#e per rendersi meno riconoscibile
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unprof s3 inizia e vediamo mimmo sfanculato in qualche città del nord con la barba, simone ci passa per caso lo vede non lo riconosce poi lo vede meglio e muore
serie finita
#no davvero sarebbe troppo divertente vederlo così#per indicare il passaggio del tempo#e per rendersi meno riconoscibile
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Perché C'è ancora domani non è un film femminista, a mio parere (mentre Barbie invece sì)
Ho temporeggiato per vedere C'è ancora domani perché tutte e tutti ne hanno parlato come di un film bellissimo e “femminista”. E quando sento gli uomini usare l'aggettivo femminista come una caratteristica positiva i miei sensi di femminista formicolano. E a ragione. Il film parla di una donna, Delia, sposata con un uomo, Ivano. Il film è la rappresentazione didascalica e anche pedissequa del maschilismo più becero, violento e, soprattutto, riconoscibile. Talmente riconoscibile che qualsiasi uomo può guardare a quel modello di maschilista e prenderne tranquillamente le distanze. Peccato che il modello rappresentato dal personaggio di Ivano sia solo l'1% del patriarcato, quello che abusa fisicamente, verbalmente, economicamente, sessualmente. Ma Ivano è solo la punta dell'iceberg e il film ignora totalmente tutti quei piccoli, apparentemente innocui, atteggiamenti che costituiscono la base sommersa su cui il marito violento trova la cultura che lo cresce e lo protegge. Ogni uomo che abbia visto C'è ancora domani può tranquillamente dire “io non sono come Ivano quindi non sono parte del patriarcato. Pertanto il problema non mi tocca”. Purtroppo la questione è che questo film non mette in scena tutte gli atteggiamenti con cui ogni uomo si può rendere parte del problema. Non si vede il catcalling, gli apprezzamenti invadenti e non richiesti, le battute sessiste, il paternalismo benevolo, le riviste, i film, i cartelli pubblicitari tappezzati di corpi femminili più o meno vestiti... tutto questo fa parte del patriarcato e ogni uomo (e anche qualche donna) lo porta avanti senza rendersi conto che anche questo è maschilismo, anche questo è patriarcato. Ma questo film non punta il dito contro questi atteggiamenti che appartengono ad ogni uomo (chi più chi meno), non fa quest'opera di denuncia. Il patriarcato è rappresentato come bianco o nero (letteralmente) perciò o sei come Ivano oppure sei una brava persona.
Dopo averlo visto ho capito perché tanti uomini hanno dichiarato questo film femminista. È il femminismo che piace a loro, quello che li rassicura, che gli dice che loro no, loro sono bravi ragazzi, non stanno facendo niente di male, non hanno bisogno di rivedere i loro comportamenti, le loro parole e i comportamenti e le parole degli altri uomini che frequentano.
A differenza di Barbie. Barbie presenta il patriarcato in maniera apparentemente più chiara a didascalica, ma in realtà Barbie presenta il patriarcato nelle sue sfumature più subdole, più sottili e, quindi, meno facilmente riconoscibili. In tutto il film nessun Ken alza mai le mani su una Barbie, nessun Ken offende una Barbie, nessun Ken fa catcalling o molesta sessualmente una Barbie. Quello che fanno i Ken è togliere alle Barbie ogni loro ambizione, ogni loro sogno, la loro identità. Per farne degli oggetti da possedere ed esibire e di cui disporre a loro piacimento. Un'azione terribile, innegabilmente, e la cosa che ha scatenato le ire di (quasi) ogni uomo è che quest'azione terribile non è stata operata da un burino in canotta, ma da quello che potrebbe essere definito il classico bravo ragazzo. Ken è il prototipo di giovanotto di belle speranze che, in fondo, non ha fatto niente di male, no?! Ken è il personaggio in cui ogni uomo si identifica ma quando si vede rappresentato in tutto il male che fa a Barbie ecco che, anziché cogliere l'occasione per una riflessione e una sana autocritica, il maschio medio si butta per terra a piangere e urlare che “questo non è femminismo, il femminismo è quello che mi dice che io sono bravo e bello e buono”.
In conclusione C'è ancora domani è un film contro il patriarcato? Certo che sì, ma contro una percentuale minima del patriarcato. Quella frazione che è la più evidente e la più facilmente condannabile. C'è ancora domani è un film femminista? A mio parere no. Il film non è scomodo, non fa nascere una discussione, non critica la società. La protagonista non fa niente per contrastare questo status quo e l'unica cosa che fa alla fine del film non è merito suo. È un diritto per cui lei non ha lottato e lo ha esercitato in segreto, in silenzio, per non urtare la sensibilità del patriarcato. Mentre invece vorresti dirmi che Barbie è un film femminista?! Sì, perché racconta il patriarcato come un potere strisciante, che penalizza entrambi i generi (anche se in modo molto diverso), che viene esercitato da ogni singolo uomo, anche quelli “bravi”. Non a caso Barbie ha fatto arrabbiare molti maschi medi che ancora oggi ne parlano come di un film sciocco, innocuo. Ma come si spiega che un film così insignificante faccia ancora arrabbiare tanti maschi dopo tanto tempo?
