#elezioni 21 dicembre
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Lidia Thorpe
“Ridateci ciò che ci avete rubato: le nostre ossa, i nostri teschi, i nostri bambini, il nostro popolo”
Lidia Thorpe è la senatrice aborigena australiana salita alla cronaca mondiale il 21 ottobre 2024, quando ha interrotto il discorso di Re Carlo d’Inghilterra durante la sua visita al Parlamento, accusandolo di genocidio contro i popoli delle Prime Nazioni, che popolavano il paese prima della colonizzazione.
È stata la prima aborigena eletta al Parlamento nel 2017 ed è senatrice dal 2020. È stata vice leader dei Verdi al Senato da giugno a ottobre 2022. Nel febbraio 2023 ha lasciato il partito ed è diventata indipendente.
Nel suo impegno politico si è distinta per aver reclamato i diritti delle persone aborigene e per essersi imposta su temi relativi alla tutela dell’ambiente, della terra e sulla riforma del sistema giudiziario.
È nata il 18 agosto 1973 a Carlton, Victoria, in una famiglia povera e militante, composta da orgogliose attiviste e organizzatrici della classe operaia con diverse origini.
Sua nonna, Alma Thorpe, è stata una delle fondatrici del Victorian Aboriginal Health Service e ha partecipato all’Aboriginal Tent Embassy, la più lunga protesta permanente per i diritti del paese. Sua madre, Marjorie Thorpe, ha lavorato all’inchiesta Stolen Generations che ha prodotto il rapporto Bringing Them Home negli anni ’90.
È cresciuta in una casa popolare al nord di Melbourne e ben presto ha imparato a difendersi da molestie e attacchi razzisti a scuola e in strada.
Si è laureata nel 2007 alla Swinburne University of Technology in Sviluppo della Comunità.
L’anno seguente, ha ricevuto il Fellowship for Indigenous Leadership Award per il suo impegno nelle comunità native.
Ha lavorato in diverse organizzazioni per la tutela dei diritti e fatto parte di importanti comitati e osservatori nazionali.
La sua università, nel 2021, l’ha insignita col Social Impact Award.
È entrata nel Parlamento australiano dopo le elezioni suppletive il 28 novembre 2017 col partito Australian Greens Victoria con le deleghe alla giustizia aborigena, tutela dei consumatori, formazione e competenze, sport e salute mentale.
Ha finito il suo mandato in dicembre 2018 e due anni dopo è rientrata per ricoprire una carica vacante, diventando la prima aborigena a rappresentare lo stato di Victoria al Senato e la prima parlamentare federale aborigena dei Verdi.
Rieletta alle elezioni federali del maggio 2022, è diventata vice capo al Senato nel partito dei Verdi dove si è distinta per la sua grinta e l’orgoglio contro il sistema coloniale, utilizzando spesso toni forti, auspicando la sovranità aborigena e il riconoscimento dei clan indigeni.
Ha dovuto anche ripetere il giuramento di fedeltà al paese, perché aveva aggiunto la parola ‘colonizzatrice’ davanti alla regina Elisabetta II.
Senza peli sulla lingua, per il suo atteggiamento di sfida e denuncia di comportamenti molesti, è riuscita a inimicarsi deputati di ogni fazione. Dopo che è stata resa pubblica la sua relazione sentimentale con un motociclista con precedenti penali, si è dimessa dal suo incarico di vice leader dei Verdi e affrontato una mozione di censura.
Non ha mai avuto timore di esporsi dentro e fuori le sedi istituzionali. Ha indossato la kefiah palestinese in Senato, è scesa in piazza per i diritti delle donne e delle persone lgbtq, ha criticato ferocemente un movimento anti transgender e ha manifestato contro la violenza della polizia.
Ha sostenuto la campagna Pay the Rent, che invita le persone australiane non aborigene a pagare una riparazione dell’occupazione dei suoli ai nativi e organizzato una giornata di lutto in occasione dell’Australian Day. Il 6 febbraio 2023 si è dimessa dal Green Party per diventare senatrice indipendente a causa dei disaccordi riguardanti la proposta del referendum Indigenous Voice to Parliament di cui è diventata una figura chiave nella campagna del “No progressista“.Il 21 ottobre 2024, durante la visita ufficiale di re Carlo III, lo ha interrotto gridandogli “Questa non è la tua terra, tu non sei il mio re“.È stata portata via mentre continuava a inveire contro il reale e a invocare il trattato che consentirebbe all’Australia di diventare una repubblica, indipendente dal Regno Unito, con il popolo aborigeno come parte di essa.Attualmente, l’Australia è l’unico paese del Commonwealth che non ha mai stipulato un trattato con il suo popolo indigeno.Con la sua azione dimostrativa, i cui video hanno fatto il giro del mondo, si è inimicata tutto il Parlamento ed è stata censurata per azioni irrispettose e dirompenti.
Inarrestabile, ha annunciato ancora battaglia perché ha ancora tre anni e mezzo per portare avanti le sue istanze al governo.Lidia Thorpe, forte e determinata, va avanti spedita senza alcuna intenzione di mollare la presa sull’impegno per i diritti fondamentali di ogni persona, di qualsiasi etnia, cultura e orientamento sessuale.
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Sinistra Italiana e Movimento 5 Stelle uniscono le forze per il futuro del Trasimeno-Pievese Giovedì 21 dicembre a Perugia si è tenuto un incontro tra i rappresentanti provinciali e di territorio del Trasimeno-Pievese di Sinistra Italiana e un...
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Manovre militari dell’esercito spagnolo in Catalogna
15.12.2017 – HispanTV Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo, Catalano (Foto di hispantv) Militari dell’esercito spagnolo nella base militare di Sant Climent, in Catalogna. L’esercito spagnolo realizzerà nei prossimi giorni delle manovre militari con il fine di coordinarsi davanti alla possibilità di un attacco alla Catalogna. Secondo quanto rivelato mercoledì dal quotidiano…
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#politica#informazione#Europa#In evidenza#Pace e Disarmo#Catalogna#elezioni 21 dicembre#esercito spagnolo#manovre militari#pressenza#PressenzaIPA
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Usa 2020, anche se Trump non venisse rieletto potrebbe uscirne vincitore A pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane Bloomberg pubblica un articolo sui pericoli che Donald Trump corre se non sarà rieletto. L’analisi è corretta, il presidente americano ha una serie di processi e di accuse che sono stati “congelati” grazie alla sua posizione politica. Una volta tornato ad essere un normale cittadino, però, la macchina della giustizia si rimetterebbe in moto, a quel punto senza un’indennità presidenziale Donald Trump potrebbe anche finire dietro le sbarre dal momento che le accuse sono tante: dalla frode fino all’ostruzione della giustizia. Naturalmente questo non succederà, anche se Joe Biden detesta il suo rivale: Trump appartiene alla lunga lista degli ex presidenti del paese e arrestarlo sarebbe un affronto alla carica che ha ricoperto. Il New York Times, che ha denunciato l’evasione fiscale di Trump, concorda con i colleghi di Bloomberg: Trump farà di tutto per vincere e anche se perdesse si rifiuterà di accettare i risultati dello spoglio delle urne e chiederà di ricontarle; c’è anche chi pensa che sia disposto ad incitare la destra militarista americana a mobilitarsi, a scendere in piazza in assetto da guerra per fare giustizia della frode elettorale dei democratici. C’è però chi offre previsioni totalmente diverse. Un avvocato americano di casa nei corridoi del potere e che vuole rimanere anonimo sostiene che Trump ha un piano ben diverso. Se dovesse perdere allora nel periodo che va da novembre fino al 21 dicembre si dimetterebbe. A quel punto Mike Pence, il suo vice, diventerebbe presidente e gli concederebbe il celeberrimo pardon, il perdono, presidenziale. E’ quello che fece Richard Nixon che non venne mai condannato nel processo di impeachment. Si dimise e il suo vice, Gerald Ford, lo perdonò. A quanto pare il pardon presidenziale impedisce qualsiasi causa futura, ciò significa che Trump lascerebbe la Casa Bianca mondato da tutte le accuse, proprio come fu per Nixon. In caso di vittoria il presidente avrebbe 4 anni per perseguire questa strategia. Potrebbe anche non attendere la fine del mandato dal momento che nel 2021 matureranno circa 100 milioni di prestiti immobiliari contratti dalle sue società, al momento gestite dal figlio, soldi che Trump non ha. Banche e finanziarie sono reticenti a rinegoziare prestiti con familiari del presidente a causa dei controlli serrati da parte dell’amministrazione pubblica, la Riserva Federale e soprattutto l’ufficio delle tasse. Diversa sarebbe la situazione se Trump non fosse più in carica. Se questa analisi è corretta allora Trump darebbe prova di essere una vecchia volpe e di aver capitalizzato al massimo la vittoria elettorale del 2016, essendosi sbarazzato di tutti i problemi che aveva con la legge quando è stato eletto. di Loretta Napoleoni, economista
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Benjamin Netanyahu
Benjamin Netanyahu, spesso soprannominato Bibi (in ebraico בנימין נתניהו ascolta[?·info]; Tel Aviv, 21 ottobre 1949), è un politico israeliano, attuale primo ministro di Israele dal 31 marzo 2009, membro della Knesset e leader del Likud, eletto 4 volte Primo ministro e secondo Premier più longevo dopo David Ben Gurion: il 17 luglio 2019 batterà il record di 13 anni, 127 giorni di mandato detenuto da Ben Gurion.
Come soldato professionista, dal 1967 al 1972, Netanyahu si è specializzato in antiterrorismo. Ha studiato negli Stati Uniti, dove ha frequentato il Massachusetts Institute of Technology e l'Università di Harvard, lavorando in seguito presso l'ambasciata israeliana di Washington[1]. Suo fratello Yoni morì nel 1976 durante l'Operazione Entebbe.
È divenuto nel 1993 leader del partito conservatore Likud, vincendo le elezioni del 1996 e diventando il più giovane Primo Ministro d'Israele e il primo premier nato in Israele. Dopo aver perso le elezioni del 1999 contro Ehud Barak, lavorò nel settore privato. Tornato in politica nel 2002, ricoprì la carica di Ministro degli Esteri (2002-2003) e quella di Ministro delle Finanze (2003-2005) nei Governi di Ariel Sharon; rassegnò le dimissioni il 9 aprile 2005 in segno di protesta contro il piano di ritiro da Gaza. Netanyahu riottenne la guida del Likud il 20 dicembre 2005, dopo che Sharon uscì dal Likud per fondare il nuovo partito Kadima. Nel dicembre 2006 è il portavoce ufficiale dell'opposizione nella Knesset e diventa il presidente del Likud. Dopo le elezioni parlamentari del 2009, dove il Likud ottiene il secondo posto, Netaniahu forma il suo secondo Governo con una coalizione di partiti di destra, entrato in carica il 31 marzo. Vince le elezioni nazionali nel 2013, nel 2015 e infine il 9 aprile 2019, conquistando uno storico quinto mandato, record ineguagliato nella storia d'Israele.
