#ed è stata presa
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#comunque devo condividere questa cosa meravigliosa che è successa#la mia insegnante di recitazione ha convinto una mia amica e compagna di corso a provare l'audizione per l'accademia#lei c'è andata con zero aspettative e pochissimo tempo per prepararsi#ed è stata presa#e somehow io sono più felice di lei AHAHAHAH#quando me l'ha detto mi sono emozionata#mi dispiace che non siamo più insieme però praticamente l'ho convinta ad iscriversi#perché era un sacco insicura ma poi io l'ho bombardata di audio in cui le urlavo quanto fossi contenta#e allora si è convinta#sono un pochino invidiosa perché è il mio rimpianto più grande e magari se l'avesse proposto anche a me l'avremmo fatto insieme#però le mie ultime performance non sono state proprio ottime quindi lo capisco#ma cerco di incanalare tutto questo nella fierezza che sento per lei#ci conosciamo da luglio ma mi sento come se stessi gioendo per il traguardo di una vita#gioendo?#a lei pure dispiace che così non saremo più insieme ma io le ho letteralmente detto '#e sti cazzi? tanto vorrò sapere tutto quello che fai quindi ci sentiremo sempre comunque' WHAHHAHA#niente sono contentissima#ho avuto due settimane tremende e questa cosa mi ha sollevato un sacco il morale#+ ieri sono uscita con compagna di università e la sera mi ha mandato un messaggio#ho il trauma di quella di quest'estate quindi ho tremato#e invece era per dirmi che era da tanto che non si sentiva così bene con una persona come è stata con me#quindi ora se non fosse per la gamba e per il fatto che non posso camminare sarei al settimo cielo#niente scusate volevo raccontarlo
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HO UN LINFOMA E FARÒ DEL MIO PEGGIO
Fra un mese compio 51 anni e pochi giorni fa ho scoperto di avere un Linfoma Non Hodgkin. È una patologia abbastanza aggressiva ma è stata presa in tempo. Ed è ben curabile, perché la scienza sta facendo passi da gigante nella cura dei linfomi.
Vivo a pochi passi di distanza da un ospedale all'avanguardia che mi ha preso in carico. Sotto molti aspetti, sono davvero fortunato e privilegiato rispetto a molte persone.
Quale sarà il mio atteggiamento di fronte alla malattia? Mi conosco bene e posso prevederlo, perché c'è una parola che lo definisce con precisione. È una parola significativa, addirittura emblematica, che riguarda il mio tasso di maschitudine alfa. Come potete intuire, non mi riferisco a "guerriero", quindi le metafore belliche possiamo tranquillamente metterle da parte.
La parola misteriosa è "mammoletta". Sì, sarò una mammoletta. Questo vuol dire che non vi darò lezioni filosofiche. Non diventerò un maestro di vita pronto a snocciolare grandi verità come "quello che non ci uccide ci rende più forti", "le sofferenze fanno parte dell'esistenza", "l'importante è apprezzare le piccole cose".
Sarò una mammoletta perché lo sono sempre stato, per esempio quando ho scoperto di avere una massa all'inguine. Era un rigonfiamento, duro come un sasso, grande come una pallina oblunga. La mia reazione? Due settimane senza far nulla. Mi sono detto: "Magari passa. Vuoi vedere che fra qualche giorno non ci sarà più? Non ho voglia di affrontare visite ed esami per un falso allarme. Odio gli ospedali".
Questo mio atteggiamento nasce anche da un'idea completamente sbagliata e irrazionale: la paura che gli esami possano creare malattie dal nulla. In pratica una zona oscura del mio cervello ragiona (si fa per dire) più o meno così: sei perfettamente sano, fai l'esame e ti trovano qualcosa. Lo so, non c'è niente di logico in questa convinzione, ma la mia mente non è mai stata fatta di pura logica.
Per quasi due settimane ho cercato di non pensarci anche perché ero in preda all'imbarazzo. Tra tutti i posti, proprio all'inguine doveva capitarmi? Ma la massa non ha dato cenni di sparizione e alla fine mi sono attivato.
Ho riscritto cinquanta volte il messaggio su WhatsApp prima di inviarlo alla mia dottoressa per fissare una visita, perché ogni volta il testo mi sembrava una molestia sessuale: "Buona sera, dottoressa, ho questa massa dura all'inguine e vorrei chiederle un appuntamento per mostrargliela". "Buona sera, dottoressa, ho un rigonfiamento...". Dopo un numero incalcolabile di tentativi, ho trovato le parole giuste e ho scritto un messaggio asettico, inequivocabilmente sanitario, con un perfetto stile burocratico ospedaliero.
Sono stato una mammoletta nei tre mesi e mezzo necessari per giungere alla diagnosi.
Sono stato una mammoletta nel giorno della TAC con mezzo di contrasto. Quella mattina sono giunto all'ospedale in autobus, dopo una notte insonne. Alla fermata ho controllato la cartella che conteneva i documenti. C'erano referti di ecografie, pareri medici e soprattutto l'impegnativa da presentare per svolgere l'esame. Ho controllato perché sono una persona molto precisa, di quelle che tornano indietro mille volte per verificare di aver chiuso il gas. "Non manca nulla", mi sono detto. Ho rimesso i documenti nella borsa. Ho raccolto le forze, mi sono alzato dalla panchina e ho raggiunto l'accettazione dell'ospedale. Senza la borsa. Vi lascio immaginare questa sequenza di eventi: imprecazione, insulti molto pesanti rivolti contro me stesso, corsa a perdifiato verso la fermata. La borsa era ancora lì. Nessuno me l'aveva fregata.
Per fortuna scelgo solo borse brutte.
Sono stato una mammoletta in occasione della PET, che ha rispettato un copione simile a quello della TAC. Venivo da una notte insonne e non ero in grado di comprendere istruzioni elementari, perché la mia intelligenza svanisce quando affronto esami medici. Mi chiedevano di porgere il braccio sinistro e porgevo il destro. Mi chiedevano il nome e recitavo il codice fiscale.
Sono stato una mammoletta quando mi hanno comunicato il risultato della biopsia. Per un considerevole lasso di tempo non ci ho capito nulla. La mia coscienza era come una trasmittente che passava una musica di pianoforte triste sentita mille volte in TV: quella che certi telegiornali usano per le notizie strappalacrime.
Ora guardo al futuro e la mia ambizione non ha limiti: raggiungerò nuove vette nel campo del mammolettismo. So di essere fortunato per molti motivi: l'ematologo, un tipo simpatico, mi ha rassicurato. Le terapie esistono e sono molto efficaci.
Ma mi lamenterò tantissimo, perché non voglio correre il rischio di essere considerato una persona ammirevole da qualcuno. Non lo ero, non lo sono e non lo sarò mai. Rivendico il diritto di essere fragile e fifone. Lasciatemi libero di essere una mammoletta. Per citare un motto di Anarchik, il mio piano è questo: farò del mio peggio.
[L'Ideota]
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Tre sere fa, quando ho fatto questa foto, mi sono fermato un attimo a riflettere su come, lentamente, io stia ritrovando la mia vita, quella che avevo 10 anni fa, quella fatta delle mie passioni, dei miei spazi, dei miei tempi.
Nel 2014 non so cosa sia andato storto, ma iniziai a fare puttanate. Ogni volta, per correggere quella appena fatta, ne facevo una più grossa, per poi scappare in Germania, con la sicurezza che avrebbe messo a posto le cose, macché, ho continuato a farne qui, perché mi ero fondamentalmente perso e non riuscivo ad essere più quello di prima.
Ho provato a legarmi a tutti sperando di risolvere le cose, col risultato di fare peggio, le persone entravano nella mia vita, ci facevano quello che volevano e poi se ne andavano, lasciando un disastro. Il 2024 me ne ha portate via altre due, così, dopo anni insieme, senza motivo, dopo essersi prese un pezzo di cuore, sparite, senza una ragione, senza che io abbia torto un capello, nulla, ed è solo l'ultimo di tantissimi casi.
In tutto questo casino è nato il personaggio che ho costruito qui, che è un po' il risultato paradossale di tante cose, non sarebbe mai dovuto esistere, io qua non ce dovevo veni', diceva il saggio, e fortuna che poi mi ha donato due legami straordinari e al tempo stesso è diventato qualcosa di diverso e di allegro, ma il fatto rimane, non doveva esserci. Non rinnego quello che è oggi, ma se potessi premere un tasto e cancellare tutto, ma intendo tutto, forse sacrificherei anche questo, perché, almeno agli inizi, è stata l'ennesima puttanata fatta per non risolvere un problema.
