile, ma con un profondo lato malinconico, quasi dark, che bilancia una certa dose di sana ironia. Un anziano ex carabiniere che vive una seconda giovinezza proprio grazie all’attività di investigatore privato”.
Si tratta di un vero proliferare (cui si può offrire solo un rapido cenno), che non sembra attenuarsi, forse perché la narrativa è più vera e accattivante se agganciata al territorio, e la Milano buia, nebbiosa, tentacolare, sovrappopolata ben si presta ad un immaginario di tipo poliziesco.
I più recenti: Il mistero di Chinatown di Mario Mazzanti, la prima indagine dell’anatomopatologo Tommy Davis e dell’amico Gualtiero Abisso; La disciplina di Penelope di Gianrico Carofiglio: “La protagonista, brillante magistrato dei tempi che furono, è impegnata in un’investigazione tra le vie di Milano, avvolta nei ricordi e in un intrico da svelare”; a proposito di nebbia, è appena uscito Una giornata di nebbia a Milano di Enrico Vanzina: “È una giornata di nebbia a Milano, una di quelle che sembravano non esistere più, come se fosse uscita da un romanzo di un altro tempo, da una ballata di giorni lontani. Luca Restelli sta andando al giornale per cui lavora, per le pagine di cultura, quelle che non considera nessuno. Non ha ancora quarant’anni, ma anche i suoi gusti sono ‘passati’, come la nebbia di quella mattina: vive di riferimenti letterari e cinematografici, tra insicurezze e un po’ di superbo disprezzo per il mondo indolente e arrivista che lo circonda. All’improvviso arriva una notizia, un omicidio in Corso Vercelli, un uomo è stato ucciso con un colpo di pistola, è stata arrestata una donna. Restelli si propone, la cronaca nera gli è sempre piaciuta. Dopo aver raccontato la città eterna, Vanzina racconta l’altra capitale italiana. Il risultato è un giallo straordinario, elegante, irriverente, geniale e inaspettato”; Nella luce di un’alba più fredda di Hans Tuzzi: nuove indagini per il commissario Norberto Melis; Un colpo al cuore di Piergiorgio Pulixi, ambientato tra la Sardegna e Milano è la storia di “un serial killer che ha deciso di riparare i torti del sistema giudiziario”; e poi le indagini del commissario Caronte di Alessandro Reali.
Ambientato sempre a Milano (ma questa volta in estate!) l’ultimo bestseller di Alessandro Robecchi, Flora, di cui abbiamo già parlato: “Storia di un Pigmalione ai tempi della televisione che cerca di convertire la sua pupilla e le masse al culto della poesia, tramite il toccante esempio del surrealista Robert Desnos. Storia di un rapimento sui generis in cui il lettore è dalla parte dei malviventi, e ben presto lo sarà anche la vittima. Scritto in piena pandemia, ne riporta qualche velata eco”.
Addirittura una magliaia è stata promossa all’invidiabile ruolo di investigatrice: si tratta di Delia, la protagonista dei gialli di Mauro Biagini.
Come dice Turazzi, “la lista è quasi inesauribile”. Per la fortuna di noi appassionati lettori, ci viene da aggiungere...
#milanoingiallo#augusto de angelis#paolo stoppa#Gian Maria Volonté#carlo lizzani#dario crapanzano#scerbanenco#michele turazzi#piero colaprico#pietro valpreda#mario mazzanti#Gianrico Carofiglio#enrico vanzina#hans tuzzi#piergiorgio pulixi#alessandro robecchi#mauro biagini
14 notes
·
View notes
Text
Viaggio alle radici del folkhorror italiano in occasione dell’uscita di A Classic Horror Story
L’estate è, tradizionalmente, un periodo fatto di sole, bagni al mare (o escursioni in montagna), giochi all’aria aperta. Ma è anche una stagione particolarmente fertile per tutto ciò che ha a che fare con l’orrore, declinato in mille modi e maniere differenti, accomunati, chiaramente, dalla sensazione di una paura più opprimente della proverbiale canicola estiva.
