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pier-carlo-universe · 16 days ago
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Lega Alessandria, lunedì il primo incontro del 2025: protagonista della serata l'on. Riccardo Molinari
Ripartenza 'speciale' per gli incontri del lunedì della Lega di Alessandria: protagonista della serata del 13 gennaio in Sezione, in via Faà di Bruno 88, sarà infatti l'on. Riccardo Molinari, Presidente del Gruppo Lega alla Camera dei Deputati, e Segretar
Ripartenza ‘speciale’ per gli incontri del lunedì della Lega di Alessandria: protagonista della serata del 13 gennaio in Sezione, in via Faà di Bruno 88, sarà infatti l’on. Riccardo Molinari, Presidente del Gruppo Lega alla Camera dei Deputati, e Segretario della Lega in Piemonte. Sarà l’occasione per aggiornarsi sull’agenda politica nazionale e internazionale, in vista dell’imminente ripresa…
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pangeanews · 5 years ago
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“Una pedagogia dell’avventura, una specie di Mille e una notte occidentale”. In viaggio con Nerval (dialogo con Bruno Nacci)
Oriente è lo spioncino da cui Occidente rivela la propria spaziale nudità, è lo specchio che deve essere infranto, il ritorno alle origini, il rito sarcastico del giudizio e del vuoto. Il gioco, semmai, è capire come Occidente abbia fabbricato Oriente – l’incomprensibile – a suo modo, tramite operazione chirurgica, estetica. Tra il laccato Egitto di Jean-Léon Gérôme – Napoleone Bonaparte, nuovo Alessandro, che contempla l’enigma della Sfinge, rovinata, che ne profetizza la prediletta rovina –, l’odalisca botticelliana di Ingres, la tigre che s’impenna di Delacroix e quella ricreata nella selva onirica da Henri Rousseu il viaggio pare a contrario, artefatto, difforme. Nerval – che ha già attraversato molteplici orienti letterari prima di questo – parte da Parigi il 22 dicembre del 1842, passa per Malta, le Cicladi, Alessandria, Costantinopoli, Cipro… ma poco importa la tratta, non occorre trattare Nerval come il prototipo di un Bruce Chatwin, “l’Oriente sognato e il sogno d’Oriente combaciano perfettamente, perché in entrambi si opera quella attenuazione del reale che, in Nerval, sembra essere la premessa per ogni forma di poesia e di verità” (Bruno Nacci). Il Voyage en Orient esce in volume nel 1851, per Charpentier, pensato, scritto, masticato nell’arco di otto anni: coincide con la fase di maggior creatività del grande poeta, edotto alla malattia e alla malasorte. In una lettera al dottor Émile Blanche, nel 1853 dice di essere stato iniziato ai misteri dei drusi, in Siria, “mi sono sentito pagano in Grecia, musulmano in Egitto, panteista tra i drusi e sui mari, devoto degli astri divinità dei caldei”, scrive nel suo caleidoscopico libro. Quando si ammazza, in una gelida notte parigina di fine gennaio, è il 1855, appeso a un cancello, chiede perdono alla Vergine e forse cerca di raggiungere il suo Oriente – aveva affetto verso la versatilità dei dervisci. Il Voyage, libro d’inclassificabile bellezza (“Era arrivata la notte, ma le notti siriane non sono che un giorno azzurrognolo; stavano tutti a prendere il fresco sulle terrazze, e la città, mano a mano che la guardavo risalendo la cinta delle colline, ostentava un aspetto babilonese”), che svasa i generi nell’alveo della pura meraviglia, è la mappa celeste del poeta di Aurélia, l’Apocalisse e la Gerusalemme sulle nuvole. Il libro, memorabile, viene tradotto integralmente da Bruno Nacci (che qui interpello) nel 1997 per ‘I millenni’ Einaudi; ora viene ripreso dalle Edizioni Ares con un “invito alla lettura” di Giuseppe Conte, ed è un piccolo, grande evento. A me pare, quello di Nerval, infine, infinito viaggio nell’ugola di Dio – l’Oriente resta una lebbra, un nodo, una superba malattia. (d.b.)
Cosa va a fare Nerval in Oriente? E che Oriente trova? O meglio, fino a che punto l’Oriente immaginato da Nerval, dell’immaginario, corrisponde a quello reale?
Nel Viaggio in Oriente confluiscono temi ed esperienze diverse, in tempi diversi. Sotto questo profilo si tratta di uno zibaldone, non certo di un mémoir come quelli di tanti viaggiatori tra Sette e Ottocento, a sfondo etnografico, che culmineranno nel più complesso Viaggio in Italia di un viaggiatore di eccellenza: Goethe. Né il libro assomiglia minimamente all’Itinerario da Parigi a Gerusalemme di Chateaubriand (ma Chateaubriand viaggia in Oriente come aveva viaggiato in America) che pure detterà per decenni il paradigma di ogni viaggio in Oriente, con un puntuale repertorio delle cose da vedere, gli errori da non ripetere! Nella prima parte del Voyage, è presente il ricordo di due viaggi fatti da Nerval in Germania, il primo nel 1837 per raggiungere Dumas, e il secondo pochi mesi dopo con scopi giornalistici. Ma la frequenza della Germania nel suo frenetico spostarsi non ha solo motivazioni concrete e occasionali, cela, ecco uno dei motori occulti della sua ispirazione, il ricordo doloroso di una perdita: quella della madre, che non aveva conosciuto, morta in Germania nel 1810, due anni dopo che Nerval era nato, accompagnando il marito al seguito dell’armata napoleonica. Il viaggio in Oriente vero e proprio durerà dal dicembre del 1842 fino a poco dopo il Natale del 1843, e la pubblicazione a puntate inizierà sulla «Revue de deux mondes» il 10 maggio del 1846. Mentre nel libro il viaggio prende l’avvio dalla Svizzera e dalla Germania, nella realtà Nerval si imbarca da Marsiglia per Malta per poi raggiungere Alessandria. Non vedrà tutti i luoghi che descrive, e non descriverà tutti quelli che ha visto. La memoria per lui non ha senso se non è filtrata dal ricordo, e nel ricordo confluiscono le letture, il sogno, il mito, e la recente, prima grande crisi a seguito della malattia mentale di cui il Viaggio è al tempo stesso medicina e sintomo. Può sembrare un paradosso, ma Nerval viaggia verso l’Oriente per ricordare e dimenticare, mosso dai suoi fantasmi interiori e da un barlume di speranza («E vidi un cielo nuovo e una terra nuova» Ap, 21,1)
Gérard de Nerval (1808-1855) secondo Nadar
Mi pare che l’Oriente e il suo Viaggio sia per Nerval una specie di scelta estetica, di poetica: penso agli inserti puramente narrativi, come la “Storia della Regina del mattino e di Solimano principe dei geni”. È così?
