#dove è sepolto san Francesco
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Napoli - Francesco Laurana - Maschio Angioino - Arco trionfale - 1479
Fondata dai Greci di Cuma, i sovrani che nei secoli si sono susseguiti sul trono di Napoli sono stati:
i Normanni:
- Ruggero I d’Altavilla conquistò la Sicilia nel 1091;
- Ruggero II (1130 - 1154): fu il primo re di una Sicilia multietnica e multireligiosa avendo accorpato in un unico regno tutti i possedimenti normanni nell’Italia Meridionale conquistando Napoli nel 1137;
- Guglielmo I (1154 - 1166)
- Guglielmo II (1166 - 1189): eresse il Duomo di Monreale;
- Tancredi (1189 - 1194)
- Guglielmo III (1194)
- Costanza d’Altavilla (1194 - 1197)
gli Svevi:
- Federico II (1198 - 1250) Stupor Mundi: a Napoli istituì l’università nel 1224;
- Corrado (1250 - 1254): dovette confrontarsi con il potere del fratellastro Manfredi;
- Corradino (1254 - 1258): fu sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo e fatto imprigionare a Castel dell’Ovo e decapitare da Carlo d’Angiò nella piazza del mercato a Napoli, poi sepolto nella vicina Chiesa del Carmine. La dinastia degli Svevi scomparve con la morte di Manfredi nel 1266.
gli Angioini:
- Carlo I (1266 - 1285): fratello di Luigi IX il Re Santo, Conte d’Anjou, ricevette in vassallaggio la Sicilia e Napoli dal Papa che difese dagli Hohenstaufen. Edificò il Maschio Angioino, con uno stile che richiama il castello di Avignone, nel 1282;
- Carlo II (1285 - 1309): dovette rinunciare al trono di Sicilia dopo la rivolta dei Vespri Siciliani nel 1302;
- Roberto I (1309 - 1343): figlio di Maria d’Ungheria sepolta nella Chiesa di Donnaregina, fu apprezzato da Petrarca e amante della cultura e delle lettere;
- Giovanna I (1343 - 1382): fu fatta assassinare dal ramo di Durazzo degli angioini e le succedette
- Carlo (1382 - 1386)
- Ladislao (1386 - 1414)
- Giovanna II (1414 - 1435)
- Renato I (1435 - 1442)
gli Aragonesi:
- Alfonso I d’Aragona (1442 - 1458): sconfisse Renato d’Angiò e unì il tono di Napoli a quello di Sicilia e ai possedimenti della Sardegna e della Spagna occidentale. Combattè contro Milano e Genova e dotò il Maschio Angioino dell’attuale arco di trionfo;
- Ferdinando I detto Ferrante (1458 - 1494): all’inizio del suo regno dovette fronteggiare la rivolta angioina e successivamente sedò la rivolta dei baroni e si alleò con gli Sforza contro il re di Francia Carlo VIII d’Angiò. Del suo tempo la Chiesa del Gesù Nuovo;
- Alfonso II: sposò Ippolita Maria Sforza, ma dovette abdicare a causa della calata di Carlo VIII;
- Ferrandino (1494 - 1496)
- Federico I (1496 - 1503) durante il cui regno vi fu la conquista e poi la cacciata di Luigi XII re di Francia;
- Ferdinando III (1504 - 1516) dopo il quale il Regno di Napoli fu incluso in quello di Spagna prima sotto la casata degli Asburgo (con la breve parentesi della Repubblica di Masaniello fra il 1647 e il 1648) poi sotto quella dei Borbone (1700 - 1713) ed ancora sotto quella degli Asburgo d’Austria (1713 - 1734).
i Borboni:
- Carlo I (1734 - 1759): già Duca di Parma, conquistò e riunificò il Regno delle Due Sicilie anche grazie alla madre Elisabetta Farnese, seconda moglie del re di Spagna, che da Madrid influenzò la prima parte del suo regno. Riformò con Bernardo Tanucci l’amministrazione, promosse la musica (fondò il Teatro di San Carlo nella patria di Paisiello e Pergolesi), l’arte (promosse la ceramica di Capodimonte, fece costruire al Vanvitelli la reggia di Caserta del 1751 e quella che oggi è Piazza Dante oltre alla Reggia di Capodimonte dove installò la collezione Farnese) e sostenne gli scavi a Pompei ed Ercolano che iniziarono nel 1738);
- Ferdinando (1759 - 1799 e 1816 - 1825): sposò una figlia di Maria Teresa d’Austria, Maria Carolina che lo allontanò dall’influenza spagnola di Bernardo Tanucci, promosse la Marina Militare (nel 1787 fu fondata la Nunziatella), ma dovette subire una rivoluzione filo-francese (Eleonora Fonseca Pimentel, Mario Pagano, …) nel 1799 contrastata dal Cardinale Ruffo e da Fra Diavolo e la conquista napoleonica che insediò Giuseppe Bonaparte dal 1806 al 1808 e Gioacchino Murat dal 1808 al 1815 prima di diventare, con il Congresso di Vienna, Re delle Due Sicilie ed essere sepolto al Monastero di Santa Chiara;
- Francesco (1825 - 1830)
- Ferdinando II (1830 - 1859): fondò la prima ferrovia d’Italia (1839), ma fu reazionario e soprannominato il Re Bomba per come represse i moti rivoluzionari del 1848 a Messina;
- Francesco II (1859 - 1861): era figlio di Ferdinando II e di Maria Cristina di Savoia e sposò la sorella di Sissi, Maria Sofia di Baviera.
Con l’Unità, Napoli confluì nel Regno d’Italia: ecco perché la statua di Vittorio Emanuele II è presente a Palazzo Reale.
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Juice Sanguinis
Francesco Paolo de Ceglia è stato già protagonista di uno dei miei post bibliofili, qualche anno fa, quando scrisse un libro eccezionale sulla Storia del Miracolo di San Gennaro, che fu una lettura entusiasmante. È con lo stesso spirito di curiosità che ho comprato il suo ultimo, lavoro, dal titolo, non si può dire altro, gotico:
Anche in questo caso si tratta di una Storia Naturale, intesa come studio e descrizione dei componenti della natura, che stavolta riguarda i vampiri. Dico subito una cosa: non esiste una traduzione precisa del concetto di “vampiro” e persino la sua etimologia è oscura e misteriosa (va da sé, visto l’argomento, si potrebbe pensare), ma è chiaro che la nostra idea di “Vampiro” un succhiasangue spesso ben vestito che abita un castello terrificante sta al termine come Babbo Natale sta alla Coca-Cola. E lo spiega, con la sua scrittura precisa e barocca, il professore de Ceglia, che insegna Storia della Scienza presso l’Università di Bari, intraprendendo un percorso affascinante che parte da un dato storico: a metà del 1700, un po’ per pruderie editoriali un po’ per motivi politici, alcuni resoconti di ufficiali dell’Impero Austro-Ungarico, mandati da Vienna in sperduti angoli orientali dell’Impero, scoprirono che le popolazioni locali avevano “problemi” riguardanti dei “ritornati”, persone cioè morte ma che continuavano a disturbare la popolazione, soprattutto i familiari. Si fecero indagini, autopsie, e tra il preoccupato e lo scettico quei documenti arrivarono a Vienna, e segretamente poi pubblicati e ripresi da numerose Riviste Scientifiche e letterarie che accesero la miccia sui morti viventi dell’Europa orientale. Da qui, con un lavoro filologico e storico impressionante (oltre 1000 note, più di 400 tra Autori e Testi citati) de Ceglia indaga a ritroso sulle tradizioni legate a queste presenze, al ruolo che la Chiesa ha giocato sulla loro diffusione o sul loro confinamento, sulle problematiche teologiche, storiche e persino economiche. E si scopre che sotto la definizione vampiro si annidano figure che adesso definiamo con altri nomi, come gli zombie, ma che a seconda del contesto avevano caratteristiche specifiche, e molte altre comuni, che attraversano per centinaia di anni alcune zone dell’Europa. La storia è, il più delle volte, sempre la stessa: dopo il suo decesso, un membro marginale della comunità, spesso segnato da caratteristiche fisiche peculiari, ritorna col proprio corpo (e non semplicemente come spettro evanescente) a tormentare la popolazione del proprio villaggio, del tutto indifferente alla ratio che vorrebbe un corpo sepolto, e riesumato solo per accertarne l’assenza di decomposizione o eventualmente arderlo, inamovibile e del tutto incapace di vagare quando cassa e terra lo abbracciano. Ma non fu sempre così, e la categorizzazione delle varie differenze è meravigliosa, come lo scoprire perchè, e nel libro è prontamente spiegato, ci sono intere fasce di territorio europeo dove questo fenomeno non si riscontra.
