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Perché il Giappone può convivere con un debito altissimo e l’Italia no?. Un'analisi tra differenze economiche, politiche e culturali
Perché il Giappone può convivere con un debito altissimo e l’Italia no? Un'analisi tra differenze economiche, politiche e culturali.
Perché il Giappone può convivere con un debito altissimo e l’Italia no?Un’analisi tra differenze economiche, politiche e culturali. Il debito pubblico è uno dei temi più discussi nelle politiche economiche globali. Il caso del Giappone, con un debito pubblico che supera il 260% del PIL, contrasta nettamente con quello dell’Italia, che con un debito attorno al 140% del PIL è spesso costretta a…
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Lo spreco alimentare va contro le diete sostenibili e la sicurezza alimentare
La sostenibilità alimentare, la riduzione delle emissioni di gas serra, la scelta di buon cibo non possono prescindere dalla considerazione base che una grande e grave quantità di ciò che si coltiva e si produce non arriva sulle nostre tavole, o che, peggio, una quantità anche superiore che invece ci arriva venga poi gettata. Andrea Segré, Professore di Politica agraria internazionale e comparata e di Economia circolare e politiche per lo sviluppo sostenibile all'Università di Bologna, fondatore di Last Minute Market, impresa sociale e spin off accademico, ideatore della campagna Spreco Zero, direttore scientifico dell'Osservatorio Waste Watcher International dedicato all'analisi dei comportamenti alimentari a livello globale, ne fa una questione di etica e di economia. Parlando di un cibo medio, quel genere di alimentazione cioè che ha un impatto alimentare buono per la salute, che segue delle norme produttive che limitino al massimo la perdita e che, per la sua qualità, non vada poi ad incidere sullo spreco alimentare. L'Osservatorio Waste Watcher ha da poco superato i dieci anni di attività. Avete indagato i comportamenti alimentari e avete iniziato a dare i contorni di un fenomeno come lo spreco alimentare che incide su due punti: il primo diventa rifiuto qualcosa che si poteva consumare, danno che si raddoppia considerando che quel prodotto gettato per essere realizzato ha richiesto acqua, energia, lavoro, ha prodotto emissioni. «Un aspetto sconosciuto e non percepito è quello della definizione delle perdite di valore e di spreco lungo la filiera alimentare. Quando non si raccolgono in un campo le pesche, perché magari rovinate parliamo di una perdita, perché per coltivarla quella frutta si è usato acqua, fertilizzante. Quando parliamo di spreco scopriamo che la quantità maggiore di questo fenomeno avviene da parte dei consumatori. Cioè da tutti noi, e questo è un problema economico, ambientale e sociale. E il tema dello spreco è un driver della sostenibilità. Un terzo di ciò che si produce non arriva sulle nostre tavole e prevalentemente, anche se non solo, nelle economie sviluppate lo spreco alimentare si concentra soprattutto a livello domestico – a seconda dei metodi di stima e del Paese fra il 50 e il 70% del totale lungo la filiera campo-tavola». Cosa significano questi numeri? «Due anni dopo la pandemia e a 7 anni dal 2030 – quando ci si aspetta che il mondo dimezzi lo spreco alimentare, come da Obiettivo 12.3 dell'Agenda delle Nazioni Unite – il traguardo sembra una meta irraggiungibile. Quel terzo di cibo che continua a perdersi sul pianeta (il 14% dopo il raccolto e il 17% fra commercio e consumo) potrebbe sfamare almeno 1,26 miliardi di persone». E in Italia a che livello siamo? «Ogni settimana ogni italiano getta 524,1 grammi di cibo gettato da ogni italiano, poco meno di 75 grammi di cibo al giorno pari a 27,328 chilogrammi all'anno che ognuno di noi, mediamente, getta nel bidone della spazzatura. La top five dei cibi più sprecati fa registrare al primo posto la frutta fresca (24 grammi pro capite a settimana), seguita in ordine di spreco via via decrescente da: insalate (17,6 grammi pro capite a settimana), cipolle, aglio