Poi è arrivata Lilly nella mia vita, e qualcosa è cambiato profondamente. Lilly si è presa tutto, da ogni direzione, lasciandomi una porzione di tempo talmente limitata da iniziare a darle un valore immenso. Non procastino più, non cerco scuse o distrazioni, non esiste più "tanto c'è tempo", no, ogni secondo adesso ha un valore, e ho cominciato ad usarlo come 10 anni fa, con ciò che mi rendeva felice, con quei fogli e quella penna. La conseguenza di questo mio impegno costante, ogni sera, dedicato allo studio, oltre a ridarmi quello che ero prima, mi ha fatto permesso di vedere che da tempo ormai il vaso che doveva traboccare non c'era più, ma io mi illudevo che potesse ancora funzionare, e allora sì, ho iniziato a tagliare tutto quello che ho con gli altri, perché non sono più perso, e il mio tempo conta. Le persone che amo sono rimaste e non permetterò mai a nulla e a nessuno di portarmele via, ma il resto del mondo non mi interessa più, non mi sento più solo.
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Quanto mi piace
Mi fai sentire un oggetto, un pezzo di carne. Un tuo attrezzo, un cucciolo di donna che hai contribuito ad allevare e svezzare solo per ricavarne in futuro del piacere sessuale. Un investimento erotico ed emotivo, il tuo. Forse inizialmente la tua attenzione era solo per mia madre, una donna bellissima ancora oggi a cinquant’anni. M’hai accolta in Italia con lei quando siamo venute dalla Romania, diversi anni fa. Devo riconoscere che sei stato sempre generosissimo. Mamma continua a esserti utile, in casa. Pulisce, cucina, fa la spesa. Ma non la scopi più tanto, da quando hai scoperto che la figlia è più “sfiziosa” come dici tu. Hai iniziato da poco, da quando un mese fa t’ho detto che m’ero fidanzata. Hai voluto sapere cosa mi facesse il mio ragazzo: dovevo dirti tutto. Poi, giorno dopo giorno, con la scusa di insegnarmi le cose dell’amore, m’hai chiesto di fare sempre di più. E io ci stavo: quanto mi piaceva, ricevere finalmente le tue attenzioni di uomo maturo.
Non ero più la ragazzina rompiscatole. M’hai incatenata, ho dovuto indossare solo per i tuoi occhi dell’intimo sexy, poi delle cinghie che mi bloccavano, la gag-ball in bocca. M’hai legata in mille maniere. M'hai abituata al collare e a camminare a quattro zampe, come una tua troia al guinzaglio. Alla fine, dopo una decina di giorni non hai più resistito e un pomeriggio hai alzato il tiro. M’hai ordinato di spogliarmi tutta nuda, m’hai presa, buttata sul letto e m’hai direttamente sverginata. Ero impaurita, terrorizzata. Non ero preparata. Si, confesso di essere stata molto maliziosa a mia volta e di averti stuzzicato a lungo. Forse sono stata anche un po' una maliziosa puttanella: t’avevo svelato, fatto leccare ed esplorare tutto il mio corpo. Anche se giovanissima, sapevo bene che così facendo sarebbe presto arrivato il momento di farmi scopare da te. Mia madre, molto pragmatica e capendo ciò che stava accadendo, m’aveva istruita di non contrariarti e di compiacerti sempre.
Ero anche un po’ curiosa, francamente. Sentivo che il sesso stava diventando concreto, che presto sarei diventata una vera donna. Completa. Desiderata. Quanto me lo sognavo un vero uomo, un maschio che non desiderava altro che infilare l'uccello nella mia passera, nel mio culo. Da succhiare e divertirmici come una vera puttana, finalmente! Da gustare quando sborra, socchiudendo gli occhi per il piacere puro provato nell'inghiottire. Da sentirlo che vibra di piacere mentre eiacula nel mio corpo il suo prezioso nettare. Si: una donna vera! Così d'improvviso ti sei deciso e m’hai presa. Senza alcuna delicatezza. Un toro infuriato, sembravi. Volevi mangiarmi, mentre mi scopavi. Urlavo. Non ti volevo con così tanta violenza. Avrei apprezzato un approccio più dolce. Mamma è accorsa, ma le hai detto senza mezzi termini che se non se ne fosse andata subito in cucina avresti buttato fuori entrambe. E lei è uscita dalla stanza in lacrime.
Aveva il sangue agli occhi. T’avrei ucciso. L’hai annientata in un sol colpo: come donna e come madre. Intanto mi stantuffavi dentro senza piet��, con la tua tipica prepotenza maschile, grufolando e godendo in modo animale. Violandomi la fica con l'uccello e l'ano con le dita, a sfregio. Per rendermi totalmente tua. Mi hai letteralmente sfondato la fica e il posteriore. Uno, due, tre dita e infine tutto il pugno nel culo. Dio, che male! Un dolore acuto in tutta la zona, dall’inguine all’ano; una pena che pian piano col tempo poi s’è stemperata e trasformata in dolcissima schiavitù al tuo cazzo. E alle tue mani. Mi sono accorta da subito che comunque essere scopata mi piaceva. Oh, quanto mi piaceva! Non contento, dopo avermi usata per una buona mezz’ora, tranne una pausa brevissima in cui io piangevo calde lacrime, comunque sorridendo tra me e me, senza pietà d’un tratto m’hai presa, hai aperto la mia bocca con forza e mi hai ficcato l’uccello fino in gola.
A momenti vomitavo. All’inizio quindi ho faticato ad accoglierti e mi venivano i conati, di continuo. Però almeno per questo hai avuto tanta pazienza, nel farmi adattare al supplizio. Lì ho capito quanto mi convenisse imparare a succhiartelo con cura e quanto mi piacesse essere dominata e usata da un maschio. In particolare da te. Ti amavo. Si: ti amavo e ti volevo. Ho imparato presto a lavorarti il cazzo dolcemente, a succhiarlo, a farti sborrare e a ingoiare. La natura è perfetta. Amo moltissimo leccarti l’asta e le palle con la massima passione. Eri sorpreso inizialmente da tanta spontanea dedizione. Si: da subito m’avevi finalmente domata. Ero diventata tua. Quando nella mia impegnativa iniziazione finalmente mi hai sborrato l’ultima volta in bocca t’ho ingoiato rapida e golosa, dopodiché ho atteso il tuo rilassamento nella mia gola; quindi t’ho sorriso e baciato in bocca: a lungo e con tanto amore.
T’ho sussurrato all’orecchio il mio ringraziamento per il fatto di avermi fatta diventare una donna. Poi, mamma con la sua saggezza infinita m’ha comunque consolata. Dicendo che in breve mi sarei abituata. E aveva ragione: ho scoperto che posso essere santa fuori e puttana con te. Al mio ragazzo non concedo che toccatine sul seno; se mi gira, gli faccio infilare le dita nei miei slip. Lo masturbo, lo faccio venire nelle mie mani. Ma null’altro, per adesso. Faccio pratica con te: sto imparando a prendere tutto il tuo uccello fino alla radice e a ingoiare quando sborri senza lamentele. Il giorno del suo compleanno gli farò provare il paradiso. Spero non si domandi dove io abbia imparato a fare dei pompini in modo così divino. Intanto la notte nel letto matrimoniale tu ormai vuoi sempre e solo me. Mamma dorme in camera mia. Quanto mi piace sentire le tue mani che mi cercano, mi frugano, mi palpano ovunque.
Mi desideri. Mi vuoi da impazzire. Ti piace la mia carne giovane e soda. I miei seni sono la tua ossessione. I miei capezzoli la tua droga. Si, certo: ogni tanto scopi anche mamma. Devi pur darle un contentino. Lei capisce e accetta, al fine di non perderti. E io devo assistere! Glielo hai chiesto in modo molto determinato e lei ha dovuto dire che per lei andava bene, che ormai ero una femmina fatta e adulta. Inoltre, ha affermato che io avrei avuto da imparare, da lei: solo guardando come fotte una donna di cinquant'anni comunque si impara molto. All’inizio era imbarazzatissima, povera donna. Arrossiva tutta. Poi però s’è sbloccata. Cazzarola: non avrei mai immaginato che mia madre fosse così porca ed esperta! Ti trattiene e ti stimola, ti dice che glielo devi dare tutto. Poi ti succhia il cazzo come una disperata e quando stai per venire, come si usa dalle nostre parti, ti infila una carota o una zucchina nel culo e tu perdi ogni ragione e vieni; ti fa urlare, dal piacere!
E ogni tanto la umili, la degradi e inseme a noi due le fai fare pure una cosa a tre! Ma... a lei piace un sacco! Che vera puttana, mia madre! Solo guardandola al lavoro e tenendo a mente i trucchi che adopera, capisco meglio come farti godere di più e come acquisire su di te sempre più potere. Perché inizio a realizzare solo adesso che ormai sei totalmente innamorato. Del mio culo, della mia fica e dei miei seni piccoli, sodi e giovani. Usando la mia bocca, ottengo ciò che voglio, da te. E mia madre intanto è ogni giorno sempre più serena. Finalmente.
“Sai, tesoruccio: in centro ho visto una mansardina per me che mi piacerebbe tanto tu acquistassi. Mi tornerebbe molto utile come punto d’appoggio, sia quando vado a scuola che quando sono in giro a far compere col mio ragazzo...”