Ma Dracula? Beh, questo lo posso svelare: fu un bellissimo ma cagionevole di salute scrittore irlandese, che nel 1890 stava scrivendo un libro, dal titolo provvisorio di Conte Wampyr lo inventò. Si imbattè in un libello nascosto in una biblioteca, Resoconto sui principati di Valacchia e Moldavia, nel quale aveva letto: “Dracula in lingua valacca significa Diavolo. I Valacchi avevano l’abitudine all’epoca, e ce l’hanno ancora oggi, di dare questo soprannome a tutte le persone che si distinguono per coraggio,. azioni crudeli o abilità”. Persino il riferimento a Vlad III Dracula, detto l’Impalatore (Tepes, nomignolo che si sarebbe affermato dopo la sua morte) è piuttosto occasionale. Quando uscì il suo romanzo, nel 1897, il clamoroso successo e l’imperitura trasfigurazione in opere teatrali e soprattutto cinema e televisione (potere dell’immagine, punto dell’era contemporanea) Dracula si trasformò in un elegante mordicollo, che odia la luce, che preferisce le tenebre e che trasforma chi morde in vampiro (che leggendo il libro sono caratteristiche che non si riscontrano, se non in minima parte, nelle storie dei vampiri “naturali” e sono tutta farina del sacco di Stoker).
Soprattutto, e qui sta la bellezza secondaria, è un grande affresco sul ruolo storico, culturale, politico e simbolico del rapporto con l’altro, con il diverso e, en passant, con la morte. E ci sono delle osservazioni che davvero entusiasmano (per chi leggerà il libro, raccomando particolare attenzione all’introduzione dell’idea del Purgatorio o come, per evitare pericolose contaminazioni, i segnali di santità sui corpi cambino repentinamente per non confondersi con quelli dei “non morti”).
È una lettura impegnativa, sia per l’argomento, per il tono da pubblicazione accademica (ma molto ironica e in alcuni passaggi esilarante) e anche per il prezzo del volume (34€) ma che scandaglia la storia dai miti greci fino a Buffy L’ammazzavampiri e True Blood o Twilight, nuovi fenomeni che cambiano ancora radicalmente la figura del vampiri, regalandole nuove e inaspettati rappresentazioni. D’altronde il possesso della conoscenza non uccide il senso di meraviglia e mistero. C’è sempre più mistero (Anaïs Nin).
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IL VERO '68: JAN PALACH, QUELLA TORCIA UMANA CHE 50 ANNI FA BRUCIO' NEL CUORE DI PRAGA
Jan Palach, lo studente di Praga che 50 anni fa si immolò in piazza per protestare contro la brutale invasione sovietica della Cecoslovacchia (21 agosto 1968), è senza dubbio uno dei personaggi che più è entrato nella coscienza dell’Europa post bellica, colpendo l’immaginario soprattutto dei giovani, in quegli anni impegnati nelle contestazioni globali contro una società che consideravano vecchia e sorpassata. Mentre Jan Palach manifestava per la liberta' dall'Unione Sovietica. Oggi a piazza San Venceslao, luogo del suo martirio, una lapide sempre adorna di fiori lo ricorda, e in tutta Europa ci sono migliaia di strade e piazze dedicate alla sua memoria. A Roma, ad esempio, la “sua” piazza è al Villaggio Olimpico, al Flaminio, e ogni anno molti giovani vanno a deporre una corona di fiori per ricordarne il gesto estremo di protesta per la libertà, gesto a cui seguì nei mesi successivi, quello analogo di altri sei giovani, purtroppo non passati alla storia come lui. Quello che colpì fu la sua maniera di uccidersi, dandosi fuoco pubblicamente come facevano – e fanno – certi monaci orientali. Oggi in Tibet sono centinaia i monaci che si sono bruciati per attirare l’attenzione del mondo sulla repressione comunista cinese, così come ieri i giovani cecoslovacchi intendevano denunciare il comunismo sovietico. Dopo la morte di Jan Palach, si tentò di nasconderne il significato in due modi: da una parte, quella della cosiddetta Europa libera, i giornali indagarono sulla personalità un po’ triste e malinconica di uno studente di filosofia che si intendeva far passare per uno squilibrato. Ma il tentativo fallì. Sul fronte interno, quello dei Paesi prigionieri nell’area Comecon, ossia quelli del Patto di Varsavia, soggetti all’Urss, addirittura la notizia non venne data e in Cecoslovacchia il corpo di Palach fu sepolto sotto falso nome in un angolo del cimitero praghese. Dovranno passare vent’anni, ossia fino al 1989, prima che Jan Palach possa avere una tomba “vera” e ufficiale. Adesso, passata la dittatura, le autorità ceche stanno anche pensando di fare della sua casa un museo: il Parlamento ceco ha di recente approvato lo stanziamento di 240.000 euro per restaurare la casa del padre a Vsetaty, nord di Praga. Si ipotizza anche di ristrutturare la pasticceria del padre, ubicata nello stesso immobile, che gli fu espropriata dal regime comunista negli anni ’50. «L’obbiettivo è conservare la memoria di Palach, cresciuto in questa casa, onorare il suo sacrificio, mostrare l’alto senso morale e il patriottismo di questo giovane e incoraggiare la gente a non essere indifferente dinanzi a ciò che accade nella società», spiega Jan Poukar, fondatore dell’associazione “Nazione Estinta” che si adopera da due anni per il museo nella casa vuota e malridotta dei Palach. Dentro dovrebbe essere sistemata la camera di Palach e allestita in altre stanze una mostra audiovisiva per documentare il clima opprimente dell’epoca. Jan Palach era nato l’11 agosto 1948 – anno dell’arrivo al potere del regime comunista con un colpo di stato – a Vsetaty, dove trascorse l’infanzia e la gioventù, fino a quando, a 19 anni, iniziò gli studi di lettere all’ Università Carlo a Praga. Oggi molti lo ricordano, ma nel 1970 il primo artista a cantarlo fu Francesco Guccini, nella sua “Primavera di Praga”. Il gruppo musicale alternativo La Compagnia dell’Anello gli ha dedicato negli anni Settanta la canzone “Jan Palach” e più recentemente il cantautore milanese Skoll ha scritto sulla Primavera cecoslovacca la bellissima “Le fate di Praga”.
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L’affetto verso i Confratelli Padre Clemente Tomay da Postiglione, Confessore e amico di Padre Pio, visse per 26 anni nel Convento di San Giovanni Rotondo e, nei suoi tanti ricordi sul Frate di Pietrelcina, riguardo ai suoi Carismi, così racconta: «Il 3 Ottobre 1923, giorno in cui la Famiglia Francescana, in comunione con tutta la Chiesa, ricorda il “Transito del Serafico Padre Francesco”, avvicinandomi a Padre Pio, fui circondato da un intenso profumo di violette, che durò per circa dieci minuti; esso era tale che, anche se piacevole, ne venivo quasi sopraffatto dalla particolare intensità. L’intensa fragranza di viole sembrò quasi volermi ricordare che Padre Pio, come San Francesco d’Assisi, Fondatore dell’Ordine Francescano, aveva avuto il Dono delle Stimmate da Dio Padre, Segno reale della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo». In merito ai “Profumi di Padre Pio”, lo stesso Padre Clemente riportò un altro episodio: «Stavo portando la Santa Comunione presso l’abitazione del Dottor Sanguinetti, il quale era malato. Subito dopo aver suonato il campanello, mi sentii circondato da un intenso profumo, che collegai agli altri percepiti in altre momenti da parte Padre Pio. Tornato al Convento, raccontai il fatto a Padre Pio e gli chiesi: "Padre, perché mi avete fatto sentire il vostro profumo?". Padre Pio, con il suo volto radioso, mi rispose: "Perché ti voglio bene e sono stato tanto contento che hai portato la Santa Eucaristia"». Una testimonianza, quella di Padre Clemente, affezionato Confratello di Padre Pio, che ancora una volta sottolinea come il Santo Frate da Pietrelcina, attraverso il Carisma del Profumo, facesse sentire la sua presenza anche ai suoi amati Confratelli. Padre Pio insieme a Padre Clemente Tomay, al secolo Alfonso Maria Umberto, suo Confratello e Confessore. Padre Clemente ha trascorso gran parte della propria vita a San Giovanni Rotondo, dove è sepolto presso il Convento dei Frati Minori Cappuccini.
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Filippo Vitale (Napoli, 1585 – 1650) uno degli artefici della pittura ba...
