#dopo una giornata come questa ci stava
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stochastique-blog · 9 hours ago
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I can do Better
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Tu che mi regali un sorriso e mi migliori la giornata, grazie.
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ilpensatoredellaminchia · 8 days ago
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dicono tutti che fuori si sta meglio. dicono tutti che in italia non ci sia lavoro e che fuori sia tutto perfetto. la verità è che chi non lo ha mai provato non ha la minima idea di come cazzo sia vivere all'estero. e non parlo dei sei mesi di erasmus di cui praticamente non ricordi un cazzo perché eri sbronzo cinque giorni su sette. parlo di provare a vivere veramente in uno stato che non sia il tuo, parlo di vivere veramente da "straniero". ci sono una serie infinita di meccanismi che si attivano che voi non avete neanche idea di che cazzo stia parlando. il problema più grosso rimane e rimarrà sempre il lato sociale.per chi non fa altro che sperare di andarsene dall'Italia perché non c'ha una lira e crede che fuori ti tirino i soldi li direi di fermarsi un po' a pensare che cosa sta facendo prima di partire veramente. forse il problema sta anche nel fatto che io non ho mai avuto problemi di soldi e non ho mai avuto problemi ad arrivare a fine mese, può essere. ma l'incompatibilità che provo quotidianamente da sette anni con il popolo con cui vivo non avete idea di cosa sia. la settimana scorsa sono stata mezza giornata a Verona e mi sono ritrovata per caso su una strada qualunque e stavo bene. io non sto mai bene. la gente attorno a me era sulla strada, stava fuori, all'aperto, era sulla strada e faceva chiasso. la gente parlava ad alta voce, le macchine andavano di qua e di la, i bus si fermavano alla fermata in cima alla strada. c'erano macchine, vespe, bus e tanta tanta gente fuori sulla strada che camminava e andava a passeggio. ed era tutto bello. la gente sembrava proprio felice. c'era quell'odore di estate che si sentiva a scuola verso fine maggio. quando alle nove c'era ancora il sole e la gente era felice. felice. cazzo che bella che era la vita. se solo avessi fatto qualcosa o tutto diversamente. se solo avessi capito quanto sarebbe stato poi difficile rivivere momenti come quelli.
con chiunque parli e dica che voglio tornare mi guarda malissimo e mi riempie di frasi senza fine per farmi capire di quanto si stia male qua. gli unici che mi capiscono sono quei poveri sfigati come me, che vivono incastrati in un posto che da fuori sembra incantato, invidiato da tutti ma che poi dall'interno è pieno di cose che non vanno. inutile quanto tu ci provi ma questa non è casa tua e mai lo sarà. e sinceramente, ti dirò, va anche bene. va anche bene perché io non ho più nessunissima intenzione di 'integrarmi', anche se questa parola alla fine non vuol dire un cazzo. sono pochissimi i tedeschi o gli austriaci con cui esco volentieri nel mio tempo libero, forse due, e uno di questi è il classico austriaco estremamente impacciato e timido che mi mette totalmente a disagio e con cui esco due volte all'anno perché è il mio massimo livello antidisagio. non è una brutta persona, ma semplicemente 'non funzioniamo', non c'è vibe come direbbe mio fratello da figo. e ripeto va bene perché lo ho capito da tipo due anni che per vivere da voi non devo necessariamente vivere con voi. ma già dietro questa frase si capisce il livello di solitudine estrema di una persona. vivo in austria e non ho nessun legame profondo/serio con nessun austriaco. condizione che, lo dico per sentirmi meglio, è condivisa da circa 2 su 3 degli stranieri residenti in austria. ovviamente non sono sola, ho conoscenti e amici. credo che però qualunque persona normale capisca che non sia proprio il massimo. la mia vita a 27 anni è totalmente differente rispetto a quello che mi ero immaginata. e quindi decidi di restare in un posto che non ha nulla, ma proprio nulla a che fare con te, ma dove però funziona bene o male tutto e dove hai un lavoro. il mio lavoro in Italia neanche esiste o meglio si c'è, ma la maggior parte delle volte è su base volontaria o gestito da Onlus che ti pagano male e poco, se ti pagano. mesi fa ho conosciuto questa ragazza che ha fatto lo stesso mio lavoro ma in Calabria. le sono arrivati i soldi dello stipendio cinque mesi dopo. io con il mio lavoro arrivo a 2000/2100 mensili netti. questa prendeva si e no 1200 al mese.
dove vivo io fanno tutti sport. ho sempre trovato gli austriaci molto poco attraenti ma hanno tutti dei fisici quasi perfetti. la gente continua a fare sport. è l'unica cosa che puoi fare. vai al lavoro e dalle 5 in poi ti chiudi da solo con le tue cuffiette in mezzo ad altri 100 depressi per due ore in palestra. non c'è altro. il weekend esci per modo di dire... fai una passeggiata il sabato, se hai fortuna trovi qualcuno con cui mangiare insieme anche a cena. la domenica non ve la descrivo neanche. per chi non è mai uscito dall'Italia prima la domenica in una paese germanofono è un'esperienza surreale. la domenica qui è il giorno per la famiglia, nonostante io mi chieda che cazzo faccia una famiglia di cinque tutta la domenica chiusa in un appartamento da 60 mq dato che trovare qualcosa da fare è impensabile. è tutto chiuso. a Vienna la domenica ci sono 4 supermercati aperti in tutta la città. l'unica cosa che puoi fare la domenica è indovina cosa? sport. O andare magari al cinema due ore il pomeriggio.
chi vive in questi posti e ha origini mediterranee, africane o viene dal medio oriente vive una vita a metà. la cultura di questi posti non ha assolutamente nulla a che fare con la nostra essenza. la gente è di un piatto che non si può descrivere. esattamente come le loro domeniche.
secondo me l'unico modo di sopravvivere più o meno bene e quella di trovarvi un partner. se state pensando di andarvene non fatelo da soli. in questi sette anni ho visto tanta di quella gente venire qua e vivere i primi due anni in una sorta di trance psichedelica perché guadagnavano 3000 euro al mese e poi al terzo anno cadere in una depressione pesante a causa della solitudine che ti offrono questi posti. non è una solitudine che si può spiegare. passi la tua esistenza in maniera alienante in mezzo a persone da tutto il mondo che sai che prima o poi se ne andranno per non tornare più e poi ricominci a conoscere sempre nuova gente e così via in in ciclo infinito di cene e pomeriggi passati a parlare del più e del meno con gente che sai che non si fermerà mai nella tua vita e con cui appunto non puoi che parlare del tempo
i primi quattro anni che stavo qua pensavo sempre che più sarebbe passato il tempo più mi sarei abituata e avrei fatto meno fatica. sinceramente ho sempre pensato che l'integrazione andasse a pari passo con la lingua. che gran cazzata. ora so la lingua e bene o male so dire tutto ma faccio più fatica ogni giorno che passa. e ogni volta che parlo con qualcuno che vive qui da anni come me mi confermano la stessa cosa. dieci anni fa mai e poi mai mi sarei immaginata di fare questa vita qua.
nessun di noi sta male male. hai uno stipendio, se sei fortunato fai pure un lavoro che ti piace, hai le tue cinque settimane di ferie all'anno, hai il tuo appartamento, hai il tuo cerchio di amicizie, hai l'amico argentino che fa sempre figo tornare a casa a natale e parlare allo zio che non è mai andato oltre Trento dell'amico argentino eppure vivi sempre a metà e tutto ciò è impossibile da spiegare a chi non viva o abbia vissuto nella stessa situazione.
boh. come tutta la mia vita, boh
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ross-nekochan · 1 month ago
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Ho scoperto del cambio di paradigma di Zuckerberg e di Meta dalle storie dei Tlon, per cui le ripercussioni di tutto ciò le ho comprese assieme alla notizia stessa.
Come è stato detto, la notizia è passata in sordina in Italia, ma le conseguenze che avrà questa cosa saranno ENORMI.
Basta tornare un po' indietro nel tempo, ossia al famoso 2019, quando giravano bufale su bufale sul covid e sul vaccino a cui le persone credevano ciecamente, per rendersi conto della gravità della situazione.
Quanto peggiorerà il mondo dopo questo editto (come è stato giustamente definito)?
Personalmente, non ho mai avuto troppa fiducia nel futuro e nelle nuove generazioni, ancor di più adesso che ho e ho avuto a che fare con qualche esemplare da quando sono arrivata qui (per la questione naturale per cui "si fa gruppo" tra connazionali quando sei all'estero). Infatti, che fiducia posso avere se a 23 anni questi ancora sfottono chi è "frocio", se quella di poter mettere il cognome della madre a un figlio "è una cazzata" e che il tappo attaccato alla bottiglia "è un'altra cagata"? Che fiducia posso avere nel futuro se vedo continuamente bebè con ancora il ciuccio in bocca essere silenziati dai genitori con lo smartphone (questo sia in Italia che in Giappone)?
E ora, cosa ci si può aspettare dal mondo se la buona maggioranza delle persone nel mondo passano lo stesso quantitativo di ore di una giornata lavorativa (o più) su le piattaforme di Meta che faranno girare cazzate su cazzate?
In napoletano si dice tipo:"Quindi se ti dico che il ciuccio (=asino) che vola, tu ci credi?". È quello che sta succedendo per davvero.
Per carità, le bufale sono sempre esistite ed esisteranno sempre, è solo il mezzo di comunicazione che cambia forma, però se prima si poteva evitare il consumo di un certo tipo di materiale ora è praticamente utopia perché vorrebbe dire diventare eremiti digitali - e non solo, dato che, ad oggi, il digitale ha persino più valore del reale.
Vorrei non rimanere atterrita difronte a questa notizia, così come non lo sono stata quando è stata eletta Meloni o come non lo sono più quando succedono catastrofi naturali... però stavolta non ci riesco troppo.
Non sono una di quelle persone che vede il passato sempre migliore del presente, anzi, l'ignoranza pesante è sempre esistita ed è sempre stata ben più capillare delle idee progressiste. Però avendo vissuto solo in questo arco temporale abbastanza ristretto, la curiosità che mi sorge è: qual era la visione che avevano gli intellettuali del loro presente? Come si sentiva, ad esempio, Marx nel suo momento storico? Oppure come si sentivano i contrari al nazismo e al fascismo quando questi acquisivano sempre più consenso? Era impauriti da quello che stava succedendo oppure avevano una visione più cinica e super-partes (come "il popolo è fatto così, si beve tutto e questa è solo la naturale conseguenza")?
Comunque sia, ad oggi, spero con tutto il cuore che si ergerà un nuovo social o un nuovo modo di abitare il digitale regolato su criteri meno scellerati di questi (non che ci voglia molto... ma ci vuole molto coraggio per voler mettere in piedi un progetto simile nel contesto attuale), dove, almeno coloro che non vogliono utilizzare le piattaforme esistenti, potranno migrare per poter usufruire della parte migliore del web. Lo spero, anche se non ci credo troppo... anche perché con le ultime sparate di Trump, non so voi, ma a me una bella terza guerra mondiale non mi pare più una cosa così impensabile e lontana nel tempo...
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susieporta · 5 months ago
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Stamattina, in fila al gate, osservavo una donna con i suoi genitori. Avrà avuto la mia età. Teneva la madre per mano e le sistemava i capelli, come fosse la sua bambina. La madre poneva domande e lei la tranquillizzava.
Ero ipnotizzata dalla loro interazione, li ho seguiti tutti e tre, finché non mi sono ritrovata a parlare con loro. La donna aveva uno zaino in cui teneva uno sgabellino per la madre, che ha paura di non riuscire a salire sui pullman.
Me ne cado, mi ha detto con inequivocabile accento calabrese.
Ma a salire su questa navetta, ha detto il marito indicandola oltre il vetro, ce la fai.
Mi piace tanto viaggiare, mi ha detto la madre con gli occhi sgranati, quasi fosse una dichiarazione inconfessabile. Erano chiarissimi, quegli occhi.
La figlia aveva preso i suoi genitori in Calabria, lei che vive a Milano, e li stava portando in crociera.
E la crociera parte da Genova?, ho chiesto.
No, da Atene.
Così ho capito che ero in fila al gate sbagliato e sono corsa via.
Mi è rimasta la sensazione di non averli salutati.
Ho invidiato quella figlia che può portare in viaggio i suoi genitori, perché loro hanno voglia di viaggiare: i miei non hanno fatto una vacanza in tutta la loro vita. Ho invidiato la dolcezza di quella donna, la sua pazienza. Ho invidiato quella madre che si affidava, che si faceva prendere per mano, che si lasciava rassicurare.
Ci sono cose che non ho mai fatto e che, ora lo so, non farò più. Il tempo finisce, a un certo punto.
Ma si può provare tenerezza per gli altri. Pensarli, ore dopo, mentre girano con uno sgabello nello zaino. I ruoli invertiti, com’è giusto, com’è naturale che sia.
Pensarli, in questa giornata di saluti. In questa giornata di padri che se ne vanno per sempre e di figli che dall’altare li salutano, in una chiesa piena, in una giornata di sole - che luce. C’è il mare, là dietro. Un figlio racconta un episodio dell’infanzia, buffo, intimo: riguarda suo padre. È con quel racconto che ci spacca il cuore.
Rosella Postorino
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jadarnr · 7 days ago
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TRINITY BLOOD
RAGE AGAINST THE MOONS
(Storia: Sunao Yoshida // Illustrazioni: Thores Shibamoto)
Vol. 1 - From the Empire
FROM THE EMPIRE - CAPITOLO SEI
Traduzione italiana di jadarnr dai volumi inglesi editi da Tokyopop.
Sentitevi liberi di condividere, ma fatelo per piacere mantenendo i credits e il link al post originale 🙏
Grazie a @trinitybloodbr per il suo prezioso contributo alla revisione sul testo originale giapponese ✨
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Mentre la pillola rilasciava bolle sciogliendosi, l'acqua minerale nel bicchiere assumeva un colore rubino. Dopo averla rimescolata due o tre volte, la bevve in un sorso ── l' 'acqua della vita', cheper i Metuselah era letteralmente vitale, ora era amara anche per lei.
Senza sedersi sul divano, Astha guardò la finestra con occhi cupi. Sulla pista che si estendeva verso il mare, le luci di atterraggio brillavano luminose, accogliendo gli aerei in arrivo anche a quell'ora tarda della notte. Dall'aeroporto, separato da venti chilometri di mare dall'isola principale di Venezia, si stava formando una lunga coda all'imbarco del vaporetto per il centro città.
Il Carnevale è finito da un pezzo, eppure c'è ancora tanto rumore... C'è ancora un evento in corso? No, non credo che sia più un mio problema.
“... È davvero un peccato, signorina Astha.”
“È la conseguenza delle mie azioni. Non posso farci nulla.”
Riponendo il farmaco a base di emoderivati nel portapillole, Astha sorrise. Non era colpa di nessuno. Stava solo pagando il prezzo della propria stupidità e arroganza. Almeno c'era una certa logica.
<Qui Iron Maiden. Padre Abel, il rifornimento è quasi completato.>
Dall'auricolare del sacerdote seduto di fronte a lei, si udì la piccola intonazione di una voce femminile. Era una comunicazione dall'aereo che avrebbe trasportato Astha nell'Impero.
<Credo che siamo quasi pronti per la partenza. Potreste salire a bordo tra poco?>
“Capito, Sorella Kate. A proposito, e Tres?”
<È alla torre di controllo per cancellare la scheda di volo. Per favore, voi due salite a bordo per primi.>
“Allora, signorina Astha, andiamo?”
Nonostante la giornata stesse per finire, la sala d'aspetto dell'aeroporto era affollata. I passi di Astha verso il terminal erano pesanti, come quelli di un vitello che viene portato al macello.
“…Mi affiderò a te per il caso di Endre.”
Fuori dalla finestra, le luci dell'isola principale di Venezia tremolavano in lontananza, oltre il mareche cominciava a agitarsi. Mentre le osservava, Astha sussurrò con voce quasi impercettibile,come il ronzio di una zanzara:“Puoi usare qualsiasi mezzo. Fai qualcosa per lui, altrimenti sarà un disastro.”
“Lo so. Ma...”
Anche la voce di Abel era sconfortata.
In ogni caso, gli indizi erano pochi. Alla fine, a parte il corpo della ragazza, non era stato trovato nient'altro tra le rovine del casinò. La sua posizione rimaneva sconosciuta. Non si sapeva nemmeno se fosse ancora in città.
“Sta sicuramente puntando a Roma... Fate il possibile per catturarlo prima che ci arrivi. Non possiamo lasciarlo entrare a Roma.”
“L'hai detto anche in ospedale, no? Ma cosa c'è a Roma? Oltretutto, Roma è il nostro territorio, è sotto la tutela del Vaticano. La sicurezza lì è piuttosto rigida... Oh, scusi!”
Mentre guardava il prete che si scusava ripetutamente con la suora che aveva urtato, Astha inclinò la testa, perplessa.
“Che cosa c’è? È molto affollato, vero? È sempre così qui?”
“Questa sera è speciale... Tra poco ci sarà una grande messa nella cattedrale di San Marco.”
“Una grande messa? Fino all'altro ieri sera era carnevale, e stasera c'è una grande messa... Voi vivete solo per le feste per caso?”
“Sembra che le reliquie di San Marco, scomparse da tempo, siano state ritrovate a Roma il mese scorso. Questa sera ci sarà la cerimonia della loro restituzione.”
San Marco, discepolo diretto di Cristo e uno degli autori della Bibbia, era il patrono di Venezia. Si diceva che il suo corpo, conservato nei sotterranei della Basilica di Piazza San Marco, avesse compiuto molti miracoli e protetto la città.
“Quindi è per questo che tutti questi uomini e donne si stanno radunando da lontano, cercando di vedere il benedetto San Marco... Ma in fondo, sono solo ossa, no? Voi venerate davvero una cosa del genere, la cui origine è sconosciuta? I Terrestri sono forse tutti idioti?”
“Che mancanza di rispetto! Non è una cosa da ridicolizzare in questo modo. Gli esperti hanno ripetuto la valutazione più volte, e stasera sarà restituito sotto la supervisione di Sua Santità.”
“Humph! Anche se cercate di renderle un oggetto prezioso, alla fine sono solo... cosa!?”
Qualcosa fermò i pensieri di Astha, che rimase paralizzata sul posto.
All'inizio non sapeva cosa avesse notato. Senza capire, allungò la mano verso la manica del sacerdote.
“A-ora, cosa hai appena detto?!”
“Come ho detto, stasera ci sarà una grande Messa nella cattedrale...”
“Prima di questo! Hai parlato della presenza di Sua Santità, vero? 'Sua Santità' significa il Papa! Il Papa sta venendo qui!”
“Sì, sì. Sua Santità verrà da Roma in questa città e presiederà la grande Messa di adorazione del Santissimo Sacramento... Non hai letto il giornale?”
Non lo aveva fatto. Astha strappò il giornale dalle mani del sacerdote. Sulla prima pagina dell'Osservatore Romano, il giornale ufficiale del Vaticano, c'era il volto lentigginiso di un ragazzo - l'attuale Papa Alessandro XVIII - che mostrava un sorriso chiaramente timido.
“Ho sbagliato...”
Senza accorgersi di avere le zanne in vista, Astha accartocciò il giornale tra le mani.
“Quel bastardo non aspettava altro!”
“Allora, signorina Astha, per favore... ah!?”
Una forza incredibile afferrò la spalla di Abel. Con la tentazione di sopraffare il sacerdote, il volto della bella donna gli si avvicinò pericolosamente.
“A che ora è la Messa? Quando la celebrerà il Papa?”
“Eh, se non mi sbaglio, inizia a mezzanotte... Aspetta, signorina Astha!”
Abel afferrò disperatamente la mano di Astha mentre lei iniziava a correre. Protestò mentre veniva trascinato.
“Aspetta un attimo! Azioni arbitrarie come questa...”
“Non abbiamo tempo! Il Papa è in pericolo!”
“Eh? O-che cosa vuoi dire?”
“Endre non è stato incriminato nell'Impero solo per i suoi abusi e maltrattamenti nei confronti dei Terrestri. La vera accusa contro di lui è...”
Questa è l'unica cosa che mi è stato rigorosamente ordinato di non riferire al Vaticano dal mio paese... Ma ora non mi importa più!
“Il suo crimine è il tradimento contro lo Stato: stava complottando per provocare uno scontro su larga scala tra il Vaticano e l'Impero! Questo ha fatto infuriare Sua Maestà Augusta, ed è stato espulso dal Paese.”
“Capisco... Ma cosa c'entra questo con Sua Santità?”
“Idiota, Prost! Non hai ancora capito?”
Battendo i piedi per la rabbia e la frustrazione, Astha gridò:
“Per quanto Endre lo voglia, finché Sua Maestà non lo vuole, l'Impero non inizierà alcuna guerra. Ma la guerra non deve necessariamente essere provocata da noi, giusto?”
“Se non è l'Impero il responsabile, allora chi? No, non può essere!”
“Esatto...”
La voce di Astha, con parole come macchiate di sangue, sibilava dalle sue labbra screpolate.
“Se un nobile dell'Impero cercasse di uccidere il Papa! Rimarresti comunque in silenzio?”
“Io... immediatamente, informerò l'entourage di Sua Santità...”
“Non potete! Se questo piano venisse scoperto, in ogni caso si creerebbe un conflitto tra l'Impero e la Santa Sede!”
“Allora, cosa dobbiamo fare...?”
Astha si voltò verso il suo compagno e lo guardò in profondità negli occhi.
“... Non abbiamo altra scelta che risolvere noi la questione.”
Io, che ho già fallito una volta, ho il diritto di dire una cosa del genere? Ma mi ha definito il suo tovarish. Posso solo scommettere su questo!
“Compagno, gli unici che possono fermarlo siamo noi.”
Dietro gli occhiali, i suoi occhi blu guardarono nuovamente la Metuselah. Aveva davvero capito quello che gli aveva detto? Per dieci battiti di cuore, Abel rimase completamente in silenzio.
“Non è possibile... Come tu hai una missione, anch'io non posso disobbedire agli ordini.”
Quindi è davvero impossibile...
Astha scrollò le spalle. Non c'era da stupirsi. La Duchessa di Milano aveva rifiutato qualsiasi collaborazione con lei, dicendo che doveva essere rimandata al suo paese. Il suo subordinato non aveva alcun obbligo di opporsi al suo superiore per sostenerla.
“Tuttavia...”
Mentre continuava con le sue fredde parole, Abel estrasse il suo revolver dalla cintura. Quando sollevò il cane dell'arma...
“Se mi avessi preso in ostaggio e fossi fuggita in città, la situazione sarebbe diversa."
“?”
Girando velocemente il revolver, spinse l'impugnatura della pistola nella mano di Astha. Poi, il prete dai capelli d'argento, con il sorriso di un ragazzo malizioso che ha appena pensato a un grande scherzo, si portò le dita all'orecchio.
“Pronto, sorella Kate? Kate, mi senti?”
<Cos'è successo, padre Abel? Potete salire a bordo in qualsiasi momento.>
La risposta che arrivò alla domanda era pacata era spensierata.
“In realtà c'è stato un problema... la signorina Astha, o meglio la Viscontessa di Odessa, ha detto che vuole tornare in città.”
<Cosa? Abel, sono occupata in questo momento. Devo preparare la rotta di navigazione, calcolare il carburante, ecc... Lascia queste battute per un'altra volta...>
“Oh!? Dannazione! Mi hanno rubato la pistola! Oh, no! Sono un ostaggio? Wow, è una cosa seria... Aiutami, sorella Kateeeee!”
<Per favore, smettila di scherzare, Padre Abel! Sarò io quella ad essere rimproverata più tardi! A proposito, perché devo sempre finire per rimediare ai tuoi pasticci, non sai nemmeno pulirti il sed...?>
“Beh, questo non mi pare il momento, sorella. Comunque, sono finito per diventare un ostaggio.Quindi occupati del resto, per favore. ♥ È tutto, comunicazione chiusa.”
<Aspettate! Abel...>
“A posto così.”
Chiudendo unilateralmente la comunicazione, Abel annuì come se fosse soddisfatto delle proprie capacità recitative.
“Cogliamo l'occasione per fuggire, signorina Astha!"
“E-ehi, sei sicuro che vada bene così?”
“Non c'è assolutamente nessun problema.”
Mentre seguiva il sacerdote, che iniziava a barcollare attraverso il terminale, Astha inclinò leggermente la testa.
“Allora, come torniamo in città? A nuoto?”
L'aeroporto sulla terraferma e l'isola principale di Venezia erano separati dal mare: nuotare per venti chilometri trasportando un ferito sarebbe stato piuttosto difficile anche per Astha.
“Per prima cosa, prendiamo una barca... Ah, questo è perfetto.”
Abel indicò il punto di imbarco del vaporetto. Un battello a vapore con le ruote laterali era ormeggiato con la caldaia accesa, ma ancora senza equipaggio n�� passeggeri a bordo. Una volta salito sulla barca vuota, Abel iniziò ad armeggiare con tutto ciò che vedeva davanti a sé.
“Puoi guidarla?"
“Se è come andare in bicicletta, dovrei riuscire a cavarmela. Il resto dipende dalla forza di volontà... Ops, così non va bene!”
Mentre Abel armeggiava qua e là, il piroscafo aveva cominciato a muoversi involontariamente.
Il battello ribattezzato ‘così non va bene’ si stava dirigendo verso l'aeroporto.
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La Iron Maiden ─ l'enorme dirigibile contrassegnato da una croce romana stava per decollare.
“Tenetevi forte! Sto per accelerare!”
“... Accelerare cosa?”
Astha gemette con una voce incredibilmente patetica.
Non c'era stata competizione fin dall'inizio tra il tranquillo battello a vapore a ruote laterali e la più avanzata corazzata aerea. Prima ancora che l'imbarcazione si fosse allontanata dalla banchina, l'enorme ombra era già alle sue spalle, in procinto di raggiungerla.
“Hum, siamo nei guai. Se ci prendono, sarò sicuramente picchiato a morte da sorella Kate...”
“I-idiota! Dobitōku! Guarda in avanti!”
“Eh.....no..oooooowww!”
La conseguenza della sua disattenzione fu grande ── quando Abel guardò davanti a sé, lo scafo della barca aveva già superato il segnale nautico di stop e si era pericolosamente inclinato. Con lo scafo rovesciato, la barca si schiantò violentemente contro il muro della riva.
“A-Asutsu dobitōku - Grande idiota!!!”
Tenendosi la testa mentre sbatteva contro il muro, Astha urlò con gli occhi pieni di lacrime.
“Dobitoku! Neptinta! Prost! Farima... Tau Kap Dovrik Ha!? - Idiota! Incompetente! Imbecille!Asino... Hai la testa di una zucca!”
“Se parli così velocemente, non capisco... Comunque questi sono insulti, vero?”
A causa dell'alta marea, le onde all'interno del porto erano agitate come quelle del mare aperto. I due, dopo un grande sforzo, uscirono dal battello e trascinaronoi loro corpi inzuppati sulla banchina.
“Avviso all'ufficiale di spedizione A.X. Abel Nightroad e all'ispettore diretto dell'Impero Astharoshe Asran: disarmate e arrendetevi immediatamente. Aspetterò tre secondi."
“O-Salve, Tres."
Abel alzò lo sguardo, sorridendo il più amichevolmente possibile alla canna della pistola puntata contro di lui. Occhi inespressivi, come perle di vetro, osservavano dall’alto i due inzuppati senza alcuna emozione.
“Scusate, in qualche modo ho finito per disturbarvi nuovamente...”
“Inizio il conteggio. Tre, due...”
"Ah! Ah! STOP! Okay, lascio cadere la pistola! Mi arrenderò anch'io! Vedi? Signorina Astha fallo anche tu!"
"...dobitōku!”
Sono stata una sciocca ad aspettarmi qualcosa... ― immersa in profondi pensieri, Astha alzò le mani.
"Iron Maiden, parla Gunslinger. Obiettivo catturato. Rapporto alla Duchessa di Milano sulla violazione delle regole del servizio clericale da parte di Padre Nightroad."
"Lo dirai davvero a Caterina, Tres? Uffa, mi sgrideranno di nuovo..."
<Abel... più tardi... ho bisogno di parlarti... Oh? Che strano... non è vero?>
"Cosa c'è?" Tres aggiustò le cuffie e rispose. Cosa succedeva? Il rumore era piuttosto forte.
<Questo... non riesco a comunicare con... terina... sembra che ci sia una forte interferenza nel segnale... l'intera area... cosa potrebbe essere?>
Anche la voce proveniente dalle cuffie di Abel era distorta. Considerando che Iron Maiden fluttuava direttamente sopra di loro, doveva trattarsi di un'interferenza di segnale piuttosto grave. O forse era un guasto all'attrezzatura.
"Beh, alla fine è solo tecnologia terrestre..."
Astha guardò i due preti, ridendo con sdegno, rivolse lo sguardo verso la città... e poi la sua espressione si gelò.
"Capisco, quindi... è così!" Sibilò fra i denti.
"Eh? Che succede?" Abel guardò innocentemente il volto di Astha, che cominciò a parlare velocemente:
“Padre Abel, l'impresa edile dove è avvenuto il secondo incidente... non era specializzata in lavori idraulici? Come nelle dighe o negli argini, per esempio?"
"Ah, sì...come fai a saperlo?"
Sapere di averci azzeccato le provocò un’intensa vertigine.
Come pensavo, quel pazzo...!
"Contatta la Duchessa di Milano! Il Papa... no, dobbiamo evacuare tutti i terran da quella città! La visita del Papa, fin dall'inizio, è stata tutta una trappola per lui!"
<Che cosa significa?> Chiese Sorella Kate con aria curiosa, apparendo piuttosto confusa. La correzione applicata alla trasmissione aveva reso il suono un po' più chiaro, ma c'era ancora molto rumore mescolato.
<Se si tratta di Caterina... al momento, sta andando... a ispezionare la diga mobile, ma...>
"Maledizione! Ma proprio lì, proprio lì!? Mettetevi subito in contatto! Altrimenti morirà anche lei!"
Con quelle parole, la luce rossa del mirino laser, che fino a quel momento era rimasta immobile sulla fronte di Astha, scomparve improvvisamente.
"...Raccontatemi tutto in dettaglio."
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mybittersweet · 2 years ago
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Incontro
Subito è partito un abbraccio lungo. Quello che ho desiderato da tanto tempo. Quell'abbraccio che lui sempre ha voluto darmi.
"Bimba" - ho sentito vicino al mio orecchio - " è bellissimo, finalmente, avere la possibilità di toccarti"
"Posso dire lo stesso"
Sentivo il suo respiro sul mio collo. Poi un bacio leggero. Mi ha guardato e mi ha baciato la fronte. C'era molta tenerezza nel suo sguardo. 
"Andiamo, facciamo un giro. Spero che non sia molto stanco dopo il viaggio "
"Portami tu. Qui sei di casa. E no, non sono stanco. Soprattutto dopo averti vista."
Mi ha sorriso. Mi piace quando lo fa. Mi fa sentire bene e spensierata. 
Le strade del centro storico erano piene di persone che volevano approfittare di quella bella giornata di maggio. Si sentiva il rumore delle onde dietro il muro antico. Nell'aria si sentiva l'odore dell'estate che stava per cominciare. Mi ha seguito tra la gente tenendomi per mano. Ci siamo fermati vicino alla gelateria in una piazzetta. 
"Io cioccolato e pistacchio. E tu che gusti prendi?"
"Menta. Prendo solo questo."
La panchina era calda e il gelato troppo buono. Mi ha guardato attentamente come se stesse decidendo cosa fare o cosa dire. E poi la sua mano è partita verso le mie labbra per pulirle dal gelato che era rimasto. Ha leccato il pollice.
"Sinceramente volevo pulirti le labbra con la mia lingua però ho pensato che sarebbe stato inappropriato con tutta questa gente in giro" 
"Lo farai dopo"
Abbiamo preso la strada verso il b&b che aveva prenotato per questi tre giorni. La camera era molto carina e accogliente. Con le persiane che fanno entrare quel poco di luce che serve per vedere bene l'altra persona. 
"Vieni qui. Fatti baciare."
Ha messo le sue mani sulle mie guance. Mi ha baciato dolcemente ma la mia risposta era più passionale e la sua lingua è entrata nella mia bocca. Mi stringevo a lui e sentivo le sue mani esplorare il mio corpo.
"Voglio vedere la mia bimba godere. Voglio sentirti gemere"
"Voglio godere con te "
Tutto quel tempo di attesa mi aveva fatto crescere la voglia. Volevo le sue mani, la sua bocca e il suo sguardo addosso a me. Volevo, finalmente, fargli sentire come riesce a farmi godere. Mi ha tolto la maglietta continuando a baciarmi il collo. 
"Hai un seno bellissimo. Voglio tuffarmici dentro"
"Fallo"
Con un gesto ho accompagnato la sua testa verso il seno ancora con il reggiseno. Lo ha afferrato con le mani toccando i miei capezzoli duri. Stuzzicarli. Ho chiuso gli occhi. Sentivo soltanto come mi apre il reggiseno e lo toglie. Come lecca e poi succhia il mio capezzolo. Prima uno e poi l'altro. Fino a farmi male. Mi ha baciato di nuovo. Ho messo la mano sopra i suoi pantaloni.
"Come sei duro"
"Mi ecciti da morire"
Ci siamo spogliati rimanendo solo con le mutande.
"Voglio che ti stendi sul letto "
Obbediente, sono andata verso il letto e mi sono sdraiata sulla schiena. Si è avvicinato. Mi ha guardato. E si è sdraiato vicino a me. Le sue mani esploravano il mio corpo caldo e eccitato. Le labbra baciavano ogni parte che potevano raggiungere sentendo giù. Ogni tanto tornava su per baciarmi le labbra. Accarezzavo la sua testa.
"Voglio sentire come sei bagnata "
Ha spostato le mie mutandine e ha messo le sue dita tra le labbra bagnate. Non ho potuto trattenere un gemito. Era bello sentire le sue dita mentre mi guardava.
"Che brava bimba"
Con queste parole mi ha tolto le mutande e  allargato le mie gambe mettendosi in mezzo. Mi sono alzata un po' per guardarlo. Guardavo come mi baciava e leccava il mio interno coscia avvicinandosi alla fica. Le dita stuzzicavano il mio clitoride. Sentivo la lingua calda sulle labbra che affondava. La bocca che succhiava il clitoride. Voleva sentirmi gemere sempre di più e ha messo due dita dentro. Piano. Dentro e fuori. Con la lingua sul clitoride e l'altra mano che mi stringeva il seno. Mi faceva impazzire. Avevo tanta voglia.
"Ti voglio dentro di me"
"Prima la mia bimba deve venire e poi potrà avere il resto."
Ha continuato a leccarmi aumentando la velocità con le dita e la lingua. Dandomi qualche schiaffo sul clitoride fradicio. Non riuscivo più a resistere. Ho spinto la sua testa su di me, subito prima che il mio corpo cominciasse a tremare. Ho stretto le lenzuola con le mani. Questa volta potevo dire il suo nome ad alta voce mentre stavo venendo.
"Sei bellissima quando vieni. Bel visino soddisfatto "
"Mi hai fatto impazzire "
Mi ha baciato e ho sentito il mio sapore dalle sue labbra.
"Mettilo dentro. Ti prego."
Mi sentivo ancora tremare dopo questo orgasmo intenso.
"Lo vuoi dentro? Dimmelo bimba. Voglio sentire."
" Voglio il tuo cazzo dentro. Voglio che mi fai gridare."
Ha tolto le mutande e appoggiato la punta sul clitoride. Lo ha bagnato e spinto dentro. Una sensazione stupenda. Un gemito ancora, forte. Mi ha stretto la testa tra le mani mentre spingeva tutto dentro. Piano. Il suo respiro si è fatto pesante e i miei gemiti aumentavano. L'ho baciato. 
Il suo cazzo mi faceva impazzire. Ho sorriso, mordendomi le labbra.
"È bello vederti sorridere. Come in quel video. Però adesso sorridi a me. Sei mia."
"Si..."
Sempre più veloce, più forte. Il mio seno si muoveva e lui lo afferrava con la mano, mordendomi la spalla. Mi guardava, guardava come godevo. Come ogni movimento mi faceva gemere sempre più forte.
"Girati. Mettiti sulle ginocchia."
Ho fatto come mi ha detto e la prima cosa che ho sentito è stato un schiaffo forte sul mio culo che mi ha fatto un gridare. Poi un altro. Mi ha preso per i fianchi per farmi avvicinare a lui. Un bacio su ogni natica. Ha strofinato il suo cazzo sulle mie labbra bagnate prima di metterlo dentro. Ha preso le mie mani e le ha bloccate dietro la schiena. La mia faccia schiacciata sul cuscino. Altri schiaffi e subito dopo un movimento veloce che mi ha fatto gridare. Usava le mie mani come una leva per sbattermi ancora più forte. Poi si è fermato. Ha baciato la mia schiena.
"Guardami"
Mi sono girata verso di lui. Un colpo forte. Poi un altro. E un altro ancora.
"Sei troppo bella per stare in silenzio "
"Allora fammi gridare!"
Ha ricominciato con il movimento veloce. Dentro e fuori. Il contatto visivo mi eccitava sempre di più. Sculacciate, il suo modo di chiamarmi "bimba", il suo cazzo dentro di me. Avevo voglia di tutto questo. Di lui e di noi insieme in questa stanza.
" Ti dispiace se vengo dentro?"
"Non mi dispiace "
"Allora te la riempio "
Vedevo che non riusciva più a resistere. I suoi gemiti più forti e il cazzo che pulsava dentro di me. Lo ha tirato fuori e istintivamente mi sono girata per pulirlo e succhiarlo un po'. Mi ha tirato su e ci siamo baciati.
"Adesso mettiti come prima"
Mi sono rimessa nella stessa posizione e ho sentito la sua lingua a leccarmi da dietro. Succhiare i nostri umori mischiati. E farmi venire di nuovo.
Dopo si è messo vicino a me.
"È bellissimo vederti venire"
"È bellissimo venire per te"
"È stata una decisione giusta venire a trovarti!"
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scrivosempreciao · 2 months ago
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Meno male che c'è Daria
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Daria arriva in ufficio prima che l’edificio si animi di vita umana. Le luci al neon, fredde e implacabili, illuminano moquette sporche di passi e scrivanie nude di personalità. Appoggia la borsa sulla sua sedia girevole, controlla la sua agenda, si liscia la giacca stazzonata. La macchina del caffè borbotta nell’open space vuoto, l’odore amarognolo riempie l’aria. Non ha dormito bene, questa notte. Non dorme mai bene quando la luna piena si avvicina. Dentro di lei scorrono scie di sogni feroci; artigli prima invisibili e poi molto concreti lacerano la sua pelle, dall'interno, e le strappano pezzi di sonno. Ha graffi sul corpo, nascosti sotto la camicetta, segni del suo essere altro, oltre la pelle umana. La porta di vetro scorrevole sibila e il primo ad entrare è il direttore delle vendite, Tommaso, con quel suo sorriso storto. Le si avvicina.
«Daria, caffè. Subito. Doppio zucchero. Ho una call tra cinque minuti, sbrigati.» Daria annuisce. Non discute. Devia verso di lui il caffè che stava preparando per se stessa. Riesce quasi a fiutare il disgusto del collega, la sua insofferenza: per lui Daria non è davvero una persona, è un distributore automatico. Una donnina da cui esigere aiuto e assistenza. Lei abbassa gli occhi, con un vago «sì, certo.» Le mani tremano appena. Dentro di lei, qualcosa ringhia, ma è un ringhio silenzioso, acquattato tra le costole. Perché di giorno la sua natura è in letargo, soffocata in un involucro di normalità. A mezzogiorno l’ufficio è un alveare di voci maschili che si accavallano. Pochissime donne, tutte recluse in ruoli marginali: segretarie, archiviste, centraliniste, rare impiegate amministrative. Un paio di stagiste dall’aria intimorita.
Gli uomini lì giocano a misurarselo figurativamente per stabilire gerarchie, spandono cologne aggressive, ridacchiano sporcamente all’angolo della macchinetta del caffè, occupano tutto lo spazio, informano gli altri delle proprie conquiste, riappacificano conflitti professionali con una battuta rivolta alle tette della nuova assunta. Daria è la segretaria del capo dei capi, il CEO supremo e intoccabile, Massimo: un uomo sui cinquant’anni, stempiato e con la pancetta, sempre in giacca di lino costosa, con la bocca unta di burrocacao fighetto e arroganza. Si crede il non plus ultra, valuta se stesso usando come riferimento la leccaculaggine dei sottoposti sottopagati. Lei trascrive i suoi appunti, organizza le sue agende, corregge i suoi refusi, aggiusta il tiro delle sue cazzate, fissa le riunioni, fa chiamate importanti al posto suo. Però, è lo stipendio mensile di Massimo a sfoggiare cinque cifre, non quello di Daria. Quando anche lui entra nella stanza, l'aria si fa pesante.
«Daria, oggi niente pausa pranzo, dobbiamo preparare le slide per la riunione di domani. Ricordati di indossare qualcosa di carino, eh?» commenta senza guardarla negli occhi. Lei stringe le labbra. Annuisce. Non risponde. Sa che se fiata, lui la colpirà con un: «Scusa, hai detto qualcosa?» e le farà passare la voglia di replicare di nuovo. In questa Babele di sguardi insistenti, prevaricazione e allusioni, Daria si sente minuscola.
Ma è solo una faccia della medaglia. La sera, quando le scrivanie tornano vuote, lei rassetta i documenti, controlla le ultime email, e poi esce nel parcheggio sotterraneo. Saluta appena il guardiano che le fa un cenno distratto, ignaro di tutto, e torna a casa a piedi. Le strade della città hanno un odore diverso dopo le otto di sera, l’asfalto butta fuori aria più sporca e stanca, ci sono voci agitate che arrivano dai vicoli e dai bar che costellano il quartiere. Daria ingoia la solita umiliazione della giornata e sa, con una certezza atavica, che la notte le darà giustizia. Non giustizia legale, non retribuzione, no: qualcosa di più antico, un equilibrio che si ristabilisce con sangue e denti. Non ricorda come sia iniziato tutto, quando la bestia che dormiva nella sua carne si è svegliata. Forse è sempre stata lì. Forse è il risultato di anni di soprusi, di violenze subdole, di mani sul culo e commenti inaccettabili sussurrati. Forse è l’eredità di una notte di luna piena, di un incontro con qualcosa di inumano. Non importa. Ora quella forza animale è parte di lei. E le serve.
Nella sua piccola stanza in affitto, Daria toglie la camicetta, la gonnella grigia lunga che fa storcere il naso a Massimo, i collant neri e le scarpe col tacco basso consumato. Lancia tutto in un angolo. Indossa una tuta larga, annusa l’aria: la notte è tiepida, la finestra aperta lascia entrare un refolo di vento carico di odori. Il suo olfatto diventa più acuto, la pelle formicola. Sa già dove andare. Nella sua testa si mescolano le voci delle sue colleghe e di tutte le donne che ha conosciuto, storie mormorate di inferni taciuti, di percosse rimaste impunite, di grasse risate sempre così dolorose. Lei non è una giustiziera con spada e mantello. È un animale che risponde agli impulsi ferini che animano i suoi muscoli.
Quando si trasforma, non prova compassione, non prova pietà. Non è più remissiva o titubante. Quella parte sottomessa della sua mente si offusca in una fame antica. Ciò che resta è l’istinto di cacciare i maschi peggiori della città: quelli che gridano “troia!” se guidi troppo lenta, che ti spogliano con gli occhi quando torni a casa sull'autobus la sera, che trascinano le ragazze dietro i cassonetti scambiando la cortesia con un via libera libidinoso. Resta l'istinto di odorare la loro paura, sentire le loro ossa spezzarsi tra le fauci; quello la fa sentire viva.
Daria non giustifica se stessa, sa che questa è una regressione senza ritorno, un atto estremo. Ma è anche un equilibrio: il mondo scivola nella follia e lei si adegua, usando le sue zanne dove la ragione fa male i conti. Quella notte, la luna è quasi piena. La schiena si curva, i muscoli si gonfiano, la pelle si copre di peli scuri e ispidi. Le dita si rompono in artigli, il volto si allunga, la bocca si affolla di denti affilati come pugnali. Una donna lupa alta quasi due metri, su due zampe posteriori, massiccia, la coda che sferza l’aria. Gli occhi gialli brillano nell’oscurità.
Esce dalla finestra con un salto silenzioso. Corre sui tetti, annusa l’aria. Cerca l’odore dell’orrore umano: il sudore rancido di chi sta per fare del male. Lo trova, sempre. Quella città ne è piena. Nelle vie più buie, ci sono uomini che non temono nulla. Non immaginano che la predatrice è in agguato. Individua un maschio che piscia in un vicolo dietro un locale notturno: un omone con l’alito di birra e i pugni chiusi. Daria lo riconosce: è piuttosto noto in zona perché pesta le prostitute e strattona le maniche delle cameriere quando non lo servono subito. Mano, lo chiamano. Lavora in municipio. Mano stanotte ha adocchiato una bambola con cui giocare: magra, giovane, straniera, ingenua. Ce l'ha lì accanto. Lei se ne sta lì con la borsetta stretta al petto, si guarda attorno incerta, come un passerotto. «Ho parcheggiato qui vicino, ti faccio vedere una cosa. Se fai la brava ti do il numero di quel mio amico al commissariato. Se fai la brava.» Lei sbianca. Ma la lupa Daria non conosce diplomazia. Balza giù da un tetto, atterra dietro Mano. Un ringhio bassissimo, un suono che fa vibrare l’aria. La ragazzina scappa via strillando – a Daria dispiace, ma tant'è. L’uomo si volta, con ancora il cazzo in mano; urla peggio della sua preda.
In un attimo, artigli nella gola, zanne in quella carne molliccia, il sangue schizza e dipinge i mattoni sporchi, la trachea di Mano gorgoglia. Il corpo cade a terra come un sacco vuoto. Basta così poco, per morire. Bastano pochi secondi e tutta quell'arroganza scivola via in un rivolo di sangue, urina puzzolente e birra. Daria si lecca il muso, poi si dilegua, risalendo sul tetto con un balzo. Sente la vita pulsare in ogni cellula. Sente l’ingiustizia del giorno mitigata dalla sua ferocia notturna. Non ha rimorsi. Ha solo fame.
La mattina successiva Daria torna in ufficio come se nulla fosse accaduto. C’è un certo brusio nell’aria: qualcuno ha sentito che nella notte c’è stato un omicidio cruento, un altro uomo massacrato come un animale. Non è la prima volta, chiaro, solo che a volte la notizia si fa strada fino ai telegiornali, a volte no, a seconda di quanto è succosa o di quanto era un pezzo grosso il morto. Tommaso ne parla a voce alta, con una certa eccitazione: «Avete sentito? Un altro cristiano fatto fuori. Dove andremo a finire? Che città di merda.»
Daria non solleva lo sguardo dalla sua tastiera. Sorride leggermente. Se solo sapessero. Dopo la presentazione, Massimo la chiama nel suo ufficio e, come al solito, la rimprovera per una sciocchezza inesistente. Le ricorda che deve sorridere di più quando parla con i clienti. Borbotta che a nessuno piace parlare con una musona so-tutto-io. Le fa la predica su tutti i vantaggi che le donne come lei potrebbero avere lì dentro se solo si lasciassero andare. «Daria, puoi averli in pugno quei tizi, lo capisci o no? Sono uomini, un paio di sorrisi, qualche moina e ti firmano qualsiasi contratto. Ascolta me, lo so. Le basi!»
Daria annuisce, sentendo i canini umani premere sulle labbra. Pensa a come sarebbe facile sbranarlo se solo là fuori ci fosse l'eleganza della luna e non l'impertinenza del sole. Ma no, bisogna aspettare. E poi Massimo è troppo in vista, troppo protetto. È un manipolatore subdolo. Lei preferisce colpire prede più manifestamente violente. Almeno per ora. A pranzo Daria non ha appetito. Va a prendere un caffè nell’angolo cottura. Anche altre segretarie gravitano attorno a quel piccolo rifugio temporaneo. Una di loro, Caterina, ha il mento che trema e gli occhi così stanchi da sembrare vuoti. Lavora sotto Fulvio, uno che ha tenuto il broncio a tutti per settimane perché il suo staff non gli aveva fatto i complimenti per il suo nuovo completo Hugo Boss. «Vi incazzate perché i maritini non notano le vostre tinte, ma quando c'è qualcosa di davvero interessante da guardare fate le finte tonte.» Aveva detto.
Daria la osserva, Caterina abbassa gli occhi. La bestia dentro ringhia. Si chiede se quella notte uscirà ancora. Probabile. Ma deve stare attenta, la polizia comincia a cercare pattern, a capire se dietro quei delitti c’è una mano umana o altro. In effetti, nella zona, alcune telecamere di sicurezza hanno ripreso ombre vaghe, sagome impossibili. Gli inquirenti sono confusi. Un animale feroce? Un serial killer impazzito mascherato da animale? Una leggenda metropolitana? Daria si sta sfogando più del solito. Più di quanto non abbia mai fatto. Ne ha bisogno. Il tempo passa, le notti si susseguono, le lune cambiano forma, si gonfiano e si sgonfiano, come lattiginosi polmoni in cerca d’aria, ma la rabbia che scuote le ossa di Daria non muta mai. Aumenta la frequenza delle sue cacce. Non sempre uccide. A volte spaventa soltanto, fa scappare un gruppo di bulli. Altre volte interviene quando qualcuno tenta uno stupro o allunga le mani dove non dovrebbe. In quei casi non c’è pietà: lascia i corpi smembrati e aperti, segnati dai suoi artigli. Non c’è una regola chiara, solo la sua fame di punire.
Ma più la storia va avanti, più l’ufficio diventa un luogo di tensione. Massimo e gli altri manager testosteronici si innervosiscono: le notizie dei morti agitano i loro sogni. Un paio di clienti importanti hanno annullato un meeting proprio all'ultimo; non se la sentivano di fare trasferte. E i giornali parlano di un “mostro della notte” che uccide uomini. I giornalisti esitano a creare connessioni non confermate dalla polizia, anche se quelli più audaci iniziano a far andare a braccetto le parole “violenti” e “uomini”. Qualcuno propone un movente: un gruppo di nazifem esaltate? Una setta? Il dibattito si infiamma. Daria gode di questi dibattiti, anche se non lo mostra. Va avanti a testa bassa, nella sua miserabile vita diurna. Ma una sera, al rientro a casa, trova una pattuglia che gironzola proprio nel quartiere. Annusa la paura degli agenti, o meglio la tensione. Deve stare attenta. Forse deve cambiare zona di caccia.
Ma un giorno Massimo fa una battuta sui tacchi di Daria davanti a un nuovo cliente – «Sembrano due punteruoli! Speriamo non abbia le sue cose o siamo fritti!» – e lei decide che quella notte lo seguirà. Non torna neanche a casa dopo i soliti straordinari non pagati che la inchiodano alla sua scrivania fino a tardi: nel parcheggio dell'ufficio lascia che sia il suo naso a pensare per lei e fiuta l'odore del suo capo; è lì, come una scia rumorosa che aspetta solo di essere svelata. Lo trova in un ristorante costoso a mangiare in compagnia della moglie e della figlia. Daria abbandona la sua forma lupina e si avvicina alla vetrata di quel posto così chic. Li guarda; lui ride e divora il filet mignon che ha davanti, la moglie pilucca distrattamente un'insalata e la figlia è immersa nello schermo del cellulare.
Daria stringe la mascella. Massimo non è uno stupratore di strada, no, ma è uno che distrugge la dignità delle donne ogni giorno, pezzo per pezzo. Non sarebbe giusto punirlo? La bestia scalpita. Ma lui è lì con la famiglia. Non può lasciarsi alle spalle altri testimoni e in fondo detesta traumatizzare le povere donne che hanno la sfortuna di essere in compagnia degli uomini che caccia. Tentenna, anche se prima era così certa sul da farsi: ammazzare un CEO come lui significa chiudere i giochi. Diventerebbe impossibile per lei continuare a fare quello che fa ed essere una donna lupa.
Quella notte lascia stare Massimo e trova un’altra preda: un uomo che sulla strada di casa le chiede ripetutamente quanto vorrebbe per un pompino. «Oh, si fa per scherzare! Sei vestita come una di quelle, ecco» aveva riso. Daria indossa un abito lungo di lana. Beige. Basta un secondo e quell'abito viene fatto a brandelli dal corpo bestiale della lupa. La trasformata Daria piomba sull'uomo, gli fa morire la risata nel petto e poi la strappa dalla sua cassa toracica con una zampata brutale. Torna a casa con un malumore che le fa vibrare un basso ringhio in gola; quel vestito le piaceva.
La mattina successiva, appena mette piede in ufficio, Daria avverte subito un’atmosfera diversa. C’è un chiacchiericcio strisciante. Se tende le orecchie può cogliere stralci di conversazioni: nomi di vittime, ipotesi sussurrate, frasi mezze dette. Sui social, qualcuno ha cominciato a parlare di una “giustiziera”. Una che sbrana gli uomini violenti e abusanti, letteralmente. E lo fa come se fosse una bestia feroce, un lupo. Il cerchio si stringe e a Daria gira la testa; va in bagno. Lì, mentre si sciacqua la faccia, sente due segretarie parlottare. Una dice che sarebbe figo stampare degli adesivi con la silhouette di una lupa nera su sfondo rosso.
«Che top, ne vorrei troppo uno. Lo metterei sul computer, terrebbe lontani gli stronzi.» L'altra dice che nei quartieri periferici stanno spuntando dei murales a forma di colpo d'artiglio o di lupo con la bocca spalancata. Dice poi che un collettivo di universitarie femministe ha usato una semplice immagine stilizzata, due orecchie a punta e occhi gialli, per pubblicizzare un talk sulla misoginia. «Un po' pulp tutta questa storia, ma devo dire che mi fa meno paura uscire la sera.»
Daria non commenta, non si mostra. Ma dentro di lei si insinua un sorriso feroce. All’ora di pranzo, Tommaso non fa commenti allusivi quando Daria e le altre entrano nell’angolo cottura. Si limita a un cenno del capo. Evita il contatto visivo troppo insistente. Anche Fulvio, il capo di Caterina, ora ringrazia con cortesia forzata quando le assistenti gli portano delle carte. Come se un interruttore fosse stato premuto. Non c’è rispetto sincero, no, solo timore. Ma funziona. Un'educazione mimata a pappagallo per non attirare l’attenzione di quella punitrice sconosciuta che, come tutti ora sanno, è là fuori. Il giorno trascorre in questo strano limbo. Lei esce col tramonto, respirando l’aria di un universo parallelo: uomini che camminano guardandosi i piedi, spalle curve come a voler prendere meno spazio possibile, parole calibrate, mani in tasca. Non è giustizia, non è pace, ma è qualcosa.
Le notti di caccia continuano, e ogni morte aggiunge benzina sul fuoco della leggenda della lupa. Alcune donne hanno iniziato a radunarsi in piccoli gruppi. S’incontrano in appartamenti disadorni, bar poco illuminati, parcheggi deserti. Indossano spille o magliette con la sagoma di una lupa tutta nera. Leggono le notizie sui femminicidi che nonostante tutto non si interrompono mai e ringhiano tra i denti. Raccontano senza filtri le proprie storie di abusi, violenze, molestie, fanno nomi scandendo per bene le lettere. Una survivor intervistata alla televisione fa addirittura un gesto, alla fine del suo discorso: graffia l’aria con le unghie e mostra i denti. «Un giorno, magari non oggi ma un giorno, sarà il nostro turno di essere le vere belve» dice.
Non è un sogno innocente, è una rabbia antica che trova spazio. Non c’è più solo paura. C’è anche il desiderio acuto di non chinare la testa. Massimo, intanto, ingaggia guardie del corpo. Tre uomini nerboruti che lo seguono come cani da guardia. Ha cambiato atteggiamento verso Daria, la tratta con una finta gentilezza da vomito. Le dice: «Stasera puoi uscire prima, non vorrei mai farti fare tardi…» Lei annuisce, sente l’odore del suo sudore acre. Lui guarda la finestra, come se temesse che un’ombra pelosa possa arrampicarsi sul cornicione da un momento all'altro.
Le altre ridono a fior di labbra: «Hai visto Massimo? Pare abbia coda tra le gambe.» La lupa non ha ancora sbriciolato la sua pelle, ma sta già masticando la sua vanità. Ma nei giorni successivi, però, Massimo mostra di nuovo la sua vera natura. Prima una stagista, poi un’impiegata amministrativa, poi due segretarie a contratto determinato: con la scusa di un calo di fatturato o di ristrutturazioni interne, inizia a licenziare le donne una dopo l’altra, senza pietà né giustificazioni plausibili. Al loro posto, restano solo uomini, maschi rassicurati dalla scomparsa di potenziali accusatrici. Un ufficio tutto al maschile, come un club esclusivo dove le battute zozze sarebbero state accolte con una pacca sulla spalla e nessun senso di colpa. Senza donne non c’è bisogno di fingere rispetto, ovvio. Un modo per poter finalmente respirare il fetore della propria arroganza a pieni polmoni, convinti di aver messo in salvo la loro malsana idea di normalità. Daria è una delle poche che rimangono.
«Meno male che ci sei tu, Daria» le dice Massimo, «sempre così brava e carina.» E la guarda come guarderebbe un topolino con una zampina spezzata. Quel misto di compassione e disgusto che si dà alle creature infime, innocue e inutili. Daria sa che per finire questo circo deve fare l’ultimo passo. Perché no, non lo salverà. Massimo non è meno colpevole degli altri. Meritano tutti la stessa fine? Forse no, ma Massimo non ne uscirà vivo. La leggenda della lupa è nata dal sangue, e dal sangue verrà consacrata.
Quella notte Massimo si rifugia nel suo attico blindato. Le guardie del corpo presidiano l’ingresso. La moglie e la figlia sono via, in vacanza forzata. Lui resta con il suo whisky costoso, la cravatta allentata, il cellulare a portata di mano sudaticcia per chiamare la polizia al primo rumore. Una pistola ottenuta solo Dio sa come appoggiata sul tavolino laccato. Daria sa bene come si muovono le prede impaurite: frenetiche, prive di lucidità. Entra dal lucernario come un’ombra. Le guardie presidiano la porta e l'ingresso, ma non il tetto. Un errore banale, ma comprensibile: chi si aspetterebbe che la “lupa” giustiziera sia davvero una lupa? Daria scivola dentro, camminando carponi sui travetti. Scende con un balzo nel corridoio. Un rumore, una guardia si volta. Troppo tardi: artigli nella gola. L’altra guardia non fa neanche in tempo a urlare: un morso letale gli stacca la testa dalle spalle. La terza si precipita verso la porta, non ci pensa due volte a lasciare il suo capo da solo.
Massimo sente i passi pesanti e quei ringhi mescolati ai grugniti soffocati dei suoi uomini. Ora ha la pistola nella mano sudata. Quando Daria entra nella stanza, lo fa in forma umana. Nuda, coperta di sangue, brandelli di carne e cartilagine dalla testa ai piedi. Una donna, non un mostro. Nell'aria si spande odore di piscio mescolato al profumo di aftershave di lusso; Massimo ha paura. «No… no… ti prego…» balbetta, indietreggiando. Daria non parla, non sorride. Non c’è bisogno di parole, boriosi monologhi o giustificazioni. Si getta su di lui, un proiettile sfiora con un tuono il suo orecchio destro. Lei si sposta in un lampo e afferra il braccio di Massimo, lo torce finché sente l’osso spezzarsi, un suono secco. L’uomo urla, getta la pistola a terra. «Ti faccio ricca! Ti prego, ho soldi, lo sai! Daria, ci conosciamo da anni!»
Daria ringhia e in un attimo la lupa torna a essere pelo, denti e artigli. Non è questione di soldi, ovviamente, e mai lo è stata. È questione di equilibrio. Di sangue. Chiude le fauci sulla mascella di Massimo e tira, forte. Snap. Il sangue sgorga generoso sul lusso di quella casa, lui rantola e poi si ammutolisce. Un altro cosiddetto maschio alfa ridotto a carcassa vuota e inutile. L’indomani la città è nel caos. Massimo era importante, conosciuto, intoccabile. E ora è morto, sbranato come un coglione qualsiasi, in casa sua. Le donne che organizzano incontri clandestini si scambiano sguardi allibiti, alcune quasi piangono di commozione. Gli uomini, tutti, sentono un peso sullo stomaco. Ora sanno che nemmeno la ricchezza, le guardie o i piani alti li salvano. La donna lupa può arrivare ovunque. Qualcuno si convince che è ora di cambiare. Altri semplicemente si nascondono. Le donne indossano la spilla della lupa con ancora più orgoglio. Ma Daria non resta a godersi lo spettacolo. È braccata, lo sa. La polizia ispezionerà l’azienda, farà domande, cercherà tracce. Lei non può restare. C’è stato un tempo in cui voleva solo riequilibrare i conti. Ora ha generato un mito. E i miti sono pesanti.
Quella sera, se ne va. Si volta indietro un’ultima volta, dalla stazione degli autobus. Vede un gruppo di ragazzine incappucciate agitare bombolette spray davanti alla serranda chiusa di un negozio. Iniziano a disegnare la silhouette di una lupa. Daria tende le orecchie e le sente mormorare slogan ancora confusi, ma già colmi di rabbia e determinazione. Non hanno bisogno di conoscerla davvero, di metterla su un piedistallo. A loro basta un'idea. E a Daria basta sapere che sono meno sole. Daria sale su un autobus diretto lontano, con uno zainetto e poche cose. Avrà tempo per decidere cosa fare del suo potere, del suo futuro. Per ora quello che doveva e voleva fare è stato portato a termine. Dietro il finestrino sporco, la luna sfuma tra i palazzi, di nuovo quasi piena, ancora affamata di grida e giustizia imperfetta ma vera. La lupa è in cammino.
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gcorvetti · 11 months ago
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Emozioni forti.
Come ho scritto oggi, ed è raro che faccio due post nello stesso giorno, sono andato a Milo, paese dove abitava fino alla dipartita Franco Battiato, oggi che sarebbe stato il suo 79esimo compleanno. Ma aveva una casa anche Lucio Dalla, innamorato del paesaggio e della tranquillità del posto. Il paese ha voluto rendere omaggio ai due artisti commissionando una statua ad uno scultore, di cui ho letto il nome ma che non mi ricordo (abbiate pazienza l'età). Arrivato e sceso dall'auto mi è subito venuto addosso un brano di Franco, si proprio così, il comune ha una cassa da dove escono i brani uno dopo l'altro, sarà per il fatto del compleanno, poi immerso in questa atmosfera magica tra musica e panorama mozzafiato è facile farsi prendere dall'emozione e sono restato due ore, ho anche mangiato e preso il caffè, ad ascoltare e gironzolare intorno alla statua ma anche al paese, molto bello anche se il tempo era nuvoloso e a tratti fresco, se il sole veniva coperto, ma tutto sommato si stava bene. Alcuni scatti, personalmente trovo la faccia di Battiato troppo seria, lui era uno molto ilare, va bè.
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Poi quando ho deciso che era stato abbastanza e l'orario era ancora presto ho pensato scendo ad Aci Trezza, ma si mi vado a prendere una granita, tanto cosa ho da fare di così importante, niente. Mangiata sta granita (alle mandorle) e fatto meditazione tra gli scogli, ho pensato che era ora di chiudere un cerchio, lasciare andare quel passato se pur bello, volendo vedere che fine ha fatto la casa dove abitavo, si perché nella mia vita ho abitato 3 anni ad Aci Trezza (con tanto di residenza) dal 93 al 96, mi sono avvicinato alla salita, perché venivo dalla scogliera, con circospezione come fanno i gatti quando sono diffidenti e da lontano ho notato che è stato costruito un balcone dove io di solito mettevo il vespone e dove c'era questa grande porta a tre ante, la porta c'è ancora. Seduto sul questo balconcino c'era un signore anziano, mi sono fermato a qualche metro e l'ho salutato "Salve", lui "Salve" ed è tornato al suo foglio di carta. Va bè la faccio breve, gli ho detto che io abitavo la e da li in poi è iniziato un dialogo meraviglioso con sto vecchietto sia sulla casa che sulla mia vita, era curioso cosa ho fatto, nel frattempo è arrivata la figlia e lui tutto contento le fa "Oh, non ricordo il nome, lui abitava qua, sai", quindi la discussione si è inerpicata nelle persone che conoscevamo e che popolavano il vicolo soprattutto d'estate, tutto coincideva, è stato bellissimo. La casa era di mio nonno e quando lui morì venne venduta e i proprietari la divisero in due, il vecchietto, Sergio, è in affitto. Adesso è difficile riavvolgere il nastro e scrivere tutte le cose che ci siamo detti, però è stato bellissimo, anche ora che lo scrivo sento quella gioia, è stata una giornata di emozioni continue, l'ho salutato con la promessa che gli manderò una cartolina dall'Estonia, tanto l'indirizzo lo so, e lui e la figlia quasi piangevano, quando mai un estraneo arrivato dal nulla è così gentile e poi chi manda più cartoline? Io lo farò di sicuro. Quindi vi lascio con un brano del Sommo Franco e parte del testo
"...L'impero della musica è giunto fino a noi Carico di menzogne Mandiamoli in pensione i direttori artistici Gli addetti alla cultura E non è colpa mia se esistono spettacoli Con fumi e raggi laser Se le pedane sono piene Di scemi che si muovono..."
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Lunedì,07 Ottobre
Ore 21:00
Stamattina appena sveglia come ogni mattina passo davanti alla piccola mensola dove ci sono i miei libri.I libri che in questi anni mi hanno fatto compagnia,i libri che in qualche modo mi hanno rapito il cuore.
Passando ho sentito come un attrazione,come se in quel momento proprio quel libro mi stesse dicendo RILEGGIMI.Come se la storia di Silvia e Guido mi stesse dicendo ritorna a EMOZIONARTI con noi.E ora dopo una giornata passata a pensare a quel libro lì sulla mensola che mi stava chiedendo qualcosa l'ho ripreso tra le mani e ho cominciato a rileggere quelle pagine.
Non so perché proprio ora questo libro mi ha scelto,ho sempre pensato che i libri non si scelgono ma sono loro a scegliere noi,ma qualsiasi cosa mi vuole comunicare mi perderò di nuovo in questa storia.
Sabato,12 Ottobre
Ore 18:30
Fine rilettura del libro.
Devo ammettere che rileggerlo mi ha fatto molto bene,ho ripercorso emozioni che avevo vissuto e emozioni nuove che non avevo avuto la prima volta che ho letto il libro.
"Potrei gettare via tutto quello che ho costruito per un giorno con te."
Soprattutto quella frase mi ha fatto piangere tantissimo forse la prima volta non ho dato il giusto peso alle emozioni che ci sono in alcune parti.
È stato un piacere rileggere la vostra storia Silvia e Guido vi porterò nel cuore per sempre.
-la ragazza dal cuore nero♡
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somethingsomethingwords · 1 year ago
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Nuovo giorno nuovo giro. Questa volta posto in italiano, because why not. Piccola storia, perché a volte se gli sceneggiatori non sono capaci di scrivere cose decenti allora ci devi provare tu. Tutti i commenti sono ben accetti. Enjoy 💜
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Simone avrebbe finito la giornata vomitando, prendendo a pugni qualcuno o semplicemente andandosi a schiantare veramente sulla tangenziale, altro che spazzatura sotto casa di Manuel.
Se da un lato è sollevato che il cretino di 5C si sia svegliato, dall'altro non può fare altro che odiare un po' la situazione, Ernesto, suo padre. E forse anche un po' sé stesso.
Dopo aver salutato il commissario e lasciato l'ospedale, non gli era rimasto altro su cui concentrarsi a parte quelle due parole: futili motivi. Gli risuonavano nelle orecchie, gli rimbalzavano nel cervello, gli pugnalavano il cuore.
Suo padre non sembra notare niente, ma quella non era una novità. Poteva essere così attento in alcune situazioni, tipo in classe con i suoi studenti, e allo stesso tempo l'opposto a casa. O forse era così distratto solo con Simone.
Forse, dopo Jacopo, aveva concluso che Simone non ne valeva la pena.
Forse era Simone il problema.
Chissà se le cose sarebbero state diverse, se a morire fosse stato lui. La vita dei suoi genitori sarebbe stata migliore? Jacopo sarebbe stato migliore? Avrebbe scoperto la cura per il cancro?
Tutte domande idiote, ma che a volte si palesavano nel suo cervello e non volevano uscirne.
C'era solo una persona che lo aiutava a zittire tutto il caos in testa, ma in questo momento non era lì, e lui doveva imparare a sopravvivere da solo.
Improvvisamente sente una pressione sulla spalla, e si accorge in ritardo che il padre stava parlando con lui.
"Come?" si limita a chiedere.
Il padre lo guarda per un attimo come se davanti a lui ci fosse un nuovo filosofo che ancora non capisce ma che è disposto a studiare, per poi distogliere lo sguardo.
"Niente, dicevo ci vediamo a casa?"
"Sì sì, a casa."
Simone riesce a stento a processare quello che gli ha detto Dante che già non lo vede più, scappato verso chissà dove.
Ora è solo, Simone, in un'area affollata. Troppe persone, troppi sguardi, troppi rumoriodorilacrimeviavai.
Non riesce a concentrarsi su niente, tutto troppo presente ma totalmente inafferrabile.
Vede di fronte a sé un parco, e decide di entrare, perché qualsiasi cosa è meglio della strada, e sa già che non riuscirebbe a tornare a casa in moto.
Si addentra nella piccola zona verde, piena di spazzatura e con una vecchia panca arrugginita.
Si siede, e aspetta che il tempo passi. Ogni tanto un soffio di brezza gli accarezza il viso, o il suono di un clacson gli infastidisce le orecchie, ma lì, su quella panca, si ritrova ad esistere, senza doversi sforzare di essere il figlio perfetto, lo studente modello o l'amico comprensivo. Lì è semplicemente Simone, un corpo senza una volontà.
È solo quando gli vibra il telefono in tasca che ritorna un po' in sé, notando il sole sempre più basso e la sua pelle d'oca, nonostante la giacca pesante.
Con mani malferme risponde alla chiamata.
"Pronto?" la voce rauca, chissà se per il freddo od il disuso.
"Ao, a Simò, ma dove cazzo stai? So' du' ore che t'aspetto pa'a cosa de fisica!" la voce di Manuel è come un balsamo per le sue ferite, ma le parole lo fanno sprofondare. Sì, si era completamente dimenticato di qualsiasi cosa che non fossero quelle parole. Aveva lasciato perdere tutto perché non riusciva neanche ad essere felice quando avrebbe dovuto.
Ma che cazzo c'è di sbagliato in me? si chiede, perché ormai è disposto a tutto pur di non sentirsi sempre nel torto, sempre sbagliato.
"Ao, Simò, ce stai?" chiede Manuel, voce leggermente più seria.
"Sì sì, sto qua." e non sa proprio cosa aggiungere.
Nonostante voglia disperatamente la presenza dell'altro al suo fianco, non può che risentire l'eco di vecchie parole e porte di un garage che sbattono.
"Simone, che c'è? 'Ndo stai?"
"Sto tornando, a dopo."
Simone non aveva la minima idea di come tornare a casa. Si sentiva distaccato dal proprio corpo, quindi il motorino era escluso. Ma non aveva la forza di pensare ad altre alternative.
Il telefono continua a squillare, ma lui lo ignora spegnendolo.
Si riposiziona sulla panchina, ma poi sente una voce familiare.
"Accidenti!"
Si alza e trova Viola all'entrata del parco.
"Ehi Viola, tutto bene?"
La testa della ragazza scatta nella sua direzione, e si rilassa leggermente quando lo vede.
"Ehi Simone. Sì, tutto bene. Solo queste stupide buche che non aiutano le ruote."
In effetti il danno era visibile a chiunque: la ruota destra era deformata e lo pneumatico sgonfio.
"Mi dispiace. Vuoi chiamare qualcuno?"
"Probabilmente."
Quando la ragazza non continua, Simone la squadra velocemente. Ha gli occhi lucidi e sembra anche lei un po' distante da tutto.
Anime in pena entrambe. Ma si sa, mal comune mezzo gaudio.
"Se vuoi possiamo sederci sulla panca ed aspettare."
"Aspettare cosa?"
"Che ad entrambi torni la voglia di tornare a casa."
Questa volta è Viola a guardarlo attentamente, ma Simone non ha niente da nascondere, quindi rimane fermo ad aspettare una qualsiasi risposta.
"E come ci arriviamo alla panchina, genio?" chiede la ragazza, uno strano misto di rabbia e divertimento a tingerle la voce.
"Le opzioni sono due. O ti sollevo, oppure spingo la sedia."
"Ma sei scemo? O sei solo cieco? La ruota è completamente andata, non ce la faresti mai a spingerla."
"E secondo te io perché faccio rugby?"
"Ah, quindi non è la prima volta che ti trovi in questa situazione?" cerca di rimanere seria, ma si vede che trattiene a stento la risata.
"Pfff, tutti i giorni. Non sei così speciale."
Finisce la frase e, appena si guardano, scoppiano entrambi a ridere.
Quando entrambi riprendono fiato, Viola gli lancia l'ultimo sguardo, e poi sembra convincersi su qualcosa.
"Va bene, ma non ti fare strane idee."
"Non mi permetterei mai, my lady." dice nel suo miglior peggior accento british. Poi lentamente si avvicina, le passa un braccio sotto le gambe ed uno dietro la schiena e la guarda, aspettando un cenno di assenso che arriva poco dopo.
Allora, la solleva il più delicatamente possibile e la porta fino alla panchina, depositandola e poi tornando indietro per la sedia a rotelle, non pesante quanto si aspettava ma sicuramente non leggera.
Una volta riseduto, lascia cadere la testa all'indietro, e fissa il suo sguardo sulle nuvole arancioni che lentamente percorrono il cielo.
Non ha idea di quanto tempo sia passato, quando sente Viola sospirare.
Allora si gira verso di lei, e la vede con il viso ancora rivolto verso il cielo.
Il silenzio che si crea non è imbarazzante, anzi.
"Perché stavi piangendo prima?" le chiede Simone sussurrando.
"Non sono cazzi tuoi, ti pare?" risponde lei stizzita, lanciandogli un'occhiata torva.
E tutto questo fa sorridere Simo, perché lui a persone che si comportano da porcospini è abituato.
"Non è per sapere gli affari tuoi. È solo per sapere se ti posso aiutare in qualche modo." risponde pacato.
Lei lo squadra di nuovo, e per qualche motivo quella diffidenza, quella poca fiducia nel prossimo gli è molto familiare.
Sospirando, la ragazza distoglie lo sguardo.
"Non credo proprio che il ragazzo perfetto della classe possa capirmi,no?"
E Simone lo sa che è la cosa più scortese che possa fare, ma a sentire quelle parole scoppia a ridere.
Viola lo guarda torvo, e lui ha bisogno di qualche secondo per ricomporsi.
"Viola, ma che cazzo stai a di'? Solo durante l'anno scorso ho scoperto di aver avuto un gemello che è morto quando avevamo tre anni, me lo sono scordato come se non fosse mai esistito, ho quasi perso l'anno perché mi sono immischiato in giri loschi ed ho scoperto di essere gay. Non posso lamentarmi di come vivo perché so che c'è chi sta peggio, ma non è sempre stata una passeggiata, ah."
Finisce il discorso e vede gli occhi di Viola sgranarsi. Ma in quel momento non sente vergogna, o rabbia, o alcun sentimento in particolare. Quasi non si sente più umano.
"Scusa, non lo sapevo." comincia lei, ma lui scuote la testa.
"Non te l'ho detto per farti sentire male o in colpa. Voglio semplicemente dirti che le persone non sono tutte così cattive come pensi."
"Soprattutto tu?" chiede lei.
"Oh no, io sono il peggiore. Ma qualcuno di veramente buono c'è. Tipo Ryan" continua lui, vedendo la ragazza arrossire. Ah, gli etero e i loro stupidi motivi per non stare insieme.
"Non voglio parlarne."
"Va bene." annuisce svelto, e ritorna quel silenzio, come una coperta spessa che li avvolge.
"Ma tu perché sei qui?" chiede la ragazza, senza però girarsi.
"Ernesto si è svegliato e la polizia mi ha contattato per farmi sapere che non continueranno le indagini." dice in un tono di voce neutro, quasi robotico.
Viola si gira verso di lui e corruccia le sopracciglia.
"È un bene, no? Significa che non sei più sotto accusa."
"Si, per carità. Ma significa anche che non proseguiranno le indagini per l'aggressione nei miei confronti. E sai perché? Perché la rissa è scoppiata per quelli che ritengono motivi futili." non si accorge di aver gli occhi lucidi fino a quando Viola non gli tocca il braccio.
Sposta velocemente le mani, stropicciandosi gli occhi fino a vedere dietro le palpebre le stelle.
"Scusa, non volevo scaricarti addosso la situazione." dice dopo aver abbassato le mani.
"Macché. Mi dispiace per quello che ti hanno detto. Se vuoi mio padre conosce degli avvocati, potrei provare a parlargliene."
Ed è in quel momento che Simone vede davanti a sé non la nuova arrivata in classe, ma una persona che sa cosa significa soffrire e che, come lui, non vuole che altri soffrano.
"No, grazie, tanto non porterebbe a nulla."
"Se non ci provi non lo puoi sapere. Però sappi che è una scelta tua."
Ed è una cosa stupida realizzare che sì, la scelta è solo sua. Nessun fattore esterno, non suo padre né la scuola possono decidere se Simone denuncerà o meno.
In un mare in tempesta, dove la sua vita non gli era sembrata altro che sopravvivi o muori, questa è una scelta solo ed esclusivamente sua.
"Io..." inizia, senza saper bene come continuare.
"Ehi, prenditi il tempo per rifletterci. Ma sappi anche che qualsiasi cosa vorrai fare non sarai solo."
Ed eccolo di nuovo qua, a piangere perché qualcuno ha capito il suo dolore, non lo ha minimizzato ed anzi gli sta dando l'opportunità di fare qualcosa a riguardo.
Ed allora non può non buttarsi sulla ragazza ed abbracciarla e, dopo un attimo di esitazione, sente le braccia di lei stringerlo.
Rimangono così finché non le vibra il cellulare. È il padre preoccupato, e Simone coglie benissimo l'ironia, grazie tante.
Dopo che Viola dà l'indirizzo al padre, ritornano a guardare le stelle che ormai fanno capolino nel cielo blu.
Non c'è bisogno di altre parole.
Quando arriva la macchina di Nicola, Simone non ci pensa due volte a prendere Viola in braccio e portarla fino alla vettura, e lei non protesta, anzi gli posa il capo sulla spalla.
Dopo aver recuperato anche la sedia, Simone fa per andarsene, quando sente la manica del cappotto venire tirata, e si gira verso la ragazza.
"Ma che fai? Sali va, che incomincia a fare freddo e voglio tornare a casa."
"Ed allora lasciami?" dice Simone, anche se sembra più una domanda.
"Ho il motorino parcheggiato di là." indica una direzione che ad essere onesto non sa neanche se sia quella giusta.
"Se pensi che ti permetta di metterti alla guida in queste condizioni ti sbagli. Ora sali, ti porto a casa e poi domani torni a riprendertelo"
Simone avrebbe voluto ribattere, ma un'altra voce lo interrompe ancor prima di iniziare.
"Tu sei Simone, no? L'amico di Manuel? So già dove abiti. Sali che ti diamo un passaggio"
Simone allora accetta, per non sembrare scortese eh, non perché non riuscirebbe a distinguere la luce verde del semaforo da quella rossa.
"Abiti a casa di Manuel?" chiede la ragazza dopo essersi allacciata la cintura.
"No, in realtà è lui che vive a casa mia" risponde lui divertito.
Il viaggio verso casa continua silenzioso, con entrambi i giovani che guardano fuori dal finestrino e Nicola che lancia rapide occhiate alla "specie di fratello" di suo figlio.
Arrivano velocemente alla villa e Simone scende dalla macchina, dopo aver ringraziato ancora un paio di volte.
"Buonanotte, Simo. E, pensaci, ok?"
Si salutano così, con Viola che lo guarda serie, lui che annuisce piano e Nicola confuso.
Non fa neanche in tempo a chiudere la porta di casa che è assalito da un'ondata di ricci ribelli e giacca verde.
"Ao, ma dove cazzo sei stato? Vedi che se nun t'è successo niente de grave, te meno io, ah!"
Non ha la forza di rispondere, perché è a casa, in una villa che non ha mai ospitato la sua famiglia, o almeno non che lui lo ricordi. È a casa perché Manuel è lì, preoccupato ed arrabbiato, ma sempre accanto a lui.
E Manuel lo conosce, lo capisce, e gli toglie le mani di dosso, ma non si allontana. Studia attentamente il suo volto, poi lo prende per la manica e lo porta sul bordo della piscina, dove si siedono in silenzio, le gambe penzoloni ed i cuori pesanti.
"Vuoi dirmi che cazzo è successo?" sbotta Manuel, dopo un lungo silenzio.
Simone sospira. Non sa che cosa dire. Come si spiega alla stessa persona che ti ha insultato perché gay neanche sei mesi prima che ora il suo orientamento sessuale non è considerato un'aggravante abbastanza importante per un'aggressione?
"Niente Manuel, sono andato in ospedale per vedere il cretino di 5C, e poi ho incontrato Viola e abbiamo passato il pomeriggio insieme, tutto qui"
"Simò, smettila de dì cazzate che lo sai che n'e sopporto. Ch'è successo?"
Simone sa che dovrebbe mentire, minimizzare, non mostrarsi debole né sofferente. Ma non è mai riuscito a mentire a Manuel. Forse un giorno imparerà, ma quel giorno non è oggi. Allora fa un ultimo disperato tentativo.
"Mi crederesti se ti dicessi che mi sono incantato a guardare il cielo?"
"No, primo perché è palesemente 'na cazzata, e secondo perché a te il cielo fa schifo, troppo grande senza movimento. Preferisci guardare il mare, con la schiuma e le onde ed i pesci."
Vorrebbe ribattere, ma riflettendoci bene Manuel ha ragione, Simone odia la monotonia piatta del cielo. Solo che questo non lo aveva mai detto a Manuel.
"Come fai a saperlo?"
"Cosa che è 'na cazzata? Perché..."
Ma Simone non gli dà il tempo di distrarsi con le sue chiacchiere.
"No, scemo. Come fai a sapere che odio il cielo?"
Manuel sembra studiarlo per un lungo minuto, per poi distogliere lo sguardo.
"Eh, non lo so Simò, me sembri più 'n tipo da mare."
Manuel sta evitando l'argomento, e per quanto Simone vorrebbe insistere, lascia perdere il discorso. Ma solo per il momento.
Allora sbuffa e torna a guardare un punto indefinito davanti a sé.
"È successa una cosa, niente di grave, ma stavo a rosicà, così sono rimasto fuori a sbollire. Poi ho incontrato veramente Viola."
E come poco prima, anche Manuel deve percepire che Simone non ha voglia di parlare in quel momento. Allora si limita ad abbracciarlo per dargli conforto e calore. Simone gli sembrava così pallido al chiaro di luna, come una statua triste e sola.
Simone sente piano piano la stanchezza distendergli i muscoli e rallentargli i pensieri, e si rilassa tra le braccia dell'altro ragazzo.
Si potrebbe addormentare qui, ma sa che sarebbe peggio, anche se il solo pensiero di muoversi sembra impossibile. Così, si scosta leggermente dal corpo dell'altro e cerca di trovare la forza per alzarsi.
Manuel deve aver pietà di lui e, dopo essersi alzato, lo aiuta sù e lo porta praticamente di peso fino alla loro camera.
Simone usa le ultime facoltà fisiche e mentali per togliersi i vestiti e mettersi il pigiama e poi crolla sul letto.
Quando Manuel torna dal bagno, anche lui già in pigiama, trova Simone steso con ancora i piedi su pavimento e sopra le coperte. Sbuffa divertito, ma poi realizza che, se la giornata lo ha sfiancato fino a questo punto, qualcosa di grave deve essere successo, anche se Simone cerca di minimizzare. Si ripromette di farsi dire tutto la mattina, e poi si mette a lavoro per spostare quel testone sotto le coperte ed in un posizione più comoda.
Dopo essere riuscito nell'impresa, resta un attimo a guardare quel volto, ora disteso, e quei ricci arruffati.
Senza neanche accorgersene, si china e sfiora la sua fronte con le sue labbra, prima di ritirarsi. Non è esattamente imbarazzato, e si ripromette di riflettere anche sull'istintiva tenerezza che sente nei confronti del più giovane.
Ma tutto questo domani. Per ora c'è la sua branda che lo aspetta, e magari qualche sogno pieno di mare, di risate e di ricci ribelli.
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elenascrive · 7 months ago
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Sarebbe potuto essere un lunedì come tanti, molti altri quello odierno ma sentivo che non sarebbe stato così. A cominciare dalla data, il 22, che da qualche anno a questa parte si sta rivelando essere un Giorno Speciale giacché portatore di cose inaspettate, sia nel bene che nel male. Stavolta infatti mi ha portato la visione Piena della Mia Amata Dea. E dire che la mattinata era cominciata in salita, dopo essere stata letteralmente schiacciata a bordo del bus più strapieno che mai, che per questo ha messo anche a dura prova il Mio spirito di sopravvivenza completamente avvolta da un odore di sudore eccessivo, che mi ha fatto mancare quasi il fiato. Fortuna che poi sono riuscita a scappare da tale morsa, tornando a respirare regolare. Non appena giungo al solito incrocio per intraprendere la strada che mi conduce a lavoro, ecco che m’appare di fronte: Lei, Sua Maestà, La quale era talmente luminosa ed immensa d’arrivare perfino a sembrare Sua Maestà Il Sole. Subito comincia lo stupore accompagnato dall’immancabile commozione. Di nuovo senza fiato ma stavolta per l’inarrestabile euforia. Come ogni mese, la Speranza di poterla ammirare era fortissima dentro di Me insieme alla paura che potesse non accadere. Esattamente come era successo il mese scorso quando a causa del maltempo, non era stato possibile provando per questo profondo dispiacere. Non questa volta. Ha sentito forte il Mio richiamo rispondendo immediatamente Presente, poiché quando ho bisogno Lei c’è. Non si manifesta mai a caso. Ecco perché, per l’ennesima volta, la commozione che ho provato è stata intensa e fortissima, poiché il Miracolo si stava compiendo di nuovo. Nonostante il tremore, di colpo presi il telefono tra le mani per immortalare tale attimo da brivido. Cominciai a scattare foto a ripetizione senza dunque fermarmi, augurandomi che tra queste ve ne fosse almeno qualcuna di accettabile. Sta diventando una vera e propria sfida quella di riuscire a fotografarla come si deve, che mi auguro di riuscire a vincere o prima o poi. Ci siamo accompagnate sino alla fine della strada e ancora una volta lo confesso, è stata dura salutarla. Avrei voluto rimanere un altro pò con Lei, per continuare a raccontarle a voce quel che il Cuore aveva già iniziato a fare, quando i Miei occhi l’avevano incontrata. Le cose che ho da dirle infatti sono sempre tantissime e lo sa. Tra queste gliene ho affidata una in particolare, quella di farmi da tramite per farmi sentire vicina a delle Persone Care ora distanti, per dire Loro quanto Io li stia pensando e quanto sono importanti per Me. So per certa che lo sta già facendo e non posso che amarla certamente di più.
Inutile aggiungere che pure il resto della Giornata poi è stata magnificamente leggera e spensierata, tanto d’avvertire la strana percezione che non fosse lunedì, non provando nemmeno l’odio per l’odiosa afa estiva. Questo magico incontro mi ha restituita come nuova, libera e meno pesante di prima.
Come se non bastasse, quando sono rientrata a casa ad attendermi vi erano altre due incredibili Sorprese: il prelibato croissant al pistacchio amorevolmente acquistato prima del Mio arrivo da quell’Angelo di Mio fratello ed un souvenir giunto da parte di un Amico rientrato oggi dalla propria vacanza, reo di essersi ricordato della promessa fatta prima di partire. Scoprire che entrambi mi hanno pensata mi fa ripiombare nuovamente nella commozione. Ad entrambi va il Mio più sincero e sentito riconoscimento.
Non mi resta che dire: alla faccia della pessima reputazione del lunedì… mi sa tanto che dopo questo dovrò cominciare seriamente a rivalutarlo.
@elenascrive
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libero-de-mente · 2 years ago
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La strada della vita
Questa mattina percorrendo la strada che mi portava in centro città, complice la pigrizia del traffico, mi sono preso la briga di automotivarmi.
Di pensare positivo, di vedere la vita in maniera da prendere un respiro e ricominciare.
Ricominciare a viaggiare, ricominciare a leggere, ricominciare ad ascoltare musica, ricominciare ad assaporare le cose belle della vita.
In una giornata primaverile con il colori sgargianti, grazie a un sole limpido, osservavo dai finestrini la vita scorrere lungo la strada.
Ed ecco una coppia, molto anziana, entrambi ricurvi sulle loro schiene camminare attaccati l'una all'altro. Ho subito pensato che per arrivare a stare tanto tempo insieme, quelle due persone, abbiano imparato a ingoiare il dolore per non farlo deglutire a chi gli sta a fianco.
Arrivato al semaforo successivo nell'auto sulla corsia al mio fianco un'altra coppia, stavano litigando. Le urla le sentivo nonostante i finestrini fossero chiusi. Non ho voluto invadere quel momento ho rivolto lo sguardo davanti a me, solo una cosa ho notato: gli occhi di lei, quasi abituati a una disperazione quotidiana. A non piangere per mancanza di tempo, perché se si fermasse cederebbe e verrebbe sopraffatta.
Nel tragitto vedo una donna con un cane al guinzaglio, un cucciolo pieno di vita e curiosità che si sofferma ad annusare e osservare tutto quello che incontra. Lei, lo asseconda con amore guardando quella piccola creatura come se fosse suo figlio.
Probabilmente uscivano dalla clinica veterinaria poco più in là, quella dove nel momento del mio passaggio un furgone per la raccolta di rifiuti speciali sta caricando quello che la clinica veterinaria aveva preparato in un cassonetto. Nel ribaltare il cassonetto non ho potuto fare a meno di notare che tra sacchetti neri e scatole c'era una carcassa. Quello di un cane di grossa taglia, bianco e nero, rigido nel suo stato di morte. La sua anima avrà già superato il ponte, qualcuno in questi giorni ha pianto per l'addio a un membro scodinzolante della famiglia. Un amico fedele, una presenza rassicurante e molti divani condivisi con i suoi famigliari umani. Questo mi sono imposto di pensare, non voglio credere che abbia avuto una vita fredda come il cassonetto metallico in cui si trovava la sua carcassa. Anche se io lo definirei "un corpo". Perché sanno essere più umani di noi.
Passato un incrocio un uomo, avvolto in un eskimo di molte taglie più grandi che lo copriva completamente, la testa coperta dal cappuccio il volto mascherato da una sciarpa fino sotto gli occhi, stava urinando sul marciapiede, contro il muretto di cinta di un giardino pubblico. In mezzo alla strada. Barcolla e riprende a camminare con un equilibrio compromesso, quasi trascinandosi.
Venti metri dopo averlo superato una ragazzina, seduta sotto la tettoia di una fermata dell'autobus, aspetta la sua corsa guardando incantata il cielo. Grandi cuffie sulle orecchie le trasmettono musica che lei canticchia sorridendo mentre muove la testa a ritmo. Il tutto con lo sfondo di un enorme zaino scolastico in spalla.
La vita sta proprio in questo, un lungo percorso dove si alternano momenti di vita piene d'amore e gioia e sogni, con sconfitte e lutti e rabbia.
Non esiste una soluzione per vivere al meglio intesa come legge universale, poiché non tutti ci comportiamo allo stesso modo, non siamo spinti dalle stesse motivazioni. Non abbiamo lo stesso cuore, non siamo uguali. Esiste chi il cuore lo usa tanto, esiste chi il cuore non lo ascolta da così tanto tempo che esso si è rassegnato. Atrofizzato.
Ho semplicemente percorso un tratto di strada che mi portava in centro città, ma se si osserva bene quello che ci circonda c’è da imparare e comprendere in ogni angolo del mondo.
Arrivo al mio appuntamento lavorativo, conscio di aver imparato qualcosa in più di ieri e meno di domani. Stringo le mani, saluto con sorriso cortese e comincio a ritornare con i piedi per terra.
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ross-nekochan · 2 years ago
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Oggi una giornata che mi sono sembrate le montagne russe emotivamente.
È cominciata con una rabbia dentro che mi stava divorando. Ho cercato di tappare con un'altra moka di caffè e mezzo pacco di biscotti. Pareva fosse finita e invece no. Allora mi sono guardata allo specchio di nuovo per compiacermi e mi sono indotta piacere da sola, prima una volta e poi un'altra. Poi ho letto come un'ossessa.
In questi giorni letto Borrasso, poi Saviano e ora Ferrante. Tutti napoletani e tutti con una scrittura pesante, malinconia ma tagliente, profonda, traumatica. È palpabile la sensazione di essere cresciuti in un microcosmo di crudeltà viva, da cui ne sono usciti con le unghie ma pieni di contusioni indelebili. Ho pensato che, riflettendoci, questo tipo di scrittura ci caratterizzi come napoletani e come gente del sud perché oggettivamente viviamo in un microcosmo di pura atrocità e non riusciamo a scrivere con troppa leggerezza. Ma potrebbe essere un mio bias da campana e qualsiasi italiano potrebbe ritrovarsi in questa descrizione, non lo so.
Mi sono poi stancata e ho sentito l'esigenza di fare qualcosa perché sennò sarei impazzita.
E allora mi sono messa a camminare, camminare come un'ossessa mentre pensavo e ripensavo di nuovo che avevo bisogno urgente di dopamina, che ho mangiato i biscotti per quello, che ho ricercato il piacere carnale per quello, che mi sentivo sola e abbandonata per quello e che avrei voluto qualcuno da stringere fino a conficcargli e strisciargli le unghie nella carne per quello, che è tutto per quello solo per quello. Lo sapevo perché sono consapevole, ma a che cazzo serve la consapevolezza quando comunque sono rabbiosa, incontentabile, persa e confusa tanto da volermi strappare i capelli dalla testa? Questa cazzo di consapevolezza e conoscenza così tanto elogiata perché vivere come se fossi un NPC pare un abominio che invece abominio non è: fai sesso senza domandarti il perché, ti abbuffi di cibo senza domandarti il perché, ti spari le pose erotiche e le lanci nel web senza sapere il perché. Non è meraviglioso, lineare, da animali quali siamo?
Invece no, io devo impazzire, capire che ho bisogno di dopamina come fosse droga e non sapere come cazzo fare per smettere di avere quella smania di non sapere cosa cazzo volere ma comunque sapere la causa del malessere.
E perché mi devo sentire così: indifesa, incompresa, bisognosa, smaniosa? Per uno squilibrio ormonale del cazzo. Perché sicuramente anche gli uomini si possono sentire smaniosi, bisognosi, arrapati insieme ma non ogni mese, tutti i cazzi di mesi per ANNI. E non è piacevole perché in queste situazioni saprei solo avvinghiarmi a qualcuno pur di smettere di sentirmi bisognosa per poi buttarlo come uno zerbino il giorno dopo, perché ritornata in me. Poi uno dice che le femmine sono stronze puttane: dice bene, perché io ho solo la fortuna di non avere nessuno a cui appendermi in questi momenti di estrema debolezza.
Anche se, devo ammettere che ho ricontattato L solo per questa ragione. Sabato usciamo, anche se so che non ne caverò un ragno dal buco (né so se e che ragno ci vorrei cavare). Perché è intelligente, l'ultima volta che uscimmo mi sorprese, anche se poi cominciò pure lui a farmi domande sulla mia (inesistente) vita sessuale e quindi forse è intelligente però è pure maschio e faccio bene a non sentirmi in colpa se lo sessualizzo e/o non lo penso completamente disinteressato. Ma vabbè.
Tutto questo flusso di coscienza mentre camminavo e camminavo senza fermarmi mai. Poi sono andata dai nonni. Sembrava essere andato tutto ok, finché nonna in disparte non mi ha rifatto tutto il solito discorso su mia madre. E io le volevo dì: nonna tu ci soffri, io sto a fa lo stesso con lei, non ti preoccupare, perché lei è diventata la replica vostra non ha imparato un cazzo da quello per cui si lamenta. Anzi, fa la vittima tale e quale a te, pure peggio perché è più colpevole.
Ha raccontato un sacco di cose dei tempi andati e diceva che era tutto più bello, tutto più disinteressato, più umano. Una descrizione che calzava a pennello con la trama de L'amica Geniale con la differenza che lì niente è umano e disinteressato. I campani sono persone false come la merda altro che "cuore napoletano". Ci sciacquiamo la bocca di valori come la famiglia ma i familiari servono solo per fottere ed essere fottuti meglio e in maniera inaspettata. Facciamo gli amiconi finchè abbiamo un ritorno; quando non servi più, ma chi t sap chiù, addio e buona vita. Una razza bastarda che conferma la mia idea sui romanzi scritti da campani: non ne puoi uscire senza traumi.
Sono tornata a casa. Ho partecipato alla videocall con Andrea Colamedici sulle AI. È stato interessante e stimolante. Atterrita da quanto le AI siano avanti e io non lo sapessi (anche se era prevedibile).
Mi pare di essermi finalmente calmata. Speriamo domani sia un giorno più semplice.
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notiziariofinanziario · 28 days ago
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Rosa Vespa è entrata nella clinica Sacro Cuore di Cosenza travestita da infermiera, per rapire la piccola neonata, Moses l’avrebbe aiutata. I due sono accusati di sequestro di persona in concorso. La neonata è stata presa intorno alle 18,30. La coppia è stata bloccata dopo circa tre ore nei pressi di Castrolibero. I festeggiamenti L’agenzia di stampa AdnKronos racconta che secondo quanto trapela da fonti investigative all’arrivo delle forze dell’ordine all’interno dell’appartamento della coppia a Castrolibero, erano in corso i festeggiamenti, con tanto di banchetto, per la nascita del bambino. Ad attendere il loro arrivo in casa i parenti, ignari del rapimento. La donna avrebbe simulato per 9 mesi la gravidanza, raccontando ai familiari di essere in attesa di un maschietto e di essere stata trattenuta nella clinica alcuni giorni in più del previsto per degli accertamenti. Tutto era stato organizzato nei dettagli. La bimba era stata vestita di azzurro e gli allestimenti della festicciola erano di colore blu, proprio come se il nascituro fosse di sesso maschile. La gravidanza simulata I due sono stati portati in questura, ascoltati dal pm di turno Antonio Bruno Tridico e poi trasferiti in carcere. Rosa Vespa ha detto ai parenti di essere tornata in clinica per gli accertamenti di routine e che ieri sarebbe tornata a casa con il marito e il piccolo. Dal racconto agli inquirenti sono emersi particolari sull’ossessione di avere un figlio e sulla finta gravidanza. La donna è entrata in clinica nell’orario previsto per le visite al pubblico. Fondamentali per le indagini sono state le immagini delle telecamere di videosorveglianza della clinica. Che hanno consentito di individuare subito l’identità della donna e di riuscire a rintracciare la coppia che aveva rapito la piccola. La clinica «Per fortuna, il sistema di videosorveglianza ha funzionato, consentendo alle forze dell’ordine di rintracciare i responsabili in tempi rapidi. In clinica entrano i parenti dei bambini per portare dolci e regali e noi non chiediamo i documenti a tutti. Anzi, spesso veniamo accusati di essere troppo fiscali nei controlli. È stata una giornata difficile, quanto accaduto ci farà ripensare il sistema con cui gestire gli ingressi d’ora in avanti», ha detto Saverio Greco, legale rappresentante del gruppo IGreco, proprietario della clinica. La bimba è intanto tornata in clinica dai genitori accompagnati dai medici del 118. Ad attenderne l’arrivo c’era una folla di persone che ha accolto il suo arrivo con un applauso. Valeria Chiappetta Valeria Chiappetta, mamma della piccola Sofia, ha ringraziato tutti su Facebook: « Mi state scrivendo in migliaia, da ogni parte dell’Italia, vorrei rispondere singolarmente a tutti ma non riesco. Questa è la nostra famiglia che ieri sera si stava sgretolando in mille pezzi». E ancora: « Le forze dell’ordine hanno fatto un lavoro eccezionale mentre io avevo perso le speranze. Un’intera città, anzi Regione, si è bloccata per cercare la nostra bambina. Non penso che riuscirò mai a superare questa cosa, ma il lieto fine è che Sofia sta bene. Grazie, grazie grazie a tutti vorrei abbracciare ogni singola persona. Una mamma e un papà che ieri sono morti e risorti». Read the full article
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unfilodaria · 3 months ago
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Hans
Prima Hans era un giovane atleta della Germania nazista, veniva dalle lande della Renania dove c'era poco da fare se non zappare la terra o finire in miniera. E invece Hans sentiva che qualcosa lo agitava dentro. Non stava mai fermo. Era stato la disperazione della madre. Il padre, Joseph, aveva provato a portarlo con sé nei campi, sfinirlo di lavoro in modo che la sera crollasse nel letto senza avere più voglia di agitarsi. E invece niente: vedeva un appiglio, un ramo, una parete su cui arrampicarsi, e lui doveva avventurarsi e salirci sopra, fin su in cima e poi, arrivato su, dopo aver scrutato con attenzione verso il basso, era preso dall'irrefrenabile voglia di lanciarsi nel vuoto, in un modo così spericolato che al padre mancava ogni volta il fiato e alla madre veniva un colpo. Sempre la medesima scena: lui guardava, valutava, la madre urlava di non farlo e Hans, con un ghigno beffardo, si lanciava all'indietro in una capriola un po' scomposta per poi atterrare dritto, saldo sulle piante dei piedi ed urlare "Tadaaaa", sorridendo e battendo le mani come un monello. E nonostante Joseph, il padre, tentasse ogni volta di assestargli un ceffone per ammonirlo di smetterla, lui sgusciava come una serpe sbeffeggiando a destra e a manca e tutto soddisfatto si infilava a letto, pregustando l'ennesima scena della giornata seguente. Andò così per circa 17 anni, finché la Germania decise di invadere la Polonia e Hans smise di saltare, per dover correre e difendersi dai proiettili vaganti, mentre faceva la staffetta nei campi di guerra per il proprio reggimento. Ma la voglia di ridere ed urlare "Tadaaaa" non gli era passata, nemmeno il giorno in cui quasi ci rimetteva la testa, quando un proiettile finì per sfiorargli le orecchie.
Dopo La guerra era finita e Dresda completamente rasa al suolo. Il povero Joseph era morto di crepacuore, la madre di Hans consunta da una grave polmonite e accudita da due cugine. I campi, dove Hans amava saltare, abbandonati da tempo, gli alberi tagliati, per provare a riscaldarsi nelle gelide notti d'inverno tedesche. Era dura per tutti, macerie ovunque, poco cibo, la vergogna di un popolo sconfitto, così convinto di diventare il padrone del mondo. Nessuno sapeva se Hans fosse sopravvissuto alla guerra. Di lui si erano perse le tracce: solo una cartolina spedita dal fronte negli ultimi anni di guerra con una laconica scritta "Tadaaaa". Ed era lì che a Joseph erano saltate le coronarie. Intanto a San Pietroburgo un circo scalcinato si apprestava a iniziare il suo spettacolo estivo. Qualche bestia feroce, tutta pelle e ossa, cavalli affamatissimi dipinti di strisce bianche e nere per sembrare delle zebre, e l'attrazione della serata: un uomo non più giovane, claudicante, con una vistosa cicatrice sulla fronte, pronto a preparare il suo numero speciale: un tuffo carpiato all'indietro, da 15 m di altezza, per poi finire dritto in una larga tinozza. Si spengono le luci, rullo di tamburi, il pubblico è trepidante. L'uomo è su in cima, guarda in basso, prende bene le misure e poi, di colpo, uno scarto e "Tadaaaa". Applausi e un sorriso sfrontato sul suo volto.
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(da un'esercitazione di scrittura creativa, dove partendo da un'immagine casuale - questa ad esempio - bisognava immaginare un prima e un dopo)
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davidewblog · 3 months ago
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La mattina di oggi è stata, diciamo, molto "wild", come lo sono sempre di più le giornate qua. Ed è una cosa che mi piace, anche se riguarda più le persone che abitano con me, che me stesso.
Io per "wild", nella mia testa, intendo praticamente l'assenza totale di regole, di inibizioni, di preoccupazioni per come gli altri vedono sé, in un clima di rilassamento estremo, tipico di quando si è, come qua, fra le quattro mura di un appartamento dove ci si sente protetti dal mondo esterno.
È quello che ho visto attorno a me stamattina, in una giornata come tante, bella proprio per la sua normalità. Mentre io ero seduto nel divano del soggiorno vedevo: una delle coinquiline nell'angolo cottura che mangiava uva, con i pantaloncini del pigiama corti, scalza, e la maglia non abbinata che sembrava indossata più o meno a caso; un'altra che attraversava il soggiorno dopo la doccia con l'accappatoio che sembrava slacciarsi da un momento all'altro per andare nello stendino a prendere la sua biancheria; la terza compagna di casa che è andata in bagno mezza addormentata tipo sonnambula e stava dimenticando la porta semi-aperta e ho dovuto avvertirla io.
Nulla di speciale, forse: è la vita di tutti i giorni in questo appartamento di fuori-sede in affitto. Eppure è proprio in questa normalità che mi piace essere immerso, è in questa quotidianità che mi emoziono dentro di me perché vedo ciò che qualche anno fa non avrei mai lontanamente immaginato di avere.
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