e tuberi (17,1 grammi pro capite a settimana), pane fresco (16,3 grammi pro capite a settimana), e verdure (16 grammi pro capite a settimana). Lo spreco del cibo, quindi, è un elemento antagonista della sicurezza alimentare e delle diete sostenibili, quindi come concreta concausa del degrado ambientale del pianeta». Ma non è una contraddizione l'attenzione che i consumatori delle economie sviluppate mostrano sulle produzioni sostenibili e su quelle biologiche, per esempio, per poi assumere comportamenti di questo tipo? «Si tratta di un mondo che vive di estremi, per questo dico che serve un cibo medio, con caratteristiche qualitative e quantitative adeguate, un equilibrio nella filiera. Invece si tende a muoversi tra due opposti da un lato il super bio, il marchio, la dop, dall'altro il junk food. Con il risultato che chi ha meno possibilità economiche è anche chi si alimenta peggio. Anche se la sensibilità sta aumentando molto». Ma esiste una stima della perdita in valore dello spreco alimentare. «Fare un calcolo preciso è difficile, sia per quanto riguarda la perdita che lo spreco. Deve esserci infatti una base metodologica per il calcolo, se pensiamo alla perdita agricola nei campi si perde più di frutta che di cereali, stiamo tra il 2/5 per cento. Una ricognizione del genere lungo tutta la filiera non è semplice, ma facciamo un esempio: su 10 miliardi al costo di acquisto di un insieme di prodotti alimentari che gettiamo, il 70 per cento cioè 7 miliardi lo sprechiamo noi consumatori». Read the full article
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“Amleto? Un dandy epigrammatico vestito a lutto”. Borges, l’inimitabile. Un ricordo di Félix della Paolera
La concatenazione di casualità diede all’invisibile una fattezza, un profilo. Arrivai a César Mermet per via di un suggerimento, credo, di un crollo. Borges lo giudicava “una specie di Emily Dickinson argentina”; preferii l’altro lato, polare, della frase, “fu pienamente poeta”. Come se quel pienamente riguardasse il sortilegio di una sparizione. Mermet scrisse nugoli di poesie, sommerso, sommessamente, senza pubblicare nulla. Nato nel 1923, giornalista, morì durante i Mondiali del 1978. Il suo confidente si chiamava Felix della Paolera: fu lui, nel 2006, a pubblicare tutte le poesie di Mermet – di particolare bellezza – ,“l’uomo invisibile”, come lo ha definito parte della stampa argentina. A quel punto, cercai Félix della Paolera: mi interessava un uomo impegnato a onorare i morti, con caino accanimento, a dare la parola all’invisibile. Arrivai in ritardo, come quasi sempre. Della Paolera era morto nel 2011. Amen.
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Il libraio della Recoleta, a Buenos Aires, trafficava in tomi come Caronte in anime. Mi diceva che Borges, quando passava di lì, non proferiva parola. Lui gli prendeva un libro, a suo gusto, gli leggeva l’incipit. Quasi sempre Borges si fidava, chiedeva all’accompagnatore – uomo o donna che fosse – di pagare, andava via, ciondolando, cieco. Forse l’aneddoto era menzogna – è bello, perciò, per ciò che mi riguarda, vero. Chiesi al libraio di fare altrettanto, per me. Il libraio vendeva carcasse di libri, libri esauriti, fuori mercato, defunti. Questo è il libro più bello scritto su Borges, mi fa. Leggo. Borges: develaciones. Il libro non ha prezzo né marchio isbn, è stampato da una fondazione, le fotografie di Facundo de Zuviría sono meravigliose perché di ogni cosa intercetta il punto di sparizione, la nudità, l’istante in cui potrebbe sparire. Lo ha scritto Félix della Paolera. Chiedo fari su quella identità; il libraio scuote la mano, come se fare certe domande siginificasse interrompere la sequela di un segreto; la mia amica ride, si tace. Mi colpì, più tardi, che di Félix della Paolera, persona la cui importanza nella cultura argentina è esaltata dalla sua invisibilità, dal plastico pudore, non esistesse un ‘coccodrillo’, un pezzo che onorasse la sua dipartita. Come se, per espresso desiderio, non volesse essere ricordato.
