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" Re Leopoldo II era ossessionato dall'idea di possedere una colonia, e la sua brama cadde sul bacino del fiume Congo. Per realizzare il suo sogno creò l’Associazione internazionale del Congo e finanziò l’esploratore inglese Henry M. Stanley, che nei suoi viaggi lungo il fiume stipulò una serie di trattati con i capi indigeni in nome dell'associazione. Forte di questo, Leopoldo II si presentò alla Conferenza di Berlino (1884-1885), convocata per tracciare le linee della spartizione europea dell'Africa, e ottenne l’affidamento del bacino del Congo. Il 29 maggio, il re del Belgio proclamò lo “Stato indipendente del Congo”, che diventava così di sua proprietà. Leopoldo II divise quell'enorme territorio in blocchi che affidò a compagnie private, alle quali concedeva il diritto esclusivo di sfruttare tutto quello che poteva essere asportato: avorio, olio di palma, rame, legno tropicale, ma soprattutto il caucciù, molto ricercato in Europa. Per costringere gli africani a raccogliere il caucciù (un lavoro molto pesante) il re istituì un vero e proprio sistema di terrore. Se un villaggio si rifiutava di obbedire (il lavoro non era retribuito!), arrivava la milizia delle compagnie che bruciava le capanne e sparava a vista, uccidendo tutti, donne e bambini. Per assicurarsi che i soldati avessero realmente usato le cartucce per uccidere le persone, gli ufficiali esigevano che tagliassero le mani delle vittime e le consegnassero poi al commissario, che le avrebbe contate. Un orrore in nome del profitto, del caucciù! Fu una carneficina che ridusse la popolazione del Congo da circa venti a otto milioni nel 1911. Durante il regno di Leopoldo II molti missionari, soprattutto belgi, andarono a portare il Vangelo in Congo e costruirono chiese, scuole, dispensari: “Eppure,” scrive nel suo studio The Sacrifice of Africa il teologo ugandese Emmanuel Katongole, “il ruolo del cristianesimo rimase quasi invisibile”. Il cristianesimo occidentale riteneva che il suo campo di competenza fosse il campo “spirituale” e “pastorale”, mentre allo Stato toccava l’aspetto politico. Secondo Katongole è stato questo il tipo di cristianesimo portato in Africa. "
Alex Zanotelli, Lettera alla tribù bianca, Feltrinelli (collana Serie Bianca); prima edizione marzo 2022. [Libro elettronico]
#Alex Zanotelli#letture#leggere#libri#citazioni#conversione#Lettera alla tribù bianca#popoli africani#umanità#Africa nera#Padre Alessandro Zanotelli#Congo belga#colonialismo europeo#XIX secolo#Henry Morton Stanley#Leopoldo II del Belgio#Emmanuel Katongole#imperialismo#Africa#Conferenza di Berlino#genocidio#caucciù#estrattivismo#terrorismo#capitalismo#missionari#cristianesimo#società africane#antropocene#schiavismo
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Lo sviluppo che aggredisce il Chiapas
Lo sviluppo che aggredisce il Chiapas
Mikeas Sanchez Gomez, indigena della Valle Zoque del nord del Chiapas, venuta a Roma per ritirare per conto del suo popolo un premio internazionale di Pax Christi, racconta l’aggressione del modello estrattivista nei confronti della sua comunità e della sua terra. Le concessioni ai soliti predatori in nome di uno sviluppo tossico quanto astratto sono per ora state bloccate dalla protesta ma il…
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#messico#indigeni#informazione#diritti umani#In evidenza#Fare#estrattivismo#comunità#chiapas#Zoque#comuneinfo
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Infine la crisi di governo è arrivata, era nell'aria da mesi, ma Salvini ha aspettato con prudenza il momento a suo parere più consono per infilare la stilettata. Poco ci interessa discutere adesso sugli scenari prossimi delle geometrie parlamentari e sulle polemiche spicciole. E' più interessante provare a capire come questo passaggio si inserisce nel ciclo neopopulista italiano, quali contraddizioni scioglie, o liquida e quali ulteriori invece apre per il futuro.