Quello che è uno dei più bei libri dell’Ottocento, non va certo preso come un Baedeker o una guida Touring. Non è, meglio chiarirlo subito, un resoconto di viaggio in cui sono inserite pagine di invenzione letteraria. Se è vero che da un punto di vista strutturale il Voyage si compone in gran parte di due lunghi racconti (quello del califfo El-Hakim e quello della Regina del mattino) e di tre narrazioni più brevi e altre quattro brevissime, sarebbe un errore grave ricondurre tutto il resto a una semplice cornice. Non siamo in presenza di un centonovelle come il Decameron! I fili che attraversano le narrazioni più estese legano tra loro le varie fasi del viaggio non meno di quanto intrattengano legami con opere del passato, ad esempio il primo racconto, quello dello sceicco Hakim, contiene riferimenti espliciti alla Hypnerotomachia di Francesco Colonna (1499) e al racconto di Nodier Franciscus Columna  (1844). Ma qui dovremmo parlare del particolare intreccio dei temi tipici, e in alcuni casi ossessivi, di Nerval: il teatro, il sogno, il doppio. Su tutto spicca quello che si potrebbe chiamare l’asse portante della sua narrativa: la contaminazione, tra passato e presente, tra onirico e reale, tra cultura pagana e cristianesimo, tra mito e storia ecc. Anzi, uno dei caratteri salienti della scrittura di Nerval consiste proprio nel “confondere” le diverse stratificazioni, amalgamandole in una prosa scorrevole, apparentemente semplice, una tela di ragno perfettamente tessuta da cui il lettore si lascia avvolgere con una sensazione di piacere e di abbandono totali.
In cosa credeva Nerval, se credeva? Racconta di dervisci, di pope, di pascià… forse, su tutto, vi è una fede nell’insolito, nell’esotico?
Difficile rispondere, forse impossibile. Figlio dell’Illuminismo e della Rivoluzione, si era formato alla scuola di uno zio convinto del nuovo paganesimo di stato, ma per indole e istinto diffidava della mitologia scientifica (avrebbe sottoscritto quello che scriveranno un secolo dopo Horkheimer e Adorno: «L’Illuminismo prova un orrore mitico per il mito»), e prese le distanze da un cristianesimo che aveva abbracciato il razionalismo borghese. Un tragitto non lontano da quello di tanti spiriti perspicaci e quasi profetici dell’epoca, che si è soliti classificare come “reazionari”, Lamennais, De Bonald, De Maistre, Baudelaire… Confondendo lo schieramento politico con un’attitudine spirituale. Borges a chi lo accusava di essere un conservatore, replicava che ci vuole un bel fegato a voler conservare le cose come sono, e preferiva essere considerato un reazionario. Per inquadrare meglio questo concetto, più di tanti ottimi saggi in materia (tra cui di Zev Sternhell, Contro l’illuminismo, che sfata certe idee distorte sul concetto di “reazione”) ma ardui da leggere, preferisco riportare uno scambio di biglietti tra due detenuti nelle terribili carceri della Francia di Luigi XVIII, conservati agli Archives Nationales: uno di loro era quello che per semplicità potremmo dire un uomo di sinistra, comunque un rivoluzionario vicino alle idee del socialismo utopistico e anarchico, l’altro appunto un reazionario, ugualmente avversato dal regime borghese di Luigi Filippo. Uno dei due scrive: noi abbiamo idee opposte su come dovrebbe essere il paradiso, ma condividiamo lo stesso inferno! Prospettando così un’opposizione dialettica tra le loro convinzioni. Ecco, Nerval cercò per tutta la vita una via di fuga dalla nuova mitologia borghese, dalle sue convenzioni, dall’impero del denaro (“Tutto si vende e tutto si compra”, aveva scritto Lamennais), dalla sua etica, dalla massificazione. La cercò nell’occultismo, nella massoneria, nell’alchimia, nella astrologia, fin nella cabala e nell’aritmosofia. Ma soprattutto nel sincretismo religioso, cercando di porgere ascolto agli antichi dèi, affascinato dai riti di iniziazione, dall’archetipo femminile che rimanda al culto di Iside… Prima di morire suicida, impiccato a un lampione in una gelida sera parigina, solo e povero, parlerà con qualche amico di sé come Cristo, e invocherà il perdono e la Vergine Maria.
Quanto l’Oriente di Nerval influenzerà i successivi letterati europei in cerca di assoluto, verso Est?
Non sono uno studioso e neppure un lettore di questo genere e dunque non saprei rispondere con conoscenza di causa. Se penso a Moravia, Gozzano, o a Flaubert e Gide, ho l’impressione che si tratti di una classica letteratura odeporica, di viaggio, alla ricerca di documentazione e suggestioni esotiche. Sull’Orientalismo, vivo anche in pittura nell’Ottocento, riverbera il dilagante colonialismo, a cui Nerval fu del tutto estraneo e non mi pare, ma posso sbagliare, che in un libro di viaggio verso Oriente dopo il Voyage, escludendo la triste e spesso grottesca mania del turismo (sposini e pensionati che si fanno fotografare davanti alle piramidi o accanto a un malconcio cammello), si siano più ricongiunti la passione, la febbre, il sogno, l’utopia di poter rivivere in un passato che ci porta alle radici di ciò che siamo e forse potremmo essere.
Come leggere oggi Nerval? Che cosa ci dice di profondamente potente?
Per molto tempo si sono pubblicati i “grandi racconti” estrapolati dal libro, che ho citato, come se fossero opere autonome. Errore ingenuo e fuorviante. Il lettore oggi ha a disposizione il testo integrale e può ritrovarvi, oltre agli elementi fiabeschi di questa specie di Mille e una notte occidentale, il fondo oscuro e meravigliato di un’anima che cerca disperatamente nella realtà storica odierna, di ieri come di oggi, un antidoto alla mortificante vita a cui ci siamo costretti senza altri orizzonti che non siano quelli di una quotidianità da cui abbiamo espunto ogni forma di grandezza. Potrei dire che il Voyage è una specie di antipedagogia, che al posto delle pedanti e insulse tabelle di marcia per convogliare le generazioni a una obbediente e rassegnata forma di militarismo senza divisa, elabora una pedagogia dell’avventura. Ma vorrei dire ai lettori che conoscono il Nerval di Pandora, Sylvie e Aurélia, che in questo libro troveranno un Nerval diverso, più disteso, pacificato, sereno, che trasporta e si lascia trasportare dal racconto. Per intenderci, un po’ come accade con America di Kafka, il meno letto dei suoi lavori, il meno kafkiano e più divertente.