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Le PROVINCE resistono e vanno anche a elezioni, di Salvatore Vassallo, in Domani, 16 dic 21
Le PROVINCE resistono e vanno anche a elezioni, di Salvatore Vassallo, in Domani, 16 dic 21
letto in formato cartaceo cerca in https://www.editorialedomani.it/fatti/elezioni-province-18-dicembre-qg3q5oiy Sabato 18 dicembre si svolgeranno le elezioni di 31 presidenti di provincia e 75 consigli provinciali. Le province sono state a lungo uno snodo chiave del decentramento politico-amministrativo in Italia. Dopo la bocciatura referendaria della riforma costituzionale del 2016, la…
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Usa 2020, anche se Trump non venisse rieletto potrebbe uscirne vincitore A pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane Bloomberg pubblica un articolo sui pericoli che Donald Trump corre se non sarà rieletto. L’analisi è corretta, il presidente americano ha una serie di processi e di accuse che sono stati “congelati” grazie alla sua posizione politica. Una volta tornato ad essere un normale cittadino, però, la macchina della giustizia si rimetterebbe in moto, a quel punto senza un’indennità presidenziale Donald Trump potrebbe anche finire dietro le sbarre dal momento che le accuse sono tante: dalla frode fino all’ostruzione della giustizia. Naturalmente questo non succederà, anche se Joe Biden detesta il suo rivale: Trump appartiene alla lunga lista degli ex presidenti del paese e arrestarlo sarebbe un affronto alla carica che ha ricoperto. Il New York Times, che ha denunciato l’evasione fiscale di Trump, concorda con i colleghi di Bloomberg: Trump farà di tutto per vincere e anche se perdesse si rifiuterà di accettare i risultati dello spoglio delle urne e chiederà di ricontarle; c’è anche chi pensa che sia disposto ad incitare la destra militarista americana a mobilitarsi, a scendere in piazza in assetto da guerra per fare giustizia della frode elettorale dei democratici. C’è però chi offre previsioni totalmente diverse. Un avvocato americano di casa nei corridoi del potere e che vuole rimanere anonimo sostiene che Trump ha un piano ben diverso. Se dovesse perdere allora nel periodo che va da novembre fino al 21 dicembre si dimetterebbe. A quel punto Mike Pence, il suo vice, diventerebbe presidente e gli concederebbe il celeberrimo pardon, il perdono, presidenziale. E’ quello che fece Richard Nixon che non venne mai condannato nel processo di impeachment. Si dimise e il suo vice, Gerald Ford, lo perdonò. A quanto pare il pardon presidenziale impedisce qualsiasi causa futura, ciò significa che Trump lascerebbe la Casa Bianca mondato da tutte le accuse, proprio come fu per Nixon. In caso di vittoria il presidente avrebbe 4 anni per perseguire questa strategia. Potrebbe anche non attendere la fine del mandato dal momento che nel 2021 matureranno circa 100 milioni di prestiti immobiliari contratti dalle sue società, al momento gestite dal figlio, soldi che Trump non ha. Banche e finanziarie sono reticenti a rinegoziare prestiti con familiari del presidente a causa dei controlli serrati da parte dell’amministrazione pubblica, la Riserva Federale e soprattutto l’ufficio delle tasse. Diversa sarebbe la situazione se Trump non fosse più in carica. Se questa analisi è corretta allora Trump darebbe prova di essere una vecchia volpe e di aver capitalizzato al massimo la vittoria elettorale del 2016, essendosi sbarazzato di tutti i problemi che aveva con la legge quando è stato eletto. di Loretta Napoleoni, economista
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Un governo in smobilitazione manda gli auguri di buon Natale annunciando la nuova missione dei soldati italiani in Niger. Un’operazione che puzza tanto di neocolonialismo La volpe perde il pelo ma non il vizio. La saggezza latina aveva tradotto così la difficoltà, a volte insuperabile, ad operare cambiamenti significativi di comportamento.��Tripoli e il bel suono d’amore fu inventato e cantato prima della conquista libica nel 1911. Passato al setaccio il testo conteneva in nuce gli ingredienti che il fascismo avrebbe portato a compimento con radicale ferocia in Libia e Etiopia in particolare. Da Niamey a Tripoli il viaggio è lungo, accidentato e adesso quasi proibito dalle circostanze avverse. Da Agadez si transita a Dirkou e poi a Madama, antico fortino francese rivisto e corretto da un aeroporto di sabbia che ospita velivoli dell’operazione Barkhane, basata nella capitale del Tchad. Il confine con la Libia non è lontano e un tempo arrivare a Tripoli era un gioco da commercianti. Il bel suon d’amore ricordava che quanto prima avrebbe dovuto sventolare il Tricolore sulle torri, al rombo dei cannoni, naviga o corazzata, benigno è il vento e dolce la stagion, Tripoli, terra incantata, sarai italiana al rombo del cannon. Il rombo del cannon, tanto per mettere in chiaro le cose, è ripetuto sei volte. Va’ e spera soldato, Vittoria è colà… Hai teco l’Italia, che gridati: Va’! Non si tratta dell’inno alla nazionale esclusa peraltro dai mondiali di calcio, quanto dell’inno alla conquista coloniale in seguito allo sfaldamento dell’impero ottomano. Sul mar che ci lega, coll’Africa d’or, la stella d’Italia, ci addita un tesor. Nel frattempo il mare è un cimitero non ancora battezzato. Mentre i vari giacimenti d’oro del Niger e dintorni sono stati chiusi ai cercatori per timore che i migranti usino l’oro per pagarsi il resto del viaggio. Tutti concordi col patto firmato tra i due ministri della difesa, l’italiana Roberta Pinotti e il nigerino Kalla Moutari. Per il parlamento italiano in fase di smobilitazione e con gli occhi perduti sulle prossime elezioni, approvare l’invio dei militari italiani nel Niger assomiglia ad una partita truccata. Neppure gli ultimi ritrovati della tecnica arbitrale potranno fermare il corso della storia. Era scritto sulla sabbia che l’Italia, col Tricolore dal far sventolare sulle dune mobili del deserto era destinata a far risuonare il rombo dei cannoni, o in cambio quello dei camion e dei carri per rallegrare il triste silenzio del deserto dei nomadi. L’articolo 11 della Costituzione del Tricolore ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali non è ripetuto sei volte come per i cannoni. L’Italia non va in guerra, la protegge, soprattutto quella contro i migranti inconfessata ma non troppo, rinasce, proprio sotto natale, l’antica idea coloniale di un posto alla sabbia del sole. La stella d’Italia, quella di Negroni si distingue per chiarezza e sapore. Il Tricolore ci lega al mare di sabbia di una probabile presenza a Madama, con l’aeroporto per avvistare cammelli sperduti, trafficanti di cocaina, armi, terroristi potenziali che sono trasformati in migranti a seconda degli interessi. Il vento è caldo, torrido, la stagione è secca e le temperature da far saltare anche i termometri più preparati, rimane dunque il rombo dei cannoni, da ripetere più volte per far capire che adesso, nel Niger, nel deserto rosso ci siamo anche noi. Con tanto di ambasciata da inaugurare. Un’altra missione di pace coi militari, le armi, i mezzi necessari, il ripudio della guerra è stato ripudiato e si sviluppano altre carte costituzionali fatte di sabbia, sole e suon d’amore alla maniera di Tripoli. Niamey è la capitale del Niger dove è di visita Macron, l’Emmanuele transalpino che si trasforma in venditore ambulante di armi per le compagnie francesi dovunque passa la sua diplomazia da banchiere ormai presidente. Anche l’Italia c’è, dove più magico è il sol del mar che ci lega agli interessi. Va’ e spera soldato, vittoria è colà. Mauro Armanino – già operaio e sindacalista, ora è un missionario e vive da alcuni anni in Niger da Comune-Info ********************* Buon Natale, anche se siamo in guerra La produzione di armi cresce in tutto il mondo, intanto l’Italia mantiene in piedi diverse missioni militari. Tuttavia, il rifiuto della guerra può alimentarsi anche con le storie di Natale, quelle poco note, quando diverse truppe hanno smesso di spararsi Siamo in guerra, ma non perché ci attaccano gli islamisti. Dopo l’11 settembre il giro d’affari dei produttori di armi è cresciuto quasi del 40 per cento arrivando a 375 miliardi di dollari. Tra i primi ci sono gli americani Lockheed Martin con oltre 40 miliardi di commesse soprattutto grazie alle vendita dei caccia F-35 che anche l’Italia sta comprando con i costi che sono raddoppiati e un ritardo di “almeno cinque anni” nei lavori (dati Adnkronos). Ma tra i primi dieci che vendono bombe al mondo ci sono anche gli italiani della Leonardo con 8 miliardi e mezzo di fatturato.Il 60 per cento dei clienti delle aziende nostrane sono nordafricani e mediorientali. Cioè quelli che la politica considera tra i peggiori al mondo. Ma anche l’Italia è un ottimo cliente dei venditori di armi. Quasi 6 miliardi sono impegnati per il 2018, una cifra che ogni anno sale con percentuali importanti. Sul sito del ministero della Difesa c’è scritto che “l’Esercito Italiano opera con la consapevolezza che le operazioni militari contribuiscono e stimolano la crescita del Paese ma soprattutto promuovono la coscienza dell’importanza per l’Italia di assumere ruoli di sempre maggiori responsabilità anche in campo internazionale” e vengono segnalate missioni in Iraq, Libia, Libano, Somalia, Mali, Kosovo e anche in Afghanistan. Francia, Canada e Spagna se ne sono andati da tempo da quest’ultimo Paese. Gli italiani restano e sono il secondo contingente più numeroso dopo quello statunitense. E perché restano? Dopo una montagna di morti (circa 150mila) nel paese non è cambiato niente, anzi la situazione è peggiorata. I talebani avanzano. In due anni il loro controllo del territorio è passato dal 21 per cento al 29 per cento, la guerra è costata 900 miliardi e l’Italia ne ha spesi 7 e mezzo, ma secondo alcuni studi questi costi potrebbero essere il doppio. L’analfabetismo è passato dal 68% al 62% e la condizione femminile è migliorata un pochino solo nelle città… questi gli unici miseri progressi (dati MIL€X). Curzio Malaparte nel ’54 scriveva: “Tra pochi giorni è Natale e già gli uomini si preparano alla suprema ipocrisia. Perché nessuno ha il coraggio di dirsi che il mondo non è mai stato così poco cristiano come in questi anni? Non ci importa nulla di chi soffre; non facciamo nulla per impedire la sofferenza, la miseria, il male,il delitto, la violenza, la strage…”. Ce lo ricorda l’immagine penosa del Senato svuotato dai politicanti che preferiscono non votare invece che prendersi una responsabilità davanti a migliaia di non-cittadini italiani e centinaia di migliaia che transiteranno nel nostro Paese nei prossimi anni. Eppure c’è stato qualche migliaio di soldati che un secolo fa, nei primi mesi della Grande Guerra, a Natale smisero di sparare e attraversarono la terra di nessuno per abbracciarsi. Era il Natale del 1914. Un luogotenente inglese scrive che “le trincee sono così vicine che possiamo parlarci e ieri (Natale) siamo entrati un po’ in confidenza” e così un inglese e un tedesco si incontrano a metà strada, poi escono tutti e si scambiano cioccolata e sigarette. I tedeschi gli dicono che sono “stanchi di tutto questo, e hanno aggiunto: diamoci una mossa e finiamola con questa guerra“. “La nottata era fredda. Noi cantavamo e loro applaudivano. Le nostre linee erano distanti soltanto un centinaio di metri. Noi suonavamo l’armonica a bocca, loro cantavano, e allora applaudimmo. Poi tirarono fuori delle cornamuse, e suonarono le loro melodie così poetiche. Gli uomini facevano oscillare delle torce e festeggiavano. Avevamo preparato un grog, e facemmo un brindisi” così scrive un soldato tedesco. Il sergente C. Dobson ha perso 21 uomini su 50 e i sopravvissuti sono in buona parte feriti, ma la notte di Natale cantano, scambiano cioccolate e sigarette e seppelliscono i loro morti accanto ai tedeschi. In alcuni posti la tregua durò fino a Capodanno e c’è più di una testimonianza di partite di calcio improvvisate. Dicono che dalle parti di Ypres i tedeschi vinsero 3 a 2 contro gli inglesi. Oswald Blundel, ufficiale inglese scrive che “è stata la cosa più incredibile del mondo, mescolarsi e intrattenere lunghe conversazioni con il nemico (…) Mi sono fatto dare un elmetto tedesco”. Fu un evento eccezionale tanto che negli anni a seguire i vertici decisero di comandare assalti e bombardamenti proprio nei giorni di Natale per impedire che i soldati si ricordassero di essere umani e fraternizzassero con quelli che i propri padroni di Stato definivano nemici. Ma non mancarono negli anni a seguire episodi del genere. Antonio Rotunno, soldato 266° fanteria Brigata Lecce, 3° battaglione, 8^ compagnia nel suo diario, oggi all’archivio di Pieve S. Stefano, scrisse che i tedeschi si misero a suonare e a cantare e urlavano dalla loro trincea: “O buoni italiani, lasciateci divertire tranquillamente in questa sera della vigilia di Natale! Non tirate! Non tirate alla nostra volta! Vedete? Anche le nostre batterie non tirano mica e da parecchie ore sono diventate mute! Divertitevi anche voi e buona notte!”. E persino nel corso della seconda guerra successe. Il pilota Amerigo Javarone ricorda che a largo di Corfù volò accanto a un aereo inglese senza che nessuno dei due sparasse un colpo. Era il 24 dicembre del 1940. Siamo in guerra. I morti di Londra, Parigi, Barcellona e persino quelli dell’11 settembre sono ancora un numero piccolo rispetto a quelli che una guerra dichiarata potrebbe produrre. Le dichiarazioni folli di chi vuole chiudere le frontiere e, ancora peggio, di chi vuole segregare gli stranieri quando già sono nei nostri Paesi, chiuderli in un vuoto senza cittadinanza, buoni solo per essere sfruttati… sono il primo passo verso un conflitto che metterà tutti in pericolo. Il soldato Danny Doyle scrive che “con alcuni vecchi stracci e un po’ di spago fu fabbricato un improvvisato pallone da calcio, e alla luce delle torce si formarono due squadre dei due schieramenti, che giocarono una partita di calcio dimenticando ogni fatto bellico”. Si racconta di un barbiere inglese che andò coi suoi compagni verso i tedeschi portandosi la cassetta con sapone e rasoi. Quel giorno di Natale tagliò barba e capelli a un tedesco. Se invece dei cacciabombardieri l’Italia comprasse rasoi, sarebbe un Paese migliore. Ascanio Celestini da Comune-Info
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Trump e Viganò: un dialogo che legge la cronaca in chiave biblica
Con un tweet il presidente americano Trump accoglie con entusiasmo la lettera dell'arcivescovo Carlo Maria Viganò, che parla di una battaglia furiosa in corso tra i figli delle tenebre e i figli della luce. Una lettura della cronaca attuale che si pone sulla stessa linea delle profezie di san Giovanni Paolo II e dei giudizi di Benedetto XVI. Viganò prende atto che in questo frangente il presidente Trump è l'unica autorità internazionale in grado di tenere testa a un potere mondiale liberticida, che ha approfittato della crisi del Covid e sta fomentando le rivolte negli Stati Uniti. Si preparano tempi ancora più duri.