Alcune note a caldo sulla crisi di governo
1 - La crisi di governo è latente dall'inizio dell'esperimento giallo-verde.L'incompatibilità tra le istanze sociali che questo governo avrebbe dovuto combinare era chiara dall'inizio, ma, paradossalmente, in una fase iniziale era proprio questa profonda ambiguità a costituire la tenuta del governo. L'esecutivo Conte formalmente funzionava come una delle prime esperienze di governo "pigliatutto" che come presupposto al famoso contratto di governo aveva una sostanziale armonizzazione e organizzazione tendenziale della società, in una forma totalmente incoerente. Al di là del costrutto ideologico, che passava per un certo grado di neutralizzazione e istituzionalizzazione del conflitto sociale, a divergere profondamente erano le proposte di politica economica. Non che quelle del cinquestelle contenessero nulla di rivoluzionario, ma di fatto de-intermediavano la distribuzione delle risorse dalla presenza degli intermediari privati, aggredendo dunque, in forme molto edulcorate, la finanziarizzazione e privatizzazione del welfare e della spesa pubblica. Una ricetta socialdemocratica fuori tempo massimo. La ricetta leghista invece, al contrario prevede un keynesismo finanziarizzato, in cui la combinazione tra l'inclusione differenziale della forza lavoro, la riduzione delle tasse e la maggiore liberalizzazione dell'accesso dei privati alla spesa pubblica dovrebbe ri-impulsare l'economia e fare aumentare gli investimenti. Entrambe le ricette partivano dall'ipotesi comune che l'autoregolazione del mercato è una stronzata, tanto più in un contesto globalizzato e competitivo, e che dunque l'intervento dello stato è necessario, ma mentre i primi volevano, illusoriamente, restituire al pubblico un suo briciolo d'indipendenza dal mercato, i secondi, comprendendo che ormai il legame è inscindibile, puntano a una sempre più profonda distribuzione di risorse pubbliche ai privati. E' palese che l'opzione salviniana ha da subito ricevuto il sostegno degli imprenditori, dei media e di ciò che rimane della classe media soprattutto in contrapposizione con i miseri tentativi di redistribuzione grillini. Ma anche delle fette di proletariato più o meno tradizionale si sono fatte irretire dalla promessa della "crescita", mentre perché le proposte dei 5stelle assumessero un minimo di credibilità era necessario almeno un accenno di mobilitazione sociale significativa, che non solo non è emersa, ma è stata fortemente scoraggiata e evitata dalla compagine pentastellata. L'autodelega è dunque via via mutata in debolezza e infine in trasformismo. Infatti Salvini, consapevole che questo rischio alla lunga potrebbe riguardare anche lui, nell'ultima fase del governo giallo-verde ha aperto a una ri-intermediazione con le parti sociali "tradizionali" in una sorta di embrione neo-corporativistico. Il governo giallo-verde dunque per circa un anno è riuscito a rappresentare in maniera ancora molto frammentaria un arco di soggetti composito, ma adesso, se si dovesse andare ad elezioni, la ricetta salviniana sarà adeguata per farlo ancora? Cosa sostituirà le proposte blandamente sociali dei 5stelle? O vedremo riemergere delle contrapposizioni su una linea implicitamente di classe?
2 - Non bisogna però pensare al salvinismo come una semplice restaurazione che oggi arriva al suo compimento. In parte lo è, ma è soprattutto una innovazione sia per quanto riguarda gli assetti istituzionali, di cui parleremo dopo, sia per quanto riguarda la collocazione internazionale dell'Italia, sia per le forme comunicative che per la forma dello scontro politico che impone. Non bastano vecchie categorie, né consolatorie, né drammatizzanti per affrontare una seria opposizione sociale al Capitone.
3 - E' veramente nata la Terza Repubblica.Non nel senso del "governo del cambiamento" o del "popolo" come Di Maio (pace all'anima sua) in maniera sbruffona affermava. Piuttosto ad essere significativamente mutati sono i rapporti istituzionali non nelle loro caratteristiche formali, ma in quelle agite. Lo Stato, come comando, e la sua transizione in una direzione o in un'altra è la vera posta in palio di questa fase. Salvini si scontra e ricuce, colonizza e tenta di cooptare, tutti gli apparati della funzione stato, dalla magistratura, ai burocrati, al Presidente della Repubblica, all'Autorità Nazionale Anticorruzione. Sa bene che oggi per contare, per imporre la propria visione politica non basta vincere delle elezioni, ma tocca riorganizzare nel profondo la macchina statale. Salvini inoltre deve ridefinire le forme della legalità (impresa non riuscita neanche completamente a Berlusconi) per dare risposte agli imprenditori sempre più voraci che non riescono a rubare abbastanza con i lacci e lacciuoli imposti dalle legislazioni attuali. Non è una questione banalmente di corruzione, è una necessità sistemica nella contrazione della capacità produttiva italiana. Bisogna dare il via libera a nuove forme di accumulazione e estrattivismo per rilanciare la "crescita" senza che nessuno metta i bastoni tra le ruote. Per fare ciò bisogna rimettere completamente in discussione gli assetti istituzionali post-tangentopoli. I 5stelle puntavano a una banale razionalizzazione dello Stato, Salvini deve osare molto di più. Questo potrebbe portare a frizioni intra-istituzionali, nonostante l'apparente disfacimento e delegittimazione in cui versano oggi tanti di questi apparati. Per chi crede che sia necessaria un'opposizione di classe alla Lega non si tratta di tifare Mattarella come fanno certi o le magistrature, ma piuttosto di tenere ben presenti le contraddizioni nel campo avverso e di sfruttarle quando possibile.
4 - Salvini annuncia la crisi di governo poco prima di alcuni passaggi centrali dell'anno politico. Una manovra economica con il rischio dello scatto dell'IVA al 25%, il taglio del numero dei parlamentari e la scelta del commissario UE. E' chiaro che l'obbiettivo del Capitone è di agire su questi temi senza dover trovare una mediazione interna con i 5stelle. Dovrà trovare i soldi per la Flat Tax e evitare l'aumento dell'IVA. Cosa succederà dunque al "reddito di cittadinanza" e al "decreto dignità"? La Lega cancellerà con un colpo di spugna queste riforme? Chi ha avuto accesso a questi dispositivi come reagirà alla loro possibile cancellazione?