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Tutti gli uomini che entrano in amicizia con Borges, diventano borgesiani, icone prima che volti, simboli, l’accesso a un altro mondo – pensiamo a Macedonio Fernández. Borges, in fondo, fa degli amici delle vittime, degli esercizi verbali, l’eremo di una metafora, un incipit, l’estro retorico; d’altronde, il ‘realismo’ è enigma triplicato. “Borges mi parlava spesso di Félix della Paolera, ‘el Grillo’. Era, a suo dire, una specie di eminenza grigia, un uomo discreto, che discretamente aiutava gli amici, non molti, era riservato ed esigente. ‘El Grillo’ conosceva come nessuno la letteratura inglese e si produceva in raffinati e analitici giudizi sull’opera di Henry James; sapeva inoltrarsi con invidiabile facilità tra i romanzi di William Faulkner. I suoi interessi letterari si estendevano alla Cina, al Giappone, era soprattutto esperto di haiku, di cui dialogava spesso con Borges. Queste coincidenze fecero sì che dagli anni Quaranta, tra Borges e Félix della Paolera si instaurasse una amicizia autentica, basata sulla comune passione verso la letteratura”, ricorda María Kodama. Fu Della Paolera, ‘il Grillo’, a inoltrare Borges all’estetica dell’haiku, mostrandogli arcane fratellanze tra mito norreno e divinità nipponiche. Era nato a Buenos Aires nel 1923, la figura alta, aristocratica e aristotelica era l’esito di una remota nobiltà, selvaggia; a diciassette anni frequentava Olga Orozco e Juan Rodolfo Wilcock. Entusiasti del gergo poetico, orfici dell’altro mondo, condividevano versi in una bettola che in onore di Rimbaud avevano chiamato “Il battello ebbro”. Per un paio di decenni, tutti i giorni, accompagnò Borges a pranzo – amavano i tavoli lontani, inviolabili, cambiare spesso ristorante e parlare, ogni giorno, di un autore, di un libro, di un verso diversi.
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Borges lo conobbe nel marzo del 1948, alle 10.15 di mattina, alla stazione di Adrogué. Quando vide Borges, non osò avvicinarsi: credeva, forse, che bastasse rivolgergli la parola per mandarlo in frantumi. Trovò il coraggio più tardi, in treno, mentre i finestrini ricapitolavano l’Argentina in una idea, fugace. “Lei è Borges?”. “Non ho scelta”, rispose lui, borgesianamente. “Era in vacanza da sua sorella Norah, quella mattina doveva andare dall’oculista. Lo accompagnai. Siamo tornati insieme ad Adrogué, la sera ci siamo fermati all’Hotel La Delicia, menzionato nei suoi libri, abbiamo bevuto e parlato fino all’alba. Accennai a un uomo, un inglese, solitario, che abitava in quel luogo: gli chiesi se non fosse lui l’Herbert Ashe di Tlön Uqbar Orbis Tertius. Fece cenno di sì, abbassò il viso. Gli dissi, invitiamolo con noi, allora. Borges mi rimproverò, ‘Ma se l’immagina… sarei terrorizzato a parlare con uno dei miei personaggi’”, così ricorda Felix della Paolera con Facundo García su Pagina 12.
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Dicono che abbia portato William Faulkner a bere, durante un ciclo di presentazioni, a Buenos Aires (lui lo guardava, pronto a spulciare alcoliche riservatezze); negli anni Sessanta era a Friburgo, davanti alla porta di casa di Martin Heidegger. “Era deliziato dalla bellezza della ragazza che mi faceva da interprete, cominciammo a parlare davanti a due bottiglie di vino”, ricorda Della Paolera. “Disse che trovava significativo il modo in cui la morte viene descritta nella poesia spagnola. Sparì per qualche minuto. Tornò con un volume delle opere complete di García Lorca, che gli era stato regalato da Ortega y Gasset. Pubblicai la nostra chiacchierata su ‘La Nación’… non so se la gradì. Ci scrivemmo qualche lettera. A suo avviso, ciascuna lingua significava una particolare predisposizione verso la morte, un rapporto con i morti. Si parla, d’altronde, parlando ai morti, non è vero?”. Fu ‘il Grillo’ a presentare Astor Piazzolla a Borges: lavorarono insieme, nel 1965, per comporre un disco di milonghe. L’accoppiata pareva micidiale, ma il disco fu un fiasco.
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“La letteratura appartiene all’ambito del segreto”, diceva Della Paolera. Quando, leggi, in effetti, non stai svelando nulla, il libro si apre per poterlo chiudere – è trasmesso, proprio a te, tra i veli del giorno, un messaggio, una testimonianza, una parola ultima, certamente intima. Come una confidenza pronunciata tra i portici, Felix della Paolera è scomparso, all’angolo di una leggenda; il rilievo di un’ombra è la rivelazione. (d.b.)
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Felix della Paolera, Borges: rivelazioni
Gabriel García Márquez una volta ha dichiarato che a partire da Borges lo spagnolo viene scritto diversamente. Questo cambiamento è causato principalmente dai suoi apporti alla depurazione del linguaggio, a una evidente esibizione delle strutture narrative, al pudore espressivo, al restringimento del divario tra parole e idee o, volendo, all’appropriazione immediata del significato da parte del significante, a quella economia di elementi descrittivi che Roland Barthes racchiude nel termine “catalisi”. Questi e altri suoi procedimenti formano il corpus di una precettistica che ha rinnovato lo stile di molti autori ispano-americani e persino di quanti scrivono in altre lingue. Ciò non implica che possano assomigliargli.
