#e non il posto dove sono ora
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C'era una volta un giardino
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BRUNO VESPA
Su Bruno Vespa mi torna in mente un episodio emblematico, che ben descrive la sua "caratura giornalistica".
Anno 2020. Scoppio della pandemia. Emergency e Medici Senza Frontiere si attivano immediatamente. MSF fornisce personale medico e infermieristico per dare assistenza sanitaria nei luoghi in cui si è sviluppato il primo focolaio. Emergency mette a disposizione le sue competenze mediche e organizza un servizio per fornire beni di prima necessità agli over 65 e alle persone fragili. Ebbene, mentre le ONG sono al lavoro in Lombardia, Bruno Vespa chiede polemicamente: "Dove sono ora le ONG?". Sarebbe bastata una ricerca su Google. Troppo difficile per lui. Ecco, uno che non è nemmeno in grado di reperire informazioni di pubblico dominio ci spiega il mondo, ha il posto assicurato alla RAI e lo usa per difendere a spada tratta Giorgia Meloni.
[L'Ideota]
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Oggi sono ufficialmente ritornata nelle lande giapponesi.
Ora che sono arrivata mi è passato, ma nel mentre non è stato facile emotivamente perché... non volevo partire più.
Non è stata una vacanza semplice. È iniziata benissimo: mangiate astronomiche e gite a Napoli un giorno sì e l'altro pure. Poi però è arrivata la visita e l'operazione, a cui poi si è aggiunta pure la capatina al pronto soccorso perché il dermatologo era disponibile solo dopo il mio volo e dovevo accertarmi che la ferita in testa fosse a posto.
Mi dispiace aver dato stress e preoccupazioni alla madre della mia migliore amica (già ansiosa di suo), però allo stesso tempo sono super grata del fatto che mi abbiano ospitato perché, onestamente, senza questa possibilità probabilmente non sarei tornata (almeno non nelle mie zone).
È stata una vacanza strana perché per la prima volta non ho festeggiato con la mia famiglia e questo mi ha fatto sentire spesso un pesce fuori d'acqua in varie situazioni.
Vivere lontano mi ha reso più indulgente e permissiva nei confronti di comportamenti indubbiamente molesti (cassiera e poliziotta che chiedono:"ma che ti è successo in testa?"; della serie: ma un paio di cazzi vostri?!), perché, invece di incazzarmi, ho risposto con un sorrisetto sulle labbra come a dire "qua sono fatti così, non c'è niente da fare".
Una vacanza di alti e bassi anche emotivamente. Se Natale chiama famiglia, famiglia per me chiama amarezza - persino la mia migliore amica ha provato sgomento e un senso di malessere dopo essere venuta con me a trovare i miei nonni (gli unici con cui ancora mantengo un rapporto, anche se finto). Oltre l'amarezza, rimangono i traumi - usciti fuori come una valanga di melma nera dalla mia bocca un pomeriggio durante una passeggiata in cui, dopo decenni, ho pianto così tanto che non riuscivo quasi più a respirare, talmente singhiozzavo forte.
Tuttavia, anche se il tempo della mia permanenza è stato breve, sono venute appositamente a trovarmi tutte le persone con cui sono riuscita a creare un legame forte in questi anni e mi sono sentita estremamente grata di avere amicizie così nella mia vita.
Vivere lontano spesso ti fa sentire una monade persa nel globo e sapere di avere qualche legame rimasto, qualcuno che ti pensa e che ci tiene, aiuta a sentirsi meno soli.
Fossi rimasta qualche mese avrei cominciato di sicuro ad odiare di nuovo tutto, però due settimane sono troppo poche per odiare... quindi rimane solo l'amarezza del dover lasciare quel posto dove (per un po') ti senti nel TUO posto.
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L'altro giorno, ero al supermercato a fare la spesa intorno alle 18:30 quando un uomo anziano è entrato nel corridoio della pasta e mi ha messo una mano sulla spalla. Ho sobbalzato. La mia prima reazione è stata quella di arrabbiarmi e chiedergli di non toccarmi. Poi ho notato qualcosa. L'uomo stava piangendo. Sembrava sconvolto e confuso.
Improvvisamente mi ha chiesto: "Sai dov’è mia moglie? La sto cercando." Gli ho risposto che non lo sapevo e gli ho suggerito di chiedere aiuto al banco informazioni per trovarla. Pensavo che l'avesse persa tra le corsie. A chi non è mai capitato? Ma mi sbagliavo.
Ha continuato a chiedere: "Dov'è mia moglie? Era proprio qui." Le lacrime gli riempivano gli occhi. Gli ho detto di nuovo che non ne ero sicura e gli ho proposto di accompagnarlo al banco del servizio clienti, dove avrebbero potuto fare un annuncio tramite gli altoparlanti. Ha accettato.
Lì, la donna al banco ha chiesto un nome. Lui mi ha guardato, come se fossi io ad avere la risposta. La donna ha alzato gli occhi al cielo e si è rivolta a me: "Signorina, ha IL NOME?" Le ho spiegato che non conoscevo quell'uomo e che non avevo più informazioni di lei. "È uno scherzo?" ha chiesto. A quel punto mi sono resa conto che quell'uomo non era semplicemente confuso, ma affetto da Alzheimer. Avendo avuto un nonno con questa condizione, lo riconoscevo fin troppo bene.
L'ho portato all'area ristoro e ci siamo seduti. Ora tremava e piangeva piano. "Dov'è il mio amore?" Gli ho preso le mani e gli ho chiesto se avesse un cellulare. Mi si spezzava il cuore per lui. Mi ha detto che non ne era sicuro, così gli ho chiesto se potevo cercare nelle sue tasche. Ha acconsentito. Con attenzione, ho trovato un piccolo cellulare a conchiglia. Ho cercato tra i contatti e ne ho trovato uno chiamato "Figlia Krissy". L'ho chiamata subito. Ha risposto in pochi secondi.
"Pronto?" ha detto, con la voce già preoccupata. Le ho spiegato che ero con un uomo anziano che presumibilmente era suo padre. Che eravamo al supermercato di Lane Street e che lui era molto sconvolto e turbato.
"Sto arrivando," ha detto. "Puoi assicurarti che non si allontani?" Ha continuato: "Grazie, grazie mille. Sto venendo."
Per circa 20 minuti, sono rimasta seduta con uno sconosciuto in lacrime. Gli ho tenuto le mani. Gli ho asciugato le lacrime. Quando ha tremato, gli ho messo la mia giacca in grembo. Gli ho dato le risposte di cui aveva bisogno in quel momento. L'ho tenuto lontano dal vagare. Perché era il minimo che potessi fare.
Improvvisamente, è entrata una giovane donna alta, che sembrava avere circa 28 o 29 anni. Lunghi capelli neri e occhi verdi. Ci siamo scambiati uno sguardo e lei si è precipitata verso di noi. "Grazie. GRAZIE," ha detto. "Dovevo assentarmi solo per un'ora, e questo succede. Sapevo che non avrei dovuto lasciarlo. Mi dispiace tanto." Mi ha spiegato che a volte lui si allontana per cercare sua moglie. L'ha persa 13 anni fa, ma non smette mai di cercarla.
Ha aiutato suo padre ad alzarsi dalla sedia e mi ha ringraziato ancora una volta. Mentre uscivano, l'ho sentito dire di nuovo: "Dov'è mia moglie?" Mi si è stretto il cuore, ma ero così felice di vederlo con la sua famiglia di nuovo.
Condivido questa storia non solo perché quest'uomo mi ha toccato il cuore, ma per dire questo: La maggior parte del mondo sono estranei per te. Lo so. Ma non dimenticare mai che condividiamo tutti questo mondo e, in esso, possiamo condividere gentilezza. È l'unica cosa che può farci andare avanti. Se vedi qualcosa, fai qualcosa. Non sai mai quanto grande può essere il tuo impatto sulla vita di qualcun altro.
Non mi importa che il carrello della spesa che avevo lasciato nel corridoio della pasta durante il trambusto sia stato svuotato e messo a posto. Non mi importa di aver cenato un po' più tardi quella sera. Di essere tornata a casa e di aver pianto in cucina per questo dolce, povero uomo. La gentilezza non costa nulla.
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Prima di morire a 40 anni di cancro allo stomaco, la designer e autrice di fama mondiale "Crisda Rodríguez" ha scritto:
1. Avevo l'auto più costosa del mondo nel mio garage, ma ora devo usare la sedia a rotelle.
2. Nella mia casa ci sono vestiti di ogni tipo di marca, scarpe e oggetti di valore, ma ora il mio corpo è avvolto in un piccolo panno fornito dall'ospedale.