Era figlio di Marino Vitale e Laudonia Di Carlo. La data di nascita esatta non è ancora nota, ma probabilmente fu battezzato nella parrocchia napoletana di San Giorgio Maggiore. Il padre lavorava come doratore nella Strada di Monteoliveto, dove aveva la sua bottega anche il pittore Carlo Sellitto. Come Sellitto, Filippo Vitale imparò il mestiere nella bottega del pittore fiammingo Louis Croys e probabilmente conobbe anche Louis Finson e altri artisti nordeuropei. Dopo la prematura scomparsa di Carlo Sellitto, avvenuta il 2 ottobre 1614, Filippo si occupò della vendita dei suoi beni e completò la crocifissione iniziata dall'amico defunto per la chiesa di Santa Maria in Cosmedin a Portanova. Il 1 ottobre 1612 Filippo sposò in Santa Maria della Carità la vedova del pittore Tommaso De Rosa, Caterina Di Mauro, e ne adottò i cinque figli. Di questi due divennero anche pittori, Giovan Francesco, detto Pacecco De Rosa, e Diana, detta Annella De Rosa. Filippo e Caterina ebbero insieme anche sei figli; la loro terza figlia Orsola Margherita sposò nel 1639 Anello Falcone. Filippo Vitale ricevette la sua prima commissione per un quadro di San Francesco nel 1613 da Giovanni Di Napoli, abate del monastero di Santa Maria di Monteoliveto, che in seguito gli commissionò altri quadri. Oltre ai soggetti religiosi, Vitale dipinse anche ritratti. Dalla fine del 1616 alla metà del 1619 collaborò con Caracciolo e Giovan Vincenzo Forlì alla decorazione dell'Annunciazione di Capua, dipingendo i quattro dipinti del soffitto. Su commissione di Cesare Carmignano, Vitale dipinse la Madonna col Bambino ei santi Gennaro, Nicola di Bari e Severo nel 1618 per la chiesa di San Nicolò alle Sacramentine. Il quadro si trova nel Museo di Capodimonte dal 1991 ed è caratterizzato da un elegante naturalismo che è ovviamente influenzato da Jusepe de Ribera. Al committente piacque così tanto che l'anno successivo ordinò al pittore anche una Madonna di Costantinopoli, oggi purtroppo andata dispersa. Altre note opere di Vitale della sua prima fase creativa sono l'angelo custode firmato nella chiesa della Pietà dei Turchini e una liberazione di S. Pietro dalla prigione che si ispira al quadro del 1615 di Caracciolo nel Pio Monte della Misericordia. Dalla fine degli anni 1620 Vitale cambiò il suo stile fino ad allora naturalistico in una direzione più elegante, decorativa e bella, influenzata dalle innovazioni di Massimo Stanzione e dei pittori bolognesi di Napoli Domenichino e Lanfranco. Un ruolo non trascurabile lo svolse anche il figliastro Pacecco de Rosa, che divenne il successore di Vitale nella conduzione della bottega. Nelle opere di questa fase non sempre si distinguono nettamente le mani di Vitale e Pacecco. Filippo Vitale morì il 18 marzo 1650. C'è una certa confusione sul luogo della sua tomba: secondo i registri della sua parrocchia di San Giuseppe Maggiore, fu sepolto nel cimitero del monastero associato, comecome da lui desiderato; invece, secondo il registro dei morti della chiesa di San Giovanni Maggiore, sul "Monte Calvario" sarebbe stato sepolto un "Filippo Vitale, marito di Catarina".
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MARTEDI 24 GENNAIO 2023 - ♦️ SAN FRANCESCO DI SALES♦️ Francesco di Sales (in francese François de Sales; Thorens-Glières, 21 agosto 1567 – Lione, 28 dicembre 1622) è stato un vescovo cattolico francese. Francesco fu il figlio primogenito del signore di Boisy, nobile di antica famiglia savoiarda, e ricevette una raffinata educazione. Il padre, che voleva per lui una carriera giuridica, lo mandò all'Università di Padova, dove Francesco si laureò, ma dove decise di divenire sacerdote. Ordinato il 18 dicembre 1593, fu inviato nella regione del Chiablese, dominata dal Calvinismo e si dedicò soprattutto alla predicazione, prediligendo il metodo del dialogo: inventò i cosiddetti «manifesti», che permettevano di raggiungere anche i fedeli più lontani. È stato proclamato santo nel 1665 da papa Alessandro VII ed è uno dei dottori della Chiesa. L'11 dicembre 1622 a Lione ebbe l'ultimo colloquio con la sua penitente e qui morì per un attacco di apoplessia il 28 dicembre dello stesso anno, nella stanzetta del cappellano delle Suore della Visitazione presso il monastero. Il 24 gennaio 1623 la salma fu trasportata ad Annecy e posta alla venerazione dei fedeli nella basilica della Visitation, sulla collina adiacente alla città; in seguito venne sepolto nella chiesa a lui dedicata nel centro della città. Il suo cuore incorrotto si trova nel Monastero della Visitazione a Treviso. Da Il Santo del Giorno Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia Sicilia Terra di Tradizioni #Tradizioni_Barcellona_Pozzo_di_Gotto_Sicilia #Sicilia_Terra_di_Tradizioni Rubrica #Santo_del_Giorno (presso Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia) https://www.instagram.com/p/CnzSZsiIg3c/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Lezione del 19/05/2020
AUTORE: sconosciuto
NOME: Basilica di San Francesco d'Assisi
DATA: 1228
LUOGO: Assisi
CONTESTO ORIGINALE: La chiesa sorge dove San Francesco fu, secondo la tradizione, sepolto, per volontà di Papa Gregorio IX.
SCELTE TECNICHE E STILISTICHE: La basilica è in realtà formata da due differenti chiese: quella inferiore più bassa e buia, è decorata con le pitture di Giotto, Cimabue, Simone Martini e Pietro Lorenzetti; in quella superiore (composta di una sola navata) sono invece raffigurate 28 scene della vita di San Francesco negli affreschi di Giotto e della sua scuola che, con i loro colori accesi quasi ricordano i mosaici paleocristiani e sostituiscono vetrate o pinnacoli, qui assenti.
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BASILICA DI SAN FRANCESCO D'ASSISI
Nome🌻: Basilica di San Francesco d'Assisi
Data🌻: 1228
Luogo🌻: Assisi
Autore🌻: Sconosciuto
Contesto originale🌻: Secondo la tradizione la Basilica sorge là dove Francesco volle essere sepolto, presso la collina inferiore della città di Assisi, dove venivano sepolti i condannati alla pena capitale. Questo venne avviato per volontà di Papa Gregorio IX nel 1128 a seguito della proclamazione a santo di San Francesco.
Scelte stilistiche🌻: Il compesso è formato da due chiese sovrapposte ed indipendenti. La basilica superiore ha un aspetto gotico, luminoso e slanciato e possiede degli splendidi affreschi di Giotto e della sua scuola che ritraggono la vita di San Francesco in 28 riquadri dallo straordinario sfondo azzurro. La basilica inferiore invece è più austera e buia ed è decorata da opere di maestri della scuola fiorentina come Giotto, Cimabue, Simone Martini e Pietro Lorenzetti, internamente ad una navata con transetto. La struttura architettonica vide la sua progressiva integrazione con la realizzazione di un campanili con cuspidi, la costruzione di un portico di fronte all'edificio inferiore, l'aggiunta di un atrio in pietra ancora per il portale, l'eliminazione delle cuspidi del campanile.
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La mole inconfondibile del convento di San Francesco domina il paesaggio di Assisi con i suoi archi che sostengono gli edifici conventuali e le sue due chiese sovrapposte, che ne fanno uno dei massimi capolavori dell’arte medievale al mondo. Eppure questo convento, eretto nel 1248 e oggi tra i più visitati della cristianità, fu considerato per molti anni un vero e proprio scandalo da quella minoranza di frati che riteneva di seguire l’autentico messaggio francescano.