Ripeto: ottengo ciò che voglio, da te!
RDA
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Un sogno che sembrava troppo reale.
Avvertenza:
Non si tratta di un racconto auto-biografico.
Ogni riferimento a persone o a cose è puramente casuale, perché è un racconto di fantasia.
È un racconto crudo, che va a toccare dei tabù. Alle persone che sono particolarmente sensibili consiglio di fermarsi qui, o alla prima sensazione di disgusto o di imbarazzo.
PRIMA PARTE
Ero appena tornata a casa dal lavoro e avevo lasciato che Dicky, il pastore tedesco di mia cugina, uscisse nel cortile sul retro per fare i suoi bisogni. Si, mi ero prestata alle suppliche di Carla per poterle tenere il suo cane per due settimane perché doveva fare una seconda luna di miele con suo marito. Dicky era un bellissimo pastore tedesco di un anno e mezzo, mia cugina mi rassicurò dicendo che era già addestrato e addomesticato e che non dovevo avere nessuna paura di Lui, anzi le sarei stata grata perché mi avrebbe protetta da qualsiasi minaccia e poi è abbastanza amichevole, cercò di indorare la pillola dicendomi che io già gli piacevo. Nonostante queste raccomandazioni ero pervasa da uno stato d’inquietudine perché non ero abituata a vedere un cane in giro per casa. Appena i due piccioncini varcarono la porta mi assali un senso di disagio dovuto al fatto che d’ora in poi sarei rimasta sola con questo cane. Non riuscivo a spiegarmi il motivo di questo nervosismo. Forse tutto questo era dovuto al fatto che avevo avuto sempre sentimenti contrastanti nei confronti dei cani.
La ragione era dovuta al fatto che quando ero all’università una mia amica mi confessò che si era lasciata leccare la figa dal suo cane e aveva avuto un orgasmo da favola. Rimasi sconvolta dalla sua confessione. La notte successiva sognai che stavo a letto e il cane della mia amica si era intrufolato nel mio letto e ha cominciato a leccarmi la figa, mi sono svegliata di soprassalto e mi sono ritrovata madida di sudore, la mia figa fracida di succo ed era bastato che toccassi con le dita il clitoride per arrivare in un modo pazzesco. Subito dopo mi sentii mortificata. "Come ho potuto lasciare che ciò accadesse?” fu la domanda che mi posi. Rimossi subito tutto e non ebbi più sogni di questo tipo.
Guardando Dicky, tutti quei sensi di colpa, di imbarazzo e di lussuria, provati per quel sogno mi tornarono in mente. Ebbi improvvisamente paura. Paura di ciò che avrei potuto fare, di ciò che avrei potuto voler fare ora che ero sola con quel cane. Ero consapevole del disagio che avevo provato quando mia cugina mi lasciò il cane. Dopo questo smarrimento iniziale, giusto per tranquillizzarmi guardai il cane e gli dissi “Immagino che siamo solo tu ed io, Dicky" per smorzare il nervosismo mi versai un bel bicchiere scotch e sorso dopo sorso lo bevvi tutto. Dicky si avvicinò e si sdraiò a terra accanto a me. Pochi minuti dopo, cominciò a sentirmi molto più rilassata mentre lo scotch si diffondeva nel mio corpo. Sentivo un piacevole calore diffondersi dentro di me. A un certo punto sentì i la zampa di DIcky appoggiarsi sul mio piede. "Adesso non iniziare a farti venire le idee", gli dissi ridacchiando, mi alzai per andare a letto, e guardandolo improvvisamente arrossii guardando il cane e pensai "È decisamente maschio". La punta rosa del suo cazzo sporgeva! Ero totalmente imbarazzata. "Non posso credere che lo sto guardando!" pensai.
Agitata, andai velocemente nella mia camera. Ero confusa e mi sentivo piuttosto calda per il rapido consumo di scotch. "Ho bisogno di una doccia fredda o di un bagno caldo", sorrisi. Mi spogliai completamente e mi sdraiai I sul letto quando fui presa da un’eccitazione inspiegabile. All’improvviso, sentii uno schianto nel soggiorno, a quel punto mi ricordai che non ero sola e un piccolo brivido mi percorse la schiena. Uscii dalla camera e mi diressi in soggiorno. Una delle lampade era rovesciata. Niente di rotto. "Fortuna per te, Dicky", e mentre lo dicevo, un piccolo brivido mi percorse tutto il corpo. Dicky si avvicinò, sbattendo la coda e strofinandosi contro la mia gamba. “Anch'io sono felice di vederti, pazzo. Ora smettila di rompere le cose”, mi voltai per tornare in camera e vidi Dicky che mi seguiva da vicino. "Dove pensi di andare?" Dicky mi guardò con entusiasmo. "No, tu resta qui." si voltò e raggiunsi la porta. In un lampo, Dicky mi fu dietro, lo spinsi via e mentre mi chinai per farlo il cane si spinse in avanti e mi leccò un seno, gli urlai contro.
Dicky perpretò un secondo attacco e con la lingua mi sfiorò l’inguine, lo respinsi ancora una volta ma con meno risolutezza, Dicky ne approfittò per fare un successivo attacco e mi sfiorò il clitoride, sentii una scossa elettrica attraversarmi tutto il corpo. Una volta entrata mi sdraiai sulla schiena con le gambe penzolanti oltre il bordo. Dicky mi segui e spinse il muso in avanti, costringendomi ad aprire le gambe. "Ehi, aspetta ragazzo, comando io qui", dissi con un po’ d’incertezza. Dicky m’infilò la lingua nel mio inguine bagnato. Ben presto cominciò a leccare con gusto. Sentì che mi stavo rapidamente avvicinandomi all'orgasmo. Dicky spinse insistentemente la lingua dentro di me. Sentì di cedere alle sensazioni impetuose mentre un orgasmo mi travolgeva, fui sopraffatta dal senso di colpa. Allontanai il cane e afferrandolo per il collare, feci uscire la sua testa dal mio inguine Dicky opponeva resistenza si avvinghiava a me e intravidi il suo cazzo ,era eccitato, io rabbrividii al solo pensiero, lo sentii scivolare lungo la gamba. "Oh Dio, allontanati da me", urlai, improvvisamente fui presa dal panico. Gli tirai di nuovo il collare, cosa che non fece altro che tirare il cane più in alto sul mio corpo. Lo sentivo, ora premeva contro la mia coscia. Avvertii un'improvvisa ondata di paura, unita a un'incredibile e improvvisa lussuria. Lo sentivo duro... e scivoloso! "Quando la punta mi toccò l'inguine, venni una seconda volta senza preavviso. Abbracciai il cane mentre le onde pulsavano attraverso il mio corpo. All'improvviso, l'orgasmo si calmò e spinsi via Dicky e corsi in bagno, sopraffatta dal rimorso e dal senso di colpa. Tremavo come una foglia. Sbattei la porta del bagno e la chiusi a chiave. Tremavo, sopraffatta dalla vergogna. Mi guardai allo specchio e distolsi lo sguardo. Non potevo credere a quello che era quasi successo e pensare che ero pronta a lasciare che accadesse. Mi sedetti sulla tazza del water stavo ancora tremando. Pensai all'orgasmo che fu improvviso e potente... e sbagliato. “Una cosa era”, pensai, “lasciarmi leccare finché non arrivassi. Ma questo…” sapevo nel mio cuore che tremavo non solo per la vergogna. Era anche lussuria e desiderio. Ma così sbagliato, così vergognosamente sbagliato. Rimasi seduta in bagno per più di un'ora, piangendo e torcendosi le mani, sperando che Dicky tornasse nel suo letto in soggiorno. Alla fine mi decisi a uscire e Dicky non c’era, era davvero nell'altra stanza. Corsi in camera e mi fiondai sul letto, dove immediatamente crollai sopraffatta.
P.S.
Le parti che seguono le posterò solo su richiesta e in privato, a meno che ci siano un numero importante di likes (almeno 10). In questo caso proseguirei a postarli in pubblico.