5 - L'affare Russia Gate è probabilmente tra le questioni che ha portato ad un'accelerazione della crisi di governo. Non solo per l'evidente imbarazzo della compagine giallo-verde di fronte all'opinione pubblica nel gestire lo scandalo, ma soprattutto perché evidenzia la strategia di reazione alla politica estera trumpiana che gli ambienti democratici americani stanno provando ad articolare in Europa. Il tentativo è quello di far saltare o almeno mettere in cattiva luce i referenti del sovranista sul vecchio continente. Altrove la strategia ha funzionato, in Italia per il momento no, ma Salvini sa bene che sta giocando una partita assai rischiosa su quel fronte. Proseguire il gioco di equilibrismi in cui si sta muovendo con la palla al piede dei grillini avrebbe potuto rappresentare un disastro. Oggi Salvini in Europa è effettivamente piuttosto isolato e la strategia di parziale cooptazione delle forze populiste messa in atto dalla nuova Commissione Europea potrebbe metterlo in difficoltà. Dunque la Lega si troverà ad un bivio, senza la possibilità di scaricare la responsabilità su altri, tra adeguarsi a una qualche forma di contrattazione al ribasso con l'UE o approfondire la conflittualità sperando di avere le spalle coperte dagli yankees. Entrambe le strade avrebbero conseguenze in termini di consenso e di effetti economici e sociali tutt'altro che prevedibili oggi.
6 - Il governo giallo-verde vede la sua fine su una tematica ormai paradigmatica, per quanto apparentemente marginale come quella del TAV. In questo Salvini è stato un animale politico non indifferente, costruendo mattone su mattone la crisi del 5stelle e svuotandolo di senso fino ad attaccare una delle battaglie costituenti dei grillini. Dopo averli ammansiti e addestrati, averne completamente annullato l'aurea di alterità li ha abbandonati a se stessi. Ma più che per la dinamica in sé è importante annotare che la crisi si è data su questo tema perché è un simbolo, il più palese, dello scontro latente nella società tra la "crescita" senza limiti e la conquista di forme di vita più egualitarie e umane. Il movimento No Tav e i movimenti contro le grandi opere sono una ferita aperta nel piano sovranista perché sono le uniche forme di opposizione di classe di una certa dimensione in questo paese che si contrappongono alle vie di uscita dalla crisi dall'alto. Questo chiaramente vorrà dire un approfondirsi dello scontro con le compagini popolari che compongono questi movimenti, ma potrebbe anche significare una progressiva generalizzazione delle loro istanze, tanto per via dello scontro in sé, quanto per il moltiplicarsi dei fronti determinati dai cambiamenti climatici e dalla ripresa dell'accumulazione indiscriminata.
In sostanza le contraddizioni con cui si dovrà confrontare un eventuale governo sovranista sono tutt'altro che lisce e la fase che si apre potrebbe chiarificare una polarizzazione, se non immediatamente nelle piazze, almeno nell'opinione che non potrà tornare nell'alveo destra-sinistra come dimostra il sostanziale girare a vuoto della proposta liberaldemocratica del PD. Bisognerà fare attenzione a non cedere alla retorica del frontismo antifascista che è rimasta l'unica tenue arma nella mani dei Dem per provare a rifarsi una verginità. Ci aspettano tempi, strani, faticosi, ma interessanti.
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....Il transnazionalismo femminista implica una critica agli avanzamenti neocoloniali nei territori del corpo. Denuncia le differenti forme di estrattivismo e dimostra il loro legame con l’aumento della violenza di genere e le forme di sfruttamento del lavoro che prendono la maquila come scena emblematica in questo continente....
Immagine, María María Acha-Kutscher
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Estrattivismo e resistenza: intervista a Raúl ZIbechi - 9 giugno 2018
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La nostra lotta non si è mai soffermata solo sul problema legato all’approdo o alla devastazione del nostro territorio. La nostra opposizione ha sempre avuto una visione più ampia, uno sguardo sull’intero sistema di imposizione delle opere, un agire locale in un pensiero globale. Per questo abbiamo deciso di chiedere al nostro amico Filippo, che lavora per Re:Common di scriverci qualcosa sui problemi che si vivono in Messico per colpa delle Multinazionali, un articolo che mette in evidenza come il sistema di questi loschi individui sia uguale ad ogni latitudine.