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In una nota pubblicata nel 1952, Enrique Pezzoni evidenziava che Borges aveva intrapreso una scrittura di cui non esistevano precedenti e che difficilmente avrebbe potuto essere replicata dai posteri. Tale valutazione si è rivelata premonitrice, dato che, pur essendo stato lo scrittore che ha maggiormente influenzato la letteratura spagnola, e forse quello che più ne ha segnato il rinnovamento, non ha lasciato – al pari di Alejo Carpentier, Juan Rulfo o García Marquez – un retaggio di autori aderenti alla sua modalità narrativa. Le sue innovazioni risultano intrasferibili, dato che poggiano su una vita tesa a indagare le possibilità e i limiti della parola e, pertanto, richiederebbero a un qualsiasi seguace una vocazione e una passione analoghe alle sue; vale a dire, qualcuno che, con pari intensità, si interessasse contemporaneamente di linguistica, etimologia, metafisica, teologia, miti, letteratura comparata, logica, enciclopedie, lingue arcaiche. Non è facile trovare siffatti discepoli.
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Anche se un certo intuito artistico potrebbe bastare per ricalcare, con esiti modesti e senza estro, uno stile metaforico come quello di Neruda, la sensibilità più estrema sarebbe insufficiente per imitare quello di Borges; un plagio passabile richiederebbe la sua riproduzione testuale. “Nessuno può paragonarsi a Borges o imitarlo”, ha scritto Douglas Davis, in un articolo pubblicato su The New York Press il 18 novembre 1998. Solo i profani della sua letteratura hanno creduto di riconoscerlo in una deplorevole poesia intitolata Instantes, o hanno potuto attribuirgli un romanzo dalla stesura indegna. Se Borges rigettò – al punto da escluderle dal suo Obras Completas – molte poesie del suo periodo ultraista e due libri di critica e saggi fu perché, nella maturità, trovava artefatta l’esteriorità delle metafore e delle costruzioni barocche. Per questo il suo linguaggio è diventato inimitabile e qualsiasi copia del modello originale si riduce a una parodia. Escluso il ricorso puerile al suo lessico, come intessere una riproduzione di Borges? Mediante una sintassi nella quale abbondino le litoti? Attraverso la prevalenza della metonimia sulla metafora? Un’analisi dei motivi che inducono a optare per una o per l’altra di queste figure retoriche aiuta a chiarire l’enigma di una letteratura inimitabile. Come i sinonimi (a cui di solito assomigliano), le metafore possiedono un certo carattere arbitrario che richiede la cooperazione del lettore affinché vengano accettate nella loro rappresentazione significativa. Sanno di trovata, di subitanea ispirazione, di intromissione delle muse. Ecco perché il loro uso risulta predominante nei poeti giovani, adepti del patetismo lirico, di una emotività che ostacola l’espressione oggettiva e sono inclini all’uso di metafore quasi sempre oscure – quando non indecifrabili – perché oscillano tra la manifestazione esplicita e l’occultamento. Fatta eccezione per qualche fugace entusiasmo, difficilmente si potrebbe etichettare la prima poesia di Borges come giovanile. Certamente contiene molte più metafore rispetto alle poesie scritte a partire dal 1955 (vale a dire, dal momento in cui la perdita della vista diventò quasi totale), ma tali metafore sono diverse da quelle tipiche dei poeti recenti. Sono intenzionali, vicine al dialogo e alla riflessione che all’enfasi sentimentale, favoriscono una lettura cauta e attenta, sopperiscono con l’intelligenza all’estasi e alla vertigine.
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Già nella sua prima versificazione si può notare una tendenza all’utilizzo della metonimia che andrà accentuandosi fino alle ultime poesie. Si tratta in questo caso di una figura più intellettuale, dato che presuppone una discriminazione, un criterio selettivo. Nominare un soggetto o un oggetto mediante un segno, qualcuna delle sue parti, un qualsiasi attributo, un rapporto causale o una specie che implichi il genere (non si fa distinzione in questa sede tra metonimia e sineddoche) è un’operazione che chiama in causa il raziocinio nel momento in cui si deve discernere quale tra gli elementi particolari potrà rappresentare alla perfezione un’entità più grande, un concetto più ampio. Vale a dire, la scelta di una metonimia esprime contemporaneamente cultura e esperienza, ed è improbabile che, come la metafora, sopravvenga in virtù della sola ispirazione.