«Sono molto onorato dall’incredibile lettera che mi ha inviato l’arcivescovo Viganò. Spero che ognuno, religioso o meno, la legga!». Così l’altra sera ha twittato il presidente americano Donald Trump in risposta alla lettera aperta di incoraggiamento che lo scorso 6 giugno gli aveva indirizzato monsignor Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti e diventato noto per il famoso memoriale sul caso McCarrick.
Ovviamente la notizia di questa attenzione reciproca tra il presidente americano e monsignor Viganò ha fatto la gioia di coloro che si affannano a dimostrare l’esistenza di un complotto internazionale – originato dalla destra americana – contro papa Francesco. E che, paradossalmente, dileggiano come cospirazionisti quanti denunciano l’esistenza di un progetto di Nuovo Ordine Mondiale che minaccia la libertà delle persone e dei popoli. E infatti subito il sito del Corriere della Sera si è buttato a pesce per rilanciare la solita teoria del complotto – ordito da «una rete in odore di scisma».
In realtà, proprio lo scambio tra Viganò e Trump dimostra che non di trama oscura si tratta ma di una lettura originale degli eventi di questo periodo, una lettura “biblica”, come la definisce monsignor Viganò. Egli infatti usa la categoria della battaglia tra «i figli della luce e i figli delle tenebre», schieramenti che «ripropongono la separazione netta tra la stirpe della Donna e quella del serpente». E i figli delle tenebre, seppur minoranza, hanno in mano un notevole potere dato che «ricoprono spesso posti strategici nello Stato, nella politica, nell’economia e anche nei media».
Tenebre contro luce, una chiave di interpretazione della storia descritta molto chiaramente nel vangelo di Giovanni, che monsignor Viganò usa per giudicare la cronaca di questi giorni e, più in generale, cosa sta avvenendo nel mondo. Due sono i fatti su cui l’ex nunzio negli Stati Uniti si sofferma: la gestione dell’emergenza Covid e i disordini fomentati negli Stati Uniti, parte di una «feroce campagna» contro Trump e un modo per giustificare altre eventuali azioni repressive. Per quanto riguarda il Covid, Viganò punta l’indice contro la gestione della crisi: «Scopriremo probabilmente che anche in questa colossale operazione di ingegneria sociale vi sono persone che hanno deciso le sorti dell’umanità, arrogandosi il diritto di agire contro la volontà dei cittadini e dei loro rappresentanti nei governi delle nazioni». Allo stesso modo i disordini che, con perfetta sincronia, sono stati fomentati negli Stati Uniti così come in Europa e dietro i quali «si nascondono ancora una volta coloro che, nella dissoluzione dell’ordine sociale, sperano di costruire un mondo senza libertà».
La lettera di monsignor Viganò riecheggia il documento - che infatti cita - di cui egli stesso si era fatto promotore lo scorso 8 maggio, un Appello alla Chiesa e al mondo per reagire al “Nemico invisibile” che approfitta di alcune crisi - come quella del coronavirus - per implementare la sua agenda liberticida e una sorta di governo mondiale dominato dal pensiero unico. Quell’appello fu firmato da decine di prelati e accademici: tra questi le firme dell’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Gerhard L. Müller, e il vescovo kazako Athanasius Schneider.
Nella lettera al presidente degli Stati Uniti, monsignor Viganò vede come questo nemico invisibile si stia concentrando oggi nell’obiettivo di eliminare Trump, impedirne in tutti i modi la rielezione (e si potrebbe dire, parafrasando il compianto cardinale Carlo Caffarra, che solo un cieco oggi non vedrebbe questa feroce e menzognera campagna contro il presidente americano). «Per la prima volta - scrive Viganò - gli Stati Uniti hanno in Lei un presidente che difende coraggiosamente il diritto alla vita, che non si vergogna di denunciare le persecuzioni dei Cristiani nel mondo, che parla di Gesù Cristo e del diritto dei cittadini alla libertà di culto».
Viganò prende realisticamente atto che oggi il presidente Trump è l’unica autorità mondiale che si oppone con tutte le forze a questo potere negativo, a cui purtroppo «sono asserviti» anche molti pastori, che rinnegano «i propri impegni davanti a Dio». E per lui e la nazione americana Viganò promette preghiere «in questa ora drammatica e decisiva per l’intera umanità», auspicando nel contempo che «i buoni si sveglino dal torpore e non accettino di essere ingannati da una minoranza di disonesti con fini inconfessabili».
Sono molte le ironie che si leggono per i toni e gli argomenti usati da monsignor Viganò e molto si può discutere se sia o no compito di un vescovo prendere iniziative che hanno un sapore “politico”. Ma è chiaro che egli descrive nel presente quello che san Giovanni Paolo II aveva profetizzato quando aveva affermato che nel Terzo millennio ci sarebbe stata la battaglia decisiva tra Dio e Satana intorno all’uomo, perché non potendo attaccare Dio direttamente Satana cerca di colpire il vertice della Creazione, colui che è creato a immagine e somiglianza di Dio. Perciò vita e famiglia sarebbero stati gli obiettivi principali di questa battaglia.
È esattamente ciò che sta accadendo. E la dimensione spirituale, escatologica di questo scontro era stata ripresa anche da papa Benedetto XVI nell’ultimo discorso alla Curia Romana il 21 dicembre 2012, quando ricordò che l’ideologia gender rappresenta il sovvertimento dell’ordine stabilito nella Creazione: «Dio creò l’uomo, maschio e femmina lo creò».
Anche alla luce delle parole di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si può meglio comprendere la gravità dell’indebolimento della posizione della Chiesa proprio sui temi della vita e della famiglia. C’è dunque ben poco da fare ironia, piaccia o no c’è in corso una battaglia furiosa e la sua vera natura è spirituale, escatologica. Probabilmente le parole di Viganò daranno a Trump maggiore consapevolezza della posta in gioco - come il tweet del presidente lascerebbe far capire -, purtroppo in un momento in cui parte importante della Chiesa sembra aver smarrito la capacità di leggere la cronaca e la storia alla luce del Giudizio finale e si è invece appiattita sul pensiero unico.
Certo è che proprio per questo dovremo aspettarci mesi ancora più duri in vista delle prossime elezioni presidenziali americane. L’ordine è chiaro: il presidente che toglie i fondi alle organizzazioni pro-aborto, che difende la libertà religiosa, che si oppone alla dittatura Lgbt, che sfida l’ideologia mondialista, che si oppone al Nuovo Ordine Mondiale, non deve essere rieletto. A tutti i costi.
RICCARDO CASCIOLI (12-06-2020)
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Liliana Segre
https://www.unadonnalgiorno.it/non-anestetizziamo-le-coscienze/
La politica che investe nell’odio è sempre una medaglia a due facce che incendia anche gli animi di chi vive con rabbia e disperazione il disagio dovuto alla crisi e questo è pericoloso. A me hanno insegnato che chi salva una vita salva il mondo intero, l’accoglienza rende più saggia e umana la nostra società.
Liliana Segre, attivista e politica italiana, superstite dell’Olocausto e instancabile testimone della Shoah italiana.
Senatrice a vita dal 2018, presiede la Commissione straordinaria per il contrasto ai fenomeni di odio, razzismo e intolleranza.
Nata a Milano il 10 settembre 1930 in una famiglia di discendenza ebraica, sua madre morì quando era piccolissima. A causa delle leggi razziali venne espulsa da scuola nel 1938. Suo padre la nascose a casa di amici utilizzando documenti falsi. Il 10 dicembre 1943 provarono a fuggire in Svizzera ma furono respinti. Il giorno successivo, venne arrestata, aveva tredici anni. Venne detenuta per quaranta giorni nel carcere di San Vittore a Milano.
Il 30 gennaio 1944, fu deportata al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Venne subito separata dal padre, che non rivide mai più e che morì dopo pochi mesi. Nello stesso anno anche i suoi nonni paterni furono deportati e uccisi nelle camere a gas.
Ricevette il numero di matricola 75190, che le venne tatuato sull’avambraccio. Fu messa per circa un anno ai lavori forzati presso la fabbrica di munizioni Union, che apparteneva alla Siemens. Passò ben tre selezioni in cui si sceglieva chi doveva entrare nelle camere a gas e chi graziare, in una di queste perse una sua giovane amica con cui lavorava.
Il 27 gennaio 1945, fu costretta dai soldati nazisti, insieme agli ottantamila internati ancora capaci di reggersi in piedi, a incamminarsi verso la Germania, in una marcia forzata che divenne nota come Marcia della morte, perché le strade innevate della Polonia erano disseminate dei cadaveri dei prigionieri che non avevano retto alla fame e al gelo, o che erano stati finiti dalle SS con un colpo di pistola. Venne liberata dall’Armata Rossa a Malchow, un sottocampo di Ravensbrück, il 30 aprile 1945. Quando tornò a Milano, della sua famiglia si erano salvati solo i nonni materni e uno zio. Delle 605 persone del suo trasporto, solo venti fecero ritorno.
È stata tra i 25 sopravvissuti dei 776 bambini e bambine italiane di età inferiore ai 14 anni deportati ad Auschwitz.
Il ritorno a casa non fu semplice,
Nel 1948, a Pesaro, conobbe Alfredo Belli Paci, avvocato cattolico anch’egli reduce dai campi di concentramento nazisti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Si sposarono nel 1951 e hanno avuto tre figli, due maschi e una femmina.
Il marito in seguito aderì in seguito alla lista del Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, candidandosi per la Camera dei Deputati nelle elezioni politiche del 1979. Questa scelta causò un’incrinatura nel loro rapporto ricucita quando l’uomo abbandonò la politica su sua richiesta.
Liliana Segre, che per molto tempo non ha voluto parlare pubblicamente della sua esperienza nei campi di sterminio, ha poi vinto il pudore iniziale grazie a Goti Bauer, anch’essa deportata ad Auschwitz-Birkenau nel 1944, che la convinse a testimoniare e la sostenne nei suoi primi racconti in pubblico. Da allora, Liliana Segre è diventata una testimone importantissima, amata, richiesta in tutte le scuole.
Nel 1997 è stata fra i testimoni del documentario Memoria, presentato al Festival del Cinema di Berlino.
È del 2004 la sua testimonianza nel volume Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz.
Nel 2005 è uscito Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah.
Nel 2009 la sua voce è stata inclusa nel progetto di raccolta dei “racconti di chi è sopravvissuto” del Centro di documentazione ebraica contemporanea. Ha partecipato anche al film/documentario Binario 21 di Moni Ovadia.
Le è stato anche dedicato un asteroide contraddistinto dallo stesso numero che porta tatuato sul braccio.
Il 19 gennaio 2018, nell’80º anniversario delle leggi razziali fasciste, è stata nominata senatrice a vita “per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale“.
Per le sue ferme dichiarazioni di opporsi a qualunque legge discriminatoria ha subito attacchi feroci dalle destre sovraniste italiane in aula e su internet, tanto che le è stata assegnata una scorta nel novembre del 2019.
In opposizione ai tanti odiatori, c’è da dire che ha avuto un enorme sostegno da milioni di persone.
Il suo prezioso narrare in tanti contesti pubblici e soprattutto in tante scuole, è diventato una fucina di metafore e di immagini. Ha continuato a esaminare, a scandagliare i concetti che esprime, a verificarne la solidità e l’efficacia, a mettere alla prova i ricordi anche nei più minuti dettagli.
L’autorevolezza della sua figura pubblica è stata riconosciuta dall’attribuzione di molte prestigiose onorificenze, lauree ad honorem e medaglie.
Liliana Segre è una testimone lucida e dettagliata, una voce fondamentale contro ogni forma di ingiustizia e discriminazione.
Il 9 ottobre 2020 ha pronunciato il suo ultimo discorso pubblico, prima di ritirarsi a vita privata, in provincia di Arezzo.
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15 mag 2020 16:56
LA SCOMODA VERITÀ DEL CASO PALAMARA: I MAGISTRATI SONO TRAFFICHINI COME E PIU' DEI POLITICI, CON LA DIFFERENZA CHE NESSUNO (A PARTE IN QUESTO RARISSIMO CASO) INDAGA SULLE LORO NOMINE, FAVORI, RAPPORTI - NEI FASCICOLI LE CHAT TRA PALAMARA E DAVID ERMINI, VICEPRESIDENTE (E DUNQUE DI FATTO CAPO) DEL CSM: L'EX DEPUTATO PD DEVE AL PM LA SUA ELEZIONE, E LASCIA CHE GLI SCRIVA I DISCORSI. INSIEME, DECIDONO STRATEGIE, PROMOZIONI E ALLEANZE
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Giacomo Amadori per “la Verità”
L' articolo della Verità sulle chat di Luca Palamara ieri ha fatto il giro degli uffici giudiziari, del Csm e delle mailing list delle toghe. In molti sono rimasti colpiti dai discutibili messaggi del consigliere del Csm Marco Mancinetti, sino all' anno scorso in strettissimi rapporti con lo stesso Palamara, oltre che suo compagno di corrente in Unicost. Ma nelle chat depositate presso il tribunale di Perugia spunta anche il nome di David Ermini, attuale vicepresidente del Csm, al cui vertice c' è il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Dai messaggi emergono i vecchi rapporti con il pm sotto inchiesta, con Cosimo Ferri e Luca Lotti, lo stesso gruppo che ha sostenuto nel maggio 2019 la candidatura a procuratore di Roma di Marcello Viola, rovinando la carriera di diversi consiglieri del Csm presenti alle riunioni.