Di Filippo Taglieri
La terra è rossa e ricca di minerali, è la terra degli ulivi. È una terra per molti povera, ma in realtà è molto ricca per l'albero della resistenza. L'ulivo è uno dei simboli della difesa della terra per la profondità delle sue radici, per la sua resistenza alle intemperie, per la sua capacità di dare frutti anche con poca acqua e molto caldo. La terra è rossa e ricca di minerali. È la terra dei popoli indigeni, gli ultimi della terra per molti, i popoli in lotta e resistenza. Stiamo parlando di storie di ricostruzione dell'amore per la terra, della difesa del territorio come forma di difesa della vita, stiamo parlando di autodeterminazione dei popoli. Un posto lontano da casa nostra, dalla nostra cultura se vogliamo, il Messico, non ancora Stati Uniti ma non del tutto America latina, è un Paese dilaniato da una guerra silenziosa ma inesorabile, che macina morti e desaparecidos ogni giorno, dove lo Stato che sa solo prendere e mai redistribuire. Il Messico di oggi vive uno dei momenti più bui della sua storia, il caos e la violenza generalizzata sembrano orchestrati con precisione dallo Stato e dalle multinazionali per dividersi il territorio, spartire ricchezze e portarle via dal Paese, ignorando i popoli che lo abitano, che vivono di quella terra. In questo momento la Confederazione degli stati messicani vive una nuova ondata di estrattivismo massiccia e violenta, infatti. La riforma energetica ideata dal presidente Enrique Peña Nieto, oltre a privatizzare la Pemex (società pubblica e con il monopolio dell'estrazione e distribuzione del petrolio) e ad aprire il mercato dell'energia, si propone attraverso la legge mineraria (Ley Minera) di concedere ampi spazi del territorio, soprattutto al centro sud, a nuove estrazioni di minerali, estrazioni a cielo aperto, utilizzando il metodo del frakking con acqua e cianuro. La legge stabilisce che il sottosuolo messicano è di proprietà del popolo messicano e quindi, per uno strano gioco di parole ormai vuoto politicamente, deve essere dunque gestita dal governo centrale, riducendo il potere di azione dei singoli stati e dei municipi interessati. Per questa ragione le estrazioni dovranno essere condotte solo da società messicane. Anche in questo caso è un trucco semantico: infatti tutte le multinazionali con una sede registrata in Messico sono formalmente messicane. Il gioco è fatto! I governanti discutono con i poteri forti delle multinazionali, stringono accordi, regalano terra e ricchezze, senza chiedere alla gente, per gli “interessi strategici” del Paese, che evidentemente i popoli che vivono quelle terre non possono capire. D'altronde come puoi capire che l'interesse strategico del tuo Paese è la tua scomparsa?Le promesse di “sviluppo”, “progresso”, posti di lavoro e qualche elemosina qua e là per far stare buona la gente sono stati per anni lo strumento che lo Stato ha usato per saccheggiare le popolazioni indigene e contadine del Messico. Ma adesso che queste ultime non ci stanno più, si autorganizzano e provano a difendere il territorio. Certo, sanno che a causa della repressione potrebbero perdere anche la vita, ma tanto lasciando quelle terre alle multinazionali – dicono - la perderebbero ugualmente.E poi si ritorna a quella terra rossa, quella terra di ulivi, a due passi da casa nostra. Una annosa vicenda, l'Italia e l'Azerbaigian coinvolti in una storia d'amore a tinte fosche, un amore che si esprime con loschi passaggi di denaro, ambigue società come Trans Adriatic Pipeline (TAP) AG, il governo che si presenta con scudi e manganelli a difendere leggi che, invece di tutelare la popolazione locale, difendono interessi privati. È un discorso affascinante e spinoso quello delle leggi, è un dibattito che va aperto. Se uno Stato corrotto o miope scrive delle leggi contro il suo popolo che cosa bisogna fare? In un sistema come quello attuale, governato dalla finanza e dove società senza un volto si dividono interessi e terre, gli stati sono deboli coi forti e forti coi deboli.Così un progetto sponsorizzato dal governo azero si affaccia in Europa (link re:common), un grande gasdotto che buca Azerbaigian, Georgia, Turchia, Grecia e Albania fino a sbucare in Salento, compromettendo una delle coste più belle dello Stivale e distruggendo terre ricche di ulivi. Un progetto inutile, ma soprattutto un progetto che continua a soffermarsi su un modello di sviluppo basato sul gas, ennesimo esempio di incapacità da parte dello Stato di trovare alternative sostenibili alle fonti di energia inquinanti. E poi ci sono storie di grandi e piccole di corruzione (link1, link2), storie surreali che farebbero ridere se non ti toccassero da vicino, storie di repressione. Una zona rossa intorno a un progetto che fatica a partire per proteggere interessi di privati; la gente che vive in quei posti minacciata con dei “fogli di via” affinché non difendano pacificamente le loro terre; poi l'ultima puntata: si scopre che la zona rossa non era legale. Gli strumenti messi in campo hanno un obiettivo: spaventare la popolazione, in un meccanismo in cui nessuno si assume le proprie responsabilità, la polizia segue gli ordini del Prefetto, il Prefetto le direttive del ministero degli Interni, il ministero degli Interni mette in campo strumenti per difendere le scelte del ministro dello Sviluppo Economico, che segue gli interessi strategici dell'Italia senza chiederlo alla gente, ma relazionandosi a una società (TAP AG) con sede in Svizzera e con il governo dell'Azerbaigian. Nessun responsabile ma tutti complici, mentre sta arrivando un progetto che le comunità locali che non vogliono né in Salento né in altri posti. Comunità che piano piano si rendono conto che quello che si impone dall'alto non può essere chiamato sviluppo, che le promesse di posti di lavoro sono parte di una narrativa tossica che ogni grande opera porta con sé.E' l'Italia delle realtà che resistono, realtà che capiscono che senza la loro Valle la vita stessa ha meno senso, senza i loro ulivi e le loro terre la vita cambia. E che senza poter decidere della propria vita insieme la vita non è tale.