L’edizione Ares del Viaggio in Oriente riprende quella edita da Einaudi nel 1997? Ha apportato dei cambiamenti alla traduzione?
L’edizione einaudiana, con il bel apparato iconografico, non era più in commercio da anni, e la nuova direzione editoriale non aveva alcun interesse per un’opera che pure era andata esaurita. Le Edizioni Ares hanno osato riproporla, scommettendo sulla sua assoluta e genuina freschezza. Io ho rivisto il testo, ma, a parte qualche refuso, non ho trovato niente da cambiare. È vero che le traduzioni invecchiano, per il momento però non ho trovato rughe e doppi menti e dunque niente chirurgia estetica.
Su quale autore, oggi, vorrebbe lavorare, chi vorrebbe tradurre, e perché?
Da anni non traduco più, scrivo racconti e romanzi, la traduzione è stata una grande scuola e non la rinnego certamente. Il prossimo anno Ares pubblicherà il Diario di Catherine Pozzi, poetessa, saggista, figura appartata ma non di minore peso della letteratura francese della prima metà del Novecento, che per alcuni anni ebbe una relazione con Paul Valéry. Io curerò il libro, lasciando però la traduzione a una traduttrice d’eccezione, Laura Bosio. Dopo Pascal, Chamfort, Laclos, Chateaubriand, Balzac, Hugo, Nerval, Flaubert e Baudelaire, credo di aver dato abbastanza. Se volessi tradurre ancora, e se ne avessi la capacità, mi piacerebbe ritradurre tutto Kafka, le cui versioni oggi, secondo me, mostrano la corda e sono figlie di criteri che ritengo superati e in alcuni casi poco attendibili. Un altro autore che richiederebbe una mano en artiste, quella di un traduttore attento alle sue straordinarie finezze stilistiche, è Chesterton, di cui si continuano a riproporre vecchie traduzioni poco attendibili.
*In copertina: Eugène Delacroix, “Cucciolo di tigre gioca con la madre”, 1830
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jamariyanews · 7 years ago
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Gamal Abd Al-Nasser: dalla rivoluzione egiziana al sogno infranto del panarabismo
di Roberto Cascio  
Nella storia contemporanea, risulta particolarmente complesso trovare un personaggio così controverso e discusso come il presidente egiziano Gamal Abd Al-Nasser. Sebbene siano ormai trascorsi più di 40 anni dalla sua morte, avvenuta nel 1970, Nasser divide tutt’oggi gli studiosi sulla reale portata delle sue politiche non solo in terra egiziana, ma nell’intero mondo arabo. Se da una parte si sostiene che Nasser «ha segnato la storia dei popoli arabi, per i quali ha rappresentato la “loro ora più bella”» (Bagozzi, 2011: 6), dall’altra parte, non sono pochi coloro che ritengono il presidente egiziano come colui «che ha collezionato soltanto sconfitte nella propria vita» (Minganti, 1979:109).
Da tali premesse, un tentativo di comprensione dell’opera e delle politiche del presidente egiziano non può fare a meno di ripercorrere i tratti biografici più salienti e i temi principali delle ideologie da lui abbracciate, in modo da sfuggire, per quanto possibile, a quel desiderio di incasellare e classificare l’intera politica di Nasser come quella, a seconda dei diversi punti di vista, di un «demagogo … bolscevico … militarista … anarchico … fascista …» (Daumal e Leroy, 1970: 9), mostrando invece, oggettivamente, l’evoluzione delle idee e dell’agire nasseriano.
La rivoluzione e l’avanguardia: il lungo cammino di Nasser 
Gamal Abd Al-Nasser nasce il 15 gennaio 1918 ad Alessandria d’Egitto; la sua famiglia è originaria di Beni-Morr, un piccolo paese non lontano da Assiout, da dove suo padre si spostò trasferendosi ad Alessandria per lavorare lì come funzionario delle poste. Durante la sua infanzia, Nasser cambia spesso città di residenza, fino a tornare nella sua città natale nel 1929, dove, giovanissimo, viene a contatto con le manifestazioni nazionaliste dell’estate 1930, duramente represse dalla monarchia egiziana. Il trasferimento al Cairo, nel 1933, vede il giovane Nasser ancora coinvolto nelle agitazioni studentesche e sempre più convinto della necessità di affrontare l’imperialismo britannico in nome di una patria libera e indipendente; notevoli sono le parole cariche di speranza rivolte ad un compagno di scuola in una lettera: «Dove sono coloro che offrivano la loro vita per liberare il Paese?…Dov’è la dignità? Dov’è la giovinezza ardente? (…) Scuoteremo la nazione, risveglieremo le energie nascoste nel cuore degli uomini …» (Daumal e Leroy, 1970: 32).
Sono anni in cui l’ardore giovanile di Nasser trova terreno fertile nelle continue manifestazioni studentesche, a sostegno della Costituzione del 1923 e in totale contrasto con una monarchia sempre più collusa con gli inglesi. In queste manifestazioni, alcune sfociate anche in duri scontri con la polizia egiziana, Nasser prende inoltre consapevolezza della difficoltà di superare le ritrosie delle masse di fronte alle loro rivendicazioni: «Mi sono messo alla testa dei manifestanti nel collegio in cui studiavo allora, gridando a pieni polmoni: Viva la completa indipendenza! Ma le nostre grida si smorzarono nell’indifferenza generale» (Daumal e Leroy, 1970: 33).
La sua vocazione militare lo porta ad entrare nel 1937 nell’accademia per ufficiali, dove si mostrerà come un allievo dalle grandi doti. Durante il secondo conflitto mondiale, il sotto-luogotenente Nasser comincia la sua opera di costituzione di quella associazione segreta che prenderà il nome di Movimento degli Ufficiali Liberi: fedele agli ideali della sua gioventù, Nasser tenta di unire intorno a questo Movimento gli ufficiali egiziani pronti a lottare per l’indipendenza totale dall’Inghilterra, il cui protettorato, anche dopo gli accordi del 1936, è rimasto sempre forte e opprimente nella vita politica e sociale egiziana. Il Movimento riesce a convergere su un unico obiettivo: «l’indipendenza della dignità, che comporta tre punti: cacciare gli inglesi, riedificare l’esercito, formare un governo onesto e competente» (Daumal e Leroy, 1970: 37).