Ed è proprio in piena estate che, su Netflix, arriva A Classic Horror Story, il “film di paura” di Roberto De Feo e Paolo Strippoli. Se avete visto il full trailer approdato online qualche settimana fa, avrete probabilmente notato che vengono citate in maniera diretta, esplicita, tre figure folkloriche collegate alla nascita della ‘ndrangheta e della malavita più in generale: Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Figure magari conosciute da chi ha una certa dimestichezza con certi luoghi, con certe “fole esoteriche di campagna”, per citare Pupi Avati, ma ignorate dai più. Quegli stessi “più” che, invece, potrebbero conoscere altre storie crepuscolari, notturne che non hanno nulla a che vedere con Osso, Mastrosso e Carcagnosso, e che, proprio come la storia dei fondatori delle società criminali italiane, hanno radici profonde, che scavano in un terreno, quello dello stivale, il cui humus è formato dalla putrescente decomposizione di popolazioni le cui tradizioni, dall’epoca pre-romana in poi, sono più o meno trasversalmente arrivate anche ai giorni nostri.
Nonostante l’Impero romano e la sua caduta. Nonostante il Vaticano. Nonostante il realismo marxista.
Ne abbiamo discusso a lungo insieme a Fabio Camiletti, marchigiano come il sottoscritto, professore associato di letteratura italiana presso l’Università di Warwick in Inghilterra. Camilletti, che ha già all’attivo svariate pubblicazioni sull’argomento, è da poco tornato nelle librerie – virtuali e non – con “Almanacco dell’orrore popolare. Folk Horror e immaginario italiano”, realizzato insieme a Fabrizio Foni. La prima parte di questa articolata chiacchierata è tutta dedicata al concetto stesso di folkhorror e al rapporto che, nello stivale, c’è con esso. Un qualcosa che sembra essere costantemente, ciclicamente rimosso e riscoperto in Italia, dove la relazione con questo vissuto che – volenti o nolenti – fa parte del nostro DNA, ha avuto una storia differente da quella riscontrabile nei paesi di lingua inglese, Inghilterra in primis. La seconda parte sarà invece un vero e proprio viaggio, da Nord a Sud, in quattro storie di folklore horror che potrebbero essere perfette per un film. Così come quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso si è rivelata particolarmente adatta per A Classic Horror Story per ragioni che non staremo qua a spoilerarvi.
Come nasce il tuo interesse verso il folklore italiano a tinte horror? Quali sono le ispirazioni del tuo nuovo Almanacco?
Nel libro si parla esplicitamente del folk horror che, da qualche anno, è un’etichetta ricorrente con una certa frequenza, perlomeno da una decina d’anni da quando Mark Gatiss l’ha usato come termine. Anche se, in realtà, esisteva già e veniva usato negli anni ’80 e negli anni ’70 per indicare una corrente di produzione cinematografica come ad esempio The Wicker Man di Robin Hardy e tutto ciò che aveva a che fare con una produzione di storie esterne al contesto delle città. Da lì è nata la voglia di indagare questo fenomeno in Italia dove comunque esistevano definizioni come quella di gotico pagano impiegata da Pupi Avati o gotico rurale impiegata da Eraldo Bandini. Da qui, insieme all’altro curatore del libro, Fabrizio Foni, abbiamo deciso di optare per una forma, quella dell’Almanacco, che richiamasse anche quella classica degli Almanacchi Bonelli di primi anni novanta, fine anni ottanta, quella forma miscellanea molto libera nell’inserimento dei temi e degli autori. Dall’altro c’era la volontà di giocare con quell’ambiguità che il termine popolare consente in italiano al contrario di quello che avviene in inglese, dove i concetti di “pop” e “folk” sono distinti in maniera netta. In Inghilterra viene naturale accostare la parola “pop” a un contesto urbano – l’etimologia stessa è latina no? “populus” – una cultura calata dall’alto per un pubblico urbano, di cittadini, mentre invece “folk” è un termine d’origine germanica che richiama da subito gli spazi extra-urbani dove l’influenza di Roma – o della Chiesa – non arriva e permangono forme estranee alla città. In Italia è tutto un po’ diverso: basti pensare al rapporto fra città e contado, siamo entrambi marchigiani, pensa al modello della Mezzadria che ha stimolato una osmosi fra il dentro e il fuori. In italiano il rapporto fra il concetto di “pop” e di “folk” è più sfumato e abbiamo deciso di sfruttarlo come una ricchezza. Per quanto riguarda l’interesse personale c’è, chiaramente, quello accademico, però si tratta di un qualcosa che è arrivato dopo, negli anni dell’Università, ma era un territorio, quello del folklore horror, che avevo già iniziato a percorrere perché ho avuto la fortuna di appartenere a quella generazione che ha visto l’ultima fiammata dei fumetti italiani horror splatter, la generazione della Dylan Dog Horror Fest, forse l’ultima generazione che ha conosciuto un certo tipo di libertà creativa di un mondo editoriale che poi è un po’ esploso su sé stesso.