3. ho un sacco di soldi in banca ma ora non ne sto traendo vantaggio.
4. La mia casa era come un castello, ma ora dormo su due letti in ospedale.
5. Dall'hotel a cinque stelle ad ora trascorrere il tempo in ospedale passando da clinica a clinica
6. Ho fatto autografi a centinaia di persone ma questa volta le cartelle mediche sono la mia firma.
7. Sono stato da sette barbieri per farmi i capelli, ma ora - non ho un capello in testa.
8. Con un jet privato posso volare ovunque, ma ora ho bisogno di due assistenti per arrivare al cancello dell'ospedale.
9. Anche se ci sono molti cibi, ora la mia dieta è di due compresse al giorno e qualche goccia di acqua salata la sera.
10. Questa casa, questa macchina, quest'aereo, questi mobili, questa banca, la fama e la gloria, nessuno di questi mi è utile. Niente di tutto questo mi rilassa. "Non c'è niente di reale tranne la morte. "
In fin dei conti la cosa più importante è la salute
Sii felice di quanto poco o tanto hai mentre sei in salute, avere un piatto da mangiare, un posto dove dormire è avere tutto.
NON TI MANCA NIENTE.
Vincent Giocoliere
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In questo periodo sto passando molte notti fuori e lontano da casa per lavoro. Le trasferte mi sono sempre piaciute, ma ultimamente sto incassando il colpo e ci arrivo stanca. Gli alberghi sono sempre dignitosi. Mai belli, ma puliti e spesso con i balconcini. La sera è bello tornare in una stanza in cui tutto è a posto; il bagno è pulito, il letto è rifatto, il posacenere è svuotato e le scarpe sempre allineate al muro. Io, che le scarpe le butto dove capita, gioisco sempre e penso che una volta a casa devo iniziare a metterle così. Mi godo la sensazione, per qualche giorno, di non dover occuparmi di niente, nemmeno dei pasti. Altre persone lo fanno per me e mi sta bene. Una sensazione nuova per una che ha mania di controllo. Sto facendo progressi, penso. Stare in terapia da cinque anni mi ha aiutato, penso.
Mi metto seduta per terra in balcone e fumo. E penso che l’anno scorso ero sempre in questa città lontana, mentre mia nonna aveva un ictus che l’avrebbe portata lentamente via da me in cinque mesi. Penso che da allora le trasferte le vivo con un senso di angoscia sotto traccia. Penso di non aver avuto l’occasione di vederla lucida perché ero in un posto lontano da casa a lasciare che altre persone si prendevano cura di me. E penso, come ovvio che sia, a tutto il non detto, a tutte le occasioni mancate, alle strade percorse e quelle abbandonate, al tempo che passa inesorabile, ai quarantacinque anni che si avvicinano. E penso che una figlia me la meritavo. Il pensiero di maternità sempre rifuggito perché troppo voluto mi attanaglia ora che, pur volendo, madre non posso essere più. E sì, una figlia me la meritavo proprio.
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IL FUNGO SOTTO IL CIUFFO
Premetto che il titolo di questo post non è clickbait... si tratta - letteralmente - di un fungo sotto un ciuffo (d'erba) e quando ho raccontato l'episodio alle mie figlie mentre stavamo facendo un viaggio in macchina, la piccola saettava sguardi preoccupati in direzione della sorella grande mentre questa scrollava furiosamente sul suo cellulare il pdf del DSM-5 per trovare la diagnosi.
Il fatto è che il lungo consumo di un certo tipo di media fin dall'infanzia - romanzi di fantascienza, fumetti, videogiochi, giochi di ruolo - ha creato in me una sorta di visione parallela della realtà che è ottima per scrivere racconti brevi e preparare avventure di giochi di ruolo ma che sovente destabilizza chi non mi conosce a fondo.
Il fungo sotto il ciuffo d'erba si riferisce a un vecchio ricordo (dovevo avere 7 o 8 anni) relativo a uno dei tanti pomeriggi del fine settimana in cui uscivo a fare escursioni con i miei genitori e i loro amici. A volte s'andava a raccogliere le castagne, a volte i mirtilli o le more oppure, come nel caso narrato, i funghi.
Per la raccolta dei funghi c'erano regole ben precise: ognuno per sé ma con contatto visivo, picchiare col bastone a terra per scacciare le vipere, non urlare ad ogni ritrovamento ma spostare delicatamente foglie ed erba, tagliare il gambo lasciando il micelio integro nel terreno e mettere il fungo nel cestino o nella retina per far cadere le spore.
E ora ecco l'immagine precisa che vado a raccontarvi, scolpita indelebilmente nella mia memoria e che per la sua pregnanza sensoriale rievoco tutte le volte che ho bisogno di chiarezza emotiva.
Pineta di Viareggio, Novembre, pomeriggio umido nelle narici ma soleggiato sulla pelle. Il profumo della resina si mescola a quello dell'humus sabbioso del terreno, dove gli aghi di pino formano un tappeto lucido interrotto da piccole macchie di erba bassa che ben sopravvive ai miti inverni di riviera. E' in uno di questi prati che, nella ricerca di funghi, mi dirigo verso un cespuglio di erba pampa, con i piumini quasi finti ma assolutamente selvatica. Man mano che mi avvicino, l'erba lascia il posto al muschio, verde e giallo con gocce di pioggia notturna ancora intrappolate tra gli sporangi. Mi abbasso, con una mano alzo dal cespuglio un ciuffo che si piegava fino a sfiorare il terreno e sotto, sul muschio, c'è un unico fungo, di quelli che noi chiamiamo pinacci, così piccolo che il cappello avviluppava il gambo ma lucido e... luminoso, quasi come se qualcuno avesse creato una composizione perfetta nella simmetria sublime dei cinque sensi. Abbasso il ciuffo, in silenzio, senza neanche farmi sfiorare dall'idea di raccoglierlo e torno dai miei genitori con una strana sensazione di completezza che dura ancora oggi.
A questo punto vi chiederete come mai le mie figlie fossero preoccupate ma il racconto non finisce qui.
Da quel giorno cominciò a insinuarsi in me l'impressione che il mondo fosse... costruito ma non che ci fosse un demiurgo, un architetto o un dio costruttore ma che noi avessimo il potere di cogliere il Frammento, l'attimo preciso in cui il nostro desiderio di disvelamento della realtà si allinea con il Caos simmetrico del Disordine.
Io il Frammento lo cerco istintivamente a ogni sguardo sul mondo, perché ogni volta rimirando le piccole cose a terra, dove nessuno abbassa lo sguardo, ritrovo racconti non detti, fotografie non scattate e canzoni silenziose.
Avete provato a scuotere il ginepro che si trova sul lato sinistro del tabernacolo dove i Bravi aspettano Don Abbondio? Alcune bacche sono verdi ma quelle mature cadranno a terra con un fruscio sordo e con uno sventolie di gocce di rugiada della notte precedente. Ce ne sono di calpestate a terra, sul viottolo che scende a valle verso il torrente e se chinate leggermente la testa potrete sentirne l'odore pungente e legnoso.
Oppure, se vi infilate nel vicoletto tra le prime due cripte di famiglia nel cimitero di San Botulfo a Oakmont in Massachusetts, potrete trovare una cassa di legno con dentro un rotolo di corda e un piede di porco. Attenzione, però, quando vi volterete. E poi vorrei sapere chi ha messo una tanica di benzina sulla balconata interna al sottotetto dell'ingresso della villa del Senatore Woden, visto che non ci sono scale per raggiungerla.
Ah... se poi dite a Longino "Ego potum tuum bibere possum?" vi renderete conto che non si tratta di aceto ma di Posca, una bevanda militare di acqua, aceto e spezie che i soldati stanno per offrire a Gesù come atto di pietà finale, non per fargli uno spregio.
Lo vedete cosa c'è scritto su questa pietra?
Avreste mai immaginato che questi fossero i pensieri nascosti della persona che desiderava solo un vostro bacio e voi invece avete proseguito nella vostra vita senza nemmeno notarla?
Per concludere, tutto può essere visto e tutto può essere sentito, anche l'invisibile e il sussurrato... guardarlo e ascoltarlo, però, significa accettare che da quel momento in poi dovremmo salire sopra la nebbia del mondo per continuare a essere.
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Grazie per aver ascoltato, guardato, letto
Ci siamo alimentati e tenuti un po' per mano
Un osceno sorriso
Quando apro la porta dell’appartamento sono in anticipo di dieci minuti sull’orario concordato. Abituata alla mia puntualità, ti colgo di sorpresa, ancora seduta sul davanzale della finestra mentre osservi la strada in attesa del mio arrivo. Il rumore dei miei passi ti fa voltare e quando inquadri la mia figura ti alzi piano, languida.