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Alla luce delle cose dette da Massimo Giletti l’altra sera su miei presunti tentativi di intervistare il genio andato a vaccinarsi col braccio di silicone (con commento di Telese “se lo facciamo noi non va bene, se lo fa lei sì!”) mi tocca chiarire un paio di cose di non poco conto. Ci tengo a tracciare una linea di demarcazione fosforescente tra il metodo di Giletti e il mio nonché quello di altri Giornalisti. Prima cosa: io non ho mai pensato di cercare questo tizio. La scorsa settimana stata contattata da una conoscenza comune di Biella che non sentivo da tempo, la quale mi dice che se voglio mi dá il numero dell’avvocato del genio. Io dico ok e chiamo questo avvocato(...) Poi il discorso va a finire sull’incubo che sta vivendo il suo assistito braccato fin sotto casa, io gli dico che se ha la gente sotto casa forse non dovrebbe andare in tv e rendersi ancora più riconoscibile, lui farfuglia che ci va perché deve chiarire, io rispondo che ci va anche perché pagato altrimenti parlerebbe con un semplice giornale, lui dice che ancora non ha chiuso da un punto di vista economico ma che quel programma (Giletti) fa molti soldi ed è giusto che guadagni anche il suo assistito. Ieri a “Dritto e rovescio” hanno fatto ascoltare una telefonata dello stesso avvocato che parla di 5000 euro di compenso circa per ospitate/interviste, quindi più o meno sarà quello avuto da Giletti. E qui velo pietoso. Dunque, per concludere, l’intervista mi è stata proposta. Ho detto no. Avrei detto sì (come tutti i colleghi suppongo) se fossi stata la prima, solo per il mio giornale, solo se gratis. Di far diventare questo tizio una star non me ne fregava e non me ne frega nulla. L’idea che questa gente faccia il giro delle tv e sia pagata mi fa orrore. L’idea che un tizio che cerca di truffare lo stato, con un gesto idiota e irrispettoso, venga premiato con tre stipendi di un operaio mi fa pena. E consiglio a Giletti di informarsi meglio sull’operato degli altri giornalisti. E non dico di riflettere sul suo in tema di Covid e vaccini, perché mi pare evidente che sul quel fronte si parli ormai di reazioni avverse, ma al giornalismo. Selvaggia Lucarelli ************* Praticamente se commetti un illecito o ti fai notare per una condotta lesiva della comunità vieni premiato con soldi e visibilità da una trasmissione che ti usa come fenomeno da baraccone per fare due ascoltatori in più. Alla faccia delle persone oneste. Fabio Salamida
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Lesson 15 👑
"LA GEISHA"
"Geisha" è l'unione di due kanji che significano "arte" e "persona": tradotto quindi in "persona esperta nelle belle arti e nelle belle maniere" Molte schiave si fregiano del titolo di "Geisha", tuttavia mi preme evidenziare che nell'ambito BDSM, il termine "Geisha" non ha alcun connubio. Contrariamente a ciò che può pensare l’opinione comune, la geisha non è una prostituta, tanto meno una schiava, e il sesso non è parte essenziale del suo ruolo, ma è invece una professionista nell’arte di intrattenere e allietare noiose cene d’affari, banchetti e feste.
L'arte della geisha nasce nel periodo di Tokugawa (1600-1868) in Giappone.
In origine era un uomo di piacere, con il compito di intrattenere uomini d'affari nelle "sale da the' pubbliche e private.
Ben presto anche le donne comparvero nel mondo Geisha assumendone via via il dominio del nome.
La geisha è ritenuta una donna affascinante, raffinata e colta in Giappone.
Viene tolta alla sua famiglia in tenera età (in genere intorno ai 9-10 anni) e fatta entrare in una scuola, dove imparerà a curare al meglio il suo aspetto fisico, a vestirsi in kimono di seta, a truccarsi il viso con un pesante cerone bianco, occhi marcati di nero e bocca rossissima, fino a rendersi quasi una maschera sotto la pesante acconciatura.
Imparerà quindi a muoversi con grazia ed eleganza, a servire da bere in modo raffinato, a conversare con intelligenza, a calibrare ogni minimo gesto per renderlo il più elegante e sensuale possibile. La sua personalità deve rappresentare al tempo stesso, la fragilità della carne e la forza dello spirito: quando lavora controlla tutto il suo essere, in ogni gesto, parvenza, emozione; perfino la modulazione del respiro, ora leggero, lieve, ora vivo, affannoso, seppure impercettibile.
La sua figura deve essere snella e slanciata, così come il suo volto deve apparire pallido ed espressivo.
La sua voce deve avere un tono delicato e raffinato, adattato perfettamente ad ogni scopo e circostanza.