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E' ora di bilanci, me lo ripeto, me lo ripeto e me lo ripeto, ripensando a quanto abbia fatto schifo questo anno e quanto, invece, avrebbe potuto essere migliore. Avevo due strade, scegliere me o togliere pezzi di me nel tentativo di incastrarmi in un cuore che per me non aveva spazio. Ho scelto la seconda e me ne sono presa tutte le conseguenze. Non ho avuto attimi di luce, non c'è stato un continuo sentirmi amata e rispettata; era tutto un urlare senza mai essere sentita, era un sentirmi perennemente messa all'ultimo posto, ho scelto una persona che mi ha resa invisibile. E' ora di bilanci, ed il bilancio di questo anno, si chiude in negativo. Negativo perché ho lottato per una persona che non muoveva nemmeno un dito per me, però mi riempiva le orecchie di parole e promesse, di cazzate; negativo perché non mi sono mai arresa ed ero lì sempre, a tentare, a provare, per poi sentirmi dire che ero invadente. Il mio desiderio di chiarire, di amore e di rispetto, di essere presa in considerazione era invadente. Ha fatto talmente male che avevo perso la mia luce, l'amore non ti fa questo, no? Mi ero promessa che mai nessuno avrebbe avuto il potere di mancarmi di rispetto, di invalidare i miei sentimenti ancora una volta, e invece. Mi sono fidata di un cuore egoista, di un cuore apparente, è stato stupido da parte mia credere che sapere di tutto il mio dolore, gli avrebbe fatto venir voglia di proteggermi, come un qualcosa di cui aver cura. Ma no, no, sono stata proprio io a dargli la pistola carica ogni volta, a dire "spara ancora, mira meglio", e lo ha fatto. Non vorrei essere lunga, ma questo anno è stato pazzesco. Però ho capito cosa non voglio al mio fianco, una persona che non sa tenermi e non vuole nemmeno lasciarmi andare, ferma tra i "forse" i "se" ed i "ma", tra le incertezze che non merito più. Io che quando amo, amo in modo saldo, fermo, forte, sicuro; non merito di essere uno stupido forse nella vita di chi non sa cosa vuole. Quando mi sono ritrovata a fare i conti con una me che avevo messo in ripostiglio, mi sono accorta che lì per me non c'era più nutrimento e dovevo andarmene il prima possibile. Quindi ho preso il mio cuore a pezzi e sono scappata, tornando da chi invece, mi amava davvero, e lì ho trovati tutti lì pronti ad accogliermi. Ho fatto delle nuove promesse a me stessa, mi sono estraniata da tutto, ho preso le distanze dalle persone e il telefono non squilla più. Nessuno mi cerca, nessuno mi guarda, nessuno mi vede. Non voglio più essere vista solo per prendere da me quello che fa comodo, voglio camminare nella mia pace adesso, lontano da tutti. Questo dolore forse mi serviva, mi serviva per imparare a non mettermi più da parte, a non rimpicciolirmi più solo per stare in posti stretti che non appartengono a me, solo per un briciolo di amore. Non mi importa più sapere perché, non mi importa più sapere l'altra versione della storia per poter controbattere che "non è vera!". In amore io non scappo mai, resto fino alla fine, fino a quando capisco che se mi fa male, non è amore. Non mi importa più capire; ho dato tante possibilità che sono state gettate al vento perché era più facile dare per scontata la mia presenza, fino al giorno in cui di me ne resta solo l'eco. Insomma, quest'anno mi ha insegnato cosa non è l'amore, ancora una volta. Quindi mi sto ricostruendo, più distaccata dagli altri, più attaccata a me. Un giorno sarò amata senza mai dover chiedere di essere rispettata, un giorno sarò amata proprio nello stesso modo in cui amo. Ho letto una frase molto bella che dice "e se mai l'amore dovesse ritrovarmi, spero che sia con qualcuno che tremi all'idea di ferirmi", ecco, è così che spero che sarà. Ma so che il mio viaggio adesso non riguarda l'amore, riguarda me. Devo prendermi cura di quella bambina della quale tutti si sono presi gioco e conoscere quella donna che permette agli altri di farla sentire meno di quella che è. Questo anno è stato tremendo, ma sono viva e sono grata di ogni giorno in cui respiro. In fine, vi auguro di riuscire a distinguere sempre un cuore sincero da uno codardo.
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Il comunismo cosmico di Franco Piperno - Jacobin Italia
Il comunismo cosmico di Franco Piperno - Jacobin Italia https://search.app/77gv63Re1jyNniS48
Il comunismo cosmico di Franco Piperno
Giuliano Santoro
15 Gennaio 2025
Dalla terribile bellezza del lungo Sessantotto al municipalismo, sempre osservando e raccontando le stelle: addio a Franco Piperno
Nella mia infanzia, al nome di Franco Piperno associavo una specie di brigante- licantropo. Mio padre mi portava ad Arcavacata, nel campus dell’Università della Calabria, a vedere «i lupi di Piperno». Cominciavamo a girare attorno alla rete al di là della quale vivevano i lupi. Mio padre certe volte prendeva un bastone e lo batteva sulla recinzione, perché venissero fuori e li potessimo vedere. Una volta uscirono fuori dagli arbusti all’improvviso, come accade nei film di paura quando la colonna sonora accompagna la tensione fino a farla esplodere. Grosso spavento e poi grosse risate. Chissà se quel Piperno, che Andrea Pazienza disegnava coi peli lunghi che uscivano dalle orecchie (appunto, un licantropo), ci guardava dal suo nascondiglio, con cappello a falde larghe, mantello e stivali.
Ma perché, poi, se ne stava rintanato? Quale sceriffo gli dava la caccia e quale reato gli veniva imputato? Mio padre non me lo spiegava e io non glielo chiedevo. Uno si immaginava questo signore che si era dato alla macchia, ma che allevava a distanza addirittura dei lupi. Venne fuori un altro indizio sulla licantropia del Pip. Proprio lui, «quello dei lupi» era anche solito uscire di notte e guardare le stelle.
Siccome la vita è fatta di cerchi che si chiudono e di anni che ritornano, a vent’anni dal mio primo incontro coi lupi finalmente chiesi a Pip quale fosse la loro storia. «Me li regalò un mio amico del dipartimento di ecologia dell’Università della Calabria che si occupava di lupi e di falchi – ha raccontato Pip – Li allevai amorevolmente, li allattai, li seguii, li filmai. Quei cuccioli mostravano un rapporto con la vita e con la violenza senza nessuna sbavatura e ridondanza. Era una dimostrazione di essenzialità. Sembravano chirurghi, quando azzannavano i conigli vivi». Ma perché li tenevi rinchiusi, Pip? «Volevo loro molto bene. Ne ero affascinato, ma ero costretto a tenerli in quel recinto. Altrimenti avrebbero azzannato le pecore dei contadini e quindi sarebbero stati uccisi. La natura aveva fornito loro un’autonomia totale, ma erano finiti per benevolenza umana in un recinto». In tutto ciò, Pip riconosceva la metafora della sua generazione: «Mi parlavano di quanto accadeva a molti dei miei compagni ed amici e un po’ anche a me stesso. Penso in particolare a mia moglie Fiora, che era stata condannata a dieci anni di galera per associazione sovversiva». Come finì? «Per otto mesi non mi staccai da quei lupi. Poi ricevetti anche io un mandato di cattura e non mi parve il caso di scappare con due lupi, era troppo complicato. Allora il rettore dell’università li accolse in quel grande recinto del campus di Arcavacata».
La storia dei lupi, della loro autonomia e della loro selvaggia potenza costrette dentro una prigione dimostra che Franco Piperno, scomparso a Cosenza il 13 gennaio 2025 a 82 anni, conosceva bene l’arte della retorica e della seduzione linguistica, usava gli aggettivi e gli avverbi da consumato spadaccino della discussione. Come un lupo coltivava l’agguato. Come quando ci spiegava che nel Sessantotto si era smesso di investire sul futuro e si era scelto di giocare tutto sul presente. Era stato il movimento statunitense, diceva Piperno, che «aveva indicato la possibilità di sostituire alla lotta per la presa del potere la sperimentazione collettiva di una diversa vita civile, basata sulla produzione autonoma di relazioni comunitarie, capaci di far posto al corpo, cioè alla sensualità e al piacere». Precisava: «Questo è un punto decisivo perché è come praticare l’esodo, dove esodo non significa più, come gli antichi ebrei, andare via dall’Egitto per raggiungere la terra promessa; piuttosto lasciare emergere un diverso Egitto dal suo stato di latenza».
Piperno dalla Calabria si era spostato, da studente, a Pisa e poi a Roma. Cacciato dal Pci per «frazionismo», era stato tra i fondatori di Potere operaio, con Toni Negri, Oreste Scalzone, Sergio Bologna, Mario Dalmaviva e tanti altri. Era una delle organizzazioni che si formarono nel contesto del lungo Sessantotto italiano ma anche la prima ad autosciogliersi, nel 1973. «Toni dice che eravamo una specie di strana massoneria – mi raccontò una volta, col consueto sarcasmo – Era difficile entrare ma una volta che eri dentro tolleravamo qualsiasi follia». Si differenziava da alcuni suoi compagni di strada che si sono formati alla formidabile scuola della «nefasta utopia» dell’operaismo politico, come la chiamava sarcasticamente Franco Berardi Bifo in un saggio di qualche anno fa. Non cercava nessuna centralità lì dove è più alto lo sviluppo capitalistico. Ma manteneva una caratteristica dello stile operaista, che lo preserva da qualsiasi forma di teorizzazione prescrittiva e lagnosa. La si riconosceva quando affermava che il comunismo, inteso come abolizione della riduzione della forza-lavoro a merce, non bisogna costruirlo magari armati di buone intenzioni e libretti rossi. Esso è già in atto. La potenza della cooperazione sociale è già, qui ed ora, più forte della solitudine del capitalismo. Bisognerebbe prenderne atto, dunque, e per questo vivere meglio. «La festa sessantottina è ritrovare l’interezza dell’essere – scriveva ancora Pip – dove nulla eccede o esclude, per essere completamente sé stessi, occorre fondarsi con gli altri nel tutto; come quando nel carnevale si è donne uomini animali, tutti insieme ebbri fino al punto che l’orgia appare sulla soglia, come assolutamente possibile».