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Per quanto riguarda l’utilizzo della litote da parte di Borges, anch’esso denota una capacità letteraria inscindibile da un processo di maturazione. Attenuare un’asserzione mediante l’espediente di negarne l’antitesi, mitigare il tono dogmatico di un giudizio, rifuggire la dissertazione altezzosa e stroncante rivelano una prudente diffidenza verso “la sicurezza di quanti ignorano il dubbio”. Questo scetticismo, lungi dal rappresentare meramente una peculiarità del suo stile, discende da una concezione agnostica della realtà (e perfino della irrealtà) che – paradosso istruttivo – andò accentuandosi man mano che aumentava il suo sapere.
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Se, come asseriva Pezzoni, quello di Borges è un percorso difficilissimo da seguire per quanti vengono dopo di lui, ciò è dovuto al fatto che la sua genesi parte da una struttura così personale che il riprodurla risulta quasi impossibile. Basterebbe riguardare alcune delle domande che gli rivolgevano di solito i giornalisti, e che ovviamente non poteva prevedere, per notare la piega imprevedibile delle sue risposte immediate e spontanee. Quando gli chiedevano un’opinione sul Papa, poteva rispondere immediatamente “è un funzionario di cui non mi interesso”, riuscendo così non solo a sventare il tentativo di strappargli un giudizio etico ma anche a sottolineare il carattere burocratico dell’istituzione ecclesiastica (nomine, promozioni, trasferimenti, grado gerarchico), tanto distante dalla discussione metafisica e teologica che lo interessava. Una volta cercarono di fargli esprimere la sua opinione, senza dubbio ben nota, sulla figura di Perón. Prima che il cronista avesse finito di parlare, Borges dichiarò: “Non mi sono mai curato dei milionari”, mandando così all’aria il piano ideologico della domanda, oltre a conferire al personaggio una connotazione di disinvolta corruzione.
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Interpellato in merito alla censura, rispose rapidamente che “spesso ha contribuito a stimolare la metafora” e aggiunse l’esempio di libri che riuscirono a eludere la sorveglianza dei censori mediante il cambio dei nomi o l’appello al simbolismo.
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Si potrebbe argomentare che, per quanto le risposte di Borges fossero istantanee, poggiavano su convincimenti originari e, pertanto, non rappresentavano una battuta improvvisa. Ad ogni modo, resta notevole la definizione del papato come una burocrazia; quella di Perón, tramutato da politico a magnate; e quella della censura, a suo avviso efficace promotrice della metafora e dell’impiego dei simboli. Tutto ciò sottolinea oltre la prontezza e l’opportunismo con cui individuava quei “convincimenti originari”, la sferzante ironia davanti a uditori abituati a uomini pubblici la cui opinione di solito oscillava tra la solennità e il patetismo.
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L’oratoria sintetica e il taglio inatteso delle sue risposte non sono diversi quando caratterizza Amleto come “…il dandy epigrammatico e vestito a lutto della corte di Danimarca…”; definisce (con fini ossimori) Martínez Estrada “uno scrittore dalle splendide amarezze” e Ray Bradbury autore “dai dilettevoli terrori”; ci avvisa che, con il trascorrere del tempo, qualsiasi ricordo diventa “circoscritto e sbiadito…”; o si insospettisce di fronte a “una poesia che sembrava estendere all’infinito le possibilità della cacofonia e del caos…”.
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A casa sua, di ritorno da un pranzo, mi chiese di leggere, in un foglio piegato sopra la tavola della sala, una nota a matita che senz’altro si era fatto trascrivere. Diceva: “Non ero tanto illetterato da non poter scrivere un sonetto, né tanto incauto da scriverne due”. Quando terminai la mia lettura a voce alta, mi disse: “Sa di chi é? Di Baltasar Graci��n. Non lo trova straordinario? Potrebbe essere benissimo di Bernard Shaw o di Wilde”. In quel momento pensai che, se non fosse stata scritta nello spagnolo del XVII secolo, quell’ironia, quella forte litote, sarebbe stata degna della paternità di Borges, il quale, non a caso, la ricordava e chiedeva che gliela ripetessero nonostante il suo noto disdegno per la prosa di Gracián.