I contatti tra Ermini e Palamara iniziano nel luglio 2018.
Si erano appena svolte le elezioni per la nomina dei consiglieri del parlamentino dei giudici ed erano iniziate le grandi manovre per nominare il vicepresidente. Palamara era consigliere uscente. «Ciao Luca. Io sono a Roma. Penso di rimanere fino a giovedì o venerdì mattina» scrive Ermini, in quel momento candidato per la prestigiosa poltrona del Giglio magico. Palamara gli dà appuntamento all' hotel Montemartini. «Quando vuoi puoi chiamare Luigi Spina (pm indagato con Palamara a Perugia, ndr) che aspetta tua chiamata», gli fa sapere.
Il 19 settembre 2018 il consigliere uscente in quota Maria Elena Boschi, Giuseppe Fanfani, manda questo messaggio a Palamara: «Confermo martedì ore 21 a casa mia cena riservata io, te, Cosimo e David». Alla serata, a quanto risulta alla Verità, si unirà Lotti. Palamara il 24 settembre fa sapere al futuro vicepresidente che «tutto procede bene» per la sua elezione a vice del Csm. «Grazie», è la risposta. Il giorno della vittoria Palamara festeggia Ermini: «Godo! Insieme a te!». Il neoeletto richiama, ma la telefonata va persa.
Lo stesso giorno Il Fatto Quotidiano ha dato la notizia dell' informativa a carico di Palamara inviata dalla Procura di Roma a Perugia. Ma questo non è sufficiente a raffreddare i rapporti tra il grande elettore e il beneficiato. Il 2 ottobre Palamara propone: «Caro Davide se riesci e non sei stanco ci beviamo una cosa da me dalle 23.30 con Cosimo e Luca (probabilmente sempre Lotti, ndr)». Ermini non può, ma il 3 ottobre, verosimilmente con la stessa compagnia di giro, accetta di prendere un caffè al Montemartini.
Il 12 riscrive Palamara: «Caro David puoi bloccare se non hai altri impegni 22 o 24 ottobre sera? Volevo organizzare cena ristretta con Cafiero de Raho (Federico, procuratore nazionale antimafia, ndr). Un abbraccio e quando vuoi caffè».
Ermini: «Ok. Per ora sono libero tutte e due le date. Fammi sapere». Palamara: «Blocchiamo 22 ottobre». Ermini: «Ok fatto». Al messaggio seguono due pollicioni gialli. Il 17 ottobre il pm torna alla carica: «Caro David ci possiamo sentire un istante appena puoi?». Ermini: «Ti chiamo dopo plenum della mattina». Tra le prime uscite pubbliche del vicepresidente ci sono quella per il seminario della corrente di Magistratura indipendente e quella per il congresso dell' Unione delle camere penali a Sorrento. Entrambi gli appuntamenti si sono tenuti il 19 ottobre 2018. Due giorni prima Palamara scrive: «Per domani entro le 13 ti mando traccia intervento». Il 18 ottobre forse la bozza non è arrivata, perché Ermini sollecita: «Mi mandi un paio di punti per la traccia dell' intervento di domani?».
Passano pochi minuti e il pm replica: «Mi hanno assicurato entro mezz' ora arriva tutto [] Inviata».Qualche giorno dopo Palamara informa il nuovo amico: «Confermato domani sera ore 21 ristorante mamma Angelina». Il 26 ottobre il magistrato si complimenta: «Grande David, ottima intervista: precisa, chiara, puntuale. Ci vediamo a pranzo martedì con Riccardo (probabilmente Fuzio, ex procuratore generale della Cassazione indagato con Palamara a Perugia, ndr)». Ermini: «Ok! Grazie mille».
Il 13 novembre Palamara informa l' interlocutore: «Sono dentro». Il 19 fissano un altro appuntamento. Palamara: «Ciao David ci vediamo dopo Mattarella?». Ermini: «Allora ci vediamo dopo le 12.15. Per me ok». Il 20 novembre commentano un' intervista televisiva di Pier Camillo Davigo: «Anche stasera Davigo debole», è il giudizio di Palamara. «Va troppo spesso in tv... secondo me così si inflaziona [] alla fine non fa più notizia», chiosa Ermini. Il 20 dicembre i due fissano per un caffè al Montemartini, ma poi con un lungo messaggio di giustificazione Ermini annulla l' appuntamento.
Palamara il 14 gennaio propone un' altra cena con Cafiero de Raho e Riccardo. Ermini: «Il 21 non ci sono. Il 22 va bene». Il 20 gennaio Palamara si complimenta («Bravissimo»), Ermini ringrazia. Il 21 gennaio: «Confermato domani sera ore 21 a casa mia [] ci saranno Cafiero, Riccardo e Cosimo». Ermini: «Ok». Il 25 gennaio nuovi complimenti del pm sotto inchiesta a Ermini: «Hai fatto grande intervento... ottimo anche passaggio su Csm e giudice Anm. Un abbraccio». Ermini è soddisfatto: «Grazie Luca!».
A febbraio Palamara vuole coinvolgere il vicepresidente in un torneo di calcio in Calabria. Ermini prova a obiettare che lo stesso giorno «c' è un mega convegno a Milano». Ma a togliere le castagne dal fuoco ci pensa lo stesso Palamara spiegandogli che ha rinviato «l' evento culturale e sportivo» a dopo la chiusura delle scuole: «Quindi puoi cancellare impegno del 12 aprile e andare tranquillamente a Milano», gli concede Palamara. «Ok grazie», ribatte grato Ermini. Il 22 febbraio 2019 Il Fatto pubblica un articolo intitolato: «Ermini e i pasdaran pd, la rimpatriata a pranzo». Palamara: «Ho letto ora quello schifo». Ermini: «Grazie». Gli ultimi messaggi vengono scambiati alla vigilia dell' esplosione dello scandalo.
Palamara: «Caro David siamo in ripartenza da Pristina ci vediamo presto a Roma. Buona permanenza (in Kosovo, ndr) un abbraccio». Ermini: «Grazie. Buon Viaggio! Ho visto la foto della squadra!».
Dalle carte spuntano anche le presunte invasioni di campo di Stefano Erbani, consigliere giuridico di Mattarella, ex magistrato segretario del Csm ed esponente di spicco di Magistratura democratica. A parlarne sono Palamara e Valerio Fracassi, capogruppo al Csm del cartello di Area, quello dei giudici di sinistra. Il 27 marzo 2018 Fracassi chiede a Palamara di spingere su Fuzio per rinviare la nomina del vicesegretario del Csm. Dice testualmente: «Erbani non può imperversare così». In un altro messaggio si lamenta: «Decide tutto Erbani». Il 10 aprile aggiunge: «Erbani sta contattando anche Fuzio. Credo che ora esageri e merita una risposta».
Il 12 aprile commenta: «Siamo alla volata finale. Erbani sostiene di aver parlato con ciascuno di voi e di avere ottenuto assenso». A voler credere a queste chat Erbani si comporta come se fosse un consigliere del Csm o un capo corrente.
Fracassi continua: «L' uomo è pericoloso! Fidati!». E fa un invito a Palamara: «Usa la stessa determinazione che hai adoperato quando hai fatto vincere Fuzio contro le indicazioni di Giovanni Legnini (all' epoca vicepresidente del Csm, ndr)».
Dalle chat si evince che un altro tema di discussione è la riorganizzazione della sezione disciplinare. Fracassi: «Chi sai tu (forse un altro consigliere di Area, ndr) si è sentito più forte e ha pensato che ormai se rovescia il tavolo può farlo senza conseguenze perché io sono più debole. Per il disciplinare qualcuno è andato anche da Erbani che ne ha parlato a chi puoi immaginare. Tutto si collega a una delegittimazione complessiva e alla solita doppiezza di chi occupa i posti, ma poi fa il moralista sugli altri».
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Socialisti perdenti e aggrappati al potere dalle Ande alle Alpi
Le elezioni che si sono svolte in questo fine settimana sono sia conferme che sorprese, ma hanno tutte una caratteristica comune: i socialisti e i partiti di sinistra in Svizzera non sfondano, in Canada calano, in Portogallo sono in minoranza, e Morales è alle strette in Bolivia. Ma in nessun caso la sinistra rinuncia al governo.
di Luca Volontè (23-0-2019)
Fine settimana bollente in alcune aree del pianeta, gelido in altre, non mi riferisco ai cambiamenti climatici, piuttosto ai risultati elettorali recenti.
In Svizzera dove si sono svolte le elezioni domenica 20 ottobre, al Consiglio Nazionale composto da 200 rappresentanti, uniche vincenti le donne, le parlamentari donne elette in diversi partiti saranno il 10% in più della scorsa legislatura (dal 32% al 42%). I due partiti Verdi hanno ottenuto un gran risultato, non c’è stata emorragia di voti per i conservatori e anche i socialisti ne escono ridimensionati. I Verdi (anguria) dal cuore rosso, sono passati da 11 a 28 deputati (+6%), i Verdi Liberali (di centro) da 8 a 16 parlamentari (+3,3%). I conservatori di destra (UDC) che hanno cavalcato il proprio cavallo di battaglia, contro immigrazione e lavoratori frontalieri (soprattutto italiani), perdono 12 seggi (-3,8%), ma con 53 parlamentari sono ancora il primo partito della Confederazione. I Socialisti perdono 4 seggi e si attestano a 39 deputati (-2%); i Popolari Svizzeri (centro destra) perdono 2 seggi e si fermano a 25 parlamentari, mentre il Partito Liberale radicale perde 4 seggi e conferma solo 29 suoi deputati. Al Consiglio degli Stati composto da 46 rappresentanti, quando mancano ancora 22 seggi che saranno decisi nel secondo turno delle prossime settimane, i Popolari Svizzeri sono 8, i Socialisti si fermano a 3, i Verdi (anguria) 2, i Liberali radicali 7 e l’UDC a 3.
Il prossimo Governo Svizzero difficilmente vedrà la maggioranza attuale di centro destra perdere la sua maggioranza e, al di la dei proclami dei Verdi (anguria) sarà ben difficile che uno di loro ottenga un portafoglio di governo. Rimane un dato politico significativo, entrambi i partiti Verdi avanzano anche a seguito del gran numero di proteste ‘climatiche’ che hanno coinvolto migliaia di giovani e adulti negli ultimi mesi e sarà possibile si formi in Parlamento una maggioranza di sinistra con Socialisti, formazioni Verdi e Liberali radicali. Il nuovo panorama politico svizzero uscito dalle urne preoccupa perché sarà più facile che si approvino leggi sulla legalizzazione della cannabis per uso medico; ampliamento della legislazione sulla eutanasia; il divieto della ‘terapia di conversione o riparativa’ per le persone gay. I Socialisti svizzeri speravano in una nuova maggioranza progressista, il voto popolare lascia loro l’amaro in bocca.
In Canada si è votato dove lunedì 21 ottobre per il rinnovo del Parlamento (338 Camera e 105 Senato), era il Premier uscente Trudeau e i suoi Liberal a dover temere il peggio, dopo le tante promesse non mantenute, gli scandali e le legalizzazioni di eutanasia e uso ricreativo della cannabis. Rimane il rammarico che nessuno dei candidati e leader delle forze politiche canadesi si sia speso in campagna elettorale per abolire queste due leggi, né si è dimostrato propenso a ridiscutere la liberalizzazione dell’aborto nel paese. Per uno strano sistema elettorale, i Conservatori hanno vinto e ottenuto più di 6 milioni di voti, ma avranno solo 121 seggi in Parlamento (+26); Trudeau ha perso 20 seggi in Parlamento, ha perso nel voto popolare fermandosi a 5 milioni e 900mila voti, ma mantiene una maggioranza relativa di 157 seggi, dunque formerà un Governo di minoranza. Forte la crescita del Blocco del Quebec, coalizione regionale che guadagna 32 seggi (+22), disponibile a lavorare con tutti ma chiede un nuovo referendum per l’indipendenza dal paese, come già avvenne nel 1995. Altra sorpresa, ma sotto le aspettative viste le manifestazioni ‘gretine’ dei giorni precedenti il voto, i Verdi che passano da 2 a 3 seggi in Parlamento.