Un evento decisivo per Nasser e per tutte le popolazioni arabe avviene nel maggio 1948, quando, a seguito del ritiro delle truppe inglesi in Palestina, viene proclamato lo Stato di Israele, dando immediatamente inizio alla prima guerra arabo-israeliana, che si concluderà solo nel gennaio 1949, con la sconfitta delle forze arabe unitesi contro Israele. Tra le cause della sonora sconfitta araba può essere annoverata anche la disorganizzazione delle truppe mandate al fronte; è un momento particolarmente importante per Nasser: tra le trincee, riemerge tra gli ufficiali il desiderio mai sopito di salvare la Patria dal potere corrotto, legato indissolubilmente all’imperialismo. Seguendo le stesse parole di Nasser, «combattevamo in Palestina, ma i nostri pensieri ed i nostri sogni volavano verso l’Egitto. Puntavamo le armi verso il nemico, acquattato là di fronte a noi nelle trincee, ma nei nostri cuori grande era la nostalgia per la Patria lontana, lasciata in preda ai lupi voraci che tentavano di dilaniarla» (Nasser, 2011: 27).
1952, anno della rivoluzione
Di fronte a questa ennesima umiliazione, gli Ufficiali Liberi decidono di organizzare in maniera precisa e programmatica la rivoluzione che li porterà al potere. Nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1952, gli Ufficiali Liberi occupano tutti i centri più importanti del Cairo, costringendo il re Farouk a dimettersi. Nasser è uno dei principali fautori di questa impresa, cosciente tuttavia di dover svolgere un ruolo di “avanguardia”, in un Paese dove le masse erano da tempo immemore indifferenti e scettiche di fronte ad ogni cambiamento.
Al potere sale una figura di conciliazione nazionale come Mohammed Neghib, colonnello dell’esercito molto apprezzato anche dai Fratelli Musulmani, dai nazionalisti del Wafd e dal piccolo partito comunista. Il nuovo presidente egiziano non ebbe tuttavia modo di arginare l’ala più dura del Movimento degli Ufficiali Liberi, capitanata da Nasser, che spingeva per un autoritarismo da imporre in nome della rivoluzione. Come ben descritto da Campanini,
«Anche se Neghib era Capo dello Stato, gli Ufficiali Liberi riconoscevano in Nasser la loro guida. I due uomini nutrivano una concezione politica opposta: mentre Neghib voleva che, portata a termine la rivoluzione, i militari tornassero nelle caserme e il governo passasse ai civili, Nasser era convinto che l’esercito fosse l’avanguardia cosciente delle masse egiziane e che dovesse assumersi le responsabilità del potere. Il contrasto, sotterraneo, divenne crisi aperta nel 1954» (Campanini, 2006: 125).
Lo stesso anno, Nasser diviene così Presidente egiziano esautorando la figura di Neghib, ma ciò portò inevitabilmente grandi malumori, specialmente tra i Fratelli Musulmani, che vedevano nel nuovo presidente una tendenza autoritaria decisamente pericolosa. Il culmine di questo scontro avrà luogo il 26 ottobre 1954 ad Alessandria, quando un membro dei Fratelli Musulmani spara sei colpi di pistola contro Nasser durante un suo comizio. Rimasto miracolosamente illeso, Nasser scatenerà l’esercito contro i Fratelli Musulmani, arrestandone migliaia e devastando le loro sedi. L’attentato può quindi definirsi come il punto di non-ritorno tra Nasser e l’associazione fondata da Hasan al-Banna.
Ormai leader indiscusso della politica egiziana, Nasser mostra grande abilità nella politica estera, destreggiandosi e sfruttando a suo favore lo scontro allora infuocato tra URSS e Stati Uniti d’America, proponendosi ad entrambe le parti come alleato in cambio di aiuti economici e militari a sostegno del suo Paese. Un’importante vetrina per Nasser sarà inoltre la conferenza dei Paesi non-allineati dell’aprile 1955, tenuta a Bandung, che si rivelerà un grande successo: Nasser si mostra carismatico, fermo nelle sue idee e pronto a sostenere l’idea di un “terzo blocco”, in posizione equidistante tra i contendenti della Guerra Fredda.
La politica estera nasseriana trova il suo corrispettivo in terra egiziana nel socialismo arabo, vera novità nello scenario mediorientale di metà Novecento, che vede in Nasser uno dei suoi principali fautori. Riforme agrarie, lotta all’analfabetismo, la nazionalizzazione del canale di Suez (che condurrà alla crisi del 1956) rappresentano i punti di forza dell’operare nasseriano. Al socialismo arabo (su cui si dovrà tornare) Nasser affianca un panarabismo che condurrà il presidente egiziano a tentare un progetto decisamente ambizioso: unire i diversi popoli arabi sotto la medesima bandiera. Sebbene Nasser si sia prodigato molto per tale obiettivo, non si può nascondere come ben deludente sia stato il risultato: la RAU (Repubblica Araba Unita), fusione di Egitto e Siria, durerà solamente dal 1958 al 1961. Fu questo un grave colpo per le speranze di Nasser, che accantonerà così in maniera definitiva il sogno panarabista.
Gli ultimi anni di Nasser sono decisamente complessi: sul fronte interno, i Fratelli Musulmani, ricostituitesi clandestinamente, vengono duramente repressi nel 1966, portando addirittura all’impiccagione di Sayyid Qutb, ideologo di punta dei Fratelli Musulmani. Ma ciò che probabilmente segna la fine del nasserismo è la pesante sconfitta subìta per mano di Israele nella Guerra dei Sei giorni. Nasser si assume le responsabilità del crollo delle difese egiziane e rassegna le sue dimissioni, respinte tuttavia a furor di popolo che, in un pellegrinaggio spontaneo, converge nelle strade del Cairo a sostegno del suo presidente. Commosso da tanta devozione, il presidente egiziano riprende il potere, tentando nuovamente di proporsi come attore politico di primo piano attraverso politiche distensive verso gli altri Stati arabi. Tali sforzi provano tuttavia gravemente la salute di Nasser, che morirà il 28 settembre del 1970. Una folla oceanica renderà il suo ultimo tributo a Nasser: sono infatti milioni gli egiziani che parteciperanno al suo funerale per le strade del Cairo.
Neghib e Nasser in uniforme militare
L’esercito come avanguardia delle masse 
Un interessante approfondimento sulla figura di Nasser non può prescindere dalle sue personali considerazioni intorno al ruolo dell’esercito nella vita politica egiziana. La posizione nasseriana è chiaramente esposta nel testo Filosofia della Rivoluzione, scritto dallo stesso leader degli Ufficiali Liberi, dove vengono descritte le cause, gli obiettivi e le vie per proseguire al meglio la rivoluzione avvenuta nel 1952. Questo piccolo testo, pubblicato nel 1953, mostra nelle sue prime pagine lo sconforto di Nasser per non poter contare su un popolo coeso e unito contro la monarchia filo-imperialista del re Farouk. Andando più nello specifico, Nasser ammette che l’esercito avrebbe dovuto avere un ruolo di avanguardia nella rivoluzione del 1952, avanguardia che avrebbe permesso in seguito alle masse di convogliare tutta la loro forza a sostegno della rivoluzione. Come si evince dalle deluse parole di Nasser, le masse non ebbero invece un ruolo ben definito nella rivoluzione, preferendo l’indifferenza di fronte ad un evento storico di importanza decisiva per la storia egiziana:
«Immaginavo, prima del 23 luglio, che tutta la nazione fosse preparata, stesse sul chi vive in attesa degli elementi di avanguardia, per scagliarsi compatta ed ordinata verso l’obiettivo finale. Credevo che il nostro compito si limitasse a quello dei commandos, che la nostra azione non avrebbe preceduto che di qualche ora l’assalto della nazione intera contro l’obiettivo (…). Ma la realtà fu diversa (…) Allora mi resi conto che la missione degli elementi di avanguardia non era terminata, ma anzi cominciava da quel momento» (Nasser, 2011: 31-32).