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Rigore etimologico, intertestualità, erudizione, chiarezza strutturale, metonimia, litote, precisione del lessico, polivalenza verbale e magia urbana sono alcune delle cifre che contraddistinguono la scrittura di Borges e, per il fatto di essere intrinseche alla sua personalità, non si possono riprodurre in assenza di un analogo vissuto esperienziale. Per emulare Borges bisognerebbe cercare di assomigliargli in tutto. Qualcosa di simile pensò (e poi escluse) Pierre Menard quando voleva scrivere come Cervantes.
Félix della Paolera
*Il testo è tratto da “Borges: develaciones” (Fundación E. Costantini, 1999), da cui si è scelto il capitolo “Alcances de su influencia”; la traduzione italiana è di Marianna Marchi
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RuralEstudio è una ricerca comparata sui caratteri e sui problemi di due distinti territori rurali contemporanei, di cui si indaga il difforme intreccio tra economie, ecologie e pratiche dell’abitare, prefigurandone alcune strategie di trasformazione. I saggi narrano le vicende di due luoghi molto diversi fra loro: da un lato gli spazi rurali dell’Adriatico italiano, territori attraversati da intensi processi di dispersione insediativa, frammentazione ecologica, abbandono; dall’altro i territori rurali andini dell’Ecuador, spazi quasi sempre disponibili a ospitare processi di urbanizzazione, ma popolati da gruppi sociali residuali.
RuralEstudio es una investigacion sobre los caracteres y problemas de algunos territorios rurales contemporaneos analizados observando el entrelazamiento entre economias, ecologias y practicas del habitar, prefigurando algunas estrategias de modificacion. Los ensayos cuentan la historia de dos lugares muy diferentes entre ellos: por un lado los espacios rurales del Adriatico italiano, territorios atravesados por procesos de dispersion urbana, fragmentacion ecologica, abandono; por otro lado los territorios rurales andinos ecuatorianos, espacios considerados, casi siempre como lugares donde albergar procesos de urbanizacion y poblados por grupos sociales residuales.
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“Guerra in Ucraina: una crisi dell’ordine globale?”, se ne discute oggi, lunedì 9, al Dipartimento di Scienze Politiche di Caserta
Tra gli ospiti della tavola rotonda, i docenti Wiktoria Woitsekhovska del Politecnico di Leopoli e Mara Morini dell’Università di Genova per un confronto con i colleghi della Vanvitelli Francesco d’Ippolito, Diego Giannone, Olivier Butzbach, Gianpaolo Ferraioli e Aldo Amirante
Il conflitto in corso in Ucraina scaturito dalla scelta della Russia di invadere il paese, le mire espansionistiche di Putin, gli effetti che, da ormai tre mesi, si stanno riscontrando sul vecchio continente e le conseguenze che ne deriveranno a livello mondiale, saranno gli argomenti al centro di un interessante momento di confronto promosso per la mattinata di domani, lunedì 9 maggio, dal dipartimento di Scienze Politiche della Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, con sede in viale Ellittico a Caserta.
“Guerra in Ucraina: una crisi dell’ordine globale?” è il tema scelto per la tavola rotonda in programma dalle ore 10 nell’aula 3 intitolata a Gaetano Liccardo, i cui lavori saranno introdotti dai saluto del direttore del dipartimento di Scienze Politiche, Francesco Eriberto d’Ippolito, e coordinati dal docente di Global Politics, Diego Giannone, con a seguire gli interventi di Mara Morini, professoressa associata di Scienza politica all’Università di Genova dove insegna Politics of Eastern Europe e Politica comparata dell’Università di Genova, autrice del libro “La Russia di Putin” nonché politologa esperta di Est Europa, e di Wiktoria Woitsekhovska, docente di Economia presso il Politecnico di Leopoli.
Si confronteranno con loro i docenti del dipartimento della UniVanvitelli Aldo Amirante, docente di diritto internazionale, Olivier Butzbach che insegna Economia Politica Internazionale, e Gianpaolo Ferraioli che cura l’insegnamento in Storia e Analisi delle Relazioni Internazionali.
“Sarà un bel momento di approfondimento sulla guerra in corso in Ucraina e sulle scelte in politica estera e di difesa che stanno compiendo Putin e la Russia, grazie alla politologa esperta in questione russe Mara Morini e autrice, tra l’altro del libro “La Russia di Putin”, sul ruolo delle relazioni internazionali, e sulle scelte possibili sia in campo economico che politico, che disegneranno i futuri assetti dell’ordine internazionale, per confrontarci poi con l’altra ospite importante che avremo domani, Wiktoria Woitsekhovska, del Politecnico di Leopoli e Visiting Professor in Italia”, dichiara il direttore di Scienze Politiche dell’UniCampania, d’Ippolito.
source https://www.ilmonito.it/guerra-in-ucraina-una-crisi-dellordine-globale-se-ne-discute-oggi-lunedi-9-al-dipartimento-di-scienze-politiche-di-caserta/
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A me non stupisce affatto che a dei numeri si risponda con un Lallero visto l’argomento.