Trudeau guiderà dunque il nuovo Governo con una minoranza di 157 seggi su 338 totali e, per nulla intimorito dal fallimento del voto popolare e dalla emorragia di seggi, ha voluto mettere ben in chiaro lo spirito che lo anima dicendo che promuoverà politiche di governo ancora più progressiste e sinistre. Pericoli? Moltissimi, dall’ampliamento dell'eutanasia, ulteriore liberalizzazione dell’aborto e divieto di obiezione di coscienza, nuove norme discriminatorie per enti ed associazioni pro life e pro family e forse, per accattivarsi il voto della Coalizione Quebec, anche un bando federale dei simboli religiosi negli edifici pubblici (legge già in vigore in Quebec dal giugno scorso). Un Governo contro il popolo è capace di tutto pur di mantenersi al potere.
Un altro Governo di minoranza Socialista si va in questi giorni formando in Portogallo, dove si è votato lo scorso 6 ottobre, ed il Primo Ministro Costa dovrà contare sui voti benevoli della Sinistra estrema e dei Comunisti, per avere una maggioranza in Parlamento. Grazie al Cielo, il Partito Comunista portoghese è contrario alla legalizzazione dell'eutanasia e questo potrebbe bastare per evitare ai lusitani il pericoli della ‘dolce morte’ nel prossimo futuro.
Non finisce qui, il socialista Morales in Bolivia è alla frutta. In Bolivia si è votato domenica, dopo la sospensione del conteggio del voto nella giornata di lunedì, decisa inaspettatamente dal Tribunale Elettorale Nazionale, la mobilitazione delle opposizioni e le proteste degli organismi internazionali contro le manipolazioni del voto degli uomini di Morales, è stata impressionante. Il sospetto fondato è che Morales voglia evitare il ballottaggio. Il sistema elettorale bolivariano prevede infatti che il candidato che superi il 50% o comunque superi il 40% con il 10% di vantaggio sul secondo, possa esser dichiarato eletto al primo turno senza necessità di ballottaggio. Sino alla mattinata di lunedì era certo il ballottaggio tra il comunista andino Morales e l’ex Presidente Mesa, a cui gli altri partiti di opposizione avevano promesso l’appoggio per il ballottaggio di dicembre. Poi il colpo di scena delle 10 ore di black out e le mobilitazioni e scioperi in tutto il paese. Alla ripresa del conteggio, nella serata di lunedì, stranamente il divario tra Morales e Mesa era oltre il 10% e ciò ha provocato una recrudescenza delle proteste in tutto il paese.
La situazione rimane fluida al punto che sino a martedì mattina, i voti registrati nei seggi locali davano il 41.74% di votanti per la coalizione di Mesa, il 42.3% al partito di Morales e circa l’8% al Partito Democratico Cristiano, apertamente pro famiglia e vita. Il paradosso scandaloso emergeva invece dai voti computati dall’Ufficio Centrale, laddove solo il 37.07% era assegnato a Mesa, il 46.4 a Morales e quasi il 9% a Chi Hyun Chung del Parito Democratico Cristiano, l’unica vera sorpresa della tornata elettorale per la forza e la coerenza di presentare un programma centrato sui valori non negoziabili. Con il 95.63% dei voti verificati, ore 07.00 del mattino boliviano di martedì 22 ottobre, la differenza di voti tra Morales e Mesa sarebbe inferiore al 10% e dunque ci dovrebbe essere il ballottaggio il prossimo 15 dicembre ma…mai dire mai quando abbiamo a che fare con la democrazia socialista, capace di legarsi alla poltrona anche quando non ottiene la maggioranza popolare. Noi in Italia lo sappiamo bene
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Rousseau, memento Monti
di Marco Travaglio | 10 FEBBRAIO 2021 Se anche gl’iscritti 5Stelle gli diranno sì, Mario Draghi avrà la fiducia più larga della storia repubblicana: 596 deputati su 629 e 302 senatori su 321. Gli voterebbero contro soltanto i 33 deputati e i 17 senatori FdI (e meno male che c’è la Meloni: i governi senza opposizione esistono solo nelle dittature). Un record bulgaro che straccerebbe quello dell’altro SuperMario, Monti, “fiduciato” 10 anni fa con 556 voti alla Camera e 281 al Senato (contrari solo i 59+25 leghisti, a cui s’aggiunsero ben presto i 21+12 dipietristi di Idv, che avevano votato solo la prima fiducia per poi passare all’opposizione). Monti per tre mesi fece il bello e il cattivo tempo sull’onda di un’emergenza drammatica: lo sfascio economico-finanziario in cui il governo B.-3 ci aveva precipitati. Poi, dinanzi alle scelte impopolari di massacro sociale dettate dalla lettera della Bce di Trichet & Draghi, che fecero pagare ai pensionati e ai lavoratori l’intero costo della crisi, la luna di miele finì e iniziarono i distinguo dei partiti. B., capo di quello di maggioranza relativa, iniziò a fare il capo dell’opposizione con la grancassa dei suoi media: Monti passò dal consenso al dissenso e fu persino costretto a sloggiare anzitempo. Tentò di vendicarsi fondando Scelta Civica con Fini e Casini, ma nel 2013 prese poco più dei voti degli alleati Fli e Udc. Gli elettori punirono duramente anche i due azionisti principali del suo governo, FI e Pd, che persero 6,5 e 3,5 milioni di voti, regalando il 25,5% ai debuttanti 5Stelle. Ora, Draghi non è Monti e l’Italia del 2021 non è quella del 2011: grazie a Conte e ai presunti “incompetenti”, lo Stato non ha problemi di cassa, anzi sta per incamerare 250 miliardi dall’Ue tra Recovery e fondi di coesione, non appena presenterà quel Plan che sarebbe già pronto se l’Innominabile non l’avesse preso in ostaggio dal 5 dicembre. E le altre emergenze sono avviate a soluzione da Conte e dai presunti “incompetenti”, con una gestione della pandemia e una campagna vaccinale tra le più efficaci d’Europa. Ma i frutti di quella cascata di soldi si vedranno tra qualche anno, quando anche Draghi sarà passato (forse al Colle). Il suo governo, però, è molto simile a quello di Monti perché tiene tutti dentro. Il che oggi è un elemento di forza. Ma, quando cambieranno i sondaggi e finirà la luna di miele coi partiti, sarà un fattore di debolezza. A meno che qualcuno non creda davvero che il M5S della Spazzacorrotti, delle manette agli evasori, della legge sul voto di scambio politico-mafioso e della blocca-prescrizione possa convivere amabilmente per due anni con un corruttore seriale, pregiudicato per frode fiscale, nove volte prescritto per gravi reati, amico e finanziatore dei mafiosi. O che Salvini si sia convertito all’europeismo, alla progressività fiscale e all’accoglienza. O che Pd e LeU abbiano archiviato per sempre le differenze destra-sinistra. Più si avvicineranno le elezioni, più ciascun partito riscoprirà le differenze dagli altri, non foss’altro che per trovare qualcosa da dire agli eventuali elettori. Ai quali ciascuno dovrà presentare i propri successi degli ultimi mesi, se ne avrà ottenuti. E sarà un guaio soprattutto per il M5S che, avendo il gruppo parlamentare più ampio e gli elettori più esigenti, avrà suscitato le maggiori aspettative. Nel Conte-1 aveva 9 ministri (più il premier) contro 8 leghisti e 3 indipendenti. Nel Conte-2, 11 ministri (più il premier) contro 9 del Pd, 1 di LeU e 2 indipendenti. Infatti è sua la gran parte delle leggi di questi tre anni. Ma con Draghi, a quel che si dice, avrà 3 o 4 ministri su 20 o più. E nessuno sa ancora quali. Cosa potrà mai ottenere o mantenere? Che senso ha il mantra del “restare dentro per controllare meglio”? Certo, se strappasse ai vecchi e nuovi alleati Giustizia, Lavoro, Ambiente-Sviluppo e Istruzione con l’impegno scritto, in un contratto di governo, di non toccare le loro leggi-bandiera, sedersi a quel tavolo sarebbe giusto, anzi doveroso. Ma non è aria: tra qualche giorno, salvo miracoli, l’ammucchiata degli altri partiti riesumerà la prescrizione con un emendamento al Milleproroghe. I numeri in Parlamento e nel governo sono contro i 5Stelle. I media esultano come un sol uomo per la “fine dell’incompetenza”, cioè per la loro fine, preferendo di gran lunga la competenza dei criminali e dei loro compari (nessuno scandalo per la presenza alle consultazioni di B. e del tappetino di Bin Salman). Che senso ha piazzare qualche ministro, magari nei posti sbagliati, per poi assistere impotenti ai nuovi e vecchi alleati che giocano a bowling con le loro conquiste? Se proprio non si vuole dire di no al governo Draghi, cioè a Mattarella che l’ha imposto con la manovra a tutti nota, nulla impone di dire sì, per giunta al buio (a meno che il voto su Rousseau non sia un concorso di bellezza: “Vi piace Draghi?”). Si possono dettare condizioni sui temi del M5S. E, se vengono respinte, ci si può astenere per avere le mani libere e votare di volta in volta su ciascun provvedimento. Per questo il quesito deve prevedere “fiducia” e “sfiducia”, ma anche “astensione”. Se prevarrà la berlingueriana “non sfiducia”, il governo Draghi diventerà pienamente “politico”, perché dovrà scegliere ogni giorno se dipendere dalla Lega o dal partito di maggioranza relativa. E si vedrà anche se la futura coalizione giallorosa M5S-Pd-Leu intorno a Conte esiste ancora, o è soltanto un pezzo di antiquariato o un’esca per gonzi.
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di CLAUDIO GALIANI ♦
IL PROCESSO ALLA RESISTENZA
Siamo alla vigilia del 18 aprile, data delle elezioni del primo Parlamento della Repubblica Italiana.
La campagna elettorale è avviata con toni che subito si infiammano: l’ Italia è divenuta il ”punto caldo della guerra fredda”.
I due schieramenti si scambiano accuse reciproche di piani insurrezionali e di colpi di stato, di volontà di scardinare l’ordine democratico appena costituito.
Anche Civitavecchia, insieme ad alcuni Comuni limitrofi, è marginalmente coinvolta in una sistematica operazione di sequestro di armi che le forze dell’ordine compiono in tutta la provincia di Roma.
Il 22 marzo si verificano incidenti presso il Cinema Isonzo, dove si svolge una manifestazione dell’Uomo Qualunque.
Interruzioni di comizi nelle piazze comportano varie denunce, con processi che si chiudono poi con assoluzioni.
L’appuntamento elettorale è troppo importante e tutti i partiti mobilitano le loro migliori energie.
La piazza di Civitavecchia è visitata dai grandi leader nazionali.
Il 3 marzo una grande folla accoglie Togliatti e dopo il suo comizio un imponente corteo sfila per le strade cittadine.
Togliatti a Civitavecchia (3 marzo 1948)
Il Fronte Democratico Popolare è completamente isolato in una competizione dominata da una propaganda perfettamente orchestrata dalla DC, con il sostegno diretto della Chiesa e quello meno visibile degli Stati Uniti.
La croce e il piano Marshall si abbracciano nella lotta al demone rosso.
L’asse del conflitto è ormai capovolto: non più antifascismo contro fascismo, ma comunismo contro anti-comunismo, occidente contro oriente, religione contro anticlericalismo.
Il risultato nazionale segna una sconfitta storica del Fronte Popolare.
Il voto di Civitavecchia continua invece a rappresentare un’anomalia assoluta rispetto al quadro regionale e nazionale.
Il Fronte conquista oltre 10.000 voti con una percentuale del 47%, contro il 31% nazionale, la DC 8.128 voti con il 37% , contro il 48,5% nazionale. La lista Unità socialista guadagna 1.326 voti, con il 6% e i repubblicani 1.093 con il 5%.
A definire il nuovo quadro politico entra in scena anche il Movimento Sociale Italiano che ottiene 415 voti, pari all’1,91%.
Sulla carta geografica Civitavecchia continua a essere una macchia rossa, fastidiosa agli occhi del Governo.
L’attentato a Togliatti, la rivolta, il processo
In questa atmosfera avvelenata, di rottura rancorosa della solidarietà antifascista, di sospetto tra le forze politiche sulla lealtà istituzionale, l’attentato del 14 luglio a Togliatti è una miccia accesa in una polveriera.
Alla notizia esplode un sommovimento nazionale, ” lo sciopero più esteso e completo della storia d’Italia”, come è stato definito.
Anche a Civitavecchia parte spontaneamente lo sciopero generale, con una propagazione rapida tra le varie categorie.
Le manifestazioni tumultuose nelle piazze tra le giravolte delle camionette della Celere, i blocchi stradali e del porto, l’ attentato dinamitardo ad un traliccio che blocca la linea ferroviaria, assumono i connotati di una situazione pre-insurrezionale.
Vengono prese d’assalto e messe a soqquadro le sedi dei partiti governativi, la DC, il PSLI, il PRI e le ACLI.
Viene invasa anche la Direzione dell’Italcementi, che pochi giorni prima ha notificato il licenziamento a 90 lavoratori.
La stessa Camera del Lavoro è colta di sorpresa, cerca di guidare la protesta e di incanalarla in un alveo di legalità, come testimonia nelle sue memorie Giovanni Massarelli.