I suoi capelli, di color nero corvino, sono sempre raccolti a forma di nido.
Ai piedi solo delle calze di seta, chiamate “tabi”, da indossare sempre, anche d'inverno, per esprimere la sensualità di un corpo che si nasconde interamente sotto il kimono.
Anche per distinguersi dalla prostituta, la geisha indossa sempre kimono dai colori tenui, poco appariscenti, possibilmente tono su tono, e comunque in sintonia con le stagioni.
Il colletto del kimono, dietro, è sempre posizionato in modo da lasciar scoperta la nuca: un modo molto sensuale per lasciar divagare l'immaginazione del cliente.
La geisha, come ho detto prima, non è da considerarsi una prostituta, se fornisce prestazioni sessuali, lo fa a sua discrezione o come parte di una relazione duratura.
Molte geishe, raggiunta una certa età, sono divenute spose di uomini facoltosi e di alto livello sociale.
Una figura ben distinta dalla geisha è quella della "maiko" (danzatrice), giovanissima donna che studia per divenire geisha.
La maiko è ben riconoscibile dal kimono molto più colorato, con maniche e obi allungato. Anche le maiko sono richiestissime, poiché la loro giovinezza e candore compensano la mancanza di quell'esperienza che soltanto le geisha più affermate possiedono 👑
(Tratto dal web)
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darrenharris
Quando ancora frequentava la UCLA e tornava a New York era sempre diviso a metà tra il desiderio di tornare a casa e rivedere famiglia e amici e quello di tornare a Los Angeles, che sentiva molto più “sua” come città. Ma sebbene non fosse un gran sentimentale, New York gli mancava sempre un po’, quel pizzico che lo spingeva a tornare ogni volta. Quella volta avrebbe preferito non mettere piede nella sua città natale, se non altro perché stare lì di nascosto gli dava la sensazione di essere ancor meno onesto di quando mentiva per telefono. Sapersi a molti meno chilometri rispetto al consueto rendeva le sue bugie ancora più grosse.
Immaginava una discussione col fratello sul perché fosse lì. Sono stato “affittato” perché una ragazza mi porti al matrimonio del suo ex. Ah, ti ho detto che mi vendo per delle belle somme di denaro? Ho anche un SUV. Inutile dire che riusciva anche a immaginare la faccia del fratello, gli occhi sgranati come quando da bambino assumeva la sua espressione “da gufo”. Forse un giorno glielo avrebbe detto, quando avesse chiuso con quel capitolo della sua vita.
Si concentrò a individuare la sua cliente, in mezzo alle coppie che si ricongiungevano in modi più o meno mielosi e uomini d’affari che si stringevano la mano. Un tizio di mezza età si rivolse a una signora in quello che gli parve essere giapponese, ma tirò avanti.
Abbassò il bavero del cappotto, per rendersi riconoscibile dalla ragazza, e fu allora che venne avanti una figura minuta: era bassina, i capelli scuri e, sotto il soprabito, scorse la divisa da cameriera. Probabilmente era appena arrivata dal lavoro. Se non avesse ricordato ciò che gli aveva detto per telefono riguardo la sua attività natalizia, avrebbe capito comunque che si trattava di lei dal modo in cui lo stava guardando con i suoi occhi scuri un po’ allungati: aveva la circospezione di chi sta cercando di capire se ha davanti la persona giusta.
I loro sguardi si incrociarono e lei pronunciò il suo nome, al che lui stesso si sciolse in un sorriso più rilassato. “Stella,” disse, non una domanda quanto un richiamo, come se lui invece la conoscesse da più tempo. Si fermarono a una distanza rispettosa, lei con un certo impaccio, il braccio appena sollevato in quella che doveva essere una stretta di mano.
Seppur con le mani piuttosto impegnate, Darren lasciò andare la valigia e le porse la rosa che aveva acquistato poco prima, per poi prenderle delicatamente la mano tra le sue e chinarsi in un breve baciamano. Anche quello metteva nel migliore degli umori possibili, almeno di solito. Soprattutto se aveva guidato in mezzo al traffico dell’ora di punta per andare a prenderlo. “È un piacere conoscerti di persona.”
Sorrise del suo benvenuto, magari immaginava pure che non ci fosse mai andato, il che era meglio per lui. “È stato un volo tranquillo. Spero che venire fin qua non sia stato un fastidio. In tal caso, mi offro per preparare la cena.” Non era chef di punta come il fratello, ma non faceva esplodere le cucine né avvelenava i suoi ospiti, solitamente. Afferrò di nuovo il manico della valigia. “Immagino che tu sia stanca.”
