#fallimenti
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“Non ci sono errori o fallimenti, solo lezioni.”
— Denis waitley
#esserci#essere#frasi errori#errori#fallimenti#lezione#lezioni#lezioni di vita#frasi e citazioni#frasi#frasi tumblr#denis waitley#frasi profonde#frasi ad effetto
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Si torna?
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In Bulgaria è stato fatto un minuto di silenzio prima di una partita di calcio per ricordare un ex calciatore che però era ancora vivo
La squadra si è scusata e gli ha augurato “molti anni di buona salute”
Fonte: https://www.rainews.it/amp/articoli/2025/03/bulgaria-un-minuto-di-silenzio-per-ex-giocatore-ma-e-ancora-vivo-2db25cda-46c0-4727-af57-9069a07445c7.html
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I fallimenti sono soltanto semi che impiegano più tempo per crescere. È quando non cresci che fallisci davvero.
Anna
▶︎ Il tuo Scopo ▶ T.me
#crescita personale#il tuo scopo#lavoro su di sè#conosci te stesso#spiritualità#consapevolezza#crescita spirituale#crescita interiore#evoluzione#volontà#fallimenti#semi#responsabilità
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La forza si ottiene con i fallimenti, non con i propri successi.

Coco Chanel
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Failures, una mostra sul fallimento nell’arte e nel design https://www.design-miss.com/failures-mostra-sul-fallimento-nellarte-nel-design/ Failures, la #mostra dedicata ai pezzi unici, mai andati in produzione…
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Difficile farle una cazziata quando ti fa ridere come un cretino.
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La Russa difende Lollobrigida: «Invito Elly Schlein a mangiare un piatto povero come la pasta alla norma» al Twiga
Non solo non hanno vergogna, ma giocano a tirare la corda.
Secondo me tra di loro stanno facendo una gara a chi la spara più grossa senza pagarne le conseguenze.
#la russa#lollobrigida#fdi#cognato#meloni#fratelli d'italia#santanchè#fallimenti quotidiani#pasta alla norma
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È incredibile come, dopo trent'anni di fallimenti clamorosi, ci sia ancora in giro gente che vede nell'UE l'unico futuro possibile per l'Italia.
Siccome detesto le chiacchiere inutili, ho imparato col tempo ad andare al nocciolo delle questioni. E con questi tifosi dell'UE, progressisti o conservatori che siano, alla fine si arriva sempre alla colonna portante del loro amore per lo straccio blu: un profondo disprezzo per l'Italia.
Tutto il resto è un orpello, una mera costruzione retorica. Il fatto è che queste persone, limpidamente o meno, pensano che gli italiani non siano altro che inutili pelandroni, a cui serve una guida esterna.
Il bel paese è uno straccione invitato al gran ballo di corte: deve solo ringraziare di esserci e sedersi in disparte, imparando da chi è meglio di lui.
Da vomito.
Quando capisci qual è il pensiero di fondo di questi piccoli servetti esterofili, puoi mandarli a quel paese risparmiando discussioni odiose e inutili.
Matteo Brandi
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Niente più della UE ha contribuito a riportare il nazismo in Europa.
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« È molto meglio stare da soli e sentire che è la cosa giusta
piuttosto che avere una relazione e sentirsi dei falliti tutto il tempo. »
— Grey's Anatomy
#stare da soli#relazioni#relazione#cosa giusta#sentirsi sbagliati#fallimenti#frasi tumblr#frasi#frasi e citazioni#grey's anatomy
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Vi svelo tre piccoli segreti.
Primo piccolo segreto. A nessun giudice conviene indagare un politico, soprattutto se quel politico può scatenare mandrie di trogloditi e feccia semi analfabeta contro quel giudice con dei post sui social. Se però quell’indagine è un atto dovuto, il giudice non può evitare di indagare quel politico.
Secondo piccolo segreto. Agli avversari di quel politico non conviene che venga indagato, perché sanno bene che appena ricevuto quell’avviso di garanzia inizierà a fare la vittima, a frignare contro la “magistratura politicizzata”. E frignando eviterà di rispondere dei suoi fallimenti: dalle promesse non mantenute al disastro dei trasporti, dalla ministra indagata per aver truffato lo Stato all’aumento della povertà.