Da Roma anche i partiti di sinistra invitano ad aderire all’ impetuoso movimento, ma cercano di controllarne gli eccessi, in base alle indicazioni date dallo stesso Togliatti dal letto d’ospedale.
Solo il 17 luglio, confermata la notizia che il leader non è più in pericolo, l’ agitazione rientra a fatica, con una riunione turbolenta presso la Compagnia portuale, tra i mugugni e le critiche esplicite ai dirigenti sindacali.
Il 21 agosto si riunisce il Consiglio Comunale.
Benedetti svolge funzioni di Sindaco, in assenza di Pucci, già espatriato a Praga per il timore di azioni repressive.
Apre, tra vivi applausi, con un discorso conciliante: invia a Togliatti il fraterno saluto e l’augurio di pronta guarigione, augura a Pucci di poter riprendere il suo posto, mentre esprime a Gatta Cheren il più vivo rincrescimento per i fatti accaduti.
Gatta Cheren, con tutto il gruppo DC, è assente dalla seduta.
Questo offre il destro a Barbaranelli per ripercorrere la storia dell’Amministrazione Comunale dagli esordi, lo spirito di leale collaborazione democratica che è stato offerto alla DC, il sostanziale tradimento da questa attuato al patto di maggioranza, i danni che il sabotaggio al Consiglio arreca alla popolazione.
”Quella diserzione ha uno scopo prettamente politico.Ciò è ormai noto a tutti. E dire che quei Signori disertori più volte hanno conclamato ai quattro venti che in Consiglio comunale non si deve fare politica. Ed è anche noto a tutti quale fine si sono prefissi, con le loro grandi manovre,i nostri molto onorevoli colleghi di destra: essi mirano, usando mezzi leciti e illeciti, onesti e disonesti, a provocare lo scioglimento dell’attuale Consiglio. Essi sperano molto:confidano nel loro ministro Scelba e in tutto il codazzo del gerarcume democristiano. E sperano molto nel risultato che potrebbero dare, secondo loro, delle nuove elezioni amministrative sul tipo di quelle del 18 aprile:con l’America,il Vaticano, i gesuiti, l’inferno e tutti gli altri accidenti e vergogne!……Noi siamo e saremo qui al nostro posto, pronti a collaborare con tutti, senza rancori nè odii.”
L’ opposizione ha vissuto l’attentato come l’ anticamera di un colpo di stato, il Governo ha temuto lo scatenarsi di una guerra civile.
Vera o gonfiata che sia la paura del Governo, si è presentata l’occasione per attuare un’ esemplare repressione politica e giudiziaria, annunciata dal Ministro dell’Interno Scelba nel suo intervento in Parlamento.
Parte la macchina processuale e nel mese di novembre la città diviene teatro delle manovre dei mezzi di polizia, che circondano vari palazzi ed effettuano platealmente una serie di arresti.
Non si può procedere a tutte le catture programmate, perchè nel frattempo si sono resi latitanti sette imputati, tra cui il Sindaco Renato Pucci, Anna Bargiacchi, Nemesio Piroli e Alessandro Foschi.
Gli imputati sono 64. Tra questi, come immaginabile, molti uomini della Resistenza: Fernando Barbaranelli, Ennio Piroli, Adele Cima, Renato Piendibene, Rinaldo Montecolli, Amilcare Urbani, Anna Luciani, Giulio Del Duca, Alessandro Foschi, Secondiano Antonini, Umberto Ciliberti, Spartaco Ciliberti, Eldo Volpi, Nemesio Piroli, Nicola Mori.
Rimasti ignoti gli autori dell’attentato al traliccio, le accuse riguardano reati commessi nei confronti di persone e cose.
Sono alcuni esponenti politici: Cheren Gatta, consigliere comunale e membro del Comitato provinciale della DC, è stato trascinato in strada e malmenato dopo un’irruzione nella sua casa; Carlo Ferrari, consigliere democristiano, è stato sorpreso presso la sede del partito e colpito con una randellata; accuse minori riguardano le minacce di morte rivolte ad Alfredo Vergati, esponente del PSLI e ad altre persone.
Il trattamento più duro è stato usato nei confronti del Direttore dell’Italcementi, Antonio Cremaschi, gravemente percosso durante l’irruzione nella fabbrica.
I bersagli degli assalti sono chiari. Da una parte i politici identificati con la crisi della Giunta e dell’unità antifascista, dall’altra il responsabile di un’ azienda che licenzia.
La rivolta sociale si intreccia con lo scontro politico.
I capi d’accusa sono pesanti e vanno dalla violazione di domicilio al sequestro di persona, alla violenza continuata.
Se facciamo però un confronto con tante altre città italiane, dove sono avvenuti scontri armati con la polizia, occupazioni in stile militare di fabbriche, morti e feriti da una parte e dall’altra, la dimensione di massa del processo allestito a Civitavecchia appare evidentemente sproporzionata.
Un’accusa specifica rivolta al Sindaco Pucci, di avere istigato la rivolta e avere addirittura programmato la sommossa in una riunione di partito, viene smontata durante il processo.
Tredici imputati restano incarcerati per più di tredici mesi, per tutta la durata della vicenda giudiziaria: Bruno Tombolelli, Renato Piendibene, Adele Cima, Anna Luciani, Emilio Antonini, Gino Feoli, Rinaldo Montecolli, Amilcare Urbani, Fernando Barbaranelli, Manlio Giacchini, Loris Foschi, Ennio Piroli, Secondiano Antonini.
Nel luglio 1949 vengono rinviate a giudizio 56 persone e il 13 dicembre si riunisce la 9^ Sezione del Tribunale di Roma per emettere la sentenza.
Come sono stati individuati gli autori materiali dei reati, avvenuti in una situazione di caos, ad opera di una folla eccitata, che si sposta in modo tumultuoso da un posto all’altro?
Valgono le dichiarazioni comprensibilmente confuse delle vittime, le testimonianze di alcuni presenti ai fatti, le annotazioni di alcuni poliziotti spesso sopraggiunti al termine degli avvenimenti.
E’ chiaro che si tratta di un processo al corpo vivo del PCI e ad alcuni noti personaggi della Resistenza.
Nel frattempo l’ Amministrazione comunale è stata decapitata del Sindaco, sostituito nelle funzioni da Vincenzo Benedetti, e di un assessore, Barbaranelli.
La solidarietà agli arrestati
Naturalmente Civitavecchia non è un caso isolato. Per tutto il periodo del processo viene organizzato un sostegno morale e materiale ai detenuti e alle loro famiglie, spesso in gravi difficoltà.
Natale 1948: Distribuzione di doni natalizi alle famiglie degli arrestati.
Lo testimonia la lettera inviata il 7 gennaio 1949 a Fernando Barbaranelli, recluso, da Aldo Natoli, Segretario della Federazione Romana del PCI, che tra l’altro aveva elogiato in un Direttivo il comportamento del partito di Civitavecchia in quelle giornate.
” Caro compagno, all’inizio del nuovo anno, quando si fa il bilancio della nostra attività e delle nostre lotte, non potevamo non pensare a te e agli altri compagni che, come te, sono forzatamente lontani da noi. Non potevamo non rivolgere a voi, che in queste lotte siete stati all’avanguardia, il nostro pensiero grato e l’augurio più sincero che presto possiate tornare tra noi per riprendere il vostro posto di battaglia.
Il sacrificio che voi, forti della giustezza della causa, avete affrontato con animo saldo e sereno è stato di sprone a tutti i comunisti e ai lavoratori di avanguardia di Roma per continuare a battersi con sempre maggiore energia….
Nel corso di questi mesi si è sentita la vostra assenza, si è sentita però non come un ostacolo, ma come un incentivo a fare di più e meglio per rimpiazzare l’attività che vostro malgrado voi non potete dare.
Questo i compagni e i lavoratori romani hanno voluto esprimere prodigandosi nell’opera di assistenza per voi e le vostre famiglie, che pur con le deficienze e la sua insufficienza è stata realizzata fino ad oggi…..
E’ questa la dimostrazione che il Partito Comunista Italiano, malgrado gli sforzi dell’avversario e la sua offensiva ideologica, politica e poliziesca è saldo e si rafforza sempre più, che la sua linea politica è giusta e adeguata alle condizioni oggi esistenti in Italia.
A questo, compagno, hai contribuito anche tu, con la tua azione e con il tuo esempio.
E’ con la certezza di rivederti tra breve, insieme a tutti gli altri compagni che per la loro abnegazione sono oggi in carcere, di nuovo in prima linea rafforzato nel tuo spirito di lotta dalla nuova dura esperienza che stai vivendo, che a nome di tutti i comunisti romani, ti invio il più affettuoso e fraterno saluto”
Una sentenza importante
Nel corso del procedimento emergono contraddizioni dell’ accusa, incertezze o ritrattazioni delle vittime e dei testimoni.
La sentenza finale risulta molto mite rispetto alle premesse. I reati più gravi sono derubricati e gran parte degli imputati sono assolti ”perchè il fatto non sussiste” e per insufficienza di prove.
La soddisfazione per l’ assoluzione non ripaga molti di loro dei lunghi mesi passati in carcere.
Ma l’aspetto più interessante sul piano politico è la motivazione con cui la Corte concede le attenuanti specifiche e generiche, che rovescia la filosofia iniziale del processo.
”La reazione della folla non fu inconsiderata ma ebbe un motivo inequivoco, cioè la consumazione di un delitto di eccezionale gravità per il quale fu in gioco la vita del capo del partito Comunista Italiano, la reazione si verificò proprio nel momento in cui temevasi, a giusta ragione, che l’attentato dell’On. Le Togliatti gli esiti letali.
Ora si consideri che tutti gli imputati sono aderenti al Partito Comunista Italiano, che taluno di essi ricopre nel partito cariche di rilievo, non può disconoscersi la ricorrenza, nel loro operato criminoso dell’ attenuante di avere agito per motivi di valore morale e sociale in ciò che l’attentato, oltre a rappresentare un sistema sleale e deprecabile della lotta politica, esponeva tutti gli interessi della classe operaia, con l’ eventuale perdita del suo rappresentante, ad incerte, oscure vicende.
Può apparire giusto concedere le attenuanti generiche, giacchè i fatti furono effetto di uno stato d’animo collettivo e largamente diffuso nel ceto operaio e quindi l’azione dell’uno fu influenzata da quella dell’altra, oltre a ciò, la maggior parte degli imputati oltre a essere costituita da incensurati, agì per sincera fede nell’ideologia comunista professata.”
Parti della sentenza del processo per l’attentato a Togliatti
I fatti di luglio hanno intanto avuto una grave conseguenza sociale: la rottura dell’unità sindacale.
Nel settembre 1948 si è distaccata dalla CGIL la componente cattolica, seguita nel maggio 1949 dalla componente repubblicana e socialdemocratica, per formare distinte organizzazioni.
1949: Dopo la scissione sindacale Giuseppe Di Vittorio incontra i lavoratori di Civitavecchia.
A Civitavecchia, comunque, la CGIL continua ad avere un seguito di massa e a guidare importanti lotte per il lavoro e lo sviluppo.
Proprio in questo periodo si verifica una lotta originale nella storia cittadina: Civitavecchia partecipa, con tutto il comprensorio, all’imponente movimento di invasione delle terre incolte, che riceve una convinta solidarietà del movimento operaio cittadino, fino alla proclamazione dello sciopero generale, nel momento dell’arresto del Segretario camerale.
Un altro importante fatto istituzionale ha interessato il Comune.
Nel mese di ottobre 1949 si sono distaccate estese porzioni di territorio, con la nascita del Comune di Santa Marinella, comprensivo della frazione di Santa Severa, e con l’aggregazione di Ladispoli e Palo al Comune di Cerveteri.
Decade la Giunta e sopraggiunge un lungo periodo di governo commissariale.
Soltanto nel 1952 la città può tornare al voto per eleggere i suoi rappresentanti.
La macchia rossa si è ridotta sulla carta da oltre 11.000 a poco più di 6.000 ettari.
Non viene meno, però, il carattere battagliero e antifascista.
Lo dimostrerà, dopo un decennio, la grande mobilitazione popolare di solidarietà con i lavoratori dell’Italcementi, che hanno occupato la fabbrica contro le minacce di licenziamento, e, nel 1960, la partecipazione alle intense manifestazioni di piazza che porteranno alla caduta del Governo Tambroni e all’apertura di una nuova fase politica in Italia.
Il contributo dei partigiani alla vita cittadina.
Non è qui possibile tracciare un quadro completo del contributo degli uomini della Resistenza alla vita sociale e politica della Civitavecchia democratica.
Molti di essi negli anni successivi hanno partecipato alla vita politica, nelle file della sinistra, con passione e dedizione, militanti della politica come erano stati militanti della guerra partigiana.
Semplici iscritti al partito, diffusori della sua stampa, protagonisti del tesseramento, organizzatori delle feste e delle manifestazioni, accesi sostenitori durante le campagne elettorali, presenti in tutte le mobilitazioni sociali e politiche, hanno rappresentato, con semplicità e generosità, il tessuto connettivo dell’epoca dei partiti di massa.