“I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia” (dalla Regola Bullata di san Francesco di Assisi)
Considero Assisi, e non penso di essere il solo, la più spirituale delle città italiane, capace di conservare, malgrado il vertiginoso aumento di visitatori, il ricordo e la presenza del suo figlio più illustre. E tra tutti i monumenti di Assisi il più notevole, mirabile, indimenticabile è proprio il Sacro Convento, la cui mole annuncia già da lontano la presenza della città francescana. Molti preferiscono a questo luogo altri santuari francescani di Assisi (le Carceri o san Damiano) ma non c’è dubbio che questo sia “il ” Santuario francescano per eccellenza, oltre che uno straordinario contenitore di capolavori artistici. Ma proprio questa grandezza, questa bellezza che noi tutti riconosciamo furono alle origini del movimento francescano oggetto di un fiero dibattito tra le due anime da sempre presenti tra i seguaci di Francesco: quella più pauperistica e spirituale, che voleva i frati ancorati allo stile di vita estremo praticato dal fondatore, e quella più “moderna” che sosteneva che per poter sopravvivere il movimento avesse bisogno di darsi delle regole, delle strutture e persino dei conventi più strutturati. Questo dibattito è durato per secoli, portando nel 1517 alla scissione dell’ordine francescano i due famiglie: i Conventuali e gli Osservanti, poi divenuti gli attuali frati Minori. I primi, che vestono di nero, sono ancora i custodi di questo grande santuario, come pure di gran parte delle grandi chiese cittadine dedicate a san Francesco e di altri santuari di grande importanza come quello di Padova. I Minori, invece, che vestono il tradizionale saio marrone, sono da sempre più portati a un’attività missionaria, a una predicazione “sociale” e alla costituzione di comunità più piccole ma con diffusione più capillare. Della terza grande famiglia francescana, nata da un’ulteriore scissione di carattere pauperistico, ho già parlato in un post precedente a cui rimando chi non lo avesse letto. (cappuccini).
Tornando ad Assisi, è difficile infatti immaginare Francesco, l’umile e “folle” Francesco, a suo agio in un luogo come questo, dove ogni pietra, ogni affresco, ogni angolo esprime maestà, rispetto, emozione. Ma non si poteva fare altrimenti; i suoi seguaci, e in particolare il suo successore designato frate Elia, che ne volle fortemente l’edificazione, non potevano pensare di celebrare la gloria del proprio maestro con effimere capanne di paglia e fango o grotte umide e fredde, come sarebbe sicuramente piaciuto a Francesco. Lo stesso valeva per i cittadini di Assisi, che lo avevano deriso e tollerato quando era in vita, ma che grazie a lui sarebbero stati conosciuti in tutto il mondo. Elia da Cortona resse a due riprese l’Ordine francescano, una prima volta ancora vivente Francesco, poi dal 1232 al 1239. Fu un generalato controverso il suo: per alcuni storici fu infatti il sapiente organizzatore della comunità; secondo altri, e in particolare per tutta la storiografia di ispirazione “spirituale”, fu invece un frate energico e assolutista, l’autentico responsabile della perdita della purezza originaria dell’ordine. Fu lui il “colpevole” della costruzione della grande basilica-convento di Assisi e l’artefice di un governo simile a quello di un abate benedettino. In realtà Elia era stato scelto da Francesco tra i primi compagni proprio in virtù delle sue capacità organizzative e, anche nella costruzione del Sacro Convento, agì con il pieno appoggio di tutti i compagni. Elia non era Francesco, ma proprio l’inimitabilità del fondatore e il suo individualismo rendevano necessaria nella vita dell’ordine la presenza di una figura di inflessibile e abile organizzatore. Ci si potrebbe chiedere se il movimento francescano sarebbe sopravvissuto al tempo senza la sua rigida e razionale strutturazione, oppure se non si sarebbe invece dissolto, al pari di tanti altri movimenti pauperistici dell’epoca. Con Elia crebbero di importanza i conventi di studio e l’ordine assunse un tono sempre più dotto e clericale, inserendosi in modo potente nella vita della Chiesa.
Se lo esaminiamo quindi da un punto di vista strettamente francescano, questo convento è più che altro una grande contraddizione; se lo vediamo invece in una luce un poco più aggiornata, il complesso di Assisi è un grande santuario della pace universale, un fantastico strumento per ricordare a tutto il mondo la figura e l’opera del “poverello” e amplificarne il messaggio. Se si vuole percepire la palpitante presenza della semplice spiritualità francescana bisogna andare altrove: a San Damiano, alle Carceri, alla Verna (vedi post dedicato: 10 santuari francescani) ma anche qui, specialmente nella scura Basilica Inferiore, malgrado la continua affluenza di pellegrini e turisti, si possono ancora vivere momenti di vera e intensa emozione.
Difficile stabilire un ordine gerarchico tra le opere d’arte che ornano il Sacro Convento di Assisi. La Basilica Superiore, a una sola ampia navata gotica, è ornata dagli affreschi della scuola di Cimabue (zona superiore) ma soprattutto del celebre ciclo dipinto da Giotto nel 1296 che in 28 affreschi narra, in modo tanto mirabile quanto commovente, la vita di San Francesco. Altri affreschi di Cimabue si trovano nell’abside, dove si trova anche il Tesoro. La Basilica Inferiore, dalle basse volte affrescate in azzurro, è anch’essa a una sola navata, divisa in cinque campate ed è affrescata da Pietro Lorenzetti (transetto sinistro), Simone Martini (prima cappella a sinistra) e dal cosiddetto “Maestro di San Francesco”. Dalla Basilica Inferiore si accede anche alla cripta, dove si trova l’urna in cui è deposto il corpo del Santo. Oltre alle due basiliche si possono visitare un chiostro a due ordini d’arcate, la sala del Capitolo, il refettorio e le stanze abitate da San Giuseppe da Copertino.
Basilica di san Francesco ad Assisi: uno stupendo “scandalo” francescano/Saint Francis basilica, a wonderful Franciscan scandal. La mole inconfondibile del convento di San Francesco domina il paesaggio di Assisi con i suoi archi che sostengono gli edifici conventuali e le sue due chiese sovrapposte, che ne fanno uno dei massimi capolavori dell’arte medievale al mondo.
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Dies Irae
"Dies ìrae, dìes ìlla,
Solvet seclum in favìlla,
Teste David cum Sybìlla.
Quantus tremor est futùrus,
Quando Iùdex est ventùrus,
Cuncta stricte discussùrus.
Tuba, mirum spargens sonum,
Per sepùlchra regiònum,
Coget omnes ante thronum.
Mors stupèbit et natùra,
Cum resùrget creatùra,
Iudicànti responsùra.
Liber scriptus proferètur,
In quo totum continètur,
Unde mundus iudicètur.
Iudex ergo cum sedèbit,
Quidquid latet apparèbit,
Nil inùltum remanèbit.
Quid sum miser tunc dictùrus?
Quem patrònum rogatùrus,
Cum vix iùstus sit secùrus?
Rex tremèndae maiestàtis,
Qui salvàndos salva gratis,
Salva me, fons pietàtis.
Recordàre, Iesu pìe,
Quod sum càusa tuae vìae,
Ne me perdas ille dìe.
Quaerens me, sedìsti làssus;
Redemìsti crucem pàssus;
Tantus labor non sit càssus.
Iùste Iùdex ultiònis,
Donum fac remissiònis,
Ante dìem ratiònis.
Ingemìsco tamquam rèus;
Culpa rubet vultus mèus;
Supplicànti parce, Dèus.
Qui Màriam absolvìsti,
Et latrònem exaudìsti,
Mihi quoque spem dedìsti.
Preces meae non sunt dìgnae,
Sed tu bonus, fac benìgne,
Ne perènni cremer ìgne.
Inter oves locum praesta,
Et ab haedis me sequèstra,
Stàtuens in parte dèxtra.
Confutàtis malèdictis,
Flammis àcribus addìctis,
Vòca me cum benedìctis.
Oro supplex et acclìnis;
Cor contrìtum quasi cinis;
Gère curam mei fìnis.
Lacrimòsa dìes ìlla,
Qua resùrget ex favìlla,
Iudicàndus homo rèus,
Hùic èrgo pàrce Dèus;
Pìe Ièsu Dòmine,
Dòna eis rèquiem. Amen."