Anche io, nonostante una conoscenza di massima di quelle che potevano essere o non essere le storie del folklore marchigiano, ricordo di aver scoperto molta aneddotica collegata all’orrore popolare italiano grazie gli Almanacchi Bonelli. La prima volta che ho letto del Parco dei Mostri di Bomarzo, la prima volta che ho appreso della sua esistenza è stato proprio tramite un Almanacco di Dylan Dog in anni in cui nessuno lo conosceva e le statue stesse neanche erano posizionate come nel percorso attuale. Adesso se “sbagli il giorno” in cui andare a Bomarzo trovi più fila che a Gardaland. Comunque, rispetto ad esempio al mondo anglosassone – andando in luoghi del Regno Unito puoi quasi toccare con mano l’intima connessione fra la dimensione fantastica del folklore e la geografia stessa dei posti che visiti – quali sono le peculiarità del nostro folk?
Chiaramente in Gran Bretagna c’è stata una vera e propria industria culturale da questo punto di vista. Fin dal dal XIX secolo c’è stata una notevole insistenza su certi temi che sono stati sdoganati anche a livello culturale. C’è stata una riflessione a 360° da parte dei folkloristi, degli scrittori “del mondo della cultura” che ha lasciato tracce molto forti nell’iconografia. Inizialmente, se pensi anche al romanzo gotico non esisteva neanche un’equazione che accostava necessariamente le isole britanniche a quel genere di storie, tanto che, se ci rifletti, Ann Radcliffe e Horace Walpole hanno ambientato le loro opere in Italia o, in generale, nell’Europa del Sud. È stata un’operazione culturale sul lungo termine che ha poi creato questa identità fra certi temi e certi luoghi d’Inghilterra. In Italia è stato tutto un po’ diverso: gli stessi studi di folklore e sul folklore nel corso del XIX secolo, anche sulla base di quelli inglesi, hanno preso una piega molto più storicistica. Non dobbiamo dimenticare il problema dell’unità nazionale e quelle che sono delle componenti ideologiche diverse: autonomismo versus centralismo, il filofrancesismo che tendeva a sopprimere le identità locali in funzione del razionalismo costruito sostanzialmente da zero. Ci sono spesso stati dei problemi di carattere politico e, indirettamente, anche culturale che hanno fatto sì che questi lavori producessero degli influssi più che altro sotterranei e meno visibile rispetto ad altri contesti. L’effetto di ciò – che mi hai confermato anche tu citando Bomarzo – è che si è creata questa narrazione per cui comunque esiste questa che io chiamo “Italia lunare”, seguendo un’intuizione di Ornella Volta enunciata in un articolo del 1971, che è come una specie di mondo “diverso” che soggiace all’Italia ai suoi miti più visibili, quell’Italia che scopriamo sbagliando l’uscita del casello autostradale trovandoci in un angolo impensato, quell’Italia che scopriamo da guide un tempo meno diffuse di oggi e decisamente più eretiche, quell’Italia che scopriamo svoltando un angolo senza saperlo. L’Italia di Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci in cui la morte della Maciara di Florinda Bolkan avviene a pochi metri dall’autostrada attraversata dalle macchine dei vacanzieri, che vanno al Sud da cartolina propagandato dai media dell’Italia del boom economico ignorando che, a pochi metri, esiste un’altra realtà, periferica e lunare, che mette in crisi proprio quel modello.
È una mia impressione o c’era davvero un maggiore distacco quasi razionale da queste tematiche in Italia rispetto alla già citata Inghilterra?