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Lo sviluppo che aggredisce il Chiapas
Lo sviluppo che aggredisce il Chiapas
Mikeas Sanchez Gomez, indigena della Valle Zoque del nord del Chiapas, venuta a Roma per ritirare per conto del suo popolo un premio internazionale di Pax Christi, racconta l’aggressione del modello estrattivista nei confronti della sua comunità e della sua terra. Le concessioni ai soliti predatori in nome di uno sviluppo tossico quanto astratto sono per ora state bloccate dalla protesta ma il…
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Dalle miniere ai corpi
Dalle miniere ai corpi
Dalle forme più tradizionali legate alle attività minerarie e di business agricolo, l’estrattivismo si è esteso ai corpi e ai desideri delle persone Proteste contro le miniere a cielo aperto in Perù (ph Desinformemonos) di Sandro Mezzadra* e Stefano Rota – Associazione Transglobal Di cosa parliamo quando usiamo il termine estrattivismo? Riprendendo il percorso di analisi altrove sviluppato in…
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La nuova campagna contro i Mapuche
La nuova campagna contro i Mapuche
In Argentina è in pieno corso una nuova violenta campagna contro i Mapuche, il popolo indigeno della Patagonia che – malgrado lo sterminio – né i conquistadores della corona spagnola né l’esercito argentino del generale Roca, nella Conquista del desierto degli ultimi anni del XIX secolo, riuscirono mai a sottomettere completamente. Nelle campagne dei conquistatori dei giorni nostri si rinnovano i…
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La nuova campagna contro i Mapuche
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Il Saccheggio, Racconti dal Chiapas e dal mondo passando per i banchi della “Buona Scuola”
Copertina “Il saccheggio” Il SaccheggioRacconti dal Chiapas e dal mondo passando per i banchi della “Buona Scuola” Testi di: Wolf Bukowsky, Giulia Franchi, Filippo Taglieri, Aldo Zanchetta “Estrattivismo” è una parola ancora poco usata in Italia. Fa pensare subito al processo di rimozione di risorse naturali dai sottosuoli allo scopo di esportare materie prime. In realtà, l’estrazione mineraria è…
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#italia#messico#nonprofit#notizie#informazione#associazione#pubblicazioni#estrattivismo#Unione europea#recommon#chiapas#Risorse e beni comuni#risorse naturali#industria mineraria#dell’unione europea#Materie prime#economico dell’unione europea#Franchi#posizione dell’unione europea#ragazzino inesperto#stesse bugie#sottrazione sistematica#tragico inganno#l’estrazione mineraria#esclusiva responsabilità#Il Saccheggio
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Perché in Sudamerica crescono le destre
Perché in Sudamerica crescono le destre
Il ciclo progressista è finito, anche se ci sono ancora governi di centrosinistra che per restare in carica devono seguire una tendenza che vede crescere le destre, in modo particolare in Sudamerica. Il modello estrattivista ha trasformato le società che ora esprimono valori e relazioni sociali di conservazione, così come la società industriale ha generato in passato una potente classe operaia e…
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Pubblichiamo la traduzione di questo articolo di Soraya El Kahlaoui, sociologa e coordinatrice del Comitato di solidarietà ai prigionieri politici del Hirak, con sede a Casablanca. L’articolo lancia la petizione internazionale per la liberazione dei detenuti del Hirak, già firmata da personalità come Noam Chomsky, Ken Loach e Arundhati Roy. In Italia hanno firmato, tra gli altri, Erri De Luca, Moni Ovadia, Gianfranco Manfredi, Paolo Ferrero e Gianfranco Bettin. Tra i primi firmatari anche l’Associazione Ya Basta! Êdî Bese!. È possibile firmare l’appello a questo link. L’elenco provvisorio dei firmatari è disponibile qui. L’articolo tradotto è comparso originalmente su Middle East Eye. È passato un anno dal decesso di Mouhcine Fikri, schiacciato in un autocompattatore mentre tentava di recuperare la merce confiscatagli dalle autorità. Questa morte aveva scatenato un’ampia ondata di contestazione nel Rif, regione settentrionale del Marocco. Da allora, le migliaia di marocchini che si sono mobilitati per rivendicare giustizia sociale e sviluppo economico hanno dovuto far fronte a una repressione brutale. Oggi, mentre il Hirak celebra un anno di movimento, più di 300 detenuti politici sono ancora in prigione e i leader del movimento – come Nasser Zefzafi – sono sotto processo per attacco alla sicurezza dello stato. Le accuse sono gravi e gli imputati rischiano pene che vanno dai vent’anni di carcere alla pena di morte. In questo contesto, e nel momento in cui i prigionieri politici del Hirak hanno appena sospeso uno sciopero della fame durato più di un mese, il Comitato di solidarietà ai prigionieri politici del Hirak, con sede a Casablanca, lancia un appello per la solidarietà internazionale e per la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici del Hirak. L’appello è già stato firmato da grandi figure intellettuali e politiche come Noam Chomsky, Ken Loach e Arundhati Roy. L’iniziativa vuole rompere il silenzio sulle detenzioni politiche in Marocco e mettere le autorità marocchine di fronte alle loro responsabilità. Troppo spesso presentato come un modello di stabilità e di transizione democratica nella regione, il regime marocchino ha invece mostrato un volto assai fosco – e a dire il vero inquietante – nella gestione delle rivendicazioni sociali della popolazione del Rif. È dunque per rendere omaggio a questa annata di mobilitazione popolare che vorrei soffermarmi sull’immaginario di liberazione di coloro che hanno osato alzare la voce per denunciare la corruzione che corrode il paese da decenni. Oggi, è giunto il momento di osare dire che il Hirak non minaccia la stabilità del paese ma che al contrario, costituisce un bagliore di luce che lo stato marocchino deve scorgere affinché si realizzino i profondi cambiamenti sociali che i cittadini