Negli anni del ritorno in Calabria, dopo l’esilio in Canada e Francia a seguito della persecuzione giudiziaria che dal 7 aprile del 1979 in poi colpì lui e tanti suoi compagni e compagne, si occupò di Sud, del rapporto tra sviluppo e ricchezza sociale, della critica del tempo lineare del capitale. Prese la cattedra di fisica della materia e promosse, a Cosenza, la nascita dell’emittente comunitaria Radio Ciroma e lanciò in tempi non sospetti, ben prima dell’epoca di Porto Alegre e della democrazia partecipativa su base locale, la suggestione del municipalismo: «Potere alle città, potenza ai cittadini». Un piccolo aneddoto per dire della capacità di stare nelle cose del mondo. Erano i primi anni Novanta quando, ospite di una tribuna elettorale per esporre il programma della lista civica comunale che aveva messo insieme ai suoi, impiegò il tempo che gli era concesso per tessere l’elogio del locale collettivo di studenti medi che si dedicava alla crescita comune e al mutuo appoggio invece che per chiedere esplicitamente voti. Il dettaglio sta nel fatto che quegli adolescenti (mea culpa: quando si è così giovani si ha il diritto di essere estremisti) impegnavano parte del loro tempo anche a criticarlo duramente, imputandogli una qualche deviazione da chissà quale ortodossia rivoluzionaria. Chapeau, Franco.
Divenne, sempre a Cosenza, per due volte assessore «al planetario» e al traffico. Ruolo che interpretò invogliando gli agenti della polizia locale ad applicare con rigore il codice della strada per dissuadere i suoi concittadini dall’uso dell’automobile anche per i piccoli tratti. E uno dei suoi vecchi compagni infilò una battuta fulminante: «Finalmente Franco è davvero a capo di una banda armata». La sua nomina ad amministratore la si deve a Giacomo Mancini, segretario socialista prima di Craxi e ministro che concluse nella sua Cosenza la sua carriera politica. E che in nome del garantismo aveva difeso Piperno e tutti gli autonomi imputati. C’è una scena che rivela cosa rappresentasse Mancini all’epoca della grande repressione. Il 9 marzo del 1985 la polizia aveva ucciso a Trieste il militante dell’autonomia Pietro Pedro Greco, sparandogli addosso con la scusa che aveva scambiato un ombrello per un fucile. I funerali di Pedro si tennero nel suo paese d’origine, un villaggetto della provincia di Reggio Calabria. Bisogna immaginare che clima ci fosse: pochissimi compagni, affranti e braccati, con le bandiere rosse nel paesaggio lugubre della temperie degli anni Ottanta. A un certo punto davanti alla chiesa si fermò un’automobile e ne scese il leader socialista. Era l’unico personaggio politico a partecipare alle esequie e chiedere giustizia per quella morte.
Le analisi di Piperno di questa fase mettevano insieme l’osservazione filosofica e antropologica delle forme di vita meridiane con la strabiliante capacità affabulatoria di quando raccontava il cielo. Chiunque abbia avuto la fortuna di fare un’uscita notturna nei boschi con lui per assistere allo Spettacolo cosmico che metteva in scena spiegando le stelle, non può dimenticare il modo in cui teneva insieme nozioni astronomiche, narrazioni mitologiche, considerazioni esistenziali, divagazioni politiche. Era un modo di mettere in pratica la convinzione che le diverse materie erano fatte per essere mescolate, messe a confronto, intrecciate e che non esisteva la neutralità del metodo scientifico. Questo doveva essere il senso dell’università, sosteneva Piperno: un luogo in cui tutti i saperi si incontrano, oltre la gabbia delle discipline.
Quando, nel 1978, le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, Piperno era già tornato in Calabria, a insegnare Fisica della materia all’università. Capì che la morte del presidente della Democrazia cristiana sarebbe stata un disastro per tutti i soggetti in campo e si adoperò per salvargli la vita, approfittando anche del fatto che nel frattempo alcune sue vecchie conoscenze del Potere operaio romano avevano scelto di entrare nelle Brigate rosse. Gli rimase appiccicata una formula, quella che invitava a coniugare la «geometrica potenza» di via Fani con la «terribile bellezza» degli scontri di piazza del 12 marzo del 1977 a Roma. Era un modo per dire che ogni forma di scontro, anche la più radicale, non avrebbe dovuto prescindere dalla dimensione di massa. Ma la formula, che lui stesso avrebbe definito dannunziana, passò per l’esaltazione del terrorismo. Sempre alla Commissione parlamentare d’indagine sul terrorismo, Piperno disse senza mezzi termini ciò che pensava di quella vicenda e dei motivi che lo spinsero a immischiarsi nell’affaire: «Le Br erano davvero convinte che si potesse interrogare Moro e scoprire i legami con gli Stati uniti – affermò – C’era un livello di analfabetismo politico nel gruppo dirigente delle Br che faceva paura e che peraltro secondo me traduceva la situazione ingarbugliata del paese».
Accanto a saggi pensosi e a scritti densi (molti dei quali raccolti negli ultimi tempi dalla rivista online Machina), Piperno era abilissimo nel motto di spirito, nella risposta ironica lapidaria e dalla logica stringente, maneggiava paradossi che ti mettevano con le spalle al muro. A un interlocutore che in un programma televisivo gli rinfacciava di aver esaltato l’uso della violenza, replicò trasecolato ricordando con una metafora iperbolica il contesto della «piccola guerra civile italiana» degli anni Settanta: «Mi chiede se la violenza è giusta? È come se mi chiedesse se cacare è bello. Cacare non è giusto, è inevitabile». In un’altra occasione, venne accusato di aver favorito coi suoi amici sessantottardi la pratica del libero amore, contro la famiglia tradizionale: «Noi non costringevamo nessuno – replicò Pip, sinceramente sgomento – Se uno voleva essere libero poteva farlo, ma non era obbligato. Con noi a volte c’erano anche preti e suore, nessuno li costringeva al libero amore».
Una vita talmente piena, colma di tentativi, errori, sconfitte avventurose ed esperienze irripetibili, viene riassunta dalle cronache con formule giudiziarie e immaginette pigre e precostituite. Delle quali Piperno era consapevole. Anzi, ci giocava. Una decina di anni fa mi trovai con Franco a Torino, per un dibattito al quale avremmo dovuto partecipare. A un certo punto entrammo in una piccola rosticceria di fronte a Palazzo Nuovo per mangiare un boccone. Venne fuori che anche la signora che ci serviva al bancone era di origini calabresi. Allora attaccammo discorso. Lei era evidentemente sedotta dal suo eloquio elegante. (C’era un vezzo, non solo di Franco devo dire, che portava a mescolare il linguaggio di tutti i giorni a parole d’altri tempi: gendarme per dire poliziotto, malfattore per dire bandito, querulo per dire piagnone e così via). «Ma sa che non si sente molto che lei è di giù? Che mestiere fa?», gli disse la locandiera. Lui rispose con gli occhi di ghiaccio che ridevano, l’inconfondibile erre arrotata e i peli che gli uscivano dalle orecchie ben pettinati: «Dev’esserhe che sono stato in prhigione».
* Giuliano Santoro, giornalista, lavora al manifesto.
# Franco Piperno
# fondatore e dirigente di Potere operaio 1968
#università della Calabria / professore di fisica
# esilio in Francia e Canada
Brillante e raffinato intellettuale, rivoluzionario alla luce del sole ( citazione da "Il Manifesto), mai contraddittorio. Uomo profondamente legato alla sua terra di origine : la Calabria.
13 /1/2025 C' è luna piena e Venere e le stelle.. Buon viaggio. 🌹💫💫💫
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Immagina di essere nata femmina, tua madre ti ha messo al mondo e, insieme a tuo padre, hanno voluto chiamarti Imane, fede.
Immagina che, mentre cresci, capisci di avere una passione, la Boxe. Ti alleni, gareggi, vinci, hai un dono.
Sei molto forte ma crescendo noti che il tuo corpo non è come quello di tutte quelle che ti circondano, e capisci che hai qualcosa di diverso. Un livello ormonale di testosterone più alto.
E non lo noti solo tu, ma te lo fanno notare ogni volta che sali sul ring misurandolo.
Immagina di esserti sentita sempre donna, di non aver mai modificato niente nel tuo corpo. Tra l'altro cresciuta in un paese dove la transizione è illegale, ma a te che importa? Sei donna e lo sai.