Attenzione però. Non a caso di ho parlato di narrazione, una narrazione diversa. Una narrazione qualitativa, più che quantitativa. Sono sempre molto diffidente verso chi dice che in Italia di queste cose non si parla e non vengono considerate dall’establishment culturale però poi, andando a scavare, troviamo che già gli scapigliati parlavano di certi temi e che esistevano alcune tradizioni ben precise. Ecco, io ritengo che il problema risieda nell’avversativa: è solo un modo diverso di raccontarle, ma in realtà è sempre presente, solo che noi è come se avessimo la necessità ricorrente di dirci che la stiamo riscoprendo. Ed è una cosa che avviene ciclicamente. Pensa ai reportage alla ricerca dell’Italia Misteriosa che – anno dopo anno – continuano a comparire. Pitigrilli, alla fine degli anni cinquanta, pubblicava “Gusto per il mistero”, poi c’è Dino Buzzati che lo fa nel 1965 con I misteri d’Italia, poi nel 1966 tocca alla Guida all’Italia leggendaria misteriosa insolita fantastica, negli anni settanta tocca alle inchieste di Gente, a Leo Talamonti con Gente di Frontiera, negli anni ottanta arriva un ‘inchiesta dell’allora nota come Fininvest, poi gli Almanacchi… Insomma, non è che le cose non ci sono è che, ciclicamente, bisogna dire “sembrerebbe che non ci sono, però in realtà ci sono”. Sai, basta avere un’infarinatura di Freud per capire che anche questo discorso qui nasconde qualcosa: la gioia del riscoprire quello che si sa esserci già. Anche questo è un meccanismo che dà piacere e c’è un ciclico riscoprire che l’Italia non è solo il paese del realismo più o meno neo.
Vero, però sai, parlando del settore dell’intrattenimento, una certa ritrosia si avverte, tanto che quando qualcuno si dedica a storie del genere, in cui sicuramente rientra anche A Classic Horror Story, c’è sempre uno stupore di fondo. Questa ritrosia può essere collegata alla presenza forte dell’elemento cattolico, dello Stato Vaticano e – di converso – alla forte componente di razionalismo marxista, queste due forze opposte che sono finite per avere questo effetto comune?
Sicuramente queste forze hanno avuto un loro peso nel far sì che, ad esempio, un certo tipo d’industria dell’intrattenimento venisse marginalizzata. Ma non dimentichiamo che ci sono stati anni in cui Dylan Dog piazzava 600k copie al mese, o un decennio in cui il cinema italiano era al top per il thriller parapsicologico e l’horror puro. Al netto di tutto ciò, il ruolo della Chiesa cattolica da un lato e del marxismo dall’altro, senza dimenticare il ventennio fascista e il lungo lascito dell’idealismo crociano e gentiliano, sono stati tutti agenti che, in un certo senso, hanno contribuito a una marginalizzazione che, comunque, ha avuto come effetto quello di una corporativizzazione. E ci ritroviamo con un pensatore come Ernesto de Martino che, partendo da premesse strettamente crociane, le mescola con l’interesse per lo spiritismo maturato nella sua giovinezza e in due libri come Il Mondo Magico e Morte e pianto rituale nel mondo antico riesce a fare qualcosa con il folklore e la ricerca parapsicologica che non ha precedenti, neanche in altri contesti compreso quello angloamericano. Per quel che riguarda il comunismo c’è un bellissimo libro di Francesco Dimitri di circa una ventina di anni fa intitolato Il comunismo magico in cui parla sia dei paesi del comunismo reale che in quelli influenzati da esso, dalla sua onda lunga, di come anche il materialismo dialettico e storico sia infestato da fantasmi di vario genere e abbia prodotto i suoi frutti impuri, magari irriconoscibili secondo le categorie del gotico ottocentesco, ma comunque esistenti. Anche autori del “gotico italiano” come Dario Argento, Lucio Fulci, che si dichiarava esplicitamente comunista, Gianfranco Manfredi che militava nella sinistra extra parlamentare, gente che arriva all’horror non “nonostante” la militanza politica, ma attraverso di essa. Il discorso cattolico, specie poi in zone come le Marche che sono appartenute allo Stato Pontificio, ha contribuito a far sì che si sviluppasse una ritrosia per un certo tipo di realtà, quell’incredulità che aumenta quanto più ti avvicini al cuore stesso del potere Vaticano. Però, al tempo stesso, molto del folklore più autenticamente perturbante in Italia non è che lo si trova tanto nelle credenze relative a fantasmi e case infestate e compagnia bella, ma lo troviamo nelle narrazioni dei ritorni dal Purgatorio, che è una cosa su cui la Chiesa stessa non picchia più dopo il Concilio Vaticano II ma per le generazioni dei nostri nonni, e forse anche dei nostri genitori, i resoconti sulle anime del purgatorio facevano parte del pane quotidiano quando si andava al catechismo. O delle apparizioni del diavolo. Quelle sono le nostre storie di fantasmi. In Italia le cose come queste devi cercarle in contesti diversi. Nelle storie del catechismo, nei prontuari dei predicatori, ma anche nell’editoria maggiore senza che queste robe venissero in qualche modo segnalate in copertina con la scritta “romanzo gotico o di fantasmi”, ma in realtà quello erano. Penso a certe opere di Mario Soldati, o anche a un romanzo come Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani che si legge tranquillamente al ginnasio. Sembra una storia sulla guerra e le leggi razziali ma propone una delle descrizioni più efficaci di una seduta fatta con la tavoletta Ouija che ci siano nella letteratura italiana. Una seduta spiritica sta al centro del Fu Mattia Pascal di Pirandello. Nella Coscienza di Zeno. Nel Giornalino di Gianburrasca.