Terzo piccolo segreto. Se un giudice può indagare un politico, persino una presidente del Consiglio, vuol dire che il nostro sistema democratico funziona. Vuol dire che nessuno è al di sopra della legge, vuol dire che non esistono cittadini di serie A e cittadini di serie Z, almeno nelle aule dei tribunali. In Italia, negli ultimi decenni, molti politici hanno rubato, si sono fatti corrompere, in alcuni casi hanno persino stretto accordi con le mafie. E ci sono stati giudici che hanno perso la vita per combattere le mafie, altri che hanno assicurato alla giustizia criminali come Totò Riina e Matteo Messina Denaro. Ci sono riusciti perché non hanno avuto paura di indagare persone potenti.
L’Italia ha liberato un trafficante di esseri umani, un torturatore, un assassino. E lo ha accompagnato a casa con un volo di Stato. Che un giudice raccolga una denuncia e la trasmetta al Tribunale dei Ministri è abbastanza normale. Quello che non è normale è che una presidente del Consiglio metta alla gogna quel giudice e chi ha sporto la denuncia.
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A Torino un tifoso ha cercato di entrare allo stadio per vedere la partita della Juventus, che però quella sera giocava in Belgio
Quando la vigilanza gli ha detto che non poteva entrare ha dato in escandescenze ed è stato arrestato
Fonte: https://www.today.it/cronaca/tifoso-juve-stadium-arrestato.html
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La nostra vita finisce quando diventiamo silenziosi sulle cose che contano!!!
C’è un’isola che si è formata improvvisamente nel Mar Mediterraneo dinnanzi a quel territorio palestinese… Se la si guarda da lontano ha la forma di un uomo che non trova pace, già… è come se riflettesse su tutti i fallimenti commessi!!! Debbo forse credere che quella sua presenza debba far comprendere agli uomini di aver perso la speranza, che questo mondo stia evidenziando d’esser estraneo ai…

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#conflitto#crimini#dolore#fallimenti#grida#idee#isola#israele#lotta#mar mediterraneo#pace#palestina#principi#rassegnazione#regole#religioni#sofferenza#vita.#vittime
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«Ora ci prendiamo cura di lei, non più della malattia». La dottoressa consulente di terapia del dolore usa queste parole per dirlo a mia madre. La diagnosi non lascia spazio: tumore al polmone al quarto stadio con metastasi alle ossa e al fegato, in corso una polmonite interstiziale. Mia madre, per vivere, deve essere attaccata a una bombola di ossigeno. Altrimenti non satura. È sotto antibiotico da giorni. E ha già iniziato gli oppioidi per i dolori alle ossa.
Poi, l’«offerta terapeutica», come la chiamano: se non se la sente di andare a casa, può scegliere di restare in hospice. È un suo diritto.
«Vuoi cambiare stanza mamma? La 4 ha la vista più bella…». «No, resto qui». «Saggia sei, non si rubano le stanze ai morti, questione di karma», le dico ridendo. Scherzare su tutto compresa la morte per tenerla fuori dalla porta, abbiamo sempre fatto così. Nella mia testa risuonano ancora le parole di alcuni parenti e amici che, non consultati, le hanno detto: gli hospice sono posti da poveretti, torna a casa.
Svizzera, eutanasia, suicidio assistito, cure palliative, morfina. Sono solo parole finché non ci passi in mezzo, poi diventano questioni gigantesche da affrontare con cervello e cuore. Chi non ne ha di entrambi, è meglio che taccia.
Siamo la stanza 10. L’ultima. Quella in fondo al corridoio, girato l’angolo, vicino alla cucina degli infermieri. Di giorno sentiamo cantare i due pappagalli la cui gabbia si trova nella sala comune, Dante e Beatrice. Ridendo ci diciamo che sono odiosi. Ma quando scopriamo che uno dei due ha l’alopecia ci preoccupiamo molto.
La mattina ci svegliamo con il profumo della caffettiera degli infermieri. Dormo in una poltrona letto scomodissima ma mi sembra la cuccia migliore del mondo perché è di fianco al letto di mia madre. C’è un frigo in cui si può mettere il cibo portato da fuori.
«Una settimana di vita, al massimo due», è stata la sentenza dell’oncologo. «In hospice ha qualche speranza in più perché la curano sicuramente meglio».
In realtà, la camera dove resteremo per i successivi due mesi è tutt’altro che da pezzenti. Non è di lusso, è dignitosa.