Rimani così per qualche secondo, per darmi modo di osservarti bene: una camicetta scura, sbottonata fino all’ombelico, mette in mostra i tuoi seni; i capezzoli duri e sporgenti come sassolini risaltano sulla tua carnagione chiara. Indossi un paio di slip di pizzo con il fondo aperto ad esporre il tuo sesso, delle autoreggenti scure ti fasciano le gambe e calzi un paio di scarpe nere dal tacco sottile.
Senza bisogno di parole, ti dirigi verso il centro della stanza, dove un paio di cuscini occupano il pavimento. Ciò che accadrà è ben chiaro ad entrambi, un film immaginario visto e rivisto nelle nostre teste infinite volte, discusso nei minimi dettagli.
Mi avvicino fermandomi a due passi di distanza, mentre ti inginocchi sistemandoti comodamente sui cuscini. Guardandomi allunghi una mano verso una serie di oggetti sistemati con cura lì accanto. Il primo che prendi è il tuo collare: lo slacci e lo indossi lentamente, assaporando la sensazione di stringerlo alla tua gola. Sollevi poi delle catenelle dorate, munite di piccole mollette alle estremità: due le attacchi ai capezzoli, sussultando un po’ più per l’eccitazione che per il dolore, mentre le altre due trovano posto sulle grandi labbra. Una T dorata ora adorna il tuo corpo, costringendoti ad una posizione leggermente incurvata per evitare di sollecitare i punti di aggancio. Mantieni però la testa dritta, il collo proteso a guardarmi negli occhi, cercando di cogliere un fremito nell’espressione attenta che mantengo, osservando la trasformazione che stai mettendo in atto.
Raccogli la maschera e la indossi occultando il tuo sguardo dietro il pizzo nero di cui è fatta, poi prendi le grosse labbra di silicone, le metti in bocca e stringi i lacci di cuoio nero dietro la testa.
Un osceno sorriso di gomma nera ora adorna il tuo volto, labbra troppo grosse e gonfie per il tuo viso lo deformano, rendendolo al contempo sgraziato e attraente. Ricordi quelle antiche statue della fertilità raffiguranti donne con culo e seno troppo grossi, dotate di una sensualità atavica e potente che tocca gli istinti più profondi dell’essere umano.
Completi così la tua trasformazione da essere umano in oggetto di piacere, giocattolo a mio uso e consumo: il tuo piacere oggi è darmi piacere, anzi, permettermi di prenderlo a mio piacimento. Ti siedi sui talloni mentre giungi le mani dietro la schiena: non c’è bisogno di bloccarle con le manette di tessuto, sappiamo entrambi che non le muoverai da lì.
Rimani immobile, in attesa di un mio gesto, di un movimento: vedo i tuoi occhi che sostengono il mio sguardo, poi piano scendono a squadrare la mia figura. Quando si fermano capisco che stai fissando il bozzo nei pantaloni, che cela senza alcun risultato la mia erezione. Percepisco il tuo respiro farsi più affrettato, la salivazione aumentare colando ora abbondante dalla tua finta bocca spalancata: grosse gocce cadono, filanti, bagnando il tuo seno, inzuppando il tessuto leggero della camicetta, scivolando sul tuo corpo fino a raggiungere il tuo inguine. La saliva densa adorna i peli della tua fica con piccole gocce che paiono perle mentre quella che sfugge scende ancora più in basso, mischiandosi con gli umori che cominciano a colare dalla fica, scurendo il tessuto dei cuscini su cui sei inginocchiata con la tua eccitazione.
Mi avvicino, fermandomi a pochi centimetri dal tuo viso, il cazzo ancora costretto nei pantaloni così vicino al tuo naso che per guardarlo sei quasi costretta ad incrociare gli occhi. Resto così qualche minuto, godendo dell’attesa, dell’aspettativa per ciò che entrambi sappiamo che presto accadrà.
Slaccio la cinta e sbottono i pantaloni per liberare il cazzo ormai duro e vedo la tua lingua fare capolino dalle labbra di gomma pregustando il contatto con la mia cappella. Se tu potessi parlare, conciata in quel modo, sono sicuro che mi chiederesti di scoparti la gola subito, o comunque così decido di interpretare i lievi mugolii che emetti.
Decido di non soddisfare questa muta richiesta, strusciandoti invece il cazzo sulla faccia: parto dalla fronte e scendo sulla guancia sinistra passando sull’occhio, seguo il contorno del mento per risalire dal lato opposto. Lo poggio sotto le tue narici e ti faccio sentire il profumo della mia eccitazione, per poi seguire il contorno osceno delle tue nuove labbra di gomma. Ti sento fremere ma un attimo prima di affondare nel buco ormai fradicio di bava che ti ritrovi al posto della bocca, mi allontano. Vado alle tue spalle e percepisco il tuo sconcerto, perché questo non fa parte del film che ci siamo fatti; ho deciso però che se devi essere il mio giocattolo, voglio giocarci come si deve. Mi senti frugare nella borsetta dei giochi e poi avvicinarmi alla tua schiena. Ti inclino leggermente in avanti, sollevando il culo dai talloni. Senti un oggetto scivolare sul tuo sesso, lubrificandosi sulla tua fica fradicia. Capisci essere il tuo vibratore a C quando lo senti penetrare contemporaneamente nella fica e nel culo, stimolandoti con delle pulsazioni leggere ma costanti. Mi senti armeggiare con la catenella che punta la tua fica, a cui appendo l’ovetto vibrante in modo che ad ogni tuo movimento tocchi il clitoride, stimolandoti anche lì.
Ti rimetto in posizione e torno davanti al tuo viso: questa volta basta giochetti, poggio entrambe le mani sulla tua testa e spingo piano il cazzo nella tua bocca. Lo sento arrivarti in fondo, trovare una lieve resistenza. Deglutisci spianando la strada per la tua gola e spingo fino in fondo, fino a farti affondare il naso nel mio pube. Rimango fermo così per qualche secondo, assaporando la sensazione della gola che si chiude attorno al mio cazzo, accarezzando il bozzo che si forma in gola con la mano. Ti sento tremare, forse per un accenno di conato o forse come anteprima di un orgasmo che sta montando dentro di te, usata contemporaneamente in tutti i buchi, splendida e puttana allo stesso tempo. Sfilo il cazzo per farti respirare, poi ricomincio a scoparti la gola aumentando poco alla volta il ritmo: quando mi accorgo che sei vicina a vomitare sfilo di colpo il cazzo facendo eruttare una fontana di saliva e bava che va ad inluridire ancora di più il tuo corpo già vischioso.
Continuo così, rallentando e accelerando il ritmo fin quando non ti sento godere come una lurida cagna, affogata sul mio cazzo, le palle schiacciate sul mento, quasi soffocando nel tentativo di prenderne ancora di più. Ti sento squirtare, i cuscini ormai zuppi di saliva, piscio e succo di fica, inebriante e zozzo cocktail di piacere. Trattengo il mio orgasmo fino a quando non termina il tuo, poi sfilo piano il cazzo dalla tua gola: ormai è completamente ricoperto di bava, che gocciola densa sul pavimento.
Lo afferro e comincio a segarmi lentamente davanti al tuo viso, venendo dopo pochi colpi.
Poggio la cappella sulle tue labbra di gomma, ricoprendole di sperma come fosse un osceno rossetto. La tua lingua sporge cercando di raccoglierne quanto più possibile, ma quando ho finito infilo di nuovo il cazzo spingendola in fondo. Affondo l’ultima volta nella tua gola, facendoti stampare sul mio corpo un bacio di sperma, saliva, lacrime e sudore e piacere e tormento e passione e bisogno finalmente esaudito di prenderci e soddisfarci.
Ti slaccio la bocca di silicone, permettendoti di serrare finalmente la mascella esausta; sfilo il vibratore dal tuo corpo, porgendotelo perché tu possa pulirlo con la bocca, gustando il tuo sapore vischioso su entrambe le estremità del tuo gioco preferito. L’ovetto vibrante riceve lo stesso trattamento, seguito dalle labbra in silicone, da cui raccogli avida le ultime tracce di sperma.
Ti tolgo la maschera e stacco le mollette dal tuo corpo per poi aiutarti a tornare in piedi, ancora malferma sulle gambe.
Mi guardi fiera, troia, sporca, soddisfatta e felice della realizzazione dei nostri perversi desideri e non posso resistere alla voglia di affondare la lingua nella tua bocca, per assaporare il miscuglio dei nostri sapori.
Slaccio per ultimo il collare, riportandoti così alla tua dimensione umana. Ti guido verso il divano, dove collassiamo pigramente.
“Allora, come stai?”