Però appunto, e parlo da amante di questi argomenti da sempre, nelle mie memorie di studente del classico, ricordo bene lo stupore provato nel leggere certe cose nelle opere di autori da cui non me le sarei mai e poi mai aspettate. Non ero mentalmente preparato come quando leggevo le opere di un Conan Doyle, che sapevo essere uno spiritista.
Sì, ed è più efficace, no?
Assolutamente sì.
Perché poi se pensi alle convenzioni del genere, anche alle stesse copertine, all’apparato editoriale che dovrebbe prepararti quando ti avvicini a un opera… E invece quando leggi Il fu Mattia Pascal niente ti prepara a quello. Soprattutto niente ti prepara alla presa di coscienza che, a un certo punto in quella seduta che viene comunque descritta con tutti i toni farseschi e ironici del caso, che quasi si fa beffa dello spiritismo, però a un certo punto qualcosa succede. E quel qualcosa resta senza spiegazione.
La sinossi ufficiale di A Classic Horror Story:
Cinque carpooler viaggiano a bordo di un camper per raggiungere una destinazione comune. Cala la notte e per evitare la carcassa di un animale si schiantano contro un albero. Quando riprendono i sensi si ritrovano in mezzo al nulla. La strada che stavano percorrendo è scomparsa; ora c’è solo un bosco fitto e impenetrabile e una casa di legno in mezzo ad una radura. Scopriranno presto che è la dimora di un culto innominabile. Come sono arrivati lì? Cosa è successo veramente dopo l’incidente? Chi sono le creature mascherate raffigurate sui dipinti nella casa? Potranno fidarsi l’uno dell’altro per cercare di uscire dall’incubo in cui sono rimasti intrappolati?
Girato in Puglia e a Roma e prodotto da Colorado film, A Classic Horror Story è “una classica storia dell’orrore”, come suggerisce il titolo: un omaggio alla tradizione di genere italiana che, partendo da riferimenti classici, arriva a creare qualcosa di completamente nuovo.
A Classic Horror Story è diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli e uscirà su Netflix il 14 luglio.
2 notes
·
View notes
Text
So chi sei e perché l’hai fatto
Finalmente un fine settimana ricchissimo, quello appena trascorso sui migliori canali della tivvù: alla tanto attesa seconda puntata del coming out dell’ormai eroe nazionale dei diritti LGBT ospite a Verissimo segue a sorpresa su La7 un approfondimento da inchiesta graffiante sull’AresGate con Giletti che intervista addirittura Tarallo in persona, altrimenti noto come Lucifero, praticamente estraneo a ogni apparizione tv. Un polittico che contrappone da una parte un nuovo Garko, loquace, prolisso e spesso tendente alle lacrime e dall’altro l’affermato produttore, pacato, dai toni misurati, che però sul finale ricordano quelli della malavita organizzata.
Ma andiamo con ordine.
L’intervista a Garko è una discreta palla che un po’ ho pure dormito un quasi monologo ricco di sfumature. A differenza delle precedenti ospitate che ci offrivano un divo misterioso e sfuggente dai mille segreti, qui sviscera con riflessioni e digressioni ogni punto, facendo riferimento anche al suo percorso psicanalitico, di fronte a una Toffanin (distante sei metri come da normativa) che per gran parte dell’intervista se ne resta in silenzio, con una espressione permanente sul volto da “esticazzi” ma che sembra direi anche “fossero tutti questi i problemi Gabriè”. Mentre lui, pur ricordando a ogni piè sospinto che non intende fare la vittima, narra delle sue sofferenze e dei suoi dolori di un percorso che alla fine regala pochi scoop. La storia di mamma e papà che hanno sempre saputo, la negazione per poter lavorare nel settore, i paparazzi ovunque, il rapporto con Eva Grimaldi, Adua con la quale a malapena si incontravano, la sua riservatezza intrinseca e, severo ma giusto, una battuta di profondo sdegno e di buonsenso contro chi nei giorni scorsi lo ha accusato di aver ricevuto cachet stellari per il suo coming out, che alla fine a ogni ospitata televisiva sossoldi e non si capisce perchè queste ultime due debbano fare eccezione (Selvaggia Lucarelli, per caso vai a fare ballando con le stelle a gratis? Eh??).