L’esercito assume dunque un ruolo di avanguardia che non si esaurisce con la cacciata del re Farouk, ponendosi invece l’obiettivo di condurre le masse, l’intera società egiziana, ad uscire da uno stato di commiserazione e impotenza, dovuto alle angherie che nei secoli si sono abbattute contro la parte più debole della popolazione, mostrando loro la strada corretta per lo sviluppo della nazione. Risulta ancora una volta illuminante leggere le stesse parole di Nasser: «E, dunque, qual è il cammino da seguire? Quale il nostro compito? La via da scegliere è l’indipendenza economica e politica. Il compito affidatoci né più né meno che quello di sentinella per un tempo limitato (…) La nostra azione si limiterà (…) a tracciare il cammino» (Nasser, 2011: 45).
L’allontanamento nel 1954 di Neghib dal comando del Paese e lo scioglimento di tutti i partiti mostrerà invece come tali affermazioni rimasero valide solo a livello teorico. Ciò che invece rimarrà valido a lungo nel pensiero nasseriano sarà la riflessione intorno al nazionalismo arabo e sul ruolo dell’Egitto nella seconda parte del Novecento, tematica con cui termina la terza ed ultima parte della Filosofia della Rivoluzione.
Nasser e Gheddafi, 1960
Un nazionalismo “in cerca d’autore”: origine e temi del panarabismo 
Singolare appare nell’ultima parte del testo nasseriano il riferimento alla commedia di Pirandello Sei Personaggi in cerca d’autore:
«Non so perché, ma arrivando a questo punto delle mie meditazioni, mi viene in mente una Commedia del grande scrittore italiano Luigi Pirandello: Sei Personaggi in cerca d’autore. Indubbiamente il palcoscenico della storia è pieno di atti intrepidi di cui si sono resi autori molti eroi, come pure è ricco di sublimi gesta che non hanno trovato gli eroi capaci di adempierle; io credo appunto che nella zona in cui viviamo ci sia un’importante missione “in cerca” di un personaggio che possa eseguirla: essa, esausta dalla lunga ricerca attraverso i vasti territori a noi contigui, ha fatto sosta alle frontiere del nostro Paese per invitarci all’azione, ad assumere “la parte”, a portarne il vessillo. Nessun altro avrebbe potuto farlo» (Nasser, 2011; 50-51).
La “parte” è evidentemente quella presa di coscienza di una missione, di un compito che travalica i confini egiziani. Di qui la consapevolezza di vivere in un Paese importante nello scacchiere internazionale, e che ogni isolazionismo risulterebbe non solo antistorico, ma impossibile da attuare  per la stessa posizione geografia del territorio egiziano.
Ciò che vale la pena approfondire è dunque la convinzione di Nasser che il nazionalismo egiziano debba lasciare spazio ad un panarabismo che rispecchi il nuovo ruolo dell’Egitto nel quadro geopolitico contemporaneo. Il nazionalismo egiziano si era infatti sviluppato nel contesto delle lotte per l’indipendenza dall’imperialismo britannico, avendo principalmente come obiettivo lo stravolgimento del potere monarchico colluso con l’elemento occidentale. Raggiunto l’obiettivo con la rivoluzione del 1952, si trattava adesso di condurre l’Egitto ad essere riconosciuto come Paese dominante nel panorama arabo, sia in modo da prevalere sugli stessi Stati arabi, sia per poter avere in ambito internazionale una forza che si ponesse in contrasto con i due blocchi della Guerra Fredda.
Relativamente agli elementi principali del nazionalismo arabo, occorre evidenziare il peso delle rivendicazioni arabe successive alla proclamazione dello Stato di Israele del 1948, che destano nei diversi Paesi arabi  sentimenti di comunione, di fratellanza che il presidente egiziano farà propri in molti dei suoi discorsi. Oltre a questo elemento etnico, che lega i territori del Nord-Africa e del Medio Oriente, un altro fattore importante del panarabismo risulta essere l’elemento religioso. Nasser ritiene difatti l’Islam fondamentale fattore di forza all’interno del nazionalismo arabo: «quando (…) la mia mente va a queste centinaia di milioni uniti dai vincoli di un’unica fede, mi convinco ancor più delle immense possibilità che nascerebbero dalla collaborazione di tutti i Musulmani» (Nasser, 2011: 61).
Nasser vede dunque nell’Egitto del Novecento il soggetto designato per portare l’ideologia del nazionalismo arabo ad essere riconosciuta dagli altri Paesi, in nome sia di una comune “coscienza” araba, sia per l’importanza della religione islamica come elemento aggregante e universale. Solo attraverso queste considerazioni può essere inteso gran parte dell’agire nasseriano, mai domo nel cercare e proporre diverse soluzioni di collaborazione e di unità tra i diversi Stati arabi; sebbene tali sforzi abbiano prodotto come massimo risultato la breve ed infelice esperienza della Repubblica Araba Unita (1958-1961), Nasser può essere considerato a buona ragione il più notevole esponente del nazionalismo arabo, «un patriota arabo tra milioni di patrioti arabi» (Daumal e Leroy, 1970: 173).
Copertina Time, marzo 1963
Il socialismo arabo: l’Egitto come laboratorio politico 
Un ulteriore elemento da approfondire per comprendere la politica nasseriana è rappresentato dal socialismo arabo, che costituirà un momento fortemente innovativo nella storia egiziana, ben presto imitato anche da altri Capi di Stato arabi. A livello sociale, il socialismo arabo si è concretizzato in Egitto attraverso diverse misure tese a dare una forte scossa all’economia locale: esempi di queste misure possono essere i piani quinquennali pensati per lo sviluppo energetico-economico, le riforme agrarie del 1952, le nazionalizzazioni del 1961 e il controllo statale delle industrie produttive e delle banche del Paese. Lo Stato si assume quindi la piena responsabilità dei problemi principali di un Paese ancora poco sviluppato come quello egiziano, tentando, con ampie nazionalizzazioni e con un intervento a tutto campo nell’economi, di migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini, puntando così al superamento della divisioni in classi della società, piaga ormai secolare dell’Egitto.