Non sarebbe stato esagerato affermare che il giovane che si trovava di fronte in quel momento fosse uno dei più avvenenti che avesse mai incontrato. Ma in modo diverso da Patrick. Laddove quest'ultimo per lineamenti e colori sarebbe sembrato una bellezza "angelica" secondo gli standard del dolce stil novo, Darren ricordava i popoli mediterranei. Laddove Patrick sapeva rendersi affascinante con i suoi modi cavallereschi, il suo parlare soffice e delicato, Darren sembrava una di quelle persone che sono naturalmente dotate di una capacità attrattiva e magnetica. Lo si intuiva anche dal modo in cui l'accolse, quasi la conoscesse, malgrado avessero tenuto solo un colloquio di lavoro. Sicuramente era parte del "personaggio" che stava interpretando e degli studi di recitazione, ma non sembrava affatto doversi sforzare. O era semplicemente così bravo che tutto gli sembrava naturale come il respiro.
Certo, paragona il tuo quasi marito con uno che hai appena visto: ha molto senso.
Era ancora silenziosa e immobile in quella reciproca osservazione iniziale, ma sgranò gli occhi e schiuse le labbra quando si vide porgere la rosa. Era un gesto semplice, galante ma intriso di una premura e di un garbo che non poté che sorriderne, prendendo lo stelo tra le mani e contemplando i bei petali. "Oh, ma che pensiero gentile - si sentì dire con voce sinceramente ammantata di deliziata sorpresa - non avresti do-" non riuscì a finire la frase perché si sentì cingere la mano che era ancora sospesa a mezzaria.
In un gesto altrettanto naturale e fluido, Darren l'aveva cinta tra le proprie e Stella aveva percepito il calore di quel contatto che le aveva scaturito una serie di brividi lungo il braccio. Boccheggiò appena quando vi depose le labbra in un gesto che così ben si confaceva alle atmosfere dei suoi period drama preferiti, ma così perfettamente eseguito, nella sua semplicità, da farla letteralmente sospirare. Le labbra del giovane, malgrado sottili (completamente diverse da quelle piene di Patrick), le solleticarono la pelle del dorso. "Ooh... " si sentì mormorare in tono piuttosto trasognato. Si costrinse a sbattere le palpebre, in tempo per sentirne la formula di saluto, cui rispose con un sorriso più timido.
Per l'amor del cielo, riprenditi! Sta recitando la parte che crede sia più adatta a te e ai tuoi soldi!
Si schiarì la gola. "Anche per me è un piacere" replicò e rilassò nuovamente la mano libera lungo il fianco, mentre con l'altra giocherellava con la rosa che si era appoggiata al petto.
Annuì appena delle informazioni sul suo volo, ma scosse il capo alla sua preoccupazione circa il suo disagio a guidare fin lì. "Assolutamente no," lo rassicurò, salvo sorridere alla menzione della cena che era disposto a preparare di persona.
Troppo perfetto per essere vero, difatti...
"Sei gentile, ma non devi preoccuparti per la cena: ci sono delle lasagne da scaldare in forno, anche vegetariane in caso di bisogno, e del pollo arrosto, quindi spero che tu abbia appetito..." annunciò. "Non più del solito," si schermì alla domanda circa la sua stanchezza, prima di osservare i bagagli che aveva con sé. "Ma lascia che ti prenda qualcosa..." si offrì e porse le braccia affinché le affidasse almeno un involucro nel quale doveva aver confezionato un completo elegante. Evidentemente aveva già il necessario per il matrimonio. Il che era ironico, considerando che lei, invece, dovesse ancora, citando Quinn, "degnarsi di venire in atelier a scegliere un modello idoneo per far sfigurare la stronz-sposa e far rodere il fegato e altro a quel pusillanime del tuo ex".
Scosse il capo tra sé e sé, sorridendo bonariamente, prima di schiarirsi la gola e tornare a osservare il giovane.
"Tu, piuttosto - riprese il discorso - sarai sballottato per il jet lag: posso metterti da parte la cena se preferisci farti una doccia e riposare, prima di mangiare" gli propose, prima di fargli strada verso l'uscita e il parcheggio.
Si fermò di fronte alla propria auto e ne aprì le portiere e il bagagliaio con il telecomando, dandogli così la possibilità di disporre la valigia e gli abiti. Lo aiutò affinché nulla si stropicciasse, spostando la propria borsa sui sellini dei passeggeri dietro. Si tolse il cappotto, come sempre, per essere più libera nel poter guidare, rabbrividendo un poco e affrettandosi a mettersi al posto di guida. Quando entrambe le portiere furono chiuse, non poté fare a meno di pensare che sembrasse tutto molto più... intimo a restare soli in quel piccolo abitacolo. Sembrò che il profumo del giovane riempisse quel piccolo spazio e persino quell'aroma sembrava abbinarsi ai suoi modi: leggero ma stuzzicante.
Allacciò la propria cintura, avviò il motore e accese i fari.
"Mi sono dimenticata di chiederti se questa è la tua prima volta a New York," gli chiese in tono leggero, cercando di mantenere una conversazione semplice, mentre era alla guida. "In tal caso potrei suggerirti qualche luogo da esplorare, se ti andasse di fare un po' di turismo" gli disse in tono casuale.