"In quel dì che le Sibille, E Davidde profetàr, Si vedrà tutto in favìlle L'universo consumar. Qual tremor, quale spavento L'Orbe tutto assalirà Quando il Dio del Testamento Giudicante a lui verrà. Allo squillo della tromba Ogni avel si schiuderà, Onde il corvo e la colomba Alla valle insieme andrà. Si vedran Natura e Morte In un punto istupidir, Quand'innanzi al Vivo, al Forte Dovrà ognuno comparir. Si vedrà nel libro eterno Il delitto e la virtù, Onde il Cielo oppur l'Inferno Avrà l'uom per quel che fu. Ora, il Giudice sedente Fra le nuvole del ciel, Ai secreti d'ogni mente Toglierà l'antico vel. Fra l'orror di tanta scena Qual soccorso implorerò, Mentre salvo sarà appena Chi da giusto i dì menò? Tu che salvi chi s'aggrada, Re tremendo in maestà, Mi schiudi al ciel la strada, Fonte eterno di bontà. Che per noi prendesti carne Ti rammenta, buon Gesù, Onde allor abbi a salvarne Dall'eterna schiavitù. Per me fosti in croce esangue Tra i dolor da capo a piè; Il valor di cotanto sangue Non sia vano allor per me. Concedimi il perdono, Giusto giudice ed ultòr, Pria che a' piedi del tuo trono Sperimenti il tuo furòr. Peccator qual io mi veggo, Copro il volto di rossor: Tu dunque a me ch'el chièggo, Dà benigno il tuo favor. Da te assolta fu Maria, Per te salvo fu il ladron, Onde viva in me pur sia La speranza del perdon. Le mie preci, Nume eterno, Non son degne, e chi no 'l sa? Ma dal fuoco dell'Inferno Tu mi scampa per pietà. Ti dai capri mi dividi, Di cui fìa Satànno il re, Onde a destra co'i tuoi fidi Trovi grazia innanzi a Te. Condannati i maledetti Alle fiamme ed ai sospìr, Allor chiama co' dilètti, Alla gloria dell'Empìr. Il dolor che in questo seno Il mio cor di già ammollì, A pietà ti muova almeno Nell'estremo de' miei dì. Lagrimòso quel momento Onde l'uomo peccator Dall'ignìvomo tormento Andrà innanzi al suo Signor. Fra l'orror di tanto scempio, Mostra, Dio, la tua virtù; E il tuo sangue a pro dell'empio Tutto impiega, buon Gesù."
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Il Dies Irae è un testo sacro, cantato nella tradizione liturgica, uno dei più noti della liturgia cristiana, attribuibile a Tommaso da Celano (Celano, 1190 circa – Val de' Varri, 1265 circa), religioso (frate francescano), poeta e scrittore italiano, noto anche per aver composto due Vitae di san Francesco d'Assisi e una Vita di santa Chiara. Fu sepolto nella chiesa del monastero delle clarisse di San Giovanni in Barri, situato alle pendici del monte Sant'Angelo, sul versante abruzzese della Val de' Varri (Sante Marie), dove aveva vissuto gli ultimi anni della sua esistenza.
(Testo e traduzione prese da Wikipedia, con l'ultima ho dovuto raccogliere tutto in un blocco, altrimenti m'era impossibile fare il post)
#abruzzo#tommaso da celano#tagliacozzo#l'aquila#chieti#teramo#pescara#persone importanti#(studiando con admin)
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“La pratica della poesia non è mai tanto auspicabile come nei periodi di eccesso del principio egoistico e calcolatore”: sia lode a Shelley (e al suo principesco traduttore)
Poco meno di duecento anni fa, Il 15 agosto 1822, arse la pira di Percy Shelley sulla battigia di Viareggio. Era naufragato al largo l’8 luglio nel suo “Don Juan” e il corpo era stato “straccato” a terra il 18 luglio, sepolto provvisoriamente, poi riesumato dopo uno scambio di carte bollate con le autorità sanitarie e cremato in una cassa di ferro appositamente realizzata dall’amico e biografo Trelawny (detto il Pirata). Una storia drammatica di cui si è continuato a favoleggiare. Byron che assiste alla macabra scena sotto il sole cocente e poi si getta in mare, Trelawny che strappa dal rogo ciò che resta del cuore e lo consegna alla vedova, le ceneri infine sepolte nel Cimitero degli Inglesi a Roma, non lontano da quelle dell’altro grande poeta perito giovanissimo, John Keats. A lui Shelley aveva dedicato nel 1821 il suo capolavoro, il poema “Adonais”, che è anche epitaffio commosso del sogno poetico neoclassico di Shelley stesso. Un po’ mortuari questi giovani romantici, Byron Shelley Keats, destinati a brillare molto ma per poco come le stelle cadenti d’agosto.
Tutti molto fortunati anche in Italia, Shelley grazie a Carducci, D’Annunzio e i loro compagni di eroici sogni d’arte. Ma anche pressoché popolari, nel loro mito. A Viareggio il busto di Shelley fu collocato nei pressi del luogo dove il suo corpo fu rinvenuto (con le poesie di Keats in tasca) e bruciato. A San Terenzo di Lerici possiamo contemplare il sacrario di Casa Magni (oggi B&B), dove Mary Shelley e Jane Williams attesero trepidanti il ritorno dei mariti su quello sfortunato Don Juan, inghiottito da un improvviso temporale. Strano a dirsi, Percy non aveva mai voluto imparare a nuotare, e ogni volta che veniva invitato a farlo si lasciava andare sul fondo, curioso, diceva, di far la prova di cosa c’era “di là”. Voleva morire e certo non fece nulla per salvarsi, mentre l’amico Williams, uomo di mare, e il mozzo inglese devono pur averci provato. Il Don Juan era stato costruito a Genova in base a un problematico progetto inglese su cui Williams si intestardì. Ciò non toglie che il veliero fu recuperato dopo esser finito per caso nelle reti di una paranza, fu restaurato e navigò ancora molti anni. Byron lo vide ormeggiato a Genova e ne soffrì, Shelley essendo l’amico di cui aveva la più alta affettuosa opinione. Che storie complesse e infiniti intrecci: Frankenstein, aborti, vampiri, incesti, suicidi, figli legittimi e no (come Allegra, la sfortunata deliziosa figlia di Byron perita di febbri in un convento dove il padre la relegò: da non perdere la biografia che ne scrisse Iris Origo, che ebbe anche una traduzione italiana).
Ma siamo qui per parlare dell’ultimo e maggior omaggio dedicato a Shelley italiano, due bei Meridiano Mondadori, Opere poetiche (pp. CXXXIX+1614, € 80,00), Teatro, prose e lettere (pp. LXIV+1326, € 80,00) curati da Francesco Rognoni, che ha fatto miracoli. Racconta con sensibilità la storia della poesia, poi offre una Cronologia in cui si troveranno ben ordinate e riferite le informazioni sopra riportate fra tante altre, con citazioni dei protagonisti. Un mondo abbastanza lontano, ma a noi in parte vicino geograficamente, minutamente ricostruito, con verve di scrittore che però non deborda mai nel compiacimento e nella strizzata d’occhio. Insomma critica seria, con il dono di interessare con fatti, giudizi, commenti.
E poi c’è la poesia, tutto quello che Shelley scrisse nei suoi pochi anni di attività febbrile. Scomunicato, ateo, adultero (queste le accuse…), soprattutto perennemente creativo e votato a ideali di libertà nell’Europa della Restaurazione. Leggeva Platone in originale e scriveva una tragedia sulla liberazione della Grecia, Hellas, sul modello dei Persiani di Eschilo… Oppure il meraviglioso paradiso del Prometeo liberato, altra risposta ad Eschilo. Tutta la cultura antica e moderna riviveva in lui.
Ma era anche un bel giovane giocoso e innamorato, autore di liriche che sono la gioia del lettore: “A Jane, con una chitarra”. Visioni dell’Italia, Roma, Pisa, il Serchio, Lerici con le lampare, le Alpi…. Titoli come “La Maga dell’Atlante”, “La sensitiva”… C’è di che sognare. E le traduzioni sono scritte in un bell’italiano moderno, sicché Shelley in italiano è un romantico più facile da leggere di Foscolo o Manzoni. Paradossi della traduzione. “La musica, quando soavi voci muoiono, / nella memoria vibra. / Profumi, quando sfioriscono le dolci viole, vivon nei sensi che han destato”. Music, when soft voices die…
Il lettore che si procurerà questi due Meridiani avrà il privilegio di assistere alla nascita di una delle più significative ricreazioni poetiche e critiche di questi anni. E avrà il piacere di perdervisi quando e quanto vorrà. Magari sostando a San Terenzo davanti alla fatale Villa Magni.
Massimo Bacigalupo
***
Piccola nota per il lettore. Ho inseguito Francesco Rognoni la scorsa estate. Non potevo fare altrimenti. Di mestiere è ordinario all’Università Cattolica del Sacro Cuore, insegna Letteratura anglo-americana e Letteratura inglese. Di fatto, è tra i massimi studiosi della letteratura anglofona in Italia. Il ‘capolavoro’ di Rognoni, che già ha curato le “Opere” di Shelley per la ‘Pléiade’ Einaudi, era il 1995, sono i due volumi Mondadori dei ‘Meridiani’ che raccolgono “TuttoShelley” – ma nel volume dedicato al “Teatro, prose e lettere” hanno cannato la copertina: non è lui il raffigurato… Insomma, preso da estro romantico ho ‘preteso’ una intervista da Rognoni. L’ho letteralmente inseguito, in effetti. Una volta era a Edimburgo, l’altra in Grecia, la terza altrove. Alla fine mi ha risposto, e ho tenuto le risposte in congelatore in attesa del momento opportuno. Eccolo. Le utilizzo ora, a corollario del pensiero critico di Bacigalupo (chi meglio di lui). (d.b.)
