#dea torpor
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My oc, Dea Mhora
pose inspired by Mucha
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Girlies Im so proud of myself Im on a streak with doing something everyday(or every two days) for three weeks!!! Like hanging out with friends or go for a walk or Do Something Outside. And like Im tired but not the bad kind, the one that its draining?? Its the good kind that makes me fall asleep faster! 🥳 I do miss videogames but in the meantime i get to breathe a little. Anyway i bless anyone with energy for activities! 🔥
#since im 19 i have been on a state of ment torpor? like No energy nor will to do things#i feel i have been on quarantine for longer than covid started. and only now a veil as lifted?#wich im aware it might fall again that i was feeling just as shitty this february#but recovery is no straight line so i think im on a good path#this tags make no sense bc i dont know what im recovering from?? but at least i got to play many videogames :)#anyway i hope you are good and your loved ones and yourself are full of good things and health and hope!!!#dea rambles
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Capitolo 58 - Il patto, il nome e il principe (Prima Parte)
Nel capitolo precedente: Angie incontra Jerry all’uscita della tavola calda dopo il lavoro. Inizialmente lui cerca di farle credere di essere passato di lì casualmente, ma è chiaro che l’abbia fatto apposta. Le dice di aver scritto dei pezzi nuovi di cui non è del tutto convinto e di avere un demo in macchina. Angie si lascia convincere ad andare a sentirli assieme a lui. Si tratta di tre pezzi: uno dedicato all’amico scomparso Andy Wood, uno dedicato a suo padre e un altro... non si sa, perché Jerry, pur tentato di farglielo ascoltare, ferma il nastro prima che inizi il cantato vero e proprio. Questo perché la terza canzone ha a che fare con lei. Durante l’ascolto Jerry si apre e si sfoga con la ex, al tempo stesso trovando assurdo che riesca a farlo solo con lei. Angie gli dice che qualsiasi cosa sia successa tra loro, lei resterà sempre una sua amica e ci sarà comunque quando lui avrà bisogno. Jerry la riaccompagna a casa e sta quasi per baciarla, ma non succede nulla. Una volta rientrata a casa Angie s’interroga sulla sincerità della promessa fatta a Jerry e su quanto sia davvero disposta ad esserci sempre per lui e a passare sopra al dolore che le ha causato, su quanto sia disposta a sacrificare pur di essere sempre la brava ragazza che “fa la cosa giusta”. Angie telefona a Eddie e i due hanno una scaramuccia sul secondo nome misterioso di lei e sul nomignolo che lui usa per caso e che, vista la reazione della ragazza, decide di adottare ufficialmente. La situazione però precipita improvvisamente quando Angie, candidamente, rivela a Eddie di aver visto Jerry. Il cantante si incazza e la tratta in malo modo al telefono, attaccandole in faccia. Meg dice alla coinquilina che la sua amica Jane di New York l’ha cercata e pensa stesse parlando al telefono proprio con lei poco prima. Angie si irrigidisce, conferma la versione ed esce con la scusa di aver dimenticato di comprare le sigarette, per poi invece andare a chiamare Jane da una cabina. Il mattino dopo Eddie aspetta Angie sotto casa per scusarsi. Il ragazzo ammette il suo problema con la gelosia, lei lo perdona e i due fanno pace. Eddie sente che Angie sta nascondendo qualcosa, ma non vuole forzarla e spera sia lei a parlargliene quando le sembrerà il momento giusto.
***
Regno di Talmaren, anno decimo della Nuova Era
Non senza fatica il principe Alexander si passò il dorso della mano sulla bocca per rimuovere il sangue che vi era schizzato poco prima, fortunatamente non il suo. Il combattimento l’aveva lasciato stremato e privo di forze, ma non c’era tempo per riposarsi: Basil era sicuramente un guerriero tanto abile quanto spietato, nonché un sadico e un porco, e vederlo ridotto a una bambola di pezza senza vita, accasciata scompostamente sul pavimento della camera del suo oscuro sovrano, poteva senza dubbio far tirare un piccolo sospiro di sollievo a gran parte della gente delle Lande dell’Ovest e non solo; tuttavia, era soltanto lo stupido lacchè di quel mostro di Kaspar, che era ancora dannatamente vivo.
Kaspar, re di Talmaren, detto Il Sanguinario, colui che appena salito al trono dette il via a una guerra che si trascinava da ormai dieci anni, aveva già distrutto cinque dei sette regni conosciuti, tra cui Senaria, patria di Alexander. Il conflitto mirava ufficialmente alla pura espansione, ma in realtà nascondeva un obiettivo totalmente differente. Tale scopo giaceva di fronte agli occhi impietriti del principe e aveva le sembianze, seppure irriconoscibili, della donna che amava, incatenata per le braccia alla testiera in ferro del letto di sua maestà. Le gambe erano state lasciate libere, presumibilmente perché, anche se le avesse usate, quella fanciulla avrebbe potuto fare ben poco. Il volto di Coriliana era una maschera informe di capelli e sangue raggrumato mentre il corpo faceva