Sebbene molti studiosi siano concordi nel definire il socialismo nasseriano molto pragmatico, un’ideologia delineata lungo il corso degli eventi, è possibile comunque fissarne analiticamente le principali istanze: «[1] il sentimento della collettività come di un organismo stabile e onnicomprensivo (…) [2] la centralità dell’esperienza religiosa (…) [3] l’importanza essenziale che il possesso della terra ha avuto per confermare un’autorità, e quindi per la gestione del potere» (Campanini, 1987: 42).
Il sentimento della collettività veniva letto da Nasser sotto la lente del panarabismo, ideologia che avrebbe permesso alle popolazioni arabe di unirsi nello scontro con il colonialismo occidentale. L’Egitto avrebbe dovuto assumere un ruolo guida nel portare le masse ad abbracciare le idee del panarabismo, e in effetti, come si è avuto modo di osservare, il leader degli Ufficiali Liberi si è particolarmente speso per tale causa. Ulteriore punto interessante risulta essere il terzo, in quanto esso richiama quell’esigenza di giustizia sociale che fu il grido rivoluzionario non solo dell’esercito, ma anche dei Fratelli Musulmani e, in generale, delle opposizioni al protettorato britannico: «La rivoluzione è stata fatta affinché la terra egiziana venga distribuita agli egiziani. L’Egitto per noi e noi per l’Egitto» (Campanini, 1987: 53).
L’elemento religioso si configura invece come una delle chiavi di volta per comprendere la distanza tra il socialismo europeo e quello nasseriano. Il marxismo, nella sua impostazione teorica, poggia infatti sulle basi del materialismo storico, ideologia che invece è rigettata da Nasser e dagli altri esponenti del socialismo arabo. La religione assume un ruolo centrale nel socialismo arabo, rappresentandone la base etica; tale concetto è bene espresso in un discorso del presidenze egiziano del 1966: «Il nostro problema è un’ingiusta redistribuzione (dei redditi) tra le classi. Dobbiamo far sì che il reddito nazionale venga suddiviso tra tutto il popolo. In questo modo avremo applicato i principi dell’Islam» (Campanini, 1987: 61).
Dalla base religiosa del socialismo arabo scaturiscono interessanti corollari, quali ad esempio l’attenzione verso l’individuo, la persona, che non deve risultare annullato nella collettività, e il rispetto della proprietà privata. Sono questi temi che lo stesso Nasser sottolinea nel rimarcare la distanza tra il comunismo e la sua politica sociale ed economica:
«I comunisti grazie al loro comunismo sono diventati delle macchine nell’apparecchio della produzione collettiva, mentre prima erano uomini dotati di una propria volontà! Hanno rinnegato la religione (…) hanno rinnegato la persona umana (…). La sola realtà è lo Stato; hanno rinnegato la libertà perché la libertà è una manifestazione della fiducia della persona umana nelle sue possibilità (…). Noi Egiziani … Noi Arabi … Noi musulmani e cristiani di questa parte del mondo … Noi abbiamo fede in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nei suoi profeti e nella risurrezione …(…). Quel che ci separa dal comunismo sia nella teoria del governo che nelle regole di vita, è che il comunismo è una religione … e noi abbiamo già la nostra religione. Non lasceremo mai la nostra religione per il comunismo» (Daumal e Leroy, 1970: 164-165).
Riepilogando: il materialismo storico, la lotta tra le classi come motore della storia, la collettivizzazione della proprietà privata sono elementi estranei al socialismo arabo, che invece poggia sui princìpi dell’Islam, ritenuti validi e fondamentali per la costituzione di una società progredita. È l’elemento religioso la vera molla della lotta per la giustizia sociale e distributiva.
Folla ai funerali di Nasser (ph. Eddie Adams)
La crisi del nasserismo e il riemergere dei movimenti islamisti 
I provvedimenti in campo sociale, le nazionalizzazioni attuate dal presidente egiziano riuscirono solo in parte nel loro intento di migliorare la situazione economico-sociale egiziana: i piani quinquennali non ebbero grandi risultati e la corruzione a livello burocratico raggiunse livelli più che allarmanti. La seconda durissima repressione dei Fratelli Musulmani tra il 1965 e il 1966 intaccò inoltre fortemente la figura di Nasser, ormai consapevole delle difficoltà di unire un intero popolo a sostegno dell’ormai datata rivoluzione del 1952. Ma il colpo più duro per il leader degli Ufficiali Liberi sarà la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967), dove le armate egiziane mostrarono un’imbarazzante disorganizzazione, non riuscendo ad arginare gli attacchi di Israele che, in pochi giorni, sbaragliò la coalizione formata dai diversi Paesi arabi. Crollò così drasticamente la popolarità di Nasser, provocando inoltre una grave crisi all’interno dell’intellettualità arabo-islamica: le ragioni della sconfitta vennero infatti additate nell’abbandono dei precetti islamici in nome del nazionalismo e del socialismo, concetti allogeni rispetto alla cultura e al mondo arabo. Si spalancheranno così le porte a quelle rivendicazioni islamiste che, rifiutando in toto la modernità di stampo occidentale, cercheranno nuovamente nella religione islamica le fondamenta per una ricostruzione della società, rivendicazioni che, nei casi più drammatici, sfoceranno nel terrorismo e nella lotta armata contro il potere costituito.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
 Riferimenti bibliografici
Bagozzi M., La Rivoluzione panaraba di Gamal Abd al-Nasser, in Nasser, Filosofia della rivoluzione, All’insegna del Veltro, Parma, 2011
Campanini M., Socialismo arabo. La teoria del socialismo in Egitto, Centro Culturale Al Farabi, Palermo, 1987
Campanini M., Storia del Medio Oriente, Il Mulino, Bologna, 2006
Daumal J. e Leroy M., Nasser. La vita, il pensiero, i testi esemplari, Accademia-Sansoni, Milano, 1981
Minganti P., L’Egitto Moderno, Sansoni, Firenze, 1959
Minganti P., Vicino Oriente, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1979
Nasser G., Filosofia della rivoluzione, All’insegna del Veltro, Parma, 2011
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Roberto Cascio, ha conseguito la laurea Magistrale in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Palermo, con una tesi dal titolo “Le Pietre Miliari di Sayyid Qutb. L’Islam tra fondamento e fondamentalismo”. Ha collaborato con la rivista Mediterranean  Society Sights e il suo campo di ricerca è l’Islamismo radicale nei Paesi arabi, con particolare riferimento all’Egitto.