marocchini attendono da decenni. Alcuni ribatteranno che lo stato marocchino, a partire dal 2011, ha avviato una transizione democratica e che prima ancora, dai primi anni 2000, si è fatto carico della famosa “questione sociale”. Il re Mohammed VI non era stato appunto per questo ribattezzato “il re dei poveri”? Come sempre, gli uomini politici diranno che bisogna avere pazienza. In fin dei conti, come tutti sanno, Roma non è stata costruita in un giorno. Ma la pazienza è una richiesta che troppo facilmente esce dalle loro bocche. Anche se è innalzata a virtù suprema, la si domanda solamente alle classi popolari, mentre i politici hanno il diritto di perderla. Possono perdere la pazienza con l’insistenza del popolo, con quei “disturbi dell’ordine pubblico” che sono le manifestazioni… I politici non esitano a giustificare gli arresti di massa che colpiscono tutti quei cittadini che si permettono di perturbare la pacifica pazienza alla quale il popolo è condannato. Il re stesso usa spesso il suo diritto di perdere la pazienza. Soltanto un paio di giorni fa, dopo che un rapporto della Corte dei conti ha rivelato enormi ritardi nel programma di sviluppo della città di Al Hoceima, il re ha rimosso tre ministri, un segretario di stato e alcuni alti funzionari. Questa decisione è stata descritta come un “sisma politico” dalla stampa locale e di fatto dimostra una cosa. In politica, i momenti di esasperazione portano legittimamente a delle rotture. Si pone dunque una domanda. Se è legittimo che il re rimuova dei funzionari statali per la loro incompetenza, perché sarebbe illegittimo che i cittadini creino dei momenti di rottura occupando le strade per denunciare questa stessa incompetenza, oggi ufficialmente riconosciuta? Parliamo francamente. Ogni cittadino ha diritto di voto ma nessun cittadino gode del potere di rimuovere un funzionario. Allora che cosa bisogna fare quando l’incompetenza dei responsabili in carica diventa una minaccia per la vita quotidiana dei cittadini? Che cosa bisogna fare quando tale incompetenza li lascia senza possibilità di continuare gli studi universitari perché non c’è una università, o di curarsi perché mancano le infrastrutture sanitarie, o di lavorare perché l’economia non si sviluppa? Si potrebbe dunque domandarsi che cosa farebbero questi politici – dalla pazienza limitata – se si fossero trovati al posto di Nasser Zefzafi. Che cosa farebbero se abitassero nella regione del Marocco più colpita dal cancro a causa degli esperimenti con le armi chimiche usate all’epoca della colonizzazione spagnola? Che cosa farebbero se la loro madre, colpita dal cancro, non avesse la possibilità di curarsi, perché alcuni alti funzionari hanno casualmente dimenticato di dare all’ospedale i mezzi necessari? Si può insomma chiedersi che cosa avrebbero fatto questi politici se si fossero trovati al posto di Nasser Zefzafi, quando ogni giorno doveva affrontare lo sguardo sofferente della propria madre. E visto il fallimento di questi signori, difficilmente mascherato – bisogna dirlo – dal tono che gli dà il loro vestito così sapientemente incravattato, non si può che dubitare del fatto che avrebbero avuto il coraggio di Nasser Zefzafi, o di Mohammed Jelloul, Nabil Ahmjik, Rabi Ablaq e tutti gli altri militanti del Hirak. È difficile immaginarli capaci di mettere in pericolo la loro libertà in nome del bene comune, in nome di un diritto allo sviluppo equo per tutti. Per decenni, nessuno di loro, pur protetto da file di titoli onorifici, ha osato denunciare la corruzione interna ai propri circoli. Nessuno di loro ha osato mettere in discussione il modello di sviluppo del paese, che va a discapito delle popolazioni più vulnerabili. La privatizzazione della sanità e dell’educazione, gli abitanti delle terre collettive sgomberati in nome della rigenerazione territoriale, i piccoli agricoltori gettati in pasto ai profitti delle grandi società di agri-business la cui produzione è destinata all’export… E tutti i progetti di sviluppo esauriscono ciecamente le risorse naturali. Le modalità di produzione agricola, l’estrazione mineraria, lo sfruttamento del fosfato, i progetti di energia solare succhiano le nappe freatiche del Marocco. Oggi, alcune popolazioni del sud del paese soffrono una grave carenza di acqua. Ma quando gli abitanti si ribellano per reclamare il proprio diritto all’acqua, le autorità hanno un’unica risposta: la repressione. Recentemente una trentina di abitanti di Zagora sono stati arrestati in occasione di una “manifestazione della sete”, cinicamente annaffiata con cannoni ad acqua. Imprigionare in massa tutti i militanti dei movimenti degli emarginati è una vecchia abitudine di stato. Già nel 2014, dure pene di prigione tra i due e i quattro anni sono state inflitte a numerosi abitanti del villaggio di Imider, in lotta contro la società Managem il cui estrattivismo impoverisce profondamente i suoli di una delle regioni più indigenti del Marocco. È dunque vero, nel 2011 il Marocco ha ufficialmente avviato una transizione democratica. Ma il discorso ufficiale è ben lungi dal riflettere la dura realtà nella quale vive la maggioranza dei cittadini marocchini, emarginati economicamente e socialmente. Il Hirak ha fatto risplendere con forza il cammino di tutti gli emarginati, osando gridare a gran voce le rivendicazioni di coloro che abitualmente non trovano ascolto. È proprio per questo che sono tentata di dire che sì, il Marocco è davvero in transizione democratica. Ma questa transizione democratica non verrà dalla riforma costituzionale del 2011, sarà strappata – con determinazione e coraggio – da tutte le lotte popolari che attraversano il paese. Il Hirak è oggi la fiamma che dà unione a tutte queste voci! È la possibilità più significativa di instaurare una democrazia sociale in Marocco. Ma la difesa della democrazia ha un costo. Essa ha come condizione necessaria la difesa, senza condizioni, dei prigionieri politici! La loro liberazione è una causa che riguarda tutti, perché è una causa di democrazia.