Immagina di gareggiare più volte, prenderti tutti quei pugni, cadere, rialzarti ed essere squalificata. Più volte, tante volte. Un sorriso, e si va avanti, sperando nella prossima.
Immagina di salire sul ring con una Irlandese, Kelly Herrington (tanto per citarne una) 1-0 per lei, la prima, la seconda, la QUINTA VOLTA. Hai perso ancora, ti sei presa i pugni più forti della tua vita e non sei riuscita a mettere nemmeno una volta k.o. quell'altra donna davanti a te che ti ha massacrato.
Eppure, lei non aveva tutto questo testosterone di cui parlano, nessuno si è chiesto come mai ti abbia battuto.
Immagina di essere squalificata perchè quella volta avevi un livello di testosterone più alto rispetto ai criteri richiesti.
Immagina di andare alle olimpiadi, anni di lavoro, di allenamento, di sacrifici, un sogno. Questa volta il livello di testosterone è nella norma, va tutto bene. E immagina poi di essere definita "Uomo algerino" dai giornali italiani. Di ritrovarti oggetto di un'ondata di odio e discriminazione di cui non volevi far parte e di essere chiamata trans, solo perchè per qualcuno non sei abbastanza donna.
Dai il primo pugno, circa 30 secondi, ancora non ti sei nemmeno caricata per il round. Vedi la tua avversaria andare all'angolo, piangere, dire che fa male. Sei confusa, certo che fa male, è un pugno, ne hai presi migliaia anche tu.
Il round finisce ancora prima di iniziare, ti dispiace, giorni prima sei stata inondata di polemiche, di dubbi, di ansie. Ti avvicini a lei, per salutare, per dare una mano, quella famosa solidarietà femminile. Ma no, tu non sei donna, non sai cosa sia. Infatti, ti gira le spalle, piange, se ne va e tu rimani lì, non sai che fare.
Che colpa hai?
Nessuna. Sei nata donna, con qualche anomalia, ma sei donna. Eppure per i politici italiani non lo sei, uomo algerino, trans.
Non vorrei entrare nel merito, mi dispiace per la Carini. Sicuramente il tormento mediatico ha avuto un grosso impatto. Però, dai, stiamo parlando di olimpiadi di Boxe, in cui ha partecipato una campionessa italiana chiamata Tiger, fiamme oro della Polizia di Stato, mica danza classica.
(Grazie a Monia Ben R’houma per questo testo bellissimo e pieno di empatia)
Fonte fb
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La patente è arrivata in un momento in cui io consideravo morta e sepolta la possibilità di prendere una macchina, di guidare: sebbene avessi sognato più volte di guidare (ovviamente male, perché per me sono sempre esistiti solo freno e acceleratore e nello specifico solo acceleratore e forza frenante del motore, maldetta frizione!) non mi interessava più, anzi mi dicevo che sarebbe stato bello riuscire a spostarsi coi mezzi pubblici, treni autobus, camminare a piedi. Vivevo in un paese campano che rimarrà forse il mio unico rimpianto del sud italia perché era ben strutturato: a piedi raggiungevo e facevo tutto, avevo il centro storico, il centro commerciale, farmacie a volontà, dottoressa vicino casa, un sacco di supermercati, un partito comunista, manifestazioni in piazza: tutto raggiungibile a piedi. Rimpianto perché in quanto sud non puoi campare e la gente è molesta per natura e dunque sono dovuta scappare anche da lì. Della patente, insomma, a me non me ne fregava niente, non ci pensavo affatto. Mentalmente ero ancora abbastanza inguaiata, andava meglio ma non andava bene: ero tesa come una corda di violino, il mio corpo era un fascio di nervi e questo si ripercuoteva sulla guida: l'istruttrice fece una grandissima fatica, sudava appresso a me che ero grondante di sudore terrorizzato. Iniziare a guidare è stato un trauma: ero terrorizzata dal fatto che quell'abitacolo, quell'aggeggio enorme non solo era "comandato" da me, ma mi toglieva letteralmente il terreno sotto i piedi (a questo proposito aggiungo che io ho avuto problemi anche col tapis roulant perché appunto c'era questa passerella che si muoveva in maniera "autonoma" ed io avevo paura di non riuscire a controllarla. Cosa c'entra con la guida di un auto? Beh, è la stessa identica cosa dato che ho paura di perdere il controllo). Poi io ho bisogno di capire quello che sto facendo, devo farmi uno schema in testa, non riesco a buttarmi e capire dopo, io devo sapere prima. Beh, io non riuscivo a capire cosa stavo facendo e dunque non riuscivo a rilassarmi. Comunque, alla fine sono riuscita a prendere questa benedetta patente. L'ho presa per grazia divina perché appunto l'esame fu terribile ed infatti io non ero nemmeno felice di quella patente perché non era "meritata", cioè io non riuscivo ancora a guidare, ero insicurissima ed immaginavo violentemente ancora un incidente ad ogni minimo incrocio (non riuscivo nemmeno a stare dritta nella mia carreggiata). Infatti presa la patente non ho più guidato.
La macchina invece è arrivata in un momento in cui non doveva arrivare e cioè circa un mese fa: senza lavoro, a soldi prestati (come d'altronde anche la patente), lontana da tutti, in un posto che nemmeno conosco perché chi cazzo c'è mai stata in provincia di bergamo. Sapevo che mi sarei dovuta prendere una macchina prima o poi, perché qua è tutto scomodo come in sicilia, ma avevo progettato di acquistarla in un altro momento. Reiniziare a guidare è stato semplice e soprattutto divertente: è cambiata la testa, le medicine sono servite a qualcosa. Ho fatto qualche guida assieme ad una istruttrice della zona e mi sono divertita un sacco, la sua guida è stata preziosa e lei una persona veramente gentile (oltre che strana, come tutte le persone della zona: io a tutta questa educazione non ci sono abituata e soprattutto non sono abituata a chi dice "Un quarto alle 9") ed esaltata, ovviamente pure lei di discendenza siciliana ma ormai lo so che la sicilia me la ritroverò ovunque: d'altronde i pomodori che ho comprato venivano proprio dalla città dove sono nata. Io adesso comunque guido: la macchina mi odia perché la faccio singhiozzare sempre e perché non cambio adeguatamente le marce, per non parlare di tutte le volte che la faccio spegnere o che resto appesa in una salita perché non so bilanciare bene frizione e acceleratore; la frizione mi deride perché sa che ho un odio e una repulsione spontanei nei suoi confronti; la gente quando mi guida dietro si mette a ridere quando proprio non mi bestemmia ma qua nessuno mi ha mai suonato, al massimo mi sorpassano. A volte penso che guidare è una gran bella cosa, che spero di avere i soldi prima o poi per farmi un bel pieno, pagarmi i pedaggi e andare che ne so a milano o robe simili. Penso che dovrei approfittarne del fatto di potermi spostare tranquillamente, per poter andare in posti dove ho sempre voluto andare, mi dico: wow, ma qua ho tutto così vicino! Persino voi tumbleri siete così vicini, se ci penso! A tutta questa libertà di movimento è difficile abituarsi, per una che ha sempre vissuto entro i confini di un'isola e della miseria. Certo, se arrivasse un lavoro sarebbe pure cosa gradita (mi correggo: se arrivasse un'entrata mensile, che poi si debba passare per il lavoro è solo una triste parentesi disumanizzante) ma poi penso che male che vada ho un tetto sotto il quale poter dormire: la mia auto.
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DIAMANTI
Nel film di Ferzan Opzetek c’è una battuta, fatta da una sarta, che potrebbe passare inosservata, ma che in sostanza riassume il film quando, rivolgendosi ad una collega, dice che se la costumista Bianca Vega ha vissuto a Parigi, Londra e New York, lei è stata solo a Morlupo. In quello sperduto paese un mio zio frequentò il seminario. Ecco, se vogliamo azzardare, potremmo dire che Opzetek, che si ostina a considerarsi un regista geniale, sembra conoscere bene Morlupo ma non Parigi, Londra e New York e riesce a mettere insieme un film provinciale e raffazzonato, senza alcun sviluppo, moralista e prevedibile. Troppo severo? Può darsi, ma davvero non capisco come Ferzan Opzetek che pur sembra essere persona colta e intelligente, debba essere prigioniero del giro delle attricette da fiction, dove, paradossalmente, la più credibile sembra essere Mara Venier, nei panni della factotum della sartoria-comune femminista. La storia, per così dire, è appunto ambientata in una grande sartoria degli anni Settanta, che funge anche da casa comune di un gruppo di sarte ed è diretta da Alberta e Gabriella Canova (nemmeno i nomi sono troppo originali), dove il nutrito gruppo di sarte deve confezionare i costumi per un film seguendo le indicazioni della costumista Bianca Vega (altro nome improbabile). Il febbrile lavoro è raccontato in maniera più che prevedibile e Opzetek costruisce una galleria di personaggi altrettanto prevedibili, direi stereotipati, incentrati tutti su un panfemminismo di maniera che trova il suo elemento di spicco in una insopportabile Geppi Cucciari, molto cabarettista e poco attrice, che non rinuncia alla battuta completamente fuori luogo. Non si comprende bene se il soggetto del film sia il lavoro coniugato al femminile oppure la presa di coscienza delle donne. Probabilmente entrambe le cose, ma questa duplicità di intenti rende il film debole, confuso. Inoltre non si può non notare come Opzetek, ancora una volta, faccia il pieno di tutto il “romanismo cinematografico”, con la solita tavolata conviviale e con la presunzione di fare del metacinema, con riprese-verità sulla preparazione del film, pensando forse di aver scritto qualcosa di simile a “Sei personaggi in cerca di autore”, ma senza rendersi conto di aver girato solo una specie di fiction e nemmeno della miglior qualità. Se proprio, scavando a fondo per cercare qualcosa di positivo, potremmo dire che l’ambientazione dell’azione in una sartoria risulta essere una scelta originale, anche se il paragone con “Il filo nascosto” del geniale Paul Thomas Anderson, appare del tutto naturale e dal cui confronto, il povero Opzetek esce piuttosto malamente.