Preso da: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gamal-abd-al-nasser-dalla-rivoluzione-egiziana-al-sogno-infranto-del-panarabismo/
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Uno spettacolo....D'evasione
Per il terzo anno consecutivo i carcerati della Casa Circondariale Don Soria di Alessandria diventano interpreti di uno spettacolo teatrale con monologhi comici, sketch e musica presentato dall’attore iraniano Omid Maleknia dal titolo “Spettacolo d’evasione”, il tutto sabato 22 aprile presso il salone multimediale del Museo della Gambarina Un evento unico nel suo genere perché porta sul palco tutto il disagio e la durezza del carcere ma propone la comicità come canale di comunicazione. Si trattano svariati temi tra cui il primo giorno in carcere, l’arresto, l’immigrazione e l’impossibilità di avere un’alternativa nella vita il tutto affrontato con battute sagaci per dare allo spettatore uno sguardo nuovo sulla figura di chi trascorre la vita in una cella e di chi nella vita non sempre ha alternative. Lo spettacolo è stato rappresentato per la prima volta in data 18 giugno 2015 nel teatro sito all’interno del carcere davanti ad un pubblico di carcerati, giornalisti, rappresentanti delle associazioni di tutti i tipi e le autorità riscuotendo un grandissimo successo sia per la performance che per i contenuti e lasciando gli spettatori sopraffatti dai sentimenti. Le repliche successive hanno fatto ridere, commosso e divertito centinaia di spettatori che alla fine sono felici di aver acquisto un nuovo punto di vista meno duro e critico nei confronti di chi ha sbagliato. Omid Maleknia è nato in Iran, è cresciuto sul lago di Garda e da molti anni vive in Piemonte. Da 25 anni si esibisce in spettacoli di cabaret, teatro e poesia. Nel campo del cabaret sono innumerevoli le finali di concorsi di cabaret nazionali a cui ha partecipato, oltre al laboratorio di Zelig e agli spettacoli con cui continua a far ridere migliaia di persone. Nel campo della poesia ha da poco ottenuto il titolo di campione nazionale di poetry slam nel circuito Murazzi Poetry Slam. Pee Gee Daniel (nome d'arte di Luigi Straneo) è nato a Torino il 7 luglio 1976 e vive ad Alessandria. Ha pubblicato Gigi il bastardo (& le sue 5 morti), Montag, 2012, Phenomenorama, Inbooki, 2013, Il politico, Golena Edizioni, 2014, Lo scommettitore, Edizioni Leucotea, 2014, Il riso e il comico. Un excursus filosofico, Ed. Montag, 2014, Ingrid e riccione, Ed. La Gru, 2015, Sulle tracce della Ci**gna Voltaica, Ed. Twins, 2015 e Il lungo sentiero dai mattoni dorati, e-piGraphe, 2015. È autore del libretto di Cogli l'attimo, musical al suo debutto teatrale nel maggio 2014 con le musiche di Fabio Zuffanti. http://dlvr.it/NwgtmS
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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La Lega Alessandria Sostiene Matteo Salvini: Gazebo e Brindisi di Natale nel Weekend
Quattro gazebo e un brindisi natalizio per esprimere solidarietà al leader del partito, Matteo Salvini.
Quattro gazebo e un brindisi natalizio per esprimere solidarietà al leader del partito, Matteo Salvini. Nel weekend del 14 e 15 dicembre, la Lega di Alessandria organizza una serie di iniziative per manifestare solidarietà e sostegno a Matteo Salvini, Segretario Federale della Lega, che rischia sei anni di carcere per la vicenda legata al blocco della ong Open Arms nel 2019. L’iniziativa include…
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pier-carlo-universe · 4 months ago
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La Lega Festeggia a Pontida la Legge sull'Autonomia Differenziata: Pullman in Partenza da Alessandria
Un appuntamento imperdibile per i sostenitori della Lega e del "Popolo del Buonsenso" per celebrare una vittoria storica del Carroccio.
Un appuntamento imperdibile per i sostenitori della Lega e del “Popolo del Buonsenso” per celebrare una vittoria storica del Carroccio. Domenica 6 ottobre 2024, Pontida sarà teatro del consueto Raduno Federale della Lega, un evento che ogni anno attira migliaia di militanti, simpatizzanti e sostenitori del partito. Quest’anno, l’incontro assume un significato ancora più speciale, poiché sarà…
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pangeanews · 5 years ago
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“Quando Gesù sparì dissero, usa la magia!”. Tabari, il genio che voleva raccontare tutta la storia del mondo
La storia siamo noi. Di certo, siamo come raccontiamo la storia. Secondo Erodoto, l’incessante viaggiatore, leggenda e “dati di fatto” sono entrambi eventi storici. Le vicende riesumate in un papiro trovato ad Alessandria o ad Antiochia, le parole raccolte dalla bocca bavosa di un conciatore di pelli, i detti sghembi di un astrologo o l’elmo scoperto in Scizia, istoriato con strane lettere, hanno la stessa dignità. Tucidide, al contrario, ci insegna che solo ciò che è sottoposto a testimonianza diretta coincide con la verità delle cose. Solo il mio sguardo (ciò che ho visto e toccato e certificato) è storico: il resto è vaga possibilità, ineffabile menzogna. Eppure, Tucidide, il padre della storiografia moderna, resta un narratore memorabile, degna fonte narrativa di un Manzoni e di un Tolstoj. La storia, in effetti, esiste grazie ai narratori più che per merito degli archeologi del tempo perduto, dei recensori dei cocci. Non basta tradurre una iscrizione millenaria: affinché viva, oggi, per me, occorre saperla raccontare.
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Secondo Lucano la storia è un poema che gronda profezie gravi di sangue, per Tacito lo storico sa varcare le auree stanze del potere, scombinandole, scorticando i potenti, distillandone il niente. La disciplina storica diventa, alla latina, affronto politico. Negli stessi secoli in cui a Bisanzio lo storico si scopre voyeur, più interessato alle perversioni degli imperatori e alle loro alcove che ai moti delle masse – geniale, in questa ambizione nel vizio, l’opera di Michele Psello – a Bagdad il teologo Abu Giafar Mohammed-ben-Garir-ben-Yezid Tabari (839-923) scrive il capolavoro della storiografia islamica, l’immenso libro de I profeti e i re, qualcosa che, per sottigliezza analitica e vertigine di orizzonte, tende all’infinito. “Non voleva raccontare soltanto la storia dei suoi tempi, o di un’epoca limitata, ma tutta la storia del mondo, cominciando dalla creazione fino alle guerre che ai suoi tempi insanguinavano il mondo arabo. E non voleva narrare nemmeno una versione di ogni fatto, ma tutte le versioni che gli uomini raccontano di ogni evento, così che il suo libro diventasse quell’intreccio di realtà e di eventualità, di possibilità e di impossibilità, o di possibilità opposte, che forma l’universo”, scrive Pietro Citati spiegando il fine, divino, percorso da Tabari.