Poteva farcela, si disse. Finché non si parlava di Patrick, del matrimonio e... del dover imbastire una fittizia relazione. In poche parole, i reali motivi per i quali sarebbe rimasto con lei nelle prossime due settimane.
Devo farcela, non ho scelta.
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“Chissà se tutto è assurdo come sembra vero”. Lorenzo Somelli: l’autobiografia in versi che va verso la dissoluzione
Un racconto in versi, con l’io protagonista, senza volersi impelagare in probabili o improbabili genealogie, è quasi inevitabilmente un monologo, con sottaciuta vocazione teatrale; l’io apre a una dizione transitiva nella comunicazione, ma il paradosso del libro di Lorenzo Somelli, Le parole di nessuno (Arcipelago Itaca), è che racconta proprio l’impossibilità di comunicare con una dizione transitiva, perché le parole piane, semplici, del quotidiano, si rivoltano prima di tutto contro l’io, non offrendo quindi paragoni al lettore, alla sua esperienza. Il noi di lettori è così presupposto, chiamato a assistere e nello stesso tempo escluso dalla partecipazione. Del resto è proprio la impossibilità di condividere l’esperienza quello che accade al protagonista di questo racconto in versi, che pian piano è letteralmente deprivato dei sensi. Un uomo normale, che si muove in un mondo quotidiano e scontato. Che sia quello del lavoro o quello familiare e che non ci fornisce una biografia che vada oltre questo: è un everyman.
Lecito chiedersi cosa, allora, racconti e perché in versi. Intanto bisogna capire che la vera ‘storia’ di questo racconto o poemetto o comunque lo si voglia definire, è in che modo un io prosaico e deprivato diventi un io lirico, tracciando un percorso che va dalla deprivazione totale alla visione.
*
Una prima risposta: a ciò lo costringe la prosa del mondo che inizialmente appare restia a disporsi nei versi, dunque non la necessità di una sublimazione che cerchi il ‘poetico’, ma perché la perdita dei sensi del protagonista sperimenta la inaccessibilità del mondo quotidiano in cui è immerso, accorgendosi che le sue parole non designano più le cose e lascia spazio ai verba della mente che però, in tale condizione, non hanno nulla su cui esercitarsi, quasi si chiedesse non solo perché questo è accaduto proprio a me, che sarebbe una virata comunque tragica o elegiaca, ma perché non trova in quel che gli accade nulla che sia, non dico poetico, ma appartenente alla sua biografia, riferibile alla sua esistenza. Questo senso lo dovrà cercare solo svuotando tutto ciò che tramite una parola, un gesto, lo lega ancora a una cosa, un sentimento, un pensiero o un’astrazione.
Mi concentrai un istante, l’etichetta/ recava scritto aceto, ed era aceto/ dunque! Misi alla prova la parola/: niente! Svitato il tappo, la infilai/ nel naso. Niente! E lessi nuovamente/ più da lontano aceto, e riprovai…
Eppure da questa deprivazione, nasce il nucleo lirico del racconto, quando anche la memoria e i ricordi privi di riscontro con una realtà che vi si adegua in modo troppo aderente, si separano dal protagonista, che deve definirsi faticosamente tramite la scrittura, zona estrema e pericolosa del linguaggio: Anima e corpo, entrai direttamente,/ e per la prima volta, nel sistema/ della parola scritta, zona estrema/ del linguaggio: chi sbaglia, sbaglia e mente. L’oralità iniziale nell’aderire a quanto sta accadendo al protagonista, rischia di essere una recita, una finzione anche se fosse solo verso se stesso.
*
La zona estrema è dunque l’inizio di un altro viaggio, che si espone al rischio: chi sbaglia, sbaglia e mente. Allora appare chiaro come la progressione narrativa, insomma la storia di un uomo qualunque che perde i propri sensi all’interno del proprio mondo banale e quotidiano, sia soprattutto un crescere della lingua e della sua tensione: più abbandona il rapporto con il mondo e più questa cresce. È l’unica via per dire la verità e non mentire, accettare fino in fondo la sfida di poter scrivere di ciò che non si riconosce più senza cadere nello sbaglio, accettare una incompiutezza della lingua, meta e raggiunto limite, che mantenga la promessa fatta a se stesso di dire il vero e non la menzogna.
*
Esercitare il gioco delle citazioni rinvenibili, sarebbe sterile, Somelli le fa talmente sue, inserendole in un contesto diverso, che si potrebbe pure sbagliare per difetto o per eccesso. Ma la metrica merita altra considerazione. Non è un dato meramente tecnico, è la sua importanza nella progressione narrativa, il suo essere un doppio nascosto quanto necessario delle parole, una loro trascendenza che non evade in misteriosi aldilà, ma è al loro interno; inizialmente sembra una forzatura, o meglio un contenimento forzato di ciò che accade, ma pian piano ne scopriamo la necessità; forse è qui che si trova la risposta alla domanda inevitabile, posta nell’introduzione da Alfano: perché scrivere in versi e non in prosa? La misura del verso conserva un ‘oltre’ delle parole, o almeno la sua memoria, solo questo permette una progressione, perché se all’inizio pare non coincidere con gli eventi o piegarsi passivamente al loro accadere, poi diventa lo spazio entro cui le parole respirano e il protagonista può cercare e trovare una visione.