“Ora decisamente meglio”
Le prime parole che scambiamo oggi.
Grazie marinaio. Auguro a entrambi di trovare pace.
@ciclicamentetorno
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Alla faccia di tutti voi sinistri che usate fb per dimostrare tutta la vostra ignoranza con chi la pensa diversamente da voi, proprio come succede questi giorni! Adesso cercate di digerire la notizia e prendetevi un maalox gigante!
I DEFICIENTES
Non gli è parso vero ai deficientes, mezzo governo indagato?
Erano così presi dalla esaltazione della notizia, che già vedevano
traballare il governo, forse cadeva? e la Meloni? e Piantedosi,
Nordio e Mantovano? Tutti indagati!
PD, M5S, AVS e non so chi altri hanno occupato il parlamento.
C'è questa abitudine di occupare le cose degli altri. Gli operai
occupano la fabbrica in cui lavorano, ma non è la loro. Gli
studenti occupano la scuola dove studiano, ma non è la loro.
I parlamentari di sinistra occupano il parlamento dove lavorano
ma non è il loro. Ilaria Salis docet. Non è un caso che la ladra
di case stia a sinistra.
Perfino il PM era così euforico per la sua iniziativa da non
soppesare con attenzione la denuncia.
Peculato! Favoreggiamento! Non avr�� consultato neanche
il codice penale per non perdere tempo.
Nessuno dei deficientes si è posto una domanda: "e se
Li Gotti ha scritto cavolate?
No! Era troppo bello vedere il presidente del consiglio
indagato, la stabilità di governo vacillare, le inevitabili
perdite economiche per il nostro paese, ma chi se ne frega!?
E poi è bastato un ex giudice della corte penale dell'Aia,
oggi in pensione, a smontare il castello di carte.
Invitato come grande esperto sul canal-sinistro La7,
CUNO TARFUSSER, questo il nome del giudice, ha
spiegato ad un attonito Formigli (nel programma di La7
Piazza sporca, no mi confondo, Piazza pulita) che non
c'è nulla.
Ma come, il Peculato?
Non si è mica appropriata dell'aereo?
E il Favoreggiamento?
Beh! Andavano indagati i 3 giudici della Corte d'appello,
sono loro che hanno scarcerato Almasri!
E ora?
I deficientes hanno occupato camera e senato fino a martedì.
Strepitano che la Meloni deve andare a riferire.
A riferire cosa?
Non avete capito che la Ragion di Stato impone di liberare
l'ingegnere iraniano, o rimpatriare qualcun altro?
Abbiamo la più grande piattaforma di estrazione in Libia
gestita dall'ENI. Due giacimenti a gas, chiamati
rispettivamente “Stuttura A” e “Struttura E”, situati
nell'area contrattuale D, al largo della Libia.
La produzione di gas inizierà nel 2026 e raggiungerà
un plateau di 750 milioni di piedi cubi di gas standard al giorno.
Capite, deficientes, che chi governa deve tutelare
l'interesse del paese?
Ma già! Voi che dovete capire? Siete deficientes!?
Il giudice Cuno Tarfusser
Dal profilo FB di Marina Siddi
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Molti dei Millennial sono cresciuti sotto l’effetto di strategie fallimentari di educazione famigliare.
Per esempio, è sempre stato detto loro che erano speciali, che potevano avere tutto quello che volevano dalla vita solo perché lo volevano.
Quindi qualcuno ha avuto un posto nella squadra dei pulcini non perché fosse un talento, ma solo perché i genitori hanno insistito con l’allenatore.
Oppure sono entrati in classi avanzate non perché se lo meritassero ma perché i genitori si erano lamentati con la scuola, per non parlare di coloro che hanno passato gli esami non perché se lo meritassero ma perché gli insegnanti erano stanchi di avere rogne dai genitori.
Ad alcuni hanno dato medaglie di partecipazione per essere arrivati ultimi, una bella medaglia affinché nessuno si dispiaccia.
La scienza comportamentale non ha dubbi: è una svalutazione della medaglia e dei riconoscimenti di chi lavora duramente per ottenere un buon risultato, inoltre fa sentire anche in imbarazzo chi arriva ultimo perché, se ha un minimo di dignità, sa che non se l’è davvero meritata quella medaglia.
Così queste persone sono cresciute con l’illusione che, anche senza sforzarsi troppo, è possibile farcela in qualunque settore.
Allora finiscono l’università, magari a pieni voti e pretendono immediatamente che un tappeto rosso si srotoli sotto i loro piedi, invece sono gettati nel mondo reale e in un istante scoprono che non sono per niente speciali voto o non voto, che i genitori non gli possono fare avere un buon posto di lavoro e figuriamoci una promozione, che se arrivi ultimo non ti danno niente, anzi rischi il licenziamento e, guarda un po’, non ottieni qualcosa solo perché semplicemente lo vuoi.
Non voglio fare ironia, credetemi, né tanto meno sorridere, la faccenda è davvero delicata poiché quando questa persona prende coscienza reale dalla situazione in cui si trova è un momento cruciale perché in un attimo, nell’istante preciso in cui concepisce la verità, l’idea che ha di se stessa va letteralmente in frantumi.
È questo anche il momento in cui si attacca alla sua fonte primaria di dopamina: i social network.
Ciò ci porta ad un altro problema : la tecnologia.
I Millennial sono cresciuti in un mondo fatto di Tik Tok, di Instagram ed altri social, dove siamo bravi a mettere filtri alle cose.
In cui siamo un po’ tutti fuoriclasse a mostrare alla gente che la nostra vita è magnifica: tutti in viaggio ad Ibiza, tutti al ristorante stellato, tutti felici e pimpanti anche se invece siamo tristi e depressi.
Ho letto un’interessante ricerca scientifica, che in sintesi dice che ogni qual volta che riceviamo una notifica sullo smartphone, un messaggio o quant’altro, nel nostro cervello viene rilasciata una bella scarica di dopamina (una sostanza che dà piacere).
Ecco perché quando riceviamo un messaggio è una bella sensazione oppure se da qualche ora non si illumina il cellulare, alcuna notifica, né un messaggio, iniziamo a vedere se per caso non è accaduto qualcosa di catastrofico.
Allo stesso modo andiamo tutti in stress se sentiamo il suono di una notifica e passano più di tre minuti senza che riusciamo a vedere di cosa si tratta.
È successo a tutti, ti senti un po’ giù, un po’ solo, e allora mandi messaggi a gente che forse nemmeno sapevi di avere in rubrica.
Perché è una bella sensazione quando ti rispondono, vero?
È per questo che amiamo così tanto i like, i fan, i follower.
Ho conosciuto un ragazzo che aveva sui 15 anni che mi spiegava quanto tra loro si discriminassero le persone in base ai follower su Instagram!
Così se il tuo Instagram cresce poco vai nel panico e ti chiedi: “Cosa è successo, ho fatto qualcosa di sbagliato?
Non piaccio più?”
Pensa che trauma per questi ragazzi quando qualcuno gli toglie l’amicizia o smette di seguirli!
La verità, e questa cosa riguarda tutti noi, è che quando arriva un messaggio/notifica riceviamo una bella botta di dopamina.
Ecco perché, come dicono le statistiche, ognuno di noi consulta più di 200 volte al giorno il proprio cellulare.
La dopamina è la stessa identica sostanza che ci fa stare bene e crea dipendenza quando si fuma, quando si beve o quando si scommette.
Il paradosso è che abbiamo veri limiti di età per fumare, per scommettere e per bere alcolici, ma niente limiti di età per i cellulari che regaliamo a ragazzini di pochi anni di età (già a 7 o 8 anni se non a meno).
È come aprire lo scaffale dei liquori e dire ai nostri figli adolescenti: “Ehi, se ti senti giù per questo tuo essere adolescente, fatti un bel sorso di vodka!
In sostanza, se ci pensate, è proprio questo che succede: un’intera generazione che ha accesso, durante un periodo di alto stress come l’adolescenza, ad un intorpidimento che crea dipendenza da sostanze chimiche attraverso i cellulari.
I cellulari, da cosa utile, diventano facilmente, con i social network, una vera e propria dipendenza, così forte che non riguarda solo i Millennials ma ormai tutti noi.
Quando si è molto giovani l’unica approvazione che serve è quella dei genitori, ma durante l’adolescenza passiamo ad aver bisogno dell’approvazione dei nostri pari.
Molto frustrante per i nostri genitori, molto importante per noi, perché ci permette di acculturarci fuori dal circolo famigliare e in un contesto più ampio.
È un periodo molto stressante e ansioso e dovremmo imparare a fidarci dei nostri amici.