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E siamo arrivati alla fine di una settimana di ferie presa un po' così, a cazzo (ma in realtà con un motivo nobilissimo: avevo la nausea solo al pensiero di dover fare quel lavoro, il che significa che se si è saggi e si può farlo è bene staccare un po').
E' stata una settimana riposante? No: non sono stato granché bene, ed in più i motivi di stress sono stati molti. Però ho effettivamente staccato dal lavoro, e questo comporta anche che domani, al mio rientro, avrò quantomeno un piccolo effetto positivo (dove eravamo rimasti?) e, magari, mi farà anche bene vedere i colleghi per qualche giorno.
Ho più o meno concluso la questione dei regali di natale, sono uscito pochissimo, ho cucinato qualche volta, mi sono depresso, non ho guardato neanche un film, se ho avuto tempo per giocare l'ho dedicato tutto all'ultimo Dragon Age (e non l'ho manco finito...) ho disegnato poco.
Ma: ho suonato il pianoforte. Ho ripassato qualcosa per la chitarra e sono andato a lezione. Sono andato alla cena aziendale e ho bevuto l'impossibile (bruciandomi completamente qualsiasi efficienza per il giorno successivo, ma tant'è). Ho imparato a fare trappole per moscerini. Ho finalmente pulito per bene la cucina. Ho anche, tutto sommato, mangiato in maniera piuttosto equilibrata.
Insomma, poteva andare meglio, poteva andare peggio, chi lo sa. Di fatto, è passata. Ora via, verso le ultime settimane dell'anno, fino al countdown, fino a quello che verrà dopo, qualsiasi cosa sia.
I miei buoni propositi per il 2025 ve li dico un'altra volta.
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Davvero invidio chi riesce a scendere dalla barca dei simuel perché io mi sto solo disperando.
Tra l'altro più tempo passa più i mimmone non mi piacciono. Simone è mio figlio, Mimmo mi piace, ma insieme non riesco a vederli. La loro storia è sempre di più una copia fatta male della trama della prima stagione per Manuel e Simone. Accetterò queste scopiazzature solo se non sono una coincidenza e Simone arriverà a capire che cercava in Mimmo quello che ha avuto con Manuel, perché altrimenti è una presa in giro. Perché se le scopiazzature sono nate per farci dire "oh la coppia che ci piaceva nella stagione 1 faceva le stesse cose, allora ci piace anche questa coppia nuova" vi assicuro che non funziona, anzi mi renderebbero i mimmone solo più indigesti. E se chi segue la serie occasionalmente o l'ha vista solo una volta potrebbe non farci caso (anzi, mi rendo conto che tanti che shippano i mimmone la prima stagione non l'hanno vista, quindi ci sta che non capiscano tanti nostri ragionamenti), noi che siamo così affezionati ai personaggi e alla storia e in 2 anni abbiamo fatto 1000 rewatch lo notiamo eccome e se tutto non avrà un senso darà solo fastidio. Tra l'altro ulteriore motivo per cui non mi piacciono i mimmone è che Simone sta perdendo parte della sua personalità e rilevanza, pare ridotto a un cagnolino su cui Mimmo scarica i suoi problemi e che coinvolge in prima persona nei suoi giri loschi dopo avergli già fatto prendere una sospensione per l'aggressione a Ernesto (non con cattiveria e capisco che ha paura, ma comunque non è una cosa sana e anzi è pericolosissimo e non da romanticizzare), invece con Manuel era diverso perché Simone era sì un sottone, ma allo stesso tempo litigavano, facevano pace, costruivano un rapporto di fiducia e amore passo dopo passo e soprattutto erano entrambi sullo stesso piano anche narrativamente parlando. Certo, ogni tanto Simone accompagnava Manuel quando lui aveva da fare i suoi impicci, ma Manuel non ha MAI permesso che si esponesse e che venisse coinvolto direttamente (quando è successo è perché Simone ha fatto tutto da solo, senza che Manuel lo sapesse e quando quest'ultimo l'ha scoperto ha fatto di tutto per fermarlo).
Forse siamo esagerati, ma per molti di noi questa fiction è stata una luce in un periodo buio ed è normale che ci teniamo. Inoltre avere i Simuel non significa solo avere Manuel e Simone insieme, ma anche una rappresentazione della bisessualità che ora pare essere stata completamente accantonata.
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Da ché ho memoria, uno dei sentimenti che mi ha sempre accompagnato è stata la vergogna.
Vergogna del mio corpo, del mio carattere, dei miei comportamenti, curriculum o frequentazioni.
Ma soprattutto vergogna delle mie stesse emozioni, del mio sentire.
Ho combattuto mille battaglie con la mia vergogna, poi ho capito che l'unico modo per uscire da questa lotta era fargli spazio dentro di me, e lasciarla parlare di tutti quei traumi e bisogni affettivi insoddisfatti e negati di cui portava ancora le cicatrici.
E prendermene cura io stesso.
La vergogna di ciò che senti, è una gabbia molto stretta: perché quello che senti è quello che sei.
Quando cresci in un ambiente giudicante e anaffettiva, il massimo che puoi fare per esistere in quel deserto è non esistere.
Se non esisti, infatti, nessuno ti può fare del male.
Non soffri più, o comunque molto di meno.
Per mettere in atto questa operazione, tuttavia, occorre prima che tu ti giudichi a tua volta, rinnegando tutti quegli aspetti di te che gli altri hanno giudicato.
È un vecchio gioco questo, in cui la vittima, per uscire dalla gabbia che il carnefice gli ha costruito, applica su di sé i supplizi e le torture che egli gli ha inflitto.
In questo modo il bambino sente di avere un certo controllo sulla realtà, perché, identificandosi con il proprio carnefice, lo interiorizza, facendolo diventare una parte della propria stessa personalità.
Ha presa sulla dinamica che lo fa stare male.
Dunque assume i valori, i comportamenti, e le regole morali dei propri aguzzini, neutralizzando tuttavia le istanze della propria anima, la quale evidentemente non ha trovato un luogo d'origine in cui abitare.
Il giudice, da esterno diventa interno.
In questa maniera, si costruisce giorno dopo giorno la propria corazza.
Essa nasce nel momento in cui decidiamo di non soffrire più, adattandoci come possiamo a un ambiente ostile.
Tuttavia, in questo modo ci ingabbiamo da soli senza nemmeno accorgercene.
Ecco perché poi non riusciamo ad affermarci, a esprimere rabbia, a provare certe emozioni, a mollare una relazione tossica o ci infognamo negli stessi copioni.
Come spiego nel mio nuovo libro infatti la corazza rappresenta sia un meccanismo di difesa, ma anche di adattamento.
Avendoci permesso di sopravvivere, ci siamo così affezionati che non vorremmo mollarla mai.
Così, la vergogna non è stata altro per me che un meccanismo di difesa e di adattamento per farmi sopravvivere a un ambiente giudicante, senza profondità né empatia, rispetto al quale ero al tempo stesso profondamente dipendente.
La vergogna mi ha permesso di sopravvivere, perché era il segno di una sottomissione all'altro e ai suoi giudizi spietati, di un mio essermi messo docilmente da parte, e dell'aver compiaciuto, assorbendone la visione, i miei carnefici.
Essa rappresenta una larga fetta della mia corazza, e, seppur scomoda, mi è sempre molto difficile mollarla quando voglio essere davvero chi sono, ed esprimermi in piena libertà.
Tuttavia, sono orgoglioso di aver aperto numerosi varchi nella mia armatura invisibile, tali da riuscire ad apprezzare comunque il valore della scoperta, della meraviglia, del piacere, della condivisione e dell'apertura del cuore.
Anche attraverso post come questo.