Di quella stanza, insieme, iniziamo a imparare a conoscere le ombre che sole e luna lasciano sul muro tinteggiato di rosa. Col passare dei giorni, le infermiere e gli infermieri diventano personaggi mitologici di cui scoprire le storie. Natalia, russo-ucraina, gli occhi duri, simpatica. Liuba ucraina, ma del Sud, occhi azzurri ma dolci. Eleonora, milanese, che a giugno va in pensione e con lei troviamo sempre il modo di ridere. Le Oss e gli Oss (gli operatori socio-sanitari) diventano il nostro mondo. Dopo un po’ ti parli senza aprire bocca. Altre volte parli troppo come con Estrella che un giorno mi dice: stanotte ho sognato tua madre, non so se è un buon segno. O con chi, come Stefania, si sta specializzando e ti ricordi di chiederle come è andato l’esame. O Maria, la cleaner ecuadoriana che entrando in stanza è sempre arrabbiata ma se le dici buongiorno si illumina e non la smette più di raccontare e di cantare.
Donne, quasi tutte donne, perché del dolore, certo, si devono occupare le donne. Così anche le cose che sembrano più inutili, diventano utili. I profumi, come stanno le piante, cosa hai sognato stanotte, le vibrazioni, le premonizioni. È Cicely Saunders, la pioniera delle cure palliative. Primi del Novecento, la famiglia desidera per lei l’università di Oxford, ma lei vuole diventare infermiera. Durante le notti interminabili in corsia negli anni della Prima guerra mondiale, Saunders vede morire tra sofferenze indicibili ragazzi forti e coraggiosi, suoi coetanei. Comincia ad annotare i tentativi e i fallimenti, le intuizioni, le buone pratiche che consentono di lenire la sofferenza. Osserva urine, feci, temperatura, respiro, il “dolore erratico” che si presenta a ondate e gli effetti della morfina che sembra alleviare solo per pochi istanti gli spasimi. Nel 1967 riesce ad aprire il primo moderno hospice, un luogo in cui poter essere curati, assistiti anche dai propri familiari vivendo con dignità, gli ultimi istanti.
SI PROVA A GALLEGGIARE, CI SI AGGRAPPA A QUELLO CHE C'È, A CIO' CHE RESTA DI QUESTE VITE
È come combattere una guerra senza armi. A volte, ti puoi solo sedere e aspettare provando a tenere il plotone di esecuzione fuori dalla porta, con i discorsi più stupidi e quelli più profondi mescolati insieme. I reparti di cure palliative – gli hospice appunto – non sono attrezzati come tutti gli altri. Non si interviene in emergenza, si fanno poche analisi. Si prova a galleggiare, si dosano i farmaci come a fare dei cocktail per stare in bolla. E ci si aggrappa a quello che c’è, quello che resta.
Se la nottata non è tranquilla o se comunque dormire è difficile, cammino in corridoio. Su e giù, guardo dentro le stanze degli altri. Alla 6 c’è un signore moldavo, è/era un autista di tir che faceva su e giù sulle rotte dell’Est Europa. Con sua moglie che di giorno fa le pulizie e non sa più dove sbattere la testa parliamo per due volte dell’Ue e della guerra. Siamo giunte alla conclusione che è un mondo dove poche cose hanno senso. Alla 8, una signora algerina sta con il velo in testa anche a letto e quando il marito viene a trovarla gli fa delle ramanzine spettacolari. Parla in arabo, non capisco bene cosa gli dice ma comunque faccio il tifo per lei. Con suo figlio autistico, una volta, ho giocato mentre aspettava con la sorella che medicassero sua madre. Alla stanza 1, una notte, è morto un muratore di Cremona, un toro di 120 chili che le infermiere smadonnavano quando dovevano girarlo. Aveva un tumore rarissimo del polmone. Lascia un figlio di 6 anni e una moglie piccolina, insegnante di sostegno, con cui ci siamo abbracciate giù in ingresso mentre lo portavano in obitorio.
E infine c’è Paola, manager di una grande azienda. Stanza 7, madre piemontese tostissima ma che la adora, figlia unica anche lei, caregiver che non stacca un attimo. Siamo diventate subito amiche, a fare pausa e mangiare i toast giù al bar. Un regalo. «Non tutto forse succede per caso», mi ha detto un giorno mentre cercavamo di trovarci un senso. Sembra Il Bar sotto il mare di Stefano Benni, che mia madre mi leggeva quando ero piccola. Ognuno con la sua storia, ognuno col suo dolore e la sua gioia. Bolle dentro la bolla, dove c’è una quantità di vita tale che in certi momenti ti fa fare pace con il mondo in guerra.
Ma quando il dolore tracima è un posto tutt’altro che letterario o romantico.
A volte, sono scappata per qualche ora a farmi una doccia, a togliermi di dosso l’adrenalina che il dolore di chi ami e la tua paura ti lasciano sulla pelle e sui capelli.