È proprio in questo delicato periodo che alcuni scoprono l’alcol o il fumo o peggio le droghe, e sono queste botte di dopamina che li aiutano ad affrontare lo stress e l’ansia dell’adolescenza.
Purtroppo questo crea un condizionamento nel loro cervello e per il resto della loro vita quando saranno sottoposti a stress, non si rivolgeranno ad una persona, ma alla bottiglia, alla sigaretta o peggio, alle droghe.
Ciò che sta succedendo è che lasciando ai ragazzi, anche più piccoli, accesso incontrollato a smartphone e social network, spacciatori tecnologici di dopamina, il loro cervello rimane condizionato, ed invecchiando troppi di essi non sanno come creare relazioni profonde e significative.
In diverse interviste questi ragazzi hanno apertamente dichiarato che molte delle loro amicizie sono solo superficiali, ammettendo di non fidarsi abbastanza dei loro amici.
Ci si divertono, ma sanno che i loro amici spariranno se arriva qualcosa di meglio.
Per questo non ci sono vere e proprie relazioni profonde poiché queste persone non allenano le capacità necessarie, e ancora peggio, non hanno i meccanismi di difesa dallo stress.
Questo è il problema più grave perché quando nelle loro vite sono sottoposti a stress non si rivolgono a delle persone ma ad un dispositivo.
Ora, attenzione, non voglio minimamente demonizzare né gli smartphone né tantomeno i social network, che ritengo essere una grande opportunità, ma queste cose vanno bilanciate.
D’altro canto un bicchiere di vino non fa male a nessuno, troppo alcol invece sì.
Anche scommettere è divertente, ma scommettere troppo è pericoloso.
Allo stesso modo non c’è niente di male nei social media e nei cellulari, il problema è sempre nello squilibrio.
Cosa vuol dire squilibrio?
Ecco un esempio: se sei a cena con i tuoi amici e stai inviando messaggi a qualcuno, stai controllando le notifiche Instagram, hai un problema, questo è un palese sintomo di una dipendenza, e come tutte le dipendenze col tempo può farti male peggiorare la tua vita.
Il problema è che lotti contro l’impazienza di sapere se là fuori è successo qualcosa e questa cosa ci porta inevitabilmente ad un altro problema.
Siamo cresciuti in un mondo di gratificazioni istantanee.
Vuoi comprare qualcosa?
Vai su Amazon e il giorno dopo arriva.
Vuoi vedere un film?
Ti logghi e lo guardi, non devi aspettare la sera o un giorno preciso.
Tutto ciò che vuoi lo puoi avere subito, ma di certo non puoi avere subito cose come le gratificazioni sul lavoro o la stabilità di una relazione, per queste non c’è una bella App, anche se alcune delle più gettonate te lo fanno pensare!
Sono invece processi lenti, a volte oscuri ed incasinati.
Anche io ho spesso a che fare con questi coetanei idealisti, volenterosi ed intelligenti, magari da poco laureati, sono al lavoro, mi avvicino e chiedo:
“Come va?”
e loro: “Credo che mi licenzierò!”
ed io: “E perché mai?”
e loro: “Non sto lasciando un segno…”
ed io: “Ma sei qui da soli otto mesi!”
È come se fossero ai piedi di una montagna, concentrati così tanto sulla cima da non vedere la montagna stessa!
Quello che questa generazione deve imparare è la pazienza, che le cose che sono davvero importanti come l’amore, la gratificazione sul lavoro, la felicità, le relazioni, la sicurezza in se stessi, per tutte queste cose ci vuole tempo, il percorso completo è arduo e lungo.
Qualche volta devi imparare a chiedere aiuto per poi imparare quelle abilità fondamentali affinché tu possa farcela, altrimenti inevitabilmente cadrai dalla montagna.
Per questo sempre più ragazzi lasciano la scuola o la abbandonano per depressione, oppure, come vedo spesso accadere, si accontenteranno di una mediocre sufficienza.
Come va il tuo lavoro? Abbastanza bene…
Come va con la ragazza? Abbastanza bene.
Ad aggravare tutto questo ci si mette anche l’ambiente, di cui tutti noi ne facciamo parte.
Prendiamo questo gruppo di giovani ragazzi i cui genitori, la tecnologia e l’impazienza li hanno illusi che la vita fosse banalmente semplice e di conseguenza gliel’hanno resa inutilmente difficile!
Prendiamoli e mettiamoli in un ambiente di lavoro nel quale si dà più importanza ai numeri che alle persone, alle performance invece che alle relazioni interpersonali.
Ambienti aziendali che non aiutano questi ragazzi a sviluppare e migliorare la fiducia in se stessi e la capacità di cooperazione, che non li aiuta a superare le sfide.
Un ambiente che non li aiuta neanche a superare il bisogno di gratificazione immediata poiché, spesso, sono proprio i datori di lavoro a volere risultati immediati da chi ha appena iniziato.
Nessuno insegna loro la gioia per la soddisfazione che ottieni quando lavori duramente e non per un mese o due, ma per un lungo periodo di tempo per raggiungere il tuo obiettivo.
Questi ragazzi hanno avuto sfortuna ad avere genitori troppo accondiscendenti, la sfortuna di non capire che c’è il tempo della semina e poi quello del raccolto.
Ragazzi che sono cresciuti con l’aberrazione delle gratificazioni immediate, e quando vanno all’università e si laureano continuano a pensare che tutto gli sia loro dovuto solo perché si sono laureati a pieni voti.
Cosicché quando entrano nel mondo del lavoro dopo poco dobbiamo raccoglierne i cocci.
In tutta questa storia, sono convinto che tutti abbiamo una colpa, ma che soprattutto tutti noi possiamo fare qualcosa di più impegnandoci a capire come aiutare queste persone a costruire oggi la loro sicurezza e le loro abilità sociali, la cui mancanza rende la vita di questi giovani inutilmente infelice e inutilmente complicata.
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Leccami dappertutto
Adoro essere leccata a lungo ovunque; desiderata ma assolutamente sottomessa. Semplicemente: amo obbedire all’amore e all’amante che mi coglie. Ti faccio tutto quello che mi ordini. Se solo intuisco che un uomo che mi piace mi vuole, gli faccio capire subito e senza equivoci che ci sto e di sicuro finiamo a letto entro un’ora. Lo so: sono una vera e propria troia. Ma sono una troia fondamentalmente stupida: non mi faccio neppure pagare!
Mi porti via con una conversazione intelligente, un gelato, un giro in macchina, un capo di lingerie neanche troppo costoso o un pezzo di bigiotteria economica. Sono una scema. Ma sono molto generosa. Amo e ho un bisogno fisico di giocare con la lingua. E di sentirne spesso una che mi percorra, che mi dia i brividi della passione. Ho una necessità quasi biologica di leccare un uomo o una donna, di inghiottire i suoi umori e sentire il suo corpo che gode, che viene grazie a me. E inghiottire ciò che produrrà per la mia gola. Il gusto è normalmente un po' sottovalutato, invece anch’esso è gran parte del sesso.
Inghiotto senza sprecare una goccia. Mio marito non sospetta nulla: lui è davvero un angelo. Mi mantiene come una principessa e mi porta sul palmo della sua mano. Non meriterebbe certo una puttana come me, al suo fianco. Non gli ho neppure dato dei figli, né ho alcuna intenzione di farlo in futuro. Spesso lui mi guarda a lungo, mi scruta, mi osserva e infine mi dice che potrei avere qualsiasi uomo o qualsiasi donna, tanto sono bella ai suoi occhi. Che gli brillano d’amore e gratitudine, mentre lo dice. Io abbasso il viso e arrossisco. Lui pensa che io sia una donna timida e pura. Quanto mi adora.
Fondamentalmente è un uomo molto buono: è solo contento che l’abbia sposato e che abbia quindi scelto volontariamente di essergli fedele, di rispettare il sacro vincolo matrimoniale. Poveretto: sapesse! Però lo tratto bene e non gli faccio mancare dei bei pranzetti e una casa accogliente e pulita. Lui ha oltre venti anni più di me e l’ho sposato in fretta e furia, per uscire da casa il prima possibile.
Mamma m’ha sempre odiata: lei non è riuscita a tenersi papà e io gliene ho sempre fatto una colpa. Ogni giorno. Eppure in qualche modo ha saputo accalappiare il suo secondo marito: un dottore. Anche lui come mio marito è una persona generosa e dalle mille risorse. E con un bel fisico. Da appena sposati, io - neppure quattordicenne - ho iniziato a stuzzicarlo. Ma lui, da uomo saggio e timorato di Dio, ha sempre accuratamente evitato e m’ha ogni volta rimproverato bonariamente. Scuotendo la testa, davanti alla mia esuberanza adolescenziale.