ENORME EMERGENZA SOSTITUZIONE ETNICA per COLPA della TEORIA GENDER.
Poi se uno fa notare che sta storia c’avrebbe anche rotto i coglioni e che sono più di 30 anni che si seguono politiche economiche e sociali sciagurate e che di certo la colpa non è degli immigrati, anche giusto facendosi due conticini di economia comparata, allora uno che da la colpa a Bergoglio e alla “sinistra” per commentare delle statistiche sull’immigrazione può darti anche del benaltrista.
Ciao raga, tutto rego.
L’Europa dei rimpatri
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RIPATRANSONE – Per la quattordicesima edizione della tradizionale Festa dell’Artigiano, la Cna di Ascoli Piceno dà appuntamento per domenica 20 maggio, alle ore 11, al ristorante Valle Verde di Ripatransone, Strada Valtesino. Prima del pranzo sociale e della consegna degli attestati agli artigiani da più tempo iscritti alla Cna, dirigenti Cna, rappresentanti delle istituzioni e del mondo economico e finanziario, faranno il punto con una tavola rotonda sullo stato attuale e le prospettive dell’economia e del lavoro nella nostra provincia.
Il programma della giornata prevede, dopo il saluti del presidente territoriale, Luigi Passaretti, gli interventi dei direttori per il Piceno della Cna, Francesco Balloni, e di Fidimpresa Marche, Massimo Capriotti. Seguirà una relazione improntata sulle prospettive del credito alle piccole e medie imprese del territorio, a cura di Paolo Amadio, responsabile dell’area territoriale per la Banca del Piceno. La tavola rotonda di approfondimento, moderata dal giornalista Mario Paci, vedrà invece la presenza di: Gino Sabatini, presidente della Camera di commercio di Ascoli e presidente regionale della Cna; Maurizio Paradisi, presidente della Cna di Ancona e presidente Srgm; Anna Casini, vice presidente della Regione Marche.
L’APPROFONDIMENTO SUI NUOVI BANDI. Dieci milioni di Euro per gli investimenti produttivi, 15 milioni per le filiere e la promozione delle eccellenze del territorio, 6 milioni per rafforzare presenza e azione delle imprese sociali. E’ quanto la Regione Marche ha recentissimamente messo in campo come ulteriore sostegno per le aree colpite dal terremoto. “L’approfondimento di queste tematiche – spiega Luigi Passaretti, presidente territoriale della Cna di Ascoli – avvieranno la giornata che poi sarà, come sempre, occasione per stare insieme. Certo è che il nostro sistema provinciale Cna ormai segue e assite qualcosa come 10mila imprese e famiglie. E in questo numero comprendiamo imprenditori, artigiani e commercianti. Ma anche pensionati, cittadini, liberi professionisti. Un sistema complesso che deve fronteggiare ogni giorno che passa questioni complesse e di svariato genere. Un impegno che rafforza la necessità di stare insieme e che anche lo spirito vero e profondo che anima ogni anno la nostra Festa dell’Artigiano”.
IL PARADOSSO: “PICCOLO E’ BELLO”, MA NON SEMPRE BASTA A FARE ECONOMIA. Si può continuare a fare impresa se si hanno meno di 20 dipendenti? La domanda, provocatoria e dalla risposta negativa ovviamente scontata, sarà un altro dei temi affrontati nell’approfondimento previsto nel corso della Festa dell’Artigiano. “Il fatturato delle micro e delle piccole imprese del nostro territorio nel 2017 è mediamente cresciuto dal 2 al 3 per cento – precisa Francesco Balloni, direttore generale della Cna Picena – L’erogazione di credito alle imprese di dimensioni minori, invece, sempre nel 2017, si è ridotta ulteriormente e ben oltre questa percentuale. Nel 2014, anno fra i più bui della crisi, il calo di erogazione di credito alle Pmi non aveva superato il 4 per cento. Nel 2017, anno non certo florido ma meno critico dei precedenti, siamo precipitati al 6 per cento e più.