A un certo punto la Toffanin (che per lo più pare davvero disinteressarsi dell’andamento dell’intervista) interviene con toni sobri: “Sì va bene ma tu hai mai avuto degli amori tuoi? O hai del tutto ucciso te stesso?”. Segue emozione di Garko, un sorso d’acqua dal bicchiere, silenzio, turbamento, lacrime, Garko invoca la pubblicità, lo sa che ora può parlare ma non ce la fa, è più forte di lui. Mentre lei hai ripreso la sua posizione da sfinge e se ne sbatte. Qualcosa di più esce, un fidanzato di 11 anni che finge di essere solo un amico e di abitare in un altro luogo anche agli occhi della governante di casa Garko (giuro, dice veramente governante), la storia con Gabriele Rossi che ora è finita e una storia che sta muovendo i suoi primi passi ma insomma anche qui sbadiglioni interrotti solo dal momento comico in cui lei poi citando il libro di Garko uscito qualche tempo fa ricorda tra le altre cose “alcuni pregiudizi in merito alle tue capacità di recitazione da parte della critica”. Alcuni.
Certo, con un’ingenuità che va ben oltre l’ingenuità standard Mediaset e che la Toffanin tenta di arginare, ma con un modo anche tutto sommato decente che ci dice “nessuno mi ha costretto”, Garko accenna i contorni di una tassonomia dei mestieri dello shobiz sui quali sia stata sdoganata l’omosessualità e quali no: il cantante sì, il calciatore no, e via discorrendo. Del resto, aggiungo io, così a bruciapelo vi viene in mente il nome di un altro attore italiano dal successo nazional popolare che sia omosessuale dichiarato? Perfino la Toffanin cede e si trova a citare il triste destino di Rupert Everett.
Si conclude chiedendo a Garko, che è poi la questione che ci sta più a cuore di tutte, se questo suo coming out inciderà sui ruoli che interpreterà in futuro (su questo vorrei anche rimandare i lettori ad approfondire la posizione del manzissimo Darren Chriss in merito), e se si orienteranno più su personaggi etero o gay: non so se mi ri offriranno parti come quella di Tonio Fortebracci dice lui (e questo ci getta nella disperazione, ndr) ma del resto ho già interpretato ruoli di omosessuali come ad esempio - interpretazione fantastica ci tiene a sottolineare la Toffanin - nelle Fate Ignoranti. E qui chiuderei, rimembrando l’unica interpretazione del nostro beniamino veramente degna di questo nome, che però, ricordiamolo, credo sia racchiusa tutta in 3 battute da malato terminale che per gran parte del film giace su un letto o atterrito sotto la pioggia.
Ma per svegliarci un poco spostiamoci nello scoppiettante studio di Giletti dove lui ci attende con l’espressione delle inchieste più serie e delicate! I più attenti ricorderanno che dopo le dichiarazioni di Adua del Vesco - alias Rosalinda - e quell’altro del grande fratello vip, gravissime come ricorda Giletti stesso, che lanciavano come petali dalla finestra accuse di sequestro di persona, plagio e istigazione al suicidio, si erano susseguiti in settimana pareri autorevoli divisi a squadre: Manuelona nostra e nientepopodimeno che Ursula Andress si erano levate sdegnatissime in favore della generosità e integrità di Tarallo, Giuliana de Sio e Nancy Brilli avevano solo lievemente preso le distanze dal modus operandi della Ares sottolineando come non avessero poi granchè piacere a lavorarci e il buon Francesco Testi, meglio noto come Renè Rolla dei nostri cuori, ha fatto una sintesi brillante tipo l’amico un po’ regaz dichiarando che finché la regola della casa di produzione era di scopare in giro senza fidanzarsi a lui era andata poi bene, ma che lui poi è una persona quadrata e quindi non teme condizionamenti.