*
Percy Bysshe Shelley: come mai solo ora un ‘Meridiano’, per giunta doppio? Cosa ha ancora da dirci un poeta mitico, mitizzato, che diventa, nell’immaginario, l’emblema della poesia tout court?
Un Meridiano solo ora? Negli ultimi vent’anni c’è stata una Pléiade (che, per la verità, negli ultimi dieci era pressoché introvabile). E ci sono stati l’Oscar di Roberto Sanesi, e la breve BUR di Giuseppe Conte (che su Shelley ha scritto anche un romanzo)… In realtà i Meridiani non hanno mai prestato grande attenzione al Romanticismo inglese. Entro l’anno uscirà un “Keats”, ma continuano a mancare ‘Meridiani’ “Blake”, “Wordsworth”, “Coleridge” e “Byron”: se qualcuno se la sentisse di ritradurre il Don Juan, ne uscirebbe un Meridiano magnifico! E di Blake e Coleridge circolano traduzioni d’autore (Ungaretti il primo, Fenoglio e Giudici il secondo) che arricchirebbero un eventuale volume – un po’ come l’appendice di traduzioni storiche arricchisce il Meridiano “Dickinson”. Quanto a quello che Shelley ha ancora da dirci, direi che basta citare un paio di frasi dalla Difesa della poesia: “Ci manca la facoltà creativa per immaginare quello che già sappiamo; ci manca l’impulso generoso per mettere in pratica quello che immaginiamo; ci manca la poesia della vita. […] La pratica della poesia non è mai tanto auspicabile come nei periodi in cui, per un eccesso del principio egoistico e calcolatore, i materiali della vita esteriore si sono accumulati al punto di eccedere la capacità di assimilarli alle leggi interne della natura umana. Allora il corpo è diventato troppo ingombrante per lo spirito che lo anima”.
Soprattutto: cosa hai ‘scoperto’ di Shelley e cosa ci resta da leggere del grande poeta?
Cosa ho scoperto di Shelley? Che come poeta, e come autore tout court, mi affascina e convince ancor più adesso, a cinquantott’anni, di quanto mi affascinasse e convincesse fra i trenta e i trentacinque, gli anni che avevo quando ho lavorato alla Pléiade… E dire che, tradizionalmente, si dice che Shelley piace ai giovani, ma delude nella maturità… Se ci si prende la briga di leggere entrambi i Meridiani, credo che dovrebbe bastare… Ma può darsi che qualcuno trovi la forza e il coraggio di tradurre il lungo poema allegorico Laon and Cythna. In Francia lo hanno fatto qualche anno fa, nella collana di poesia della Gallimard: si sono basati sulla seconda edizione, dal titolo “attuale” The Revolt of Islam: in realtà, la versione più “rivoluzionaria” è la prima!
Che lettura diamo, oggi, del “Prometeo slegato”: ricordo una antica traduzione di Pavese, è buona? Che idea di poesia (prometeica?) attraversa l’opera di Shelley?
Ti confesso che non ho mai letto davvero la traduzione di Pavese. Benché ‘antica’, è stata pubblicata solo nel 1996, l’anno dopo la mia Pléiade, quando neanche con una pistola alla tempia qualcuno avrebbe potuto costringermi a rileggere il poema… Sono certo che Pavese ne abbia fatto tesoro per le sue teorie del mito, ma non sono in grado di dare un giudizio sulla traduzione. Gli anni Venti hanno visto la pubblicazione (presso Sansoni) delle traduzioni annotate di Raffaello Piccoli: quelle sì splendide, tuttora utilissime per i commenti (le analisi metriche del Piccoli restano insuperate). Di Prometheus Unbound sono possibili molte letture contemporaneamente: le più immediate, una lettura politica e una psicologica (se non già proprio psicanalitica). Entrambe restano vive; e aggiungerei almeno la lettura in chiave ambientalista (finché Prometeo resta incatenato, l’aria è terribilmente inquinata!), più necessaria ora che ai tempi di Shelley…
Come è nato l’amore per la letteratura anglo-americana? Quali sono gli autori che ha studiato di più, perché? In appendice, una domanda più provocatoria: non le pare che l’Italia sia afflitta da letteratura anglo-americana? Insomma, sono così bravi a scrivere solo negli Usa?
L’amore per la letteratura anglo-americana è nato dall’amore per il cinema. A vent’anni volevo fare il regista: sono stato assistente di Vancini, Damiani, Olmi, non ho avuto il coraggio di seguire quella strada e so che me ne porterò il rimpianto nella tomba… Ho studiato a lungo Elizabeth Bishop e Robert Lowell; ma forse l’ho fatto per le ragioni sbagliate, perché non credo di aver scritto cose davvero importanti su di loro…! Di certo non ho scritto quella storia della loro amicizia a cui mi ero preparato in anni non sospetti, quando il loro carteggio era inedito non solo in Italia ma anche negli USA, e agli archivi di Vassar e della Houghton Library ti permettevano ancora di lavorare sugli originali dei loro mss… Adesso ci lavorano in troppi, esiste una vera e propria “industria-Elizabeth-Bishop”, ma negli anni Ottanta era ancora una poetessa quasi segreta. Un po’ di quel lavoro (troppo poco!) è confluito nel mio commento a Day by Day, l’ultimo libro di Robert Lowell, la cui traduzione ho pubblicato negli Oscar nel 2002. Devo esser il maggior esperto vivente (lo dico con ironia!) di Anatole Broyard, uno scrittore quasi sconosciuto per l’eccellente ragione che non ha scritto quasi niente; o meglio, non ha scritto quello – il romanzo – che avrebbe voluto scrivere… Ho curato l’edizione italiana delle sue memorie di gioventù, Furoreggiava Kafka (ed. Bonnard) e dei suoi racconti (La morte asciutta, Rizzoli); ho anche creato un libro inedito, raccogliendo alcuni suoi pezzi dedicati all’amore per i libri: Giorno di trasloco e altre astuzie per vivere coi libri (Sedizioni). Il mio interesse per AB deve aver dei risvolti autobiografici: Broyard ha sofferto per tutta la vita di writer’s block, una malattia che conosco bene; ed era un nero che “passava” per bianco (s’è detto che a lui si sia ispirato Philip Roth per La macchia umana), mentre io sono un bianco che, almeno fino a qualche anno fa, veniva spesso preso per nero!
Sì, abbiamo un complesso di inferiorità rispetto agli USA… ma gli americani sono bravi davvero! Che ci piaccia o no, sono ancora loro al centro dell’impero…
Provo a ragionare sui tempi presenti. Cosa si legge oggi negli Usa? Che valore ha la letteratura e la poesia laggiù? Che senso ha, ancora, la ‘tradizione’ (penso, per dire, all’ansia canonizzante di Harold Bloom, che eleva il poeta americano a misura di tutte le scritture poetiche)?
Non sono sicuro di sapere cosa si legge negli USA al momento… Sono stato a NYC (che non è gli USA) un paio di settimane a giugno, non ci andavo da un po’ di anni: si vede dappertutto Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie, che a me non sembra proprio un gran romanzo… Temo ci sia in giro troppa ideologia: l’aberrazione di un presidente come Trump è generata (anche) da una certa ideologia pseudo-progressista. Quando Harold Bloom parla di “canone”, mi sembra che voglia rivendicare il valore della “tradizione” sulla “ideologia” (o sulla “moda”). Bloom – straordinario insegnante – le sue cose migliori le ha scritte prima del suo Canone occidentale, che secondo me è stato soprattutto una scommessa editoriale vincente. Una collana come quella della NYRB Classics dà la salutare impressione che gli americani vogliano leggere anche al di fuori della loro tradizione: ma si tratta sempre di minoranza. O vogliano uscire dalla moda, dall’ossessione di generare autori sempre nuovi: penso, ad esempio, alla riscoperta dei magnifici romanzi di John Williams, che si deve proprio alla NYRB.
Ultima. A suo avviso, da lettore avveduto, in che stato versa la letteratura (poetica e in prosa) italiana recente?