Ma sono sempre tornata.
Fino alla fine. Fino al 6 febbraio alle 20.50, fino all’ultimo respiro, quello più leggero, in pace.
Da un articolo sul Corriere della sera
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Il lavoro, madama morte
Ultimamente mi capita sempre più spesso d’impegnare le poche ore di riposo godibili nel malatteso terrore di ricevere messaggi o telefonate di mamme indignate per il manchevole lavoro svolto o per i deludenti voti emersi sul registro. So che la massima causa di questa paura risiede in un trauma vissuto la scorsa settimana, quando ho dovuto urlare al telefono per un quarto d’ora con una mamma incazzata col figlio per aver preso 5 in scienze (figlio alla prima insufficienza, dopo aver chiuso il primo quadrimestre con una media oscillante tra l’8 e il 9). Risultati che, tuttavia, non le hanno impedito di spaccargli con rabbia la Playstation, una volta scoperto il 5. Ho urlato perché volevo difendere il ragazzo più che il mio lavoro, apparentemente non in discussione, e far ragionare i genitori sugli effetti nefasti di simili atteggiamenti venefici, ma è stato come conversare in discoteca, la mia voce sovrastata dalla sua, come tracce audio parallele senza alcuna possibilità d’incontro. Chiaramente è finita solo quando mi sono arreso a seguirla docile e mansueto, belando una serie di: “Sì, sì, certo”, ed ero pur certo fosse finita lì, ma solo adesso mi rendo conto che quei quindici minuti m'hanno drenato così tanta energia da creare in me una valanga, per cui ogni nuovo messaggio o piccola crisi si somma alla precedente, fino a stendermi. Hai voglia a dirmi "Assertività e distacco!", a ripetermi che facciamo sempre del nostro meglio e che non dobbiamo far dei loro successi o fallimenti nostre personali vittorie e sconfitte. Un mesetto fa è successa una cosa piuttosto esemplare in questo: Jacopo aveva un’interrogazione di geografia quel mercoledì e ci eravamo preparati tanto il giorno prima. Veniva da alcuni voti non proprio eccezionali e mi sentivo il fiato della madre, pur silenziosa, sul collo. Quando sono arrivati i suoi compagni e, uno dopo l’altro, mi hanno comunicato che Jacopo aveva preso 5, mi si è fermato il sangue e mi sono spento, disattivato. Vagavo per il doposcuola, muto, senza riuscire a pensare ad altro, presentendo la visita della madre come la falciona di Madama Morte. Poi, mentre guardavo oltre le finestre, l'ho visto arrivare, Jacopo, tutto tronfio e sorridente e ho pensato: “Cazzo ha da ridere quel coglione, ha preso 5”. Lui è entrato e con l’espressione più candida al mondo, mi ha detto: “Ho preso 7, era uno scherzo!”. Sono rimasto a fissarlo, pallido e in silenzio per una ventina di secondi, poi l’ho mandato a fanculo e non ho più voluto vederlo né parlargli per un paio d’ore. Loro non l’hanno più fatto, ma tutto ciò mi ha fatto riflettere. Per loro è un gioco, un po' come quando litigano, si menano e io mi sveno per fargli far pace, e poi un’ora dopo sono lì a ridere e scherzare, giocando insieme. Sufficienze, non sufficienze, litigi, spiate, a quell’età nulla è realmente una tragedia. Lo sto interiorizzando pian piano, il problema è quando devo poi spiegarlo a genitori morbosi, che come primo aureo argomento hanno sempre da esibire l’ottimo: “Io pago���”, frase che negli ultimi tempi mi ha portato più volte a pensare di ridefinire il mio futuro, ponendomi quanto più lontano possibile dalle esigenze malate di clienti e padroni. Ho deciso che se, ma forse sarebbe meglio dire quando, lascerò questo lavoro, farò qualcosa che non abbia nulla a che fare con l’erogazione di servizi, né con la vendita di beni artigianali autoprodotti, nulla che possa essermi rinfacciato o per cui dovermi sentire sempre e costantemente sotto esame (sempre chiaramente da indipendente). Una libreria, forse, o un’edicola. Di certo non potranno rompermi il cazzo per un giornale. Non ti piace? Cazzi tuoi, non l’ho mica scritto io. A questo punto, non m’interessa più molto sentirmi gratificato nel lavoro, vorrei ricominciare a sentirmi gratificato per quello che faccio fuori del lavoro, o avere comunque una vita e la serenità mentale per farlo.
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