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Nei gangli della storia, Tabari cercava Dio. Il suo compito, probabilmente, era quello di annientare la storia – affinché non restasse altro che Dio. E Dio, alla fine dei tempi, leggendo la storia compilata da Tabari, la rifilasse, permettendo all’uomo, di volta in volta, diverse scelte, alternative vie di salvezza. Un libro che contenga l’intera storia umana: l’impresa, patetica e pazzesca, suggerisce un racconto di Jorge Luis Borges. “Confesso di aver sempre collegato la gigantesca figura di Tabari a un personaggio scaturito dalla fantasia di Borges”, scrive Sergio Noja introducendo la sua versione, luminosa, de I profeti e i re, per Guanda, nel 1993. Di questo libro in cui l’acribia dello storico si fonde con quella del narratore del deserto, dove tra Tucidide e Sherazade non c’è differenza, colpisce la vicenda biblica di Gesù. Leggendola, scopriamo in controluce la mole di testi consultati da Tabari: quanti vangeli del folto Oriente ci sono preclusi per sempre?
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Il punto di vista islamico riguardo alla corcefissione è indiscusso: “Non Gesù è stato crocefisso, ma qualcuno che gli somigliava. E Dio ha innalzato Gesù al cielo prima che fosse messo sulla croce”. Le divisioni tra i cristiani – di cui è squadernata con precisione la mappa del dilagare, dall’Iraq a Roma – sono generate dall’opera di Iblis, il diabolos, Satana: è stato lui a confondere le menti dei fedeli con astute sottigliezze teologiche, perciò “tutti i cristiani sulla questione di Gesù sono diventati miscredenti. Non conoscono né Dio né Gesù”.
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Al di là delle dispute, colpisce la frase di Gesù riguardo al suicidio di Giuda, il traditore: “Non avrebbe dovuto uccidersi. Non c’è peccato al quale il perdono di Dio non ponga rimedio”. Il Dio che si rivela nel roveto del Sinai, in una culla a Betlemme e nella mano di Maometto esercita il proprio potere attraverso il perdono, è lì dove chi sbaglia si ammazza, erge il dolore, deterge le colpe. Pervaso dall’uomo, Dio lo perdona. Spadroneggia nel promuovere il bene.
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Consola e conturba la prospettiva storica di Tabari, quando le labbra di un uomo potevano raccontare l’umanità fino a infilare la catena umana nella bocca di Dio. Adesso la disciplina storica, che non ha dèi da cantare né discipline morali da incidere, è disgraziata. Prendete, chessò, la reggenza di Trump o quella di Putin o quella della Merkel. Siamo zittiti dalle testimonianze. Video, giornali, registrazioni. Atti pubblici e sms privati. Troppa verità rende tutto fasullo, cariato. Zuppi di fatti, non sappiamo più cosa raccontare. Privi di storia, siamo niente. (d.b.)
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Ascensione di Gesù al cielo
I Giudei decisero di ucciderlo. Si legarono col re di Gerusalemme, Erode il giovane, seguace della religione dei Greci. Gli dissero: “Gesù è un mago che seduce il popolo”. Erode ordinò che lo uccidessero. Allora cercarono di catturare Gesù, ma lui si nascose. Non lo trovarono in nessuna casa. Una notte era in una casa con i suoi discepoli e disse loro: “Questa notte pregate per me”. Ma quelli caddero in un sonno pesante. Gesù disse loro: “Mi avete consegnato ai miei nemici. Mi rinnegherete. E mi tradirete”. Il giorno successivo uno dei discepoli, chiamato Simeone, uscì. I Giudei lo presero e dissero: “È un compagno di Gesù. Dicci dov’è Gesù!” Simeone rispose: “Ho abbandonato Gesù, non sono fra i suoi amici”. Rinnegò, dunque, e divenne miscredente. I Giudei presero anche un altro discepolo che era uscito, e gli dissero: “Dicci dov’è Gesù o ti metteremo a morte”. Il discepolo rispose: “Se mi darete una ricompensa vi dirò dov’è”. Acconsentirono. Quel discepolo vendette Gesù per trenta dirham. Guidò i Giudei alla casa dov’era Gesù. Presero il profeta e lo legarono dalla testa ai piedi. I discepoli fuggirono.
I Giudei dissero a Gesù: “Tu hai esercitato la magia dinanzi agli uomini, e hai detto che resusciti i morti. Perché ora non ti liberi dalle mani degli uomini?” Lo trascinarono in un luogo dove avevano preparato una croce per crocifiggerlo. Un gran numero di Giudei lo attorniò. Avevano un capo chiamato Isou‘a, Giosuè. Anch’egli era fra loro. Decisero di attaccare Gesù alla croce, ma Dio lo sottrasse ai loro sguardi e diede la forma e l’aspetto di Gesù a Giosuè, il loro capo. Quando Gesù sparì stupirono e dissero: “Usa la magia, grazie ad essa si è sottratto ai nostri sguardi; aspettate un po’, ben presto l’effetto della magia passerà, ed egli riapparirà, perché la magia non ha durata”. Guardarono, videro Giosuè ormai del tutto simile a Gesù, e lo afferrarono. Disse: “Sono Giosuè”. Risposero: “Tu menti, tu sei Gesù, ti sei sottratto ai nostri sguardi con la magia; ora la magia è passata e sei diventato visibile”. Invano protestò di essere Giosuè. Lo uccisero e lo attaccarono alla croce. Quanto a Gesù, Dio lo innalzò al cielo, com’è detto: «Né lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai loro occhi simile a Lui (…), ma Iddio lo innalzò a sé» (IV, 157-158).
Giosuè rimase sulla croce per sette giorni. Ogni notte Maria, la madre di Gesù, andò e pianse ai piedi della croce, fino al mattino. L’ottavo giorno Dio fece discendere Gesù dal cielo, ché andasse da Maria. Quella notte Maria lo vide, seppe che non era morto, e provò consolazione nel cuore.
Tabari
*La porzione del testo qui riprodotta è pubblicata come: Tabari, “La storia di Gesù” (Raffaelli, 2015); il testo ripropone la traduzione dello scrittore Sergio Atzeni, già raccolta in: Tabari, “I profeti e i re” (Guanda, 1993)
**In copertina: una illustrazione dall'”Ascensione di Maometto”, 1540 ca.
L'articolo “Quando Gesù sparì dissero, usa la magia!”. Tabari, il genio che voleva raccontare tutta la storia del mondo proviene da Pangea.
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