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Pubblichiamo la traduzione di questo articolo di Soraya El Kahlaoui, sociologa e coordinatrice del Comitato di solidarietà ai prigionieri politici del Hirak, con sede a Casablanca. L’articolo lancia la petizione internazionale per la liberazione dei detenuti del Hirak, già firmata da personalità come Noam Chomsky, Ken Loach e Arundhati Roy. In Italia hanno firmato, tra gli altri, Erri De Luca, Moni Ovadia, Gianfranco Manfredi, Paolo Ferrero e Gianfranco Bettin. Tra i primi firmatari anche l’Associazione Ya Basta! Êdî Bese!. È possibile firmare l’appello a questo link. L’elenco provvisorio dei firmatari è disponibile qui. L’articolo tradotto è comparso originalmente su Middle East Eye. È passato un anno dal decesso di Mouhcine Fikri, schiacciato in un autocompattatore mentre tentava di recuperare la merce confiscatagli dalle autorità. Questa morte aveva scatenato un’ampia ondata di contestazione nel Rif, regione settentrionale del Marocco. Da allora, le migliaia di marocchini che si sono mobilitati per rivendicare giustizia sociale e sviluppo economico hanno dovuto far fronte a una repressione brutale. Oggi, mentre il Hirak celebra un anno di movimento, più di 300 detenuti politici sono ancora in prigione e i leader del movimento – come Nasser Zefzafi – sono sotto processo per attacco alla sicurezza dello stato. Le accuse sono gravi e gli imputati rischiano pene che vanno dai vent’anni di carcere alla pena di morte. In questo contesto, e nel momento in cui i prigionieri politici del Hirak hanno appena sospeso uno sciopero della fame durato più di un mese, il Comitato di solidarietà ai prigionieri politici del Hirak, con sede a Casablanca, lancia un appello per la solidarietà internazionale e per la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici del Hirak. L’appello è già stato firmato da grandi figure intellettuali e politiche come Noam Chomsky, Ken Loach e Arundhati Roy. L’iniziativa vuole rompere il silenzio sulle detenzioni politiche in Marocco e mettere le autorità marocchine di fronte alle loro responsabilità. Troppo spesso presentato come un modello di stabilità e di transizione democratica nella regione, il regime marocchino ha invece mostrato un volto assai fosco – e a dire il vero inquietante – nella gestione delle rivendicazioni sociali della popolazione del Rif. È dunque per rendere omaggio a questa annata di mobilitazione popolare che vorrei soffermarmi sull’immaginario di liberazione di coloro che hanno osato alzare la voce per denunciare la corruzione che corrode il paese da decenni. Oggi, è giunto il momento di osare dire che il Hirak non minaccia la stabilità del paese ma che al contrario, costituisce un bagliore di luce che lo stato marocchino deve scorgere affinché si realizzino i profondi cambiamenti sociali che i cittadini marocchini attendono da decenni. Alcuni ribatteranno che lo stato marocchino, a partire dal 2011, ha avviato una transizione democratica e che prima ancora, dai primi anni 2000, si è fatto carico della famosa “questione sociale”. Il re Mohammed VI non era stato appunto per questo ribattezzato “il re dei poveri”? Come sempre, gli uomini politici diranno che bisogna avere pazienza. In fin dei conti, come tutti sanno, Roma non è stata costruita in un giorno. Ma la pazienza è una richiesta che troppo facilmente esce dalle loro bocche. Anche se è innalzata a virtù suprema, la si domanda solamente alle classi popolari, mentre i politici hanno il diritto di perderla. Possono perdere la pazienza con l’insistenza del popolo, con quei “disturbi dell’ordine pubblico” che sono le manifestazioni… I politici non esitano a giustificare gli arresti di massa che colpiscono tutti quei cittadini che si permettono di perturbare la pacifica pazienza alla quale il popolo è condannato. Il re stesso usa spesso il suo diritto di perdere la pazienza. Soltanto un paio di giorni fa, dopo che un rapporto della Corte dei conti ha rivelato enormi ritardi nel programma di sviluppo della città di Al Hoceima, il re ha rimosso tre ministri, un segretario di stato e alcuni alti funzionari. Questa decisione è stata descritta come un “sisma politico” dalla stampa locale e di fatto dimostra una cosa. In politica, i momenti di esasperazione portano legittimamente a delle rotture. Si pone dunque una domanda. Se è legittimo che il re rimuova dei funzionari statali per la loro incompetenza, perché sarebbe illegittimo che i cittadini