Penso di non far torto a tutti gli altri, ricordando alcuni nomi, come Libero ed Araldo Urbani, segretario di sezione nei primi anni ’50, Antonio e Sandro Foschi, Rinaldo Montecolli, Secondiano Antonini, Riccardo Conti, Adele Cima, Domenico Peris, Ugo e Primo Tartaglia, Augusto Carucci, per un periodo Console della Compagnia Portuale, Nemesio Piroli, impegnato nelle lotte per la terra ai contadini e Eldo Volpi, che durante quelle lotte è stato arrestato.
Antonino Foschi, Giulio Del Duca e Libero Urbani
Giulio Del Duca è stato per un periodo Segretario della sezione comunista e protagonista della Commissione interna dell’Italcementi nel corso delle lotte contro i licenziamenti.
Araldo Urbani e Ennio Piroli
Discorso diverso vale per molti anarchici che, conquistata la Repubblica, sono tornati a coltivare la loro fede politica, costituendo una significativa comunità, tanto da riuscire ad organizzare a Civitavecchia il Congresso nazionale della FAI svoltosi nel 1953.
Settimio Salerni, al momento della morte nel 1973, e Amilcare Urbani, nel 1977, come altri loro compagni, sono stati ricordati con un commosso necrologio da ”Umanità Nova”.
Alcuni partigiani si sono dedicati alla vita amministrativa.
Nel 1952 ben otto ex partigiani che si sono presentati alle elezioni comunali nella lista ”Ottimo Consiglio”: Ottavio Arcadi, Fernando Barbaranelli, Giulio Del Duca, Nicola Mori, Antonio Morra, Renato Piendibene, Ennio Piroli, Vidio Pistolesi.
Di essi alcuni sono stati eletti e hanno proseguito il loro impegno nelle istituzioni.
Barbaranelli, Piendibene e Mori in Consiglio Comunale
Renato Piendibene è stato consigliere comunale, ma si è soprattutto dedicato all’attività sindacale, chiamato per circa un decennio all’incarico di segretario generale della Camera del Lavoro.
Nicola Mori è stato più volte consigliere comunale, ha ricoperto anche l’incarico assessorile ed è stato, per un lungo periodo, stimato e rispettato Presidente della Compagnia Portuale.
Nicola Mori incontra i portuali genovesi in lotta
La più lunga e autorevole esperienza in Consiglio Comunale è stata sicuramente quella di Fernando Barbaranelli, che, al netto dei periodi di gestione commissariale, ha partecipato all’attività consiliare ininterrottamente fino al termine degli anni sessanta.
Più volte assessore nelle Giunte di centrosinistra, alla Pubblica istruzione e ai Lavori Pubblici, ha rappresentato il Comune in vari organismi, come lo IACP o il Consorzio Autonomo per la Ricostruzione, ha partecipato a varie commissioni, come quella per la toponomastica che doveva intitolare le strade della città a quanti l’hanno illustrata con la loro attività.
Amante della storia locale, ha sempre combinato l’impegno politico con la sua passione per l’archeologia, la partecipazione a scavi, la pubblicazione di studi, l’ impegno per trovare una nuova sistemazione al Museo Civico, dopo la distruzione bellica della precedente sede.
Indubbiamente, sul piano della politica culturale, l’operazione più rilevante è stato il recupero della presenza a Civitavecchia di Stendhal.
Testimonianza ne è il suo volumetto ”Henri Beyle – Stendhal – Console di Francia a Civitavecchia”, pubblicato nel 1963 in occasione dell’apposizione sulla facciata della casa abitata dal grande scrittore di un’epigrafe marmorea, rifacimento di quella preesistente distrutta dalla guerra: un’operazione che lui stesso, in qualità di assessore, aveva caldeggiato e realizzato.
A coronamento di queste iniziative, l’organizzazione del convegno internazionale di studi stendhaliani ha radunato a Civitavecchia i più prestigiosi studiosi della sua opera.
La sua carriera amministrativa si è prolungata oltre l’ esperienza delle Giunte di sinistra.
Nel 1964 ha conquistato il suo ultimo seggio in un Consiglio che ha rappresentato la fine del lungo periodo di unità della sinistra e l’inizio del centro-sinistra cittadino, guidato prima dal Sindaco Massarelli e poi da Archilde Izzi.
Il 17 giugno 1969, il Consiglio Comunale, presieduto da Izzi, ha accolto le sue dimissioni, rassegnate per motivi di salute.
In quell’occasione, una parte della seduta è stata dedicata agli interventi dei rappresentanti di tutti i gruppi, alleati e avversari, tesi a onorarne la figura e ad esprimere la gratitudine della città per il contributo offerto alla sua rinascita civile, politica e culturale.
Esaurita l’esperienza del centro-sinistra cittadino, ultimo rappresentante della leva partigiana nelle istituzioni è stato Ennio Piroli, giovane staffetta della banda Maroncelli.
Dopo vari incarichi politici e amministrativi, è stato Sindaco dal 1976 al 1980, alla testa di una ritrovata coalizione di sinistra.
Ennio Piroli ad un convegno di partito.
Ma siamo ormai dentro un’altra storia della città e del Paese.
Piroli è giunto a ricoprire l’incarico dopo un decennio che ha conosciuto prima il rapido esaurimento dell’esperienza del centro-sinistra cittadino, poi la sperimentazione di una formula di governo inedita.
Dal 1970 al 1972 il Comune è stato amministrato per la prima volta da un Sindaco democristiano, Pietro Guglielmini, alla testa di una giunta di centro-sinistra con il sostegno esterno di PCI e PSIUP.
Si è rivelata un’esperienza fragile, interrotta dopo due anni, con il recupero dell’unità a sinistra e l’elezione del Sindaco socialista Mario Venanzi.
Di quel caduco esperimento si è però parlato come di un laboratorio politico.
Anche in Italia si è ormai dissolto il centro-sinistra e il progetto del Compromesso storico ha aperto una nuova fase, profondamente travagliata, della vita politica.
E’ dimenticato il dopoguerra, si sta sciogliendo la guerra fredda, la città e il Paese sono chiamati a importanti sfide di nuovo tipo.
La fluidità della nuova situazione politica porta anche a letture più articolate del fenomeno della Resistenza.
Si tenta di uscire dalla gabbia di letture contrapposte, di appropriazione politica dei suoi valori, sforzandosi di ricostruirne i reali percorsi storici e di farne il fondamento condiviso dell’Italia repubblicana.
E’ una ricerca difficile e intensa, che ai nostri giorni non si può dire esaurita.
Ancora oggi è utile e necessario richiamarsi alla lezione etica e politica della Resistenza, difendendo e allargando il campo dei valori democratici, di libertà e uguaglianza, comprendendo però fino in fondo l’aspetto drammatico e irripetibile di quell’esperienza.
Nel 1965, ventennale della Liberazione, a riconoscimento dell’attività dei partigiani del nostro territorio, in una cerimonia svolta alla presenza di Luigi Longo, capo della Resistenza italiana, sono state simbolicamente consegnate 24 medaglie ad altrettanti partigiani, con un criterio di perfetta equità: dodici a combattenti della banda Maroncelli, dodici a combattenti della banda Barbaranelli.
CLAUDIO GALIANI
ANATOMIA DI DUE BANDE (XV) di CLAUDIO GALIANI ♦ IL PROCESSO ALLA RESISTENZA Siamo alla vigilia del 18 aprile, data delle elezioni del primo Parlamento della Repubblica Italiana.
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XXV IL NUMERO DI TELEFONO DI BRODSKIJ La scalinata nell’affresco di Vasilij Efanov, alla Fiera di New York del 1939. Il rabotjàga, nel gergo dei lager. Le case chrusceviane di Čerëmuški. I ciucci di gomma industriale da sterilizzare a bagnomaria. 265-39, il numero di telefono di Brodskij. La vittoria impossibile dei socialisti rivoluzionari alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Le bancarelle dei gelati a Mosca nel 1980. Gumilëv che scrive di nascosto la storia degli unni. La scomparsa della psiche. Una stella metallica rossa a cinque punte, al centro della quale si trova un circolo dorato con l’immagine di Lenin, rappresentato come un bambino dai capelli ondulati. La diffusione della radio negli anni ‘30. La chiusura dei giornali di cadetti, menscevichi e socialisti rivoluzionari. Hemingway come icona. La conversione degli antichi ufficiali zaristi in amministratori delle industrie sovietiche. L’imposizione del novyi byt al novyi sovetskij čelovék. Le scritte dello SMOT sui muri del centro di Leningrado. La società indifferente. Šolochov che scrive Terre vergini dissodate. L’inizio del culto di Stalin, il 21 dicembre 1929, in occasione del suo cinquantesimo compleanno. Anna Achmatova che ha paura di accendere il gas. Il meeting dei bambini, in un manifesto del 1923. La persecuzione di Taimanov. La razione Mikojan per i funzionari, durante la carestia in Ucraina. Il vecchio e il mare pubblicato sulla Inostrannaja Literatura. La prosa della campagna.
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I CAPI DI GOVERNO DELLA REPUBBLICA
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I CAPI DI GOVERNO DELLA REPUBBLICA
BREVE CRONISTORIA COMMENTATA
DEI CAPI DI GOVERNO DELLA REPUBBLICA
Fonte: Wikipedia con commenti propri
BREVE CRONISTORIA COMMENTATA DEI CAPI DI GOVERNO
DELLA REPUBBLICA
Fonte: Wikipedia con commenti propri
XVII Legislatura (dal 15 marzo 2013) elezioni politiche 24 e 25 febbraio 2013.
Governo Renzi (dal 22 febbraio 2014)
definito da molti “il pupazzo di Berlusconi”. Il suo rivale all’interno del PD è Bersani,
colui che, durante la crisi finanziaria e la demenza berlusconiana,
aveva come programma politico per salvare la Repubblica “Smacchiamo il gattopardo”.
Era solo questo che sapeva pensare. La vecchia scuola di partito del PCI è dura a morire;
i suoi politicanti sanno fare comizi, ma non certo politica vera.
Che cosa dire di più sull’attuale Parlamento, Governo e Capo dello Stato?
Sono stati tutti nominati con legge giudicata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza 1/2014.
Sono però tutti li ad esercitare funzioni illegittime.
Hanno usurpato il potere con la frode e con la pena del contrappasso, vanno frodati,
e cancellati dal sistema politico e sociale italiano.
Governo Letta (dal 28 aprile 2013 al 21 febbraio 2014).
Aveva praticamente pieni poteri, ma non ha combinato un benedetto cavolo.
E’ stato solo un incapace, messo al posto giusto al momento giusto per non cambiare niente.
XVI Legislatura (dal 29 aprile 2008 al 23 dicembre 2012). Elezioni politiche 13 e 14 aprile 2008
Governo Monti (dal 16 novembre 2011 al 27 aprile 2013).
Anche Monti è un pupazzo di Berlusconi, lanciato da quest’ultimo nella carriera politica
facendolo prima eleggere e poi nominare Commissario alla concorrenza nella E.U.
Non ha alcuna veduta politica ed è solo capace di ridurre le prestazioni dello Stato
e non certo i privilegi dei suoi ladri.
XV Legislatura (28 aprile 2006 – 6 febbraio 2008). Elezioni politiche 9 e 10 aprile 2006.
Governo Berlusconi IV (dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011)
“L’uomo che ride sempre (iena ridens)
è il classico personaggio cresciuto all’ombra di una cultura capitalistica
basata sulla sovrastima della propria persona.
E’ un fesso, ma è così che si fanno i soldi.
E’ talmente tanto stronzo che quando Bettino Craxi (il suo protettore) è costretto a scappare, l
ui non fa nemmeno un fiato.
Quest’uomo è l’idiozia fatta persona.
E’ talmente tanto idiota, che è in sostanza diventato irriconoscibile con i tanti lifting che ha fatto.
Anche in un ipotetico Governo Berlusconi CIII, costui avrebbe fatto danni ancora maggiori.
Ma se è così stupido il personaggio,
riuscite ad immaginare quanto debbano essere stati stupidi i suoi elettori?
Si sono fatti comprare con quattro soldi e poi lasciati nella cacca, dove già erano.
Governo Prodi II (dal 17 maggio 2006 al 6 maggio 2008)
Mortadellone: da porta acqua democristiano a “sedicente” esperto in economia.
Quando gli affidano la Presidenza dell’IRI per risanare l’istituto dal buco finanziario creato,
lui è talmente tanto bravo che lo fa in ventiquattro ore.
Tredicimila miliardi di lire erano i debiti dell’IRI
e tredicimila miliardi i fondi che l’IRI aveva accantonato per l’innovazione tecnologica.
Mortadella, con una semplicissima operazione contabile trasferisce i fondi da una parte all’altra,
cancellando così tutti i debiti e allo stesso tempo anche ogni futuro dell’Istituto.
Ma all’interno del suo partito, la DC, sono entusiasti di lui e,
anche quando il partito si squaglia come neve al sole,
Mortadellone pare fresco come appena uscito dal frigorifero e
si ridà una verginità con tutti i vari partitucoli in cui cercano di ricompattarsi i “demoni-cristiani”.