Auguro a tutti voi di guadagnare ogni giorno un metro in più lungo la strada che vi porterà alla vostra anima.
E se doveste perdervi, vi auguro comunque di trovare sempre la forza di farvi ritorno.
Il vostro bambino interiore sa benissimo che i draghi esistono, e che il segreto per uscire dalla paura non è sconfiggerli: ma prenderli per mano e farseli amici.
Omar Montecchiani
#quandolosentinelcorpodiventareale #armaturainvisibile #sistemidifensivi
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Ma come hai fatto? (La mia prima volta)
Sono una donna che nella vita non ha mai avuto troppe incertezze. Cresciuta ed educata secondo sani princìpi. La serietà, la coerenza, il non lasciarsi andare, l'impegno e l'evitare frivolezze sono sempre stati gli elementi base del mio carattere. Distacco, sobrietà e contegno. L'amore io lo immaginavo in fondo come un rapido passatempo, probabilmente addirittura quasi una seccatura, uno spreco di tempo ed energie che potrebbero essere utilizzati meglio, un ostacolo alla produzione lavorativa e alla realizzazione di sé. E invece sei arrivato tu. All'improvviso. Ti ho conosciuto durante uno stage settimanale in Francia per motivi di lavoro. Lavoriamo in aziende italiane concorrenti dello stesso settore.
Hai sconvolto tutte le mie priorità. Dopo un evidente tuo corteggiamento iniziale in albergo la sera stessa del primo giorno, mi sono detta: “in fondo è un bell'uomo. Ma sì, proviamo anche questa. Non è che di sera ci sia molto da fare, qui. Rapidamente, però.” Invece siamo saliti in camera, hai iniziato subito a spogliarmi. Io lo volevo e quindi già sentivo dentro un rimescolamento incontrollabile. Poi hai preso a baciarmi il collo, la bocca, i seni e pian piano sei sceso a valle: con la lingua hai aperto le mie grandi labbra e hai iniziato a mordicchiarmi, a leccarmi a lungo. Ma come si permette? E quanto mi piace! Non ce l'ho fatta più e sono venuta una prima volta!
Per me, ventiquattrenne di provincia tutta casa, studio e lavoro, era la prima volta! Hai puntato il tuo cazzo e inesorabile hai iniziato a entrare in me. Ero terrorizzata ma eccitatissima. Era un'esperienza che volevo fare, pensando di sbrigarla come una qualsiasi pratica standard. Stupida! Ho raggiunto di nuovo e in breve l'orgasmo. Tu, incurante delle mie richieste di rallentamento, sapendo di stare sverginandomi, continuavi come una bestia a possedermi. Ed era una sensazione meravigliosa: finalmente desiderata, presa con forza e resa un semplice oggetto di piacere. Ero diventata una donna, ero finalmente soltanto la femmina usata per far sfogare il maschio.
E infine mi sei venuto dentro: dentro questa femmina oggetto di piacere che era stata ormai sverginata, sfondata e resa dolorante. Ma appagata e felice. Non ho voluto farti uscire io! Ti ho messo le gambe incrociate sulla schiena mentre venivi. Speravo solo di non essere rimasta incinta. Tutti gli anni di studio, la posizione sociale, il prestigio, la rispettabilità: ogni cosa a puttane! O meglio, tutto nella figa della puttana che stavo diventando rapidamente per te. E poi tutto in una notte! Ero curiosissima: ormai volevo sperimentare qualsiasi cosa sapesse di sesso, con te. Dopo un po’ di pausa, ho voluto prendere il tuo benedetto e adorato cazzo in bocca: oddio che senso di totale sottomissione e nello stesso tempo di appagamento!
Ti ho fatto venire la seconda volta, malgrado la mia totale inesperienza: mi ero limitata infatti a prenderlo e tenerlo fermo nella mia bocca, succhiando e tirando sino a sentirti gemere e sborrare in me. Ti ho assaporato e ingoiato senza fare un fiato. L'uomo è un meraviglioso prodigio della natura. Quando ti sei calmato, sei tornato gentile e mi hai spiegato come deve essere sbocchinato per bene un uomo. Ridendo, ti ho promesso che avrei studiato e la sera seguente avresti potuto darmi quante ripetizioni volessi. Passata la giornata lavorativa, cena rapida insieme e poi di corsa su in camera. Ero pronta a mettermi in ginocchio, invece mi hai spogliata, gettata sul letto e girata. Ero un po’ spaventata, ma curiosa.
E comunque mi fidavo di te. Mi hai leccata a lungo tra le natiche e insalivato per bene l'ano. Poi vi hai spalmato un ulteriore lubrificante e hai puntato il tuo grosso glande sul mio buchino: piccolissimo al confronto! Ero terrorizzata. Ma resistetti: sei entrato piano in me. Ho serrato i denti, cercando di rilassare l'ano. Come hai sentito il mio corpo ammorbidirsi tutto, hai iniziato a incularmi e io ad accoglierti sempre più. Ti ho sentito mentre mi sussurravi: “ora sborro” e sono venuta con te. Se possibile, è stato ancora più bello della prima volta. Inutile dire che abbiamo scopato tutta la settimana. Ora ci teniamo comunque in contatto , anche se siamo entrambi sposati.
Ma essendo nello stesso giro professionale, quando ci ritroviamo insieme a un corso in comune, regolarmente godiamo di noi. E per nostra intima, dolcissima “tradizione”, oramai inizio sempre prendendotelo a lungo in bocca, facendoti sborrare copiosamente nella mia gola, gustando il tuo nettare e chiedendoti il voto alla fine. Ma tu vuoi sempre farmi un… supplemento di interrogazione! Per me tu sarai sempre la prima, bellissima volta. Ma come hai fatto a conquistarmi così?
RDA
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Olimpiadi Parigi 2024:
Hanno oltraggiato l' Ultima Cena:nessuno oserebbe fare qualcosa di simile agli ebrei...
Ad aprire ieri è stato Zinedine Zidane:nato a Marsiglia da genitori algerini, musulmano non praticante...
La cerimonia è stata una pagliacciata, praticamente un gay pride in mondovisione, quindi atleti e sport messi in ombra, difatti i trans possono occupare la scena mentre gli atleti russi e bielorussi(esclusi dalla cerimonia ma direi che non si sono persi nulla) dovranno gareggiare,senza inno,senza bandiera sotto l' acromimo AIN atleti individuali neutrali.
Bene hanno fatto quegli atleti russi a non partecipare affatto,perché così non ha nessun senso ed è solo una presa per il culo.
Questo lo spirito dell'' Europa, anzi le ceneri della nostra cara Europa.
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e va bene se non parli a nessuno di ciò che siamo stati, va bene se non dici quanto amato ti sia sentito con me accanto, quanto il mio amore abbia riempito le crepe che ti portavi dentro. Va bene se non dirai quanto importante ti ho fatto sentire, il mio modo unico di far sorridere il bambino che ti portavi dentro, il mio modo di creare parole belle che ti descrivessero. Va bene se non accennerai al fatto che in te vedevo del potenziale, quanto ti abbia sostenuto, ho avuto punti di vista positivi per i tuoi punti di vista negativi. Va bene se non parlerai di quanto tu abbia smesso di sentirti solo nel mondo quando mi hai incontrata, la stessa solitudine che ora urli. Si, perché le cose belle di me non sei stato in grado di vederle, talmente tanto che non sai nemmeno ricordarle. Va bene se non parlerai di quando ho asciugato ogni tua lacrima, rendendola acqua sorgiva per il "nostro" amore. E va bene anche se non dirai delle volte in cui ho perdonato i tuoi errori, cercando di tenerti sempre più stretto, delle volte in cui mi hai dato da bere parole vane e vuote, destinate ad essere trasportate via dal vento, lo stesso che ci ha spazzato via in una manciata di secondi. Va bene se sono stata "quella passeggera", io che volevo solo diventare le tue giornate da qui in poi. Va bene se non dirai che a crederci di più ero io, che prima di mollare la presa ci ho provato così tante volte, così tante. Ed è okay se non parlerai mai delle volte in cui ho dovuto chiederti di smetterla di ferirmi, se nonostante tu continuassi a farlo, l'intensità del mio amore non cambiava. Va bene, davvero, se non farai parola di me con nessuno, se sono completamente sparita dalla tua esistenza, va bene se hai schiacciato il mio ricordo con il tuo ego piegato e non sono più niente. Se le stelle non ti ricordano me, se non mi vedi ad ogni angolo di Roma, su ogni bus preso e su quelli persi. Va bene se hai saputo scrivere di un amore da favola, rendendolo solo questo, immaginazione, ed ora invece le tue parole non mi riconoscono più. Nulla di te, parla di me e questo un po' mi fa riflettere. Mi fa pensare, che in questa storia, io sono stata la sola. Quel filo rosso che credevo ci unisse, non era altro che un filo di lana che io stessa avevo colorato di rosso, non era altro che un filo che con l'inganno mi teneva legata ad una persona non destinata a me.
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