creino dei momenti di rottura occupando le strade per denunciare questa stessa incompetenza, oggi ufficialmente riconosciuta? Parliamo francamente. Ogni cittadino ha diritto di voto ma nessun cittadino gode del potere di rimuovere un funzionario. Allora che cosa bisogna fare quando l’incompetenza dei responsabili in carica diventa una minaccia per la vita quotidiana dei cittadini? Che cosa bisogna fare quando tale incompetenza li lascia senza possibilità di continuare gli studi universitari perché non c’è una università, o di curarsi perché mancano le infrastrutture sanitarie, o di lavorare perché l’economia non si sviluppa? Si potrebbe dunque domandarsi che cosa farebbero questi politici – dalla pazienza limitata – se si fossero trovati al posto di Nasser Zefzafi. Che cosa farebbero se abitassero nella regione del Marocco più colpita dal cancro a causa degli esperimenti con le armi chimiche usate all’epoca della colonizzazione spagnola? Che cosa farebbero se la loro madre, colpita dal cancro, non avesse la possibilità di curarsi, perché alcuni alti funzionari hanno casualmente dimenticato di dare all’ospedale i mezzi necessari? Si può insomma chiedersi che cosa avrebbero fatto questi politici se si fossero trovati al posto di Nasser Zefzafi, quando ogni giorno doveva affrontare lo sguardo sofferente della propria madre. E visto il fallimento di questi signori, difficilmente mascherato – bisogna dirlo – dal tono che gli dà il loro vestito così sapientemente incravattato, non si può che dubitare del fatto che avrebbero avuto il coraggio di Nasser Zefzafi, o di Mohammed Jelloul, Nabil Ahmjik, Rabi Ablaq e tutti gli altri militanti del Hirak. È difficile immaginarli capaci di mettere in pericolo la loro libertà in nome del bene comune, in nome di un diritto allo sviluppo equo per tutti. Per decenni, nessuno di loro, pur protetto da file di titoli onorifici, ha osato denunciare la corruzione interna ai propri circoli. Nessuno di loro ha osato mettere in discussione il modello di sviluppo del paese, che va a discapito delle popolazioni più vulnerabili. La privatizzazione della sanità e dell’educazione, gli abitanti delle terre collettive sgomberati in nome della rigenerazione territoriale, i piccoli agricoltori gettati in pasto ai profitti delle grandi società di agri-business la cui produzione è destinata all’export… E tutti i progetti di sviluppo esauriscono ciecamente le risorse naturali. Le modalità di produzione agricola, l’estrazione mineraria, lo sfruttamento del fosfato, i progetti di energia solare succhiano le nappe freatiche del Marocco. Oggi, alcune popolazioni del sud del paese soffrono una grave carenza di acqua. Ma quando gli abitanti si ribellano per reclamare il proprio diritto all’acqua, le autorità hanno un’unica risposta: la repressione. Recentemente una trentina di abitanti di Zagora sono stati arrestati in occasione di una “manifestazione della sete”, cinicamente annaffiata con cannoni ad acqua. Imprigionare in massa tutti i militanti dei movimenti degli emarginati è una vecchia abitudine di stato. Già nel 2014, dure pene di prigione tra i due e i quattro anni sono state inflitte a numerosi abitanti del villaggio di Imider, in lotta contro la società Managem il cui estrattivismo impoverisce profondamente i suoli di una delle regioni più indigenti del Marocco. È dunque vero, nel 2011 il Marocco ha ufficialmente avviato una transizione democratica. Ma il discorso ufficiale è ben lungi dal riflettere la dura realtà nella quale vive la maggioranza dei cittadini marocchini, emarginati economicamente e socialmente. Il Hirak ha fatto risplendere con forza il cammino di tutti gli emarginati, osando gridare a gran voce le rivendicazioni di coloro che abitualmente non trovano ascolto. È proprio per questo che sono tentata di dire che sì, il Marocco è davvero in transizione democratica. Ma questa transizione democratica non verrà dalla riforma costituzionale del 2011, sarà strappata – con determinazione e coraggio – da tutte le lotte popolari che attraversano il paese. Il Hirak è oggi la fiamma che dà unione a tutte queste voci! È la possibilità più significativa di instaurare una democrazia sociale in Marocco. Ma la difesa della democrazia ha un costo. Essa ha come condizione necessaria la difesa, senza condizioni, dei prigionieri politici! La loro liberazione è una causa che riguarda tutti, perché è una causa di democrazia.
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