E a questo punto arriva in tivvù Tarallo, insignito da Giletti del titolo di Re delle Fiction. Tarallo che viene da una famiglia devota a Padre Pio, Tarallo che ha fatto il coming out a 14 anni, Tarallo che è in studio solo per onorare la memoria del suo compagno Teodosio Losito. Losito che, ricordiamolo, prima di questo momento era stato seppellito con una certa furia nei campi dell’oblio, e solo noi e pochi altri ne sentivamo una struggente mancanza.
Tarallo che accompagnato passo passo da Giletti costruisce una narrazione di sé di vero e proprio, generosissimo, benefattore di tutti gli attori, nel ridente contesto di Zagarolo che, tra ville di attori famosissimi, dependance di Vip e Vippissimi, santo cielo vi prego qualcuno mi ci porti. Lui ha sempre fatto il bene di tutti, aiutando, formando, lanciando, offrendo lavoro, seguendo e consigliando, facendo anche da supporto psicologico, senza mai obbligare nessuno. Lui insieme a Teo, si capisce, che era l’animo più sensibile. Quasi mai contrasti con nessuno, solo una volta “Quando diedi ad Adua e Morra da leggere Il Giovane Holden e Il piccolo principe” (faceva parte della formazione a quanto pare, che bellissimo) e mi prendevano in giro fingendo di averli letti” (capre!!). Una immagine questa poi confermata da 3 attori che interverranno dopo in studio per raccontare la loro esperienza con la Ares e osannare Tarallo. Si difende con sdegno dalle accuse ricevute e infila su Adua una serie di affermazioni che la fanno uscire, così cos,ì come una psicolabile diciamo.
E poi. Poi si prepara per il gran finale. Cioè dopo aver tenuto per tutta l’intervista un tono mediamente sobrio, un modo affabile e pacato da professionista della TV, mette la freccia e supera a destra Garko e il picco trash della lettura della lettera ad Aduarosalinda.
Sempre spalleggiato da Giletti, si alza e tra le lacrime, con alle spalle una foto di Teo, legge la lettera che Losito gli ha scritto poco prima di suicidarsi. Così, senza motivo, se non per difendersi dall’accusa gravissima lanciata da Auda. Ma no, non è Adua, Adua è solo uno strumento: è stata plagiata poverina che è mezza instabile, dietro a lei e a Morra c’è una macchinazione di una persona che si muove contro di lui.
E quindi infine, con uno sguardo degno del migliore fetuso, sibila "A questa persona voglio dire: “So chi sei e so perchè l’hai fatto. Chi ha distrutto Teo non distruggerà me, perchè io sono più forte”.
Cala il sipario. E forse questo climax è il miglior omaggio a Losito in cui potessimo sperare.
6 notes
·
View notes
Text
DANNI COLLATERALI......
L'emergenza coronavirus sta evidenziando l'inadeguatezza di un modello di sviluppo che sembrava l'unico possibile. Un sistema badato solo sul profitto, nel quale anche la ricerca e l'innovazione devono essere indirizzate verso il guadagno e non il beneficio collettivo e la liberazione dell'umanità dalla fatica e dalle malattie. Da troppo tempo si è perseguito l'obiettivo di togliere qualsiasi funzione allo Stato imponendo l'ideologia secondo la quale solo il privato serve ed è efficiente. Oggi vediamo come questo pensiero unico sia non solo ingiusto ma sbagliato. I tagli alla sanità pubblica in posti letto, strutture, personale e la progressiva precarizzazione del lavoro e della vita dei cittadini hanno ingigantito il problema di un'epidemia nuova e difficile da curare.
Un'epidemia che ha imposto la “quarantena” a tutto il paese. Si resta a casa impauriti e sgomenti. Sembra di vivere in uno di quei film catastrofisti che spesso abbiamo visto con qualche disagio. Ma quella, lo sapevamo, era finzione. Oggi la stiamo vivendo. E cominciamo a vedere i “danni collaterali” di quella che molti definiscono “guerra”.
C'è la notizia di un giovane lavoratore precario morto suicida. Ucciso dalla precarietà. Perché anche se si scrive di uno stato di depressione, il suo disagio è stato reso insopportabile dal licenziamento a causa della crisi dovuta al coronavirus. Forse ce ne rendiamo conto solo adesso ma abbiamo “regalato" a tutti e in particolare ai giovani la disperazione. Una società spietata (non competitiva, proprio spietata) che ci ruba il futuro trasformandolo nella necessità del profitto non ha nulla a che fare con l'umanità. Questo lavoratore si è ucciso perché il sistema con le sue regole infami ci costringe da troppo tempo alla mancanza di felicità.