TERREMOTO, RICOSTRUZIONE E DANNI INDIRETTI. Altro elemento di grande importanza trattato con gli ospiti della tavola rotonda sarà ovviamente legato al terremoto e al post terremoto. “Risarcimento dei danni indiretti e cumulabilità delle azioni di sostegno – conclude Balloni – sono stati un’altra nostra grande battaglia e, pur fra mille difficoltà i risultati ci sono. Fondamentale, adesso, seguire le imprese affinché indirizzino risorse e investimenti nella direzione che potrà garantire maggiore stabilità e crescita sia di fatturato che di occupazione”.
Per i danni indiretti la Regione ha messo in campo 28 milioni di Euro. Le domande dovranno essere presentate dal 14 maggio al 30 giugno 2018. Sono ammesse al contributo le imprese con una o più attività produttive nelle Marche. Aziende che, nello specifico della provincia di Ascoli Piceno, devono risultare già operative alla data del 24 febbraio 2016. La riduzione del fatturato deve essere pari o superiore al 30 per cento. E il parametro di riferimento sarà stabilito estrapolando la media dei fatturati compresi fra il 19 gennaio e il 19 luglio di tre anni consecutivi, ovvero il 2014, il 2015 e il 2016. Questa media dovrà essere comparata con il fatturato realizzato fra il 19 gennaio 2017 e il 19 luglio 2017. Nel caso l’azienda sia attiva da minor tempo (sempre con avvio attività al 24 febbraio 2016), il parametro di raffronto sarà valutato appunto dall’apertura dell’azienda.
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In superficie. Tornare alla narrativa selvaggia: il romanzo con il dirupo a forma di lupo in copertina
Per la copertina del libro Hannah versus l’albero di Leland de la Durantaye, romanzo d’esordio del critico, traduttore e professore di economia comparata, esperto di Giorgio Agamben, Codice Edizioni ha scelto di affidare l’immagine a tutta pagina ad uno dei giovani illustratori più apprezzati all’estero: Davide Bonazzi. Rispetto alla versione originale del libro pubblicato nel 2018 da McSweeney’s Publishing, la copertina della traduzione italiana è ben più raffinata: se nel primo volume ad occupare tutto il piatto di copertina era la foto in bianco e nero di un husky (quello che nel romanzo viene allevato dalla protagonista, una ragazza “intelligente, fiera e ribelle”), nel volume targato Codice Edizioni il profilo “monumentale” del cane dal sangue di lupo è disegnato alla perfezione da un alto dirupo: le orecchie appuntite non sono date altro che da due abeti, mentre l’occhio è rappresentato dalla finestra di una baita da cui sta uscendo del fuoco. Perfetto per rendere l’idea di uno sguardo fiammeggiante che peraltro restituisce l’umore incandescente della narrazione, come scoprirà il lettore inoltrandosi in questa storia di «soldi, politica e ambiente» e insieme «tragedia greca e mito».
Questa «copertina d’artista» non è che il giusto omaggio ad un autore raffinato come la Durantaye e, in fondo, anche a Giorgio Agamben, che nel suo saggio «Studiolo» aveva riflettuto in maniera brillante sulla «poesia che tace», che è la pittura. Davide Bonazzi ha alle spalle una formazione da umanista, e la chiarezza quasi fulminante della sua trovata grafica lo conferma come autore di «immagini da pensare». Scorrendo le illustrazioni del suo portfolio (che trovate qui) si sorride compiaciuti vedendo come è riuscito a sintetizzare in maniera ironica, con una semplice figura, un concetto, utilizzando ancora una volta, l’immagine del lupo: l’illustrazione in questione è titolata «Unity is strength» («L’unione fa la forza») ed è apparsa sul Sole 24 Ore. Di fronte a un lupo che punta verso di loro, un branco di pecore si dispone in maniera tale da formare il profilo (ancora) di un altro lupo, ma ben più grande e minaccioso, dalle fauci spalancate.
La collana narrativa di Codice Edizioni è stata lanciata nel 2014 con l’obiettivo di tornare all’originaria vocazione di narrare storie. E per questa storia di vendetta, dolore e thriller raccontata da de la Durantaye, l’«eco arcaico» che la attraversa si specchia negli elementi paesaggistici e selvaggi dell’immagine di copertina, dai colori arancioni e caldissimi, formata Bonazzi. La forma quadrata del logo Codice che vi campeggia – gialla – richiama inevitabilmente l’immagine rettangolare della finestra, rispettando in maniera elegante l’equilibro della composizione. Rendendo il tutto ancora più godibile seppure «disturbante» al punto giusto.
Elena Paparelli
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