*
Per restare, alla grossa, nel ‘genere’ scelto da Somelli, ricordiamo come T.S. Eliot predicasse la necessità della estinzione della personalità; ecco, qui l’affermazione viene presa in senso letterale, non per dar vita a una oggettività più o meno riconoscibile o verificabile, una terra desolata che comunque tutti ci accoglie, ma per andare alla radici dell’io lirico, alla sua nascita e non a caso la visione finale termina con la parola ‘punto’; dove l’assurdo del quotidiano svela il non senso ma anche il suo essere nostro unico contatto con una possibile visione. Quel ‘punto’ è una contrazione dell’immagine, ma anche un inizio, coincidente con la fine.
Insomma assistiamo a un corpo a corpo tra istanze narrative e possibilità della poesia, e il richiamo alla Commedia che ho già preannunciato nel termine ‘visione’ non è arbitrario, i rimandi alla fine del viaggio dantesco sono chiari quanto mai delle citazioni, come l’avesse rivissuta e rielaborata o ci fosse arrivato per una sorta di inevitabilità.
*
Allora bisogna fare una breve ripresa riguardo l’importanza della metrica, o della sua ombra: la misura metrica è un sottofondo costante, l’ombra di endecasillabi o forme strofiche, sempre più evidenti nel loro nascondimento, suggeriscono che questo rimando è forse la necessità di scrivere in versi, come fosse un estremo referente, sfuggente ma in grado garantire il ‘vero’, costringere l’invisibile a farsi misura del mondo vissuto e sarebbe possibile leggere questa affermazione al contrario: costringere il mondo ad avere un invisibile che lo attraversa (la gloria che nell’universo penetra e risplende, non è poi il verbo divino?); forse è questo che permette il raccontarsi della storia e la necessità dei versi: la divaricazione tra parole e cose lascia scorrere una memoria metrica rendendole sempre l’approssimazione a una verità e dunque più fragili, più vere: finché si assomiglia a qualcosa non siamo disperati, siamo qualcosa di reale, imperfettamente reale.
Dunque siamo di fronte a un’autobiografia interiore che non va verso la crescita, ma verso la dissoluzione, perché quello è il punto in cui nasce la possibilità della autobiografia stessa, a voler essere irriverenti, è come se qui avessimo il percorso che fa entrare nella selva oscura, il voler sapere come vi si entra quando si è in quel sonno dove i sensi mancano o sono un’illusione. In questo smarrimento, al suo interno, Somelli trova infine la possibilità di una visione, che non è tanto l’uscirne fuori, quanto il rendersi conto di starci dentro, il dantesco mi ritrovai:
Ed era un po’ che non dicevo io. …. Ma voglio dirvi cosa ho visto ieri. Era una zattera, era in mare aperto. Nella bonaccia io remavo incerto. …Ed affondavo per metri e metri fino a un’altra luce. Un altro sole, e un nuovo mare aperto. Sceso per cerchi concentrici, i cerchi ora partivano da me, a me attorno fino all’ultimo orizzonte, si raddoppiavano, decuplicavano…. Finché non iniziarono a ritrarsi verso di me, con moto inverso, capro espiatorio di quella catarsi, l’uno nell’altro fino a farsi un punto.
*
È inevitabile il richiamo all’ultima visione dantesca quanto alle parole iniziali del Paradiso, anche perché inizio e fine coincidono nel regno senza tempo, la zattera di Somelli è il mio legno che cantando varca; tutto si avvicina e allontana dall’io recuperato che rifonda un mondo, pure Somelli in fondo ritrova la nostra effige come sommo mistero, lo trova in ciò che non ha voce e a cui bisogna darla, in quello che appare insensato ma è la realtà che ci circonda. Queste parole che parlano per altri che non possono, non faranno uscire dalla selva, ma ci permettono di abitarla, togliendoci dalla cecità della nostra vita e queste parole non possono che essere vere, la menzogna è stata evitata. Certo qui accade dopo un naufragio più che dopo una traversata, come se fosse riuscito a sopravvivere alla follia del mondo con la sua zattera, ma forse ogni viaggio deve partire da un disastro avvenuto.
*
Al termine, come nella Commedia, contenuto e contenente coincidono, non nello splendore dantesco certo, ma nella approssimazione inevitabile della lingua, nel suo essere sempre un accostarsi alla verità.
Chissà se mi sentite come vedo, se abbracciate i bambini e ne assaggiate il sale delle lacrime se piangono, se tutto è assurdo come sembra vero.