Si legge di una rabbia crescente e di “assalti” ai supermercati. Qualcosa di cui preoccuparsi, soprattutto se è vero che sono organizzati da quel capitalismo parallelo ed estremo rappresentato dalla malavita organizzata.
Si abbia però coscienza che questo è il risultato di una politica che ha permesso e incentivato la disuguaglianza sociale, che non ha distribuito ricchezza ma la ha concentrata in una minoranza di privilegiati ricchissimi. Una politica che ha permesso e incentivato lo sfruttamento delle persone e dell'ambiente. Un sistema per il quale si deve lavorare in pochi e sempre di più e a costi sempre minori. È un modello di sviluppo spaventoso nel quale il lavoro nero è una forma abituale di lavoro e si può inquinare e distruggere l'ambiente impunemente perché tanto nessuno mai verrà punito.
Così, in un momento di emergenza e di chiusura delle attività non necessarie alla sopravvivenza, la mancanza di garanzie di lavoro e di retribuzione diventa devastante. Il risultato può essere rassegnazione o diventare rabbia. E la rabbia di persone che non hanno di che mantenersi, che lavoravano in nero e che, oggi, sono prive di reddito, è qualcosa di logico e prevedibile.
In una società “ricca” e “civile” come la nostra non è comprensibile (e tanto meno ammissibile) che circa il 10% della popolazione versi in stato di completa povertà e che soffra letteralmente la fame. E non si può pensare neppure di risolvere la cosa con qualche elemosina necessaria, forse, a superare la contingenza ma non sufficiente a risolvere il problema. E non si può pensare di continuare, finita l'emergenza, con le pratiche oscene di un sistema inumano. Ci vogliono trasformazioni profonde, strutturali, e obiettivi completamente diversi da quelli del capitalismo trionfante.
Siamo nel mezzo di una “guerra”, sostengono in tanti, contro un nemico invisibile e pericoloso. Lo dobbiamo sconfiggere con l'unità e la solidarietà di tutti. E anche questa necessità evidenzia la brutalità del sistema nel quale stiamo vivendo. La parola solidarietà è stata cancellata dal vocabolario del capitalismo globale, sostituita da termini quali competizione, mercato, finanza, profitto, individualismo …
Quelli che vediamo (morte, suicidi, rabbia, rassegnazione) sono danni collaterali del coronavirus? Forse, ma quello che è sicuro è che sono il prodotto di un sistema che ha mostrato, proprio nel momento del bisogno, il suo vero volto inadeguato, spietato, inumano.
Giorgio Langella - Dennis Vincenti Klapijk
23 notes
·
View notes
Photo
Roxanne, 21 years old. Living in LA. “My name is Roxanne, but my friends’s name is just Rox. I was a good kid until the age of 16. And then my brother died and I suffered ... In memory of him, I made my first tattoo ... When I'm on the edge - it seems that he’s closer. I can tell you about myself that I love tattoos, extreme sports, and sports in general. I study for a journalist and dream of interviewing a real mafia leader. In general, I would not mind becoming a part of it. I love the film Malavita, he’s like about her. Godfather, of course. I like dogs very much. Husky and Dobermans are especially liked. From music I prefer wretch and rock. A strange combination, huh? That's all you need to know. The rest is a secret ... "
3 notes
·
View notes
Photo
Anche nel film "Nessuna pieta" di Richard Pearce la trama è imperniata su una fuga. Questa volta non siamo in una metropoli, ma nelle paludi della Louisiana, ma cambia poco. Un poliziotto (Richard Gere) fugge insieme con la testimone di un omicidio (Kim Basinger), inseguiti entrambi da un cattivone, che è il padrone incontrastato della malavita locale oltreché della bella testimone che, guarda caso, è la sua donna. Il film appartiene al genere poliziesco dove il thrilling è innescato dal fatto che a trovarsi in pericolo è proprio il poliziotto, che dovrà fare appello a tutta la sua abilità per salvare la pelle sua e della testimone. Gli elementi costitutivi del thriller, minaccia, nascondiglio, fuga, inseguimento, salvezza o morte, sono ampiamente rispettati. — view on Instagram https://ift.tt/mlgdARn
0 notes