La poesia mi sembra, come sempre, in buona salute: di recente ho letto l’ultima raccolta di Francesco Dalessandro e il volume delle poesie complete di Alba Donati – poeti molto diversi ma di mio pieno gradimento entrambi, ho letto i loro libri dall’inizio alla fine, come romanzi… Lo stesso non posso dire della condizione del romanzo, che in Italia non è mai stato davvero in buona salute… A mia memoria, l’ultimo romanzo italiano importante è Il cardillo addolorato della Ortese. Ma può darsi che ricordi male; e, se non mi fa difetto la memoria, è comunque certo che uno non ha mai letto abbastanza, c’è sempre un bel libro che non si conosce: anche perché, da almeno cinque o sei anni, io non leggo i giornali, tanto meno i supplementi letterari. Un bel romanzo relativamente recente: Il celeste scolaro di Emilio Jona (Neri Pozza), sulla vita del povero Federico Almansi – il fanciullo-poeta, amato da Umberto Saba, di cui io stesso ho curato l’opera poetica (Attesa, Sedizioni 2015). Un’opera narrativa diseguale ma assi convincente nel suo complesso: quella di Hans Tuzzi (pseudonimo di Adriano Bon), bibliofilo, giallista, romanziere, saggista… Ma, ahimè! mi accorgo che sto citando autori che conosco di persona – amici o quasi – e questo non è un buon segno!
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I Visconti rappresentano la dinastia che ha reso Milano una signoria dopo che Ottone Visconti nel 1277 sconfisse i Della Torre a Desio.
Successivamente Matteo I, Galeazzo I e Azzone estesero i confini del dominio.
Azzone in particolare (1329 - 1339) edificò la Chiesa di San Gottardo e a lui successero i figli di Matteo I, Luchino e l’arcivescovo Giovanni.
Dopo le signorie dei nipoti di questi ultimi Matteo II, Galeazzo II La Vipera (che fondò l'università di Pavia, fece edificare il Castello di Pavia per starvi lontano dal fratello ed avviò la costruzione della rocca di Porta Giovia) e Bernabò il Diavolo, il potere passò a Gian Galeazzo Visconti, Conte di Virtù (1395 - 1402) grazie ad un feudo avuto in dote da Isabella di Valois, figlia del re di Francia.
Quest'ultimo, figlio di Galeazzo II e di Bianca di Savoia, attuò un colpo di stato contro lo zio Bernabò che fece arrestare presso la pusterla di Sant-Ambrogio (in foto), ne fece distruggere il palazzo (la Ca’ dei can, oggi Hotel Cavaliere), ne sposò la figlia Caterina ed estese ulteriormente l'area della signoria e ottenne nel 1395 la nomina di primo Duca di Milano da parte dell'Imperatore. Iniziò la costruzione del Duomo di Milano, continuò quella del Castello, creò la rocca di Valenza, fondò la Certosa di Pavia dove fu sepolto anche in relazione al suo rapporto con Pavia nel cui castello risiedette.
Gli succedette Giovanni Maria (1402 - 1412) che dovette soffrire sconfitte al di fuori della Lombardia, scorrerie da parte dei condottieri in città e conflitti interni fra Guelfi e Ghibellini fino a venire ucciso in San Gottardo.
Il potere passò poi al fratello minore Filippo Maria (1412 - 1447) che morì lasciando la figlia Bianca Maria in moglie al capitano Francesco Sforza il quale dovette, a partire dal 1450, ricostruire il castello distrutto nel triennio repubblicano, poi ingentilito dal figlio Galeazzo Maria e arricchito della Rocchetta durante la reggenza della Bona di Savoia dopo il suo assassinio a Santo Stefano nel 1476.
Proprio per ingraziarsi la popolazione, Francesco Sforza ingaggiò il Filarete per iniziare nel 1453 la realizzazione della Ca’ Granda, incontro fra il cotto tardo-gotico lombardo e la monumentalità toscana.
L’apice di questo incontro è Santa Maria delle Grazie, commissionato da Ludovico il Moro nel 1463 al lombardo Guiniforte Solari e, quanto alla tribuna nel 1492, a Donato Bramante, luogo che ospita l’Ultima Cena di Leonardo (1494 - 1498).
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Cosimo Fanzago
Italia, Clusone (Bergamo), 13 ottobre 1591 – Napoli, 13 febbraio 1678
-scultore e architetto del periodo Barocco del 1600
-allievo di: Pietro Fanzago (lo zio), Angelo Landi
-guardó e si ispiró a: C. Monterossi, Silla da Viggiù, G.A. Paracca di Valsoldo, B. Viscontini
-collaboró con: Nicola, Bartolomeo Botti, Francesco Balsimelli,
-visitò in giovanissima età Bergamo, Milano, Roma
-operò soprattutto a Napoli
-«Fu Cosimo alto a maraviglia della persona....Fu di aspetto che movea riverenza in vederlo» (Bernardo De Dominici)
-Lo zio Pietro fu un ingegnere, matematico e fonditore e aveva costruito l'orologio planetario di Clusone. Fu in questa esperienza familiare che il giovane Cosimo iniziò a destreggiarsi nei primi rudimenti della scultura con ruoli limitati a quello di scalpellino e marmoraro
-Gli inizi lombardi furono, con molta probabilità, accompagnati da brevi spostamenti verso le città di Bergamo e Milano dove era fervente l'attività edilizia dei conventi. Qui fu che molto probabilmente Cosimo Fanzago iniziò a muovere i primi passi nella sua definizione artistica. Gli scultori attivi a Milano verso la fine del Cinquecento e inizi del Seicento iniziarono ad elaborare nuove soluzioni plastiche dove la figura risulta è svincolata dall'architettura.
-Al vicentino C. Monterossi o ai lombardi Silla da Viggiù, G.A. Paracca di Valsoldo, B. Viscontini, giunti a Napoli probabilmente dai cantieri romani di S. Maria Maggiore, il Fanzago dovette guardare durante il suo presumibile soggiorno romano prima di stabilirsi a Napoli nel 1608. Nell'attività di questi artisti e di quanti operavano nella stessa direzione il Fanzago trovava assicurazioni per certe sue intuizioni giovanili e per alcune ipotesi di lavoro maturate in patria, che gli avrebbero consentito, nel giro di pochi anni, di sveltire il lento processo di trasformazione della plastica e della decorazione partenopea.
-Morto il padre, nel 1612, si spostò a Napoli presso lo zio paterno Pompeo che svolgeva nella Capitale del Viceregno il mestiere di orpellaio e Ufficiale delle Gabelle del Grano e delle Farine a Porta Capuana.
-Nel 1612, quando risulta nei documenti già a Napoli da almeno quattro anni quando partì dalla sua terra natale, stipulò un contratto lavorativo con il marmoraro e scultore fiorentino Angelo Landi; arrivato a Napoli come molti altri artisti fiorentini al seguito di Giovanni Antonio Dosio per il cantiere della Certosa di San Martino.
-Fanzago viveva, insieme ai familiari, alla Duchesca (attualmente alle spalle della Statua di Garibaldi in Piazza Garibaldi) nelle case dello scultore Girolamo D'Auria.
-Il suo stile, per quanto innovativo rispetto a precedenti soluzioni affini in ambiente partenopeo, appare ancora contenuto entro termini di equilibrata spartizione spaziale di tradizione cinquecentesca.
-Aveva, dunque, diciassette anni quando si trasferì a Napoli (1608), dove il settore delle arti plastiche e decorative era dominato in massima parte da maestranze toscane, tra cui il citato Landi, Felice de Felice, Vitale Finelli, Pietro Bernini, trasferitosi a Roma nel 1607, artisti legati ancora a quell'indirizzo genericamente classificato come "classicismo manieristico" ma che già mostravano i sintomi di rinnovamento morfologico e che portarono all'affermazione del linguaggio naturalistico
-A partire dal 1623 iniziò a lavorare per i suoi committenti più importanti, i Certosini di San Martino.
-Tra il 1619 e il 1624 collaborò, insieme ai marmorari Nicola, Bartolomeo Botti e Francesco Balsimelli, alla realizzazione del ciborio dell'altare di Santa Patrizia, oggi al Museo di Capodimonte
-Nel 1628 fu accusato dell'omicidio, o come mandante, del marmoraro Nicola Botti, collaboratore del Fanzago nella Certosa e per tali ragioni fu allontanato dai Certosini per un breve periodo.
-Dopo il 1630 il Fanzagi diede inizio a numerosi lavori più specificamente architettonici a cui vanno aggiunti quegli esempi di "arte semidecorativa" quali altari, pulpiti e cibori, veri e propri apparati scenografici atti a sconvolgere con la loro presenza la lettura delle preesistenti strutture spaziali. Estese e coloratissime superfici, fatte di tarsie marmoree, di decorazioni plastiche zoomorfe e fitomorfe, riprese dal formulario tardo cinquecentesco, a contatto con la luce si vivificano, perdendo la loro funzione di elemento di cesura tra spazio esterno e spazio interno, per diventare elementi di continuità naturale e reale.
-Nel cantiere della Certosa, luogo dove l'estro creativo del Fanzago ebbe il suo momento più felice.
-Nel 1636 con la collaborazione di Giuliano Finelli, mise mano al progetto della Guglia di San Gennaro su commissione dell Deputazione del Tesoro per la scampata devastazione dell'eruzione del 1631.
-Nel decennio in cui scoppiò la rivoluzione che condusse all'istituzione della Repubblica Napoletana di Masaniello. Cosimo Fanzago rimase coinvolto nella vicenda tanto da figurare molte volte nei documenti legati ai rivoluzionari, fu autore del gesto eroico che salvò la vita allo scultore Giuliano Finelli dalla condanna a morte avanzata da Gennaro Annese. A seguito della rivolta gli fu commissionato dal viceré Duca di Arcos il famoso Cenotafio del Mercato dove fu stabilita la cancellazione della gabella che aveva provocato i tumulti; il cenotafio era costituito da una parte scritta, dove erano annunciati i diritti del popolo, e da una parte statuaria dove vi dovevano essere le statue del viceré, il cardinale Ascanio Filomarino e il re Filippo IV di Spagna. A seguito della commessa dell'opera fu tacciato dal popolo di essere filo-spagnolo e costretto a fuggire a Roma nel 1648 dove rimase per i successivi quattro anni con brevi ritorni a Napoli.
-É noto che il Fanzago avesse un carattere generoso con la committenza e grazie alle sue intercessioni diversi artisti poterono esprimere il loro estro creativo in totale autonomia come avvenne per il pittore Francesco Solimena che poté brillantemente iniziare a soli diciott'anni la sua carriera con lavori nella chiesa del Gesù Nuovo, perché il Fanzago, che aveva intuito il valore del giovane artista, si era fatto garante presso i committenti dei buoni risultati della sua opera.
-Il 13 febbraio 1678 morì lasciando ancora incompiute diverse opere che vennero continuate dai suo più stretti collaboratori come Lorenzo Vaccaro e diversi altri. Fu sepolto con molta probabilità nella chiesa vicino alla sua abitazione, in vico dei Cavaioli, la Chiesa di Santa Maria ad Ogni Bene dei Sette Dolori.
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Carlo Acutis, la storia del ragazzo presto beato
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Carlo Acutis, la storia del ragazzo presto beato
Carlo Acutis, il ragazzo morto a soli 15 anni per leucemia, diventerà presto beato.
La notizia arriva proprio da Assisi, luogo in cui egli chiese di essere sepolto: la sua tomba è stata aperta proprio ieri e sarà visibile fino al 17 ottobre.
Ciò che oggi lo porta verso un simile riconoscimento è la forte devozione alla Chiesa accompagnata da una serie di gesti magnanimi. Infatti, Acutis ha sempre considerato come modelli di vita San Francesco, San Tarcisio, San Domenico Savio e Jacinta Marto.
Carlo nacque a Londra il 3 maggio del 1991 da una famiglia borghese di Milano (Andrea Acutis e Antonia Salzano), i quali si trovavano nella capitale britannica per questioni di lavoro. Infatti, non molto dopo, la famiglia si trasferì a Milano: qui il giovane frequentò le elementari e le medie presso le suore Marcelline e il liceo classico dai Gesuiti dell’istituto Leone XIII.
Tuttavia, la caratteristica che lo ha reso popolare fu la sua bravura con l’informatica. Egli infatti, sfruttò quest’abilità per realizzare siti web, che utilizzava per testimoniare la fede. Carlo Acutis si può in un certo senso definire una specie di “patrono dell’Internet”.
Nel 2006, il giovane si ammalò di leucemia fulminante e morì, a soli 15 anni. Nonostante la sua scomparsa, ad oggi è conosciuto in tutto il mondo e tantissima gente si è convertita al cristianesimo proprio grazie alla sua parola.
Carlo Acutis beatificazione
Carlo Acutis è diventato per molti un modello da seguire.
Pensate che attualmente esistono centinaia di siti e blog a lui dedicati. Nella maggior parte, è possibile trovare una serie di testimonianze di gente che ha deciso di convertirsi per merito suo. Ma non è tutto: i genitori ricevono spesso messaggi e lettere di seguaci e ammiratori, da qualsiasi parte del mondo.
Lo scorso febbraio, papa Francesco gli ha riconosciuto il miracolo e ha aperto la strada verso la beatificazione. Quest’ultima avrà luogo giorno 10 ottobre 2020 ad Assisi, presso la basilica papale di San Francesco.
Riguardo l’apertura della tomba, la mamma Antonia Salzano, ha affermato:
“Siamo davvero molto emozionati del fatto che finalmente la tomba di Carlo sia stata aperta. Soprattutto perché i fedeli che Carlo ha sparsi per il mondo saranno in grado di vederlo e di poterlo venerare in modo più forte e coinvolgente”.
E ha concluso dicendo:
“Carlo ci invita tutti ad avere più fede, speranza e amore verso di lui e verso i nostri fratelli proprio come Carlo ha fatto nella sua vita terrena. Preghiamo che Carlo interceda per tutti noi presso Dio e ci ottenga tante grazie”.
Le parole del vescovo
A commentare la vita di Carlo Acutis, ci ha pensato anche il vescovo.
Secondo quanto riportato da vari giornali, durante l’omelia egli avrebbe detto così:
“Carlo ha avuto una missione specialmente per i suoi coetanei di questo tempo così entusiasmante e, insieme, così disorientato. Un tempo dove si sperimentano cose meravigliose attraverso una tecnologia che unisce il mondo da un capo all’altro, ma che tante volte si fa tumulto di informazioni e messaggi contraddittori, nei quali è così difficile ritrovare la bussola della verità e dell’amore”.
E ha continuato dicendo:
“Carlo è un ragazzo dell’era internet, e un modello di santità dell’epoca digitale (come lo ha presentato papa Francesco nella sua lettera ai giovani di tutto il mondo). Il computer, con la sua mostra dei miracoli, è diventato il suo andare per le strade del mondo.
Proprio come i primi discepoli di Gesù, a portare nei cuori e nelle case l’annuncio della pace vera, quella che placa la sete di infinito che abita il cuore umano. Quella dei giovani che vogliono davvero vivere da ‘originali’ e non diventare fotocopie delle mode effimere”.
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LUNEDÌ 24 GENNAIO 2022 - ♦️SAN FRANCESCO DI SALES ♦️ Francesco di Sales (in francese François de Sales; Thorens-Glières, 21 agosto 1567 – Lione, 28 dicembre 1622) è stato un vescovo cattolico francese. Francesco fu il figlio primogenito del signore di Boisy, nobile di antica famiglia savoiarda, e ricevette una raffinata educazione. Il padre, che voleva per lui una carriera giuridica, lo mandò all'Università di Padova, dove Francesco si laureò, ma dove decise di divenire sacerdote. Ordinato il 18 dicembre 1593, fu inviato nella regione del Chiablese, dominata dal Calvinismo e si dedicò soprattutto alla predicazione, prediligendo il metodo del dialogo: inventò i cosiddetti «manifesti», che permettevano di raggiungere anche i fedeli più lontani. È stato proclamato santo nel 1665 da papa Alessandro VII ed è uno dei dottori della Chiesa. L'11 dicembre 1622 a Lione ebbe l'ultimo colloquio con la sua penitente e qui morì per un attacco di apoplessia il 28 dicembre dello stesso anno, nella stanzetta del cappellano delle Suore della Visitazione presso il monastero. Il 24 gennaio 1623 la salma fu trasportata ad Annecy e posta alla venerazione dei fedeli nella basilica della Visitation, sulla collina adiacente alla città; in seguito venne sepolto nella chiesa a lui dedicata nel centro della città. Il suo cuore incorrotto si trova nel Monastero della Visitazione a Treviso. Da Il Santo del Giorno. Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia #Tradizioni_Barcellona_Pozzo_di_Gotto_Sicilia #Sicilia_Terra_di_Tradizioni (presso Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia) https://www.instagram.com/p/CZG2hVHMZze/?utm_medium=tumblr
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Secondo giorno in Umbria e non potevo non visitare la città di San Francesco. Una città ricca di emozioni in ogni luogo e così spirituale per non parlare del energia che ti penetra quando vedi la tomba dove è sepolto. Ve la consiglio andate a visitarla è una speciale e molto bella #italia #storia #foto #citta #assisi #umbria #sanfrancesco #ricordi #estate #vacanza (presso Assisi, Italy)
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