Però era ed è pur sempre un uomo sano. Con tutti gli ormoni e i desideri al loro posto. Man mano che andavamo avanti, mamma lo trascurava sempre di più. Io invece sbocciavo rigogliosa e gli ero sempre meno indifferente. Me ne accorgevo da tanti piccoli particolari. Dal fatto che se prima mi sfuggiva, da un certo punto in poi ha iniziato invece a volermi stare intorno, a scherzare con me. Di continuo. Una mattina, dopo l’ennesimo litigio con mamma, ho deciso che l’avrei resa cornuta.
Se lo meritava e io mi sentivo potente, sessualmente irresistibile. Ho finto di prepararmi e poi di uscire per andare a scuola. Ma quando lei è uscita a sua volta per andare a lavorare nell’azienda dove in quel periodo prestava opera come consulente informatica, sono tornata a casa. Il mio patrigno era al piano di sotto, nel suo studio medico a visitare pazienti. E io di sopra a preparare la trappola.
A ora di pranzo mi ha trovata a casa; era sorpreso, ma piacevolmente. Ed era anche molto imbarazzato, ma comunque si trovava oggettivamente in una situazione da sogno per qualsiasi uomo: infatti gli ho fatto trovare due fili di spaghetti, un po’ di insalata e dei pezzetti di speck e formaggio. Un pranzo leggero, che gli ho servito truccata perfettamente e profumata. Indossando ciabattine con la zeppa, una sottoveste a mezza coscia velata, leggerissima. Completamente trasparente e... tutta aperta sul davanti!
Ovviamente, sotto ero completamente nuda! A diciassette anni le mie mammelle erano di marmo e il culo una “O” di Giotto. La fica poi era completamente depilata. Muovendo strategicamente le gambe e i fianchi, le mie grandi labbra si aprivano spesso, davanti a lui. Non parlava. Era ipnotizzato. Io ero talmente eccitata che oltre al profumo, egli ogni tanto sicuramente sentiva un refolo del mio odore inguinale intimo e del sudore delle mie ascelle. Una dolcissima tortura, irresistibile per chiunque..
Stava diventando pazzo, lo potevo vedere chiaramente. Mangiava, masticava ma non poteva togliermi gli occhi di dosso. Non riusciva proprio a dirmi di andare a rivestirmi. Finito che lui ebbe di bere un robusto bicchiere di vino rosso, sono andata a sedermi in grembo a lui. Gli ho gettato le braccia al collo e facendo l’espressione più bambinesca e innocente possibile gli ho stampato dei baci sulle guance. Gli sorridevo, l’accarezzavo, gli prendevo le mani: me le mettevo una tra le cosce leggermene allargate e l’altra sotto le natiche semiaperte!
Non poté fare a meno di iniziare a frugarmi la passera e l’ano. Non avrebbe resistito un santo. Era arrapato da impazzire: ogni tanto gli toccavo la patta e la cosa mi era chiarissima. D’un tratto si risolse: mi prese in braccio e mi mise sul divano in sala. Però in sostanza si limitò a leccarmi da morire ovunque. Partì col collo: mi divorava e mi ricopriva di saliva. Poi passò al seno e ci lavorò a lungo. Mi succhiò i capezzoli godendo come un maiale, il dottore.
Infine, si decise al passo più importante: leccarmi la passera e l’ano. Mi fece venire più volte. Gli ricoprii tutta la testa del mio prezioso miele. Scherzando scherzando, pian piano gli sbottonai i calzoni e glielo presi in bocca. Però dopo tre o quattro pompate lui si ritrasse e disse: “No, tesoro mio.... non possiamo. Basta, per favore. Mi farai morire.”
S’erano fatte le tre e mezza del pomeriggio, per cui si lavò e tornò nello studio. La serata e i due giorni successivi passarono come se nulla fosse successo. Solo occhiate più o meno esplicite e sorrisi imbarazzati. Ma la terza notte però alle due, mentre mamma ronfava stanca morta, mi si infilò dentro al letto, col profilattico già calzato. Mi mise una mano sulla bocca, mi pregò di fare silenzio e mi disse che non ce la faceva più. M’allargò le cosce e mi scopò. Dieci minuti, non di più. Io lo assecondai e godetti.
Ma mi sforzai di restare impassibile e di non gemere. Non dissi nulla. Venne e subito dopo se ne scappò, come un ladro. Al mattino, imbarazzatissimo, mi chiese scusa: che non avrebbe dovuto, mi pregava di dimenticare, non si può proprio fare etc. Col kaiser: ce l’avevo in pugno, ormai. Però non dovetti neppure faticare: da subito iniziò a volermi scopare ogni volta che avevamo un’ora di tempo libero insieme e che mamma non c’era.
Purtroppo, noi donne abbiamo antenne sensibilissime e mia madre quindi scoprì quasi subito la cosa. Avrebbe voluto uccidermi, o come alternativa allontanarmi per sempre “per farmi fare in strada la puttana che ero” disse. Per non far scoppiare uno scandalo però, sopportò tutto per un breve periodo. Anche perché il mio patrigno era molto preoccupato, mortificato e si mise di impegno a lavorare per me.
Egli riuscì in due mesi soltanto a trovarmi un marito: riuscì a convincere questo suo buon amico d’infanzia ancora scapolo, che accettò subito di sposarmi: non mi potevo opporre. Né lo avrei voluto. Qualsiasi cosa, pur di andarmene. Al futuro sposo non sembrava neppure vero! Avevo meno di diciotto anni e lui oltre quaranta. Non era e non è certo un’aquila; né ha un fisico da fotomodello. Però è un brav’uomo. In sostanza, una buona sistemazione, per me.
Meglio della strada su cui mia madre m’avrebbe buttato immediatamente, dopo avermi scoperta rientrando prima del previsto nel suo letto matrimoniale, col suo uomo ben piantato nel mio culo mentre io gli gridavo: “dai, fottimi. Vieni, sborra, rendiamo super cornuta mamma. Muovitiiii...” E allora eccomi qui. Mi piace troppo fare sesso. Ultimamente sono anche costretta a usare una crema lenitiva e rinfrescante per le parti intime, visto che faccio sesso due o anche più volte al giorno.
Posso farlo senza problemi: è il vantaggio di vivere in una grande città e di saper giostrare con internet. Due o più volte al giorno non contando le esigenze di mio marito. Abbastanza diradate durante il mese, invero. E soprattutto io succhio, lecco, ingoio avidissima e raggiungo l’estasi massima quando un uomo mi sborra in gola. Mi faccio succhiare, leccare e lascio anche che la saliva e gli odori dei miei amanti sul mio corpo eccitino il mio coniuge a letto: lui mi dice che ama il fatto che io abbia un odore così mutevole. Non capisce come questo sia possibile. Mi dice che vengo da un altro pianeta, ma si eccita. E mi scopa. Poi finalmente posso farmi una bella doccia.
RDA
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- Queste scarpe mi uccidono….., dico con una smorfia mentre mi lascio cadere sul divano e ne sfilo una….
Siamo di ritorno dal matrimonio di mia nipote. Ovviamente, come nonna della sposa, sono stata particolarmente attenta a presentarmi elegante e a posto, sapendo che avrei avuto con il resto della famiglia gli occhi addosso degli altri invitati.
Ma forse alla mia età non posso più permettermi di tenere i tacchi alti per tante ore….
- Vu….vuoi che ti aiuti, nonna?
A parlare è mio nipote, l’altro, il maschio, più piccolo di sua sorella la sposa. È lui che mi ha riaccompagnato a casa. Ci siamo divisi in più auto dopo la cerimonia e Marco mi ha fatto da autista. Sotto casa, gli ho detto di salire con me. Sembrava contento.
Adesso, quella frase mi ha un po’ sorpreso. Lo guardo. È arrossito. Però non so che dire, è una offerta così dolce….
Si inginocchia davanti il divano. Sfila una scarpa con delicatezza. Prende il mio piede tra le mani. Comincia a massaggiarlo. Sono ancora più stupita, ma devo ammettere che era proprio ciò che mi ci voleva…..
- A…a…anche l’altra, nonna?
Non rispondo, ma gli porgo il piede. Sfila anche l’altra scarpa. Le sue dita mi massaggiano i piedi. Avvolgono i talloni. Passano delicatamente sotto la pianta. Inarco il piedino. Massaggia, o dovrei dire piuttosto accarezza, le dita.
Mi sfugge un gemito. - Sei bravo….
Il massaggio è ancora più intenso. E me lo godo. Avvolge con le dita la caviglia, pressa nei punti giusti. È tutto intento nel suo lavoro, lo guardo ma tiene il capo chino, non lo solleva nemmeno verso di me.
- Ma dove hai imparato?, dico ridendo.
Mi sembra che inghiotta a vuoto. - V..vu…vuoi che smetta, nonna?
- oh no, assolutamente, rispondo e inarco ancora i piedini.
- Ha…hai dei piedi bellissimi, nonna….
Che dolce complimento. Da mio nipote, ma pur sempre un complimento, e per una vecchia signora….
- Lo pensi davvero o lo dici solo per fare contenta tua nonna?
Che perfida che sei, così lo metti in imbarazzo, il cucciolo.
Ma lui continua, quelle dita, quello sfiorare delicatamente, ora la monta, ora la pianta dei miei piedini, mmm, non riesco a non pensare a quanto siano sensuali quelle carezze. Cosa mi sta succedendo?
- Si, lo p…pp…penso….
-Grazie Marco, quelle scarpe sono eleganti, ma così strette……
Mi sfugge ancora un gemito, quando Marco prende un piede fra le mani e lo porta alle labbra, e le poggia sopra, per un bacio.
O forse sono stata io a spingere il mio piede verso la sua bocca, fino a premerlo sulle sue labbra….
Che importa. Adesso è la pianta, poggiata sul suo viso, che lui bacia. E poi le dita. E poi di nuovo la monta, e la caviglia, risalendo, finché non è la punta della sua lingua che sento attraverso le calze sulla pelle e lui che comincia a leccare piano la gamba….
Potrei fermarlo, certo, allontanarlo, tirare indietro le gambe, sgridarlo…..Invece poggio l’altro piede sulla sua guancia e lo uso per accarezzargli il viso….
- N…no…nonna, hai delle c..ca….calze bellissime, mormora in un sussurro, senza smettere di baciarmi e leccarmi le gambe.
- Davvero ti piacciono le mie calze, amore?, gli dico mettendo una mano sulla sua testa, le dita fra i capelli.
- e….la …riga…., sussurra ancora. Quelle scarpe, con quei piccolissimi pompon, che sapevo avrebbero guidato gli occhi sulla riga delle mie calze….non ho fatto male a metterle, proprio no….
La sua bocca è risalita, mi bacia sulle ginocchia, ora. Si ferma. Solleva finalmente il viso. I nostri occhi finalmente si incrociano.
- s…scu…scusa, nonna. Ho perso la testa…., lo dice strozzato, quasi un singhiozzo.
- Tu solo?, è la mia risposta. Con le dita laccate stringo il suo viso fra le mani. E, dolcemente lo attiro verso il mio grembo. Lo guido a continuare e baciare e leccarmi le calze, mentre allargo le gambe e lo attiro in mezzo alle mie cosce.
Quando le sue labbra arrivano a sfiorare le mutandine di pizzo, emetto un gemito più forte degli altri e un incontrollato riflesso mi fa stringere le cosce sul suo viso. Le sue labbra sentiranno le mutandine bagnate.
Stamattina le ho indossate sopra il reggicalze. Sarà facile farmele sfilare per poi farmelo su questo divano.
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presa da un atto di coraggio, recuperai carta e penna, iniziando a scrivere le ultime parole che ti concessi, prima di dirti definitivamente addio.
23 novembre 2023
Ciao amore,
sono passati un po’ di mesetti dall'ultima volta che ti scrissi una lettera, ormai ne ho scritte così tante che ne ho perso il conto, anche se a dire la verità non le ho mai contate.
come ben sai, scrivere è il mio unico modo per esprimere ciò che ho dentro e ciò che non riesco a dire a voce...
in alcune lettere menziono sempre il fatto di dove io avessi sbagliato, di come avrei potuto fare scelte diverse o semplicemente raccontare le mie giornate o quello che comunque faccio nel presente.
poche volte menziono i ricordi, molte volte ripeto quanto ti abbia amato, e soprattutto quanto ancora ti amo.
questa è l'ultima lettera che ti scriverò, ho deciso di mettere la parola fine e il punto a tutto ciò che c'è stato in passato, ma soprattutto alla nostra storia, consapevole che il sentimento che ho provato per te, non lo proverò con nessuno.
ho capito che ci sono un'infinità di amori, che ogni amore con una persona è diverso dall'amore con un'altra, questo l'ho capito con il passare del tempo, e mi dispiace se me ne sia accorta troppo tardi.
ho provato a fare del mio meglio, come tu hai provato a fare del tuo, lottando con anima e corpo.
ogni tanto la sera prima di andare a dormire, rileggo le tue lettere, ogni volta è sempre un'emozione diversa, ogni volta ricado nei ricordi ed è bellissimo riprovare certe emozioni, ma è alquanto bruttissimo invece leggere e rileggere le stesse righe, le stesse frasi, le stesse parole, senza essermi resa conto dei dettagli.
citavi sempre che io meritassi di meglio, che ti sentissi sbagliato per me, e l'ultima volta che le ho rilette, ho capito troppo tardi che tu non ti sentissi all'altezza, e ti chiedo scusa se non me ne sia accorta, ti chiedo scusa se ti ho fatto sentire così, ti chiedo scusa se non ho fatto nulla per far si che non pensassi più cose del genere.
tu mi meritavi, tu eri all'altezza, senza di te mi sarei sentita persa, senza di te sarei crollata ancora prima di rialzarmi, senza di te sarei annegata, per farti capire che tu per me eri importante.
eri tu tra i due il più forte, eri tu tra i due che non mollava, eri tu tra i due che lottava, eri tu e sei sempre stato tu a non mollare tutto. sei determinato, furbo, intelligente, forte, un po' testardo, ma hai un grandissimo cuore e tanto da offrire a mio parere, ora non so come tu sia, ovviamente grande vaccinato e maturo, ma quando ami dai il mondo.
ci siamo sempre detti che nonostante non ci fosse più un per sempre tra di noi, di non mettere al primo posto nessun altro, io l'ho fatto, ma ora ti chiedo di non farlo a te, metti al primo posto Lei, dalle il mondo, amala, rendila felice, voglio che tu sia felice, che tu stia bene in primis, anche se questo porta a lei al primo posto anziché me.
in futuro se mai avrai una famiglia, oltre ad essere un buon padre, che ci scommetto che lo sarai, non raccontare di me, del tuo amore che hai provato per me, non raccontarlo, significherebbe raccontare il dolore, e l'amore non dovrebbe essere dolore, dovrebbe essere felicità.
tienimi solo come un bel ricordo, come una lezione di vita non so, ma tienimi solo per te come la ragazza dagli occhi belli da dio che hai conosciuto al lago durante una banalissima e noiosissima gita scolastica. solo questo ti chiedo.
ama tanto e sii amato, te lo meriti. spero con tutto il cuore che Lei ti stia dando tutto ciò che io non sono riuscita o non ho potuto darti.
grazie per aver fatto parte della mia vita, ti devo molto, ho anche mantenuto la promessa di non farmi del male, ma ora è arrivato il momento di lasciarti andare del tutto e volevo dirti anche che quel giorno dopo le lezioni di recupero in estate, quando hai ammesso di aver sbagliato a fare quello che hai fatto, lo stesso giorno in cui mi hai accompagnata in autobus ascoltando la nostra canzone e canticchiandola labbra contro labbra, in quel esatto momento ti avevo già perdonato, non mi importava del male che mi avevi fatta, non mi importava del male che poi in futuro mi avresti fatto, non mi importava perchè il sentimento che provavo per te era così forte e bello che sovrapponeva il dolore.
però so che tu non mi hai mai perdonata per la scelta che ho fatto, e va bene così, questo ha portato a un te felice ora, e se tu lo sei la sono anche io.
grazie per tutto.
per sempre tua.
[…]
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Mi disturba profondamente l’ignoranza, ma non quella che riguarda i libri mai letti, i film mai visti o i viaggi mai fatti. Quella non mi interessa. Mi infastidisce un’altra forma di ignoranza, più silenziosa ma altrettanto tagliente: quella di chi si sente in diritto di giudicare senza sapere, di chi parla come se conoscesse ogni sfumatura della mia vita, ogni ferita che porto addosso, ogni lacrima che ho nascosto.
È strano come certe persone si sentano autorizzate a costruire castelli di parole su fondamenta fatte di niente. Non sanno nulla delle notti insonni, dei giorni in cui anche alzarmi dal letto era una battaglia. Non sanno dei silenzi che mi hanno consumata dall’interno, delle volte in cui ho urlato nel vuoto senza che nessuno sentisse. Eppure parlano. Parlano come se fossero stati lì, come se avessero vissuto ogni passo, ogni caduta, ogni risalita.
C’è qualcosa di crudele in tutto questo, non trovi? Come se le persone ignorassero il fatto che dietro ogni volto c’è un’intera vita, un groviglio di esperienze, di dolori, di gioie rubate. Come se pensassero che ciò che vedono basti per capire, per giudicare, per dare sentenze.
Non sopporto questa leggerezza. La leggerezza con cui qualcuno può dire: “Ma perché sei così?” senza sapere quanto sia costato diventare così. Non sanno nulla delle fratture che ho cercato di ricomporre, dei pezzi che ho incollato insieme, anche se non combaciavano più. Eppure si permettono il lusso di puntare il dito, di mettere etichette che mi stanno strette, di cucirmi addosso storie che non sono le mie.
Ci sono persone che non si fermano mai a chiedersi cosa ci sia dietro. Guardano una superficie e si convincono che sia tutto lì, che non ci sia profondità, che non ci siano abissi nascosti sotto quel mare apparentemente calmo. Ma non sanno che ci sono stati giorni in cui quel mare era una tempesta, in cui non c’era un solo pezzo di me che non fosse in frantumi.
E la cosa peggiore? Non è solo il giudizio. È che questo giudizio arriva da chi non ha mai avuto il coraggio di tendermi una mano, di chiedere: “Come stai davvero?” Preferiscono costruire storie nella loro testa, perché è più facile così. È più comodo immaginarmi come vogliono loro, piuttosto che fare lo sforzo di vedermi per quella che sono veramente.
Ma io sono stanca. Stanca di difendermi, di spiegarmi, di giustificarmi. Non devo a nessuno il racconto delle mie battaglie. Non devo a nessuno la lista delle mie cicatrici. Se qualcuno vuole capire, deve avere la pazienza di guardare oltre, di ascoltare senza parlare, di accettare che non tutto può essere compreso con un’occhiata superficiale.
E sai cosa c’è di peggio? Quando queste persone riescono a farti dubitare di te stessa. Quando inizi a chiederti se forse hanno ragione, se forse sei tu a sbagliare, se forse la tua vita, con tutto il suo peso, non vale quanto quella degli altri. È un veleno lento, quello delle loro parole. Ma io ho deciso che non lo lascerò più entrare.
Perché la verità è questa: non importa quanto qualcuno cerchi di parlare al posto tuo, di riscrivere la tua storia con le loro parole. La tua storia è tua, e nessuno potrà mai capirla fino in fondo. Nessuno conosce il peso che hai portato, i passi che hai fatto, le decisioni che hai preso per arrivare dove sei ora.
E allora, sai cosa ho deciso? Ho deciso di non dare più potere a chi parla senza sapere. Perché le loro parole sono solo eco vuote, prive di significato. Non possono toccarmi, non possono ferirmi, non possono definirmi.
Forse non posso fermare l’ignoranza. Forse non posso impedire che la gente parli. Ma posso scegliere di non ascoltare, di non lasciare che le loro parole diventino il mio specchio. Posso scegliere di proteggere la mia verità, di custodirla come qualcosa di prezioso, qualcosa che appartiene solo a me.
E se qualcuno vuole davvero capire, dovrà avere il coraggio di chiedere, di ascoltare, di guardarmi negli occhi senza giudizio. Perché non ho bisogno di chi parla senza sapere. Ho bisogno di chi sa stare in silenzio e, in quel silenzio, mi accetta per quella che sono.
#pensieri#realtà#vita#tristezza#nostalgia#citazioni#quotes#citazione#frasi#frasi vita#verità#silenzio#ignoranza#scelta#parole#persone#giudizio
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È da un paio di mesi che faccio lezione di italiano a un ragazzo una volta alla settimana.
Avevo intuito che questo ragazzo fosse abbastanza ricco perché: 1. È giapponese ma ha fatto le superiori in UK (e non è una roba normale qui) 2. Vuole migliorare l'italiano perché mi ha detto che vuole aprire un business in Italia 3. I suoi hanno un'azienda e lui "lavora" lì.
Fin qui okay, cioè ci sembrava che fosse ricco però insomma ricco come potrebbe essere ricco uno che ha un'attività media (che so, una concessionaria, un negozio di immobili ecc).
Sabato ci vediamo per l'ennesima lezione e mi dice che prenota una stanza dove possiamo parlare liberamente. E io pensavo fosse tipo una sala di una biblioteca pubblica, una cosa del genere. Arrivo in stazione e mi viene a prendere e mi fa entrare in un palazzone gigante che pare più un albergo 5 stelle. Penso:"Ma dove cazzo mi sta portando?". Entriamo in questa sala molto bella con delle riproduzioni di quadri, un tavolo gigante e delle sedie comode.
Gli chiedo:"Come fatto a conoscere questo posto?" Mi fa:"Ah io abito qua"..
AH.
Facciamo conversazione come sempre, poi alla fine gli dico:"Ah comunque Mercoledì non ci sono perché vado ad un concerto"
Lui:"Ah sì? Chi vai a vedere?"
Io:"Ah non so se lo conosci, si chiama Miyavi"
(Ora per favore prima di continuare andate un attimo a leggere chi è Miyavi e fatevi una stima di quanto è famoso e quanti fan può avere in tutto il globo. Poi continuate a leggere questo post).
Lui risponde:"Ah sì certo che lo conosco! Abita anche lui qui. È mio vicino. Siamo sullo stesso ascensore!"
...
...
...
#sono passati quasi 2 giorni e io sono ancora SCONVOLTA#1. io immaginavo che questo fosse ricco ma non COSÌ TANTO RICCO#2. sono entrata nel palazzo dove ABITA uno dei miei ARTISTI GIAPPONESI PREFERITI#3. io avrei potuto incontrarlo FACCIA A FACCIA IN QUALSIASI MOMENTO#4. quante probabilità c'erano su TUTTA LA POPOLAZIONE DI TOKYO che io venissi in contatto col VICINO DI MIYAVI????#raga io non ci posso credere#io questo studentello me lo devo tenere stretto anzi STRETTISSIMO#non succede niente ma se succede qualcosa questo mi può spalancare porte e PORTONI#sono uscita da quella stanza che stavo per perdere l'equilibrio mentre camminavo tanto mi sentivo frastornata dalla cosa#my life in tokyo
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Valerio è morto da otto giorni, un’ora e dieci minuti. Cinque secondo i medici, ma io ero proprio lì e l’ho visto il suo cuore smettere di battere. Valerio è nato in un ospedale di Napoli ed è morto al policlinico di Modena. Della sua vita rimangono impressioni, la solidità con la quale s’era aggrappato al mio cuore, ed io al suo. Continuo a dirmi che passerà anche questa, che arriverà la pace ed afferrerò il telefono per chiamarlo, per immaginarmi sulla sua pelle, incastrata tra i peli del suo petto. Non succederà mai più.
Sono a Berlino da quarantotto ore. Sono partita senza avere un posto dove stare - lo avevo, ma non sapevo come accedervi - sono arrivata in aeroporto ed ho prenotato una stanza. La mattina dopo mi sono svegliata ed ancora non sapevo come avrei fatto. Poi ho fatto tutto.
Meno di un’ora fa ero ad Alexanderplatz. Incantata dalle luci e dalle persone, mi ero seduta su una panchina a fumare una sigaretta. Un ragazzo indiano mi ha teneramente rivolto la parola, è stato gentile. Ora sono sul balcone del mio nuovo e temporaneo appartamento a Frankfurter a chiedermi chi sono. Sono quella che va in giro per una città sconosciuta da sola, che ordina una zuppa in un ristorante vietnamita, che prende un aereo senza sapere dove dormire. Sono la donna che teneva la mano di Valerio mentre moriva, che ha tenuto la mano di Valerio le altre volte che era in coma, che per due volte lo ha risvegliato quando sembrava impossibile. Sono una persona minuscola che non ha saputo imporre ai suoi familiari di non firmare contro l’accanimento terapeutico, ben consapevole che Valerio volesse vivere. Un po’ meno consapevole dell’entità del dolore che gli abbiamo risparmiato, del destino di dialisi costretto a letto a cui abbiamo detto no per lui. Valerio ci ha messo tre giorni a morire, perché lui voleva vivere. Lui voleva vivere ed adesso devo vivere io, ma non so come. So che sono brava a farlo. So che lo amo, e che lui mi ha amata davvero. Adesso sono a Berlino da sola, sola come non sono stata mai. Ho paura di tutto, ma non si vede, come Valerio che è ovunque, ma da nessuna parte. Ho paura di riuscire come di non farlo.
Valerio sapeva fare tutto. Noi, forse, ci somigliavamo. Lui è la parte migliore di me, e voglio che il mondo lo veda anche più di prima, perché lui è la cosa più bella che abbia mai incontrato.
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