E’ una nullità, ma se vuoi fare carriera in politica, così devi essere.
XIV Legislatura (30 maggio 2001 – 27 aprile 2006). Elezioni politiche il 13 maggio 2001
Governo Berlusconi III (dal 23 aprile 2005 al 17 maggio 2006) Governo Berlusconi II (dall’11 giugno 2001 al 23 aprile 2005)
Governo Amato II Governo D’Alema II Governo D’Alema Governo Prodi
XII Legislatura (15 aprile 1994 – 16 febbraio 1996). Elezioni politiche il 27 marzo 1994.
Eccola la troika del regime. “Mica rubo a te, rubo allo Stato, che ti frega?”.
Amato, l’uomo dalle centomila pensioni,
l’eroe che quando Bettino imbrogliava tutti come presidente di tutto,
lui non ne sapeva niente come vice-presidente.
E’ talmente tanto schifoso lui, che fa sorgere spontaneamente una simpatia per Bettino.
La Repubblica Italiana ha avuto la faccia tosta di farlo Presidente del Consiglio dei Ministri
per ben due volte. Che schifo!
D’Alema ha il braccio indolenzito per le tante borse che ha portato.
Poi finalmente il PD manda un ex stalinista al Governo
e D’Alema s’imbarca nell’avventura dei Balcani, dimostrando di essere davvero un “Yes-man”.
Se lui è italiano, io allora sono venusiano.
XI Legislatura (23 aprile 1992 – 16 gennaio 1994). Elezioni politiche il 4 aprile 1992
Governo Dini
Dini è un “sedicente” tecnico della finanza.
I suoi compari in politica gli credono e lo fanno Presidente del Consiglio,
con la speranza che costui possa salvare il paese dal crack finanziario.
Il Regno Unito difende la Sterlina per due giorni dalla speculazione finanziaria,
poi l’abbandona alla libera fluttuazione dei mercati e la speculazione si arresta.
Dini è quel sedicente tecnico della finanza
che spende circa centocinquantamilamiliardi di lire per salvare la moneta dalla speculazione.
Soldi sprecati; la Lira svaluta ufficialmente del 10%.
Ma Dini è un troppo stupido, o un troppo furbo?
Governo Berlusconi
Mentre Dini faceva le sue cavolate,
Berlusconi tranquillo fumava la pipa e già pensava ai suoi guai giudiziari.
Non è mica poi così scemo il Berlusca, o chi per lui.
X Legislatura (2 luglio 1987 – 2 febbraio 1992). Elezioni politiche il 14 giugno 1987
Governo Ciampi Governo Amato
Siamo al dopo Craxi.
Amato ha già fatto una supermanovra finanziaria ed ha raccolto novantamilamiliardi di nuove tasse,
con nessun risultato effettivo.
Ha solo indebolito ulteriormente il paese.
Ma che gliene frega?
Ha già trovato il modo di farsi una buona rendita pensionistica futura con una “leggina” ad personam.
Allora i politicanti si rivolgono alla Banca d’Italia in cerca di aiuto e questa gli piazza Ciampi.
Costui è tutto incravattato come anche tutti gli uscieri della Banca,
che “Sembrava el sindac de San Culumban”.
E’ tutta aria fritta. La corruzione è al massimo, la Lira al minimo.
L’inflazione ha raggiunto livelli incredibili. Allo scrivente,
la Banque Populaire de Strasbourg offre un rendimento del 18% su deposito di c/c.
Governo Andreotti VII Governo Andreotti VI “A Fra’, che te serve?” era il motto andreottiano per curare i suoi clientes.
“Il potere logora chi non ce l’ha” era per indicare come lui gestiva il suo potere.
Andreotti è stata la figura tipica del demone- cristiano, tutto partito e chiesa.
Lo hanno giudicato intelligente, mentre è stato solo furbo.
I suoi governi duravano l’éspace d’un matin, ma lui ne ha fatti a ripetizione.
Dicono che era onesto: è vero, rubavano i suoi clientes per lui.
Governo De Mita
Governo Goria
De Mita non ha mai fatto pace né col cervello, né con la lingua italiana.
La sua gestione del governo, come quella andreottiana, è tipica del demone-cristiano.
Craxi aveva aperto la traccia della corruzione e della collusione
e lui la segue come se fosse un’autostrada.
Fanfani, Andreotti e De Mita hanno rappresentano in pieno il regime DC;
altro che Regime fascista. Goria? Chi era costui? Uno messo li per caso, tanto per allentare i contrasti.
Costui non sa neanche di sale, ma ha la faccia tosta di farsi beccare anche lui con le mani nel sacco.
IX Legislatura (12 luglio 1983 – 28 aprile 1987). Elezioni politiche il 26 giugno 1983
Governo Fanfani VI Governo Craxi II Governo Craxi
Fanfani rispetto a Craxi è come un povero mendicante rispetto al Papa;
tanto è furbo Craxi, tanto è stupido Fanfani
(anche se ha lanciato il Piano case per la costruzione di alloggi popolari).
Il Prof. La Pira (docente di Diritto costituzionale di chi scrive)
aveva già fatto un Piano case per il quartiere di Osmannoro a Firenze
(senza l’aiuto del Governo, e con maggior successo di quello fanfaniano).
Con Craxi si apre una fase nuova della politica italiana, quella della furbizia almeno un poco intelligente.
C’è una legge che richiede la copertura finanziaria per ogni nuova spesa ed io non ho i soldi?
Bene, rilancio BOT, CCT, BPS e così sia e la copertura finanziaria è bella che trovata.
Il debito pubblico, che fino ad allora era stato piuttosto contenuto,
esplode ed in pochi anni arriva a duemiliardi di miliardi di Lire.
Oggi siamo a circa cinque miliardi di miliardi delle vecchie lire.
Dove sono andati a finire tutti quei soldi? In mano ai briganti, quelli della politica.
VIII Legislatura (20 giugno 1979 – 4 maggio 1983). Elezioni politiche il 3 giugno 1979
Governo Fanfani V Governo Spadolini II Governo Spadolini Governo Forlani Governo Cossiga II Governo Cossiga
Di Fanfani già abbiamo detto, e finanche troppo bene.
Spadolini, tra l’altro,
è stato per ben due anni professore di storia moderna alla Facoltà di Scienze Politiche
“Cesare Alfieri dello scrivente”.
Non l’ho mai visto, né a lezione, né tantomeno agli esami.
Non veniva neanche a ritirare lo stipendio, perché glielo accreditavano in banca.
Compartecipava ad una società industriale che produceva segnaletica civile e militare;
immaginate voi cosa abbia potuto combinare.
Forlani, vi ricordate come finisce la sua carriera politica?
Doveva andare in carcere per corruzione, ma poi non si è saputo più niente: miracoli della politica.
Cossiga: il “picconatore”;
ha tirato tante picconate da Capo dello Stato alla cieca
che ha finito per tirarsele anche sui piedi, facendosi un gran male.
VII Legislatura (5 luglio 1976 – 2 aprile 1979). Elezioni politiche il 20-21 giugno 1976
Governo Andreotti V Governo Andreotti IV Governo Andreotti III
Andreotti domina la scena in questa legislatura per mancanza di “challengers”.
La Brigata Ciociara lavora a tempo pieno per lui, e viceversa.
VI Legislatura (25 maggio 1972 – 1 maggio 1976). Elezioni politiche il 7-8 maggio 1972
Governo Moro V Governo Moro IV Governo Rumor V Governo Rumor IV Governo Andreotti II
Sono le elezioni del compromesso storico
con la sonora batosta della DC e la vittoria del PC.
Il PC può fare il governo con alleanze che non richiedano la presenza della DC,
ed invece fa il “compromesso storico”.
E’ l’ultima volta in cui lo scrivente partecipa ad un “ludo cartaceo”;
lo schifo lo ha tanto nauseato che dimentica sia l’esistenza delle elezioni che quella della Repubblica,
anche se continua a rispettarla e a credere nell’ormai perduto senso dello Stato.
Il contrasto tra Andreotti e Moro con l’intervento esterno di Rumor
(chiamato “buson” a Venezia) scrive le pagine più vigliacche dell’infame Repubblica.
Solo alcune parole per ricordare l’evento:
Aldo Moro è sequestrato dalle BR, tenuto prigioniero per diversi giorni, e poi ucciso.
Il suo cadavere viene lasciato dentro la Renault rossa
in una strada equidistante tra la sede del PC e quella della DC.
La vigliaccheria dei politicanti italiani si esprime in questo caso al suo massimo livello:
i suoi rivali politici sanno dove è tenuto prigioniero, ma fanno di tutto per non trovarlo.
Signore, castiga loro perché sapevano quello che facevano.
V Legislatura (5 giugno 1968 – 28 febbraio 1972). Elezioni politiche il 19 maggio 1968
Governo Andreotti Governo Colombo Governo Rumor III Governo Rumor II Governo Rumor Governo Leone II
Leone è un avvocato napoletano legato mani e piedi alla DC.
Ha fatto carriera perché Donna Vittoria ci ha saputo fare molto bene con quello che doveva fare.
Leone viene travolto dallo scandalo Locked, quando diventa Presidente della Repubblica,
dimostrando fondamentalmente due cose:
1° non era, e non e, affatto vero che i Presidenti della Repubblica sono al di sopra dei partiti;
2° O Leone era un geniale (ed allora, perché non lo ha fatto vedere?)
o era un pupazzo in mano ai partiti.
Che dire di Rumor (tanto rumor per nulla) avrebbe scritto Shakespeare. Di scarso valore, legato mani e piedi alla DC; tante feste e festini, ma “sotto il vestito, niente.
Colombo era quello che tutte le volte che doveva dire mezza parola su economia e finanza,
si portava appresso Guido Carli, l’allora Presidente della Banca d’Italia.
L’Italia è in pieno boom economico; con o senza un valido governo, non sarebbe cambiato niente.
IV Legislatura (16 maggio 1963 – 11 marzo 1968). Elezioni politiche il 28 aprile 1963
Governo Moro III Governo Moro II Governo Moro I Governo Leone
Moro è stato Ministro, capo di governo, capo di partito, docente universitario a Roma.
Come faceva a fare tutte queste cose assieme?
Semplicissimo, faceva come Spadolini: andava solo a prendere gli stipendi.
E’ uno dei grandi inventori, assieme ad Andreotti, del politichese
(convergenze parallele, la politica è l’arte della mediazione, etc. etc.).
Paga con la vita la sua carriera di politicante e traffichino,
e questo lo riscatta, anche se non pienamente.
III Legislatura (12 giugno 1958 – 18 febbraio 1963). Elezioni politiche il 25 maggio 1958
Governo Fanfani IV Governo Fanfani III Governo Tambroni Governo Segni II Governo Fanfani II
Fanfani, col vento a favore di Toscana dove alle politiche votavano rosso
ed alle amministrative bianco, si crea una forte corrente all’interno della DC c
he gli assicura una certa carriera politica.
Era certamente più bravo come pittore che come politologo.
Tambroni è stato talmente tanto inutile e dannoso alla società italiana che,
appena sentiva aria di fronda da parte dei lavoratori,
faceva intervenire la polizia che manganellava.
Segni? Mah! Forse era il meno dannoso per Chiesa e partiti.
II Legislatura (25 giugno 1953 – 14 marzo 1958). Elezioni politiche il 7 giugno 1953
Governo Zoli Governo Segni Governo Scelba Governo Fanfani Governo Pella Governo De Gasperi VIII
Zoli? Chie era costui? Si sarebbe chiesto anche Don Abbondio.
Scelba, faceva manganellare come Tambroni.
Fanfani? Sì è già detto quello che basta.
Pella? Sulle manganellate s’è già detto.
De Gasperi? Il primo riciclato nella storia della Repubblica.
Era in auge sotto il Regno e rimane in auge anche con la Repubblica.
I Legislatura (8 maggio 1948 – 4 aprile 1953). Elezioni politiche il 18 aprile 1948
Governo De Gasperi VII Governo De Gasperi VI Governo De Gasperi V
De Gasperi forma quattro Governi perché gliene veniva uno peggio dell’altro.
Ma ai partiti non gliene fregava nulla.
Ordinamento provvisorio: 25 luglio 1943 – 23 maggio 1948 Assemblea costituente :25 giugno 1946 – 31 gennaio 1948 Proclamazione della Repubblica: 2 giugno 1946
Governo De Gasperi IV Governo De Gasperi III Governo De Gasperi II (primo governo della Repubblica) Governo De Gasperi Governo Parri Governo Bonomi II Governo Bonomi Governo Badoglio II Governo Badoglio
Cari lettori, osservate bene questa cronistoria e vi renderete conto che c’era dell’altro sotto.
Dietrologia?
Forse, ma certamente dietro c’era lo zampino degli Americani sempre più crescenti
e degli Inglesi sempre più declinanti.
Con l’uccisione di Benito, Churchill perde il suo riferimento in Italia; e allora si dà da fare.
Enrico Furia
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