E forse in questa conclusione si può leggere una terzina camuffata, tre più uno, come nei finali di ogni cantica, ma, incastonata dal rimando vedo/vero è la conquista di una visione, di una comprensione.
E la forza di quel chissà apre una voragine e improvvisamente ‘io’ vuol dire ritrovare il noi, dunque ci coinvolge, ci interroga, costringe a riprendere da capo per capire come quel è successo ci riguarda o forse viviamo senza rendercene conto. Quelle parole di altri, il sale delle lacrime che ora i sensi percepiscono e ne fanno una propria esperienza, non possono che essere vere, la menzogna è stata evitata, e il vedere corrisponde alla verità. Siamo smarriti in questo mondo e in questo mondo dobbiamo far parlare il dolore non comprensibile, che ci appare ingiustificato e inammissibile: l’unico ‘oltre’ delle nostre parole, diventate finalmente vere, perché, e comprendiamo il titolo, sono “Le Parole di nessuno”: sono le nostre parole.
Paolo Del Colle
*In copertina: Odilon Redon, “Armatura”, 1891
L'articolo “Chissà se tutto è assurdo come sembra vero”. Lorenzo Somelli: l’autobiografia in versi che va verso la dissoluzione proviene da Pangea.
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La leggenda del pirata Barbagialla
read it on the AO3 at http://bit.ly/2vTVwS6
by TheAbominableWriter
John Watson, pirata al soldo di Sherlock Holmes, è lontano dalla Norbury e dall’adorato capitano da ben tre mesi. Dopo aver saputo che Mrs Hudson ha avuto un incidente e che è stata costretta a letto, per ripagarla dell’ospitalità e delle cure ricevute in passato, decide di aiutarla e di gestire la locanda in attesa che guarisca. Una volta giunto a Barbados si rende conto che ormai tutti sanno che a bordo della nave del Pirata Bianco c’è un nuovo membro chiamato il “Doc”. Per sviare da sé ogni sospetto e rendersi meno riconoscibile, John si fa crescere la barba, si fa chiamare Daniel Hudson e dice di essere il nipote della locandiera. Quando Mrs Hudson inizia a sentirsi meglio, John manda un messaggio alla sua nave chiedendo a Sherlock di tornare a riprenderlo. Dopo quasi un mese però nessuno del suo amato equipaggio si è fatto vivo, almeno fino a quando un monaco compare sulla soglia della locanda. “Vuoi confessarti, figliolo?” [Ambientata tempo dopo: “Sherlock Holmes e l’isola del tesoro”] [Piratelock]
Words: 5436, Chapters: 1/?, Language: Italiano
Series: Part 3 of Let's Pirate!
Fandoms: Sherlock (TV)
Rating: Mature
Warnings: Creator Chose Not To Use Archive Warnings
Categories: F/F, M/M
Characters: John Watson, Victor Trevor, Sarah Sawyer, Janine (Sherlock), Mrs Hudson, Sherlock Holmes, Sherlock Holmes' Pirate
Relationships: Victor Trevor/John Watson, Sherlock Holmes/John Watson, Sherlock Holmes/Victor Trevor
Additional Tags: Action/Adventure, Introspection, Comedy, Johnlock - Freeform, Prostitution, Pirates, Alternate Universe - Pirate
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Bibbia in mano, mascherina abbassata: quei simboli branditi per coprire il vuoto politico È un neo-simbolismo furioso e coprente, solo che copre il vuoto, copre il niente che c’è sotto e tutta una serie di commentatori finiscono per analizzare il cerotto dimenticandosi che sotto c’è il nulla. È un neo-simbolismo che attraversa la politica internazionale e si appiattisce sulla comunicazione veloce che è solo un vomito di spot (e no, non è colpa dei social, lancerebbero le loro tiritere anche solo nei dieci secondi montati in qualche tg nazionale, allo stesso modo) e che ha bisogno di rendersi riconoscibile. Qualcuno dice “indossate le mascherine” e loro non indossano le mascherine, qualcuno protesta dall’altra parte del mondo per un razzismo cancellato solo sulla carta e Trump risponde con i poliziotti a cavallo e la Bibbia in mano, qualcuno lamenta le morti nere in mare (che chissà perché valgono meno dei morti sotto le ginocchia) e qualcuno risponde sferragliando il rosario, alcuni dettano una regola e altri violano le regole rivendicando la violazione come eroico dissentimento. Da Salvini con la mascherina abbassata a Bolsonaro che si assembra fino a Trump che invoca i proiettili, la politica di questi giorni è tutta una lava di gesti brevi e di metafore belliche che non rispondono a una che sia una delle questioni che sono sul tavolo. Trump risponde alla violenza invocando ancora più violenza e poi lamentandosi della violenza degli altri: rispondere a una questione complessa con uno spot di qualche parola è più da incapaci che irresponsabili. I Gilet Arancioni invocano un complotto mondiale ordito per mettere in scena una finta pandemia ma non si capisce chi ci stia guadagnato e che cosa: a domanda non rispondono, sono i soliti poteri forti. Bolsonaro in Brasile ci avvisa che tanto ���moriremo tutti” prima o poi: mo’ me lo segno, grazie per l’illuminante rivelazione. Dovunque si gratti non ci sono mai soluzioni, una che sia una. Esistono solo per contrapporsi senza nemmeno sentirsi in dovere di proporre un’alternativa. Chiedete a Trump, Salvini o Bolsonaro quale sia la via per vincere: l’eliminazione degli avversari. Solo quello, solo così, come dei ragazzini che giocano a battaglia navale sul tavolo della cucina. Vivono solo di riflesso dei loro nemici, se glieli togli balbetterebbero per ore di riforme che li mostrerebbe per quelli che sono: muri, condoni, preghiere mimate, sostegno ai più forti, calpestamento dei più deboli. Modelli economici impraticabili e culto di se stessi. Sono il niente mischiato con niente che usa i simboli per nascondere le proprie pudenda. Di Giulio Cavalli
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Il vero untore di Giulio Cavalli Che sfortuna. Dicono i dati (e cominciano a dirlo anche tutti i politici) che la gente che passeggia con il proprio cane, il corridore che non riesce a a non correre e i vecchietti che caracollano chiacchierando intorno alle panchine sono molti meno di quello che si credeva ... e quindi non possiamo più gridare all’untore direttamente dal nostro balcone. Strana pratica quella italiana: c’è bisogno di un nemico che sia visibile, riconoscibile e assolutamente in prossimità perché nemmeno nell’inoculazione dell’odio e del terrore abbiamo abbastanza fantasia per immaginare un nemico che sia anche solo di un altro quartiere. In compenso ci sono eventi, situazioni e dati reali che dovrebbero indignare ogni piè sospinto e invece non indignano, rimangono sotto la brace come le cose poco importanti, sono tutte troppo complesse per essere discusse e se qualcuno si permette di farle notare viene additato come disfattista. Per non essere disfattista, oggi, in Italia, marzo 2020, devi restare a casa, fare yoga, regalare una diretta quotidiana ai tuoi fans e disegnare arcobaleni. Solo così sei un buon cittadino. Eppure di errori ne sono stati commessi ... e ad ascoltare gli esperti del settore... e gli untori hanno fattezze molto diverse da quelle che credevamo. Sono untori, ad esempio, tutti i Paesi cosiddetti sovranisti che stanno bloccando i presidi medici in arrivo in Italia in nome di una sovranità sanitaria che dimostra come l’egoismo usato come bandiera alla fine ti ritorni indietro sempre sputato in faccia. Che sbarchino i medici di Cuba e i medici cinesi sembra un contrappasso che farebbe sbellicare dal ridere se non fossimo in una situazione così tragica. Dove sono gli Orban? I Le Pen? Dove sono tutti quelli che promettevano di stare al fianco dell’Italia. Spariti. Anzi, peggio: rinchiusi, com’è chiaramente scritto sul loro programma elettorale. Sono untori i politici che hanno bisogno di travestirsi da medici per sembrare solidali con i medici, quelli che hanno preso la politica come una lunga, lunghissima e ben pagata festa in maschera e che ogni giorno si ingegnano per trovare la scenografia alla propria diretta Facebook. Sono untori quelli che per profitto ogni giorno allargano un po’ della pandemia, con la sicumera di chi sa che i suoi prodotti alla fine della catena di montaggio tanto non possono starnutire e per loro va bene così. Sono untori tutti quelli che santificano la sanità pubblica e invece dovrebbero sotterrarsi per come l’hanno sempre trattata: sono quelli che ripetevano che pubblico è sinonimo di fannullone e che i ritardi negli esami e la mancanza di posti letto negli ospedali fossero dovuti all’indolenza dei medici. E invece erano loro con i capibastoni di partito a smantellare ogni anno sempre di più un sistema sanitario che oggi funziona nonostante la politica. Sono untori quelli che mandano al fronte i soldati con le scarpe di cartone, salvo poi ringraziarli quando muoiono con qualche lacrimevole post sui social. Medici e infermieri dovrebbero essere i salvatori della patria e invece la patria non riesce nemmeno a salvarli e basta leggere gli allarmi delle loro associazioni di categoria per rendersi conto in che condizioni si ritrovino a lavorare. Sono untori i burocrati di questa Europa che anche di fronte a una pandemia, come al solito, si sono messi a fare i conti, con calcolatrice e calamaio, con una solidarietà che al massimo riesce a essere empirica con lo sforamento di bilancio. Sono untori quelli che davvero vorrebbero convincerci che tutti possano stare a casa provando ancora una volta a fingere che non esistano gli ultimi, quelli che a casa non ci possono stare. Ecco, non sarebbe il caso di alzare lo sguardo? Anche in casa, ma con lo sguardo alto e con un po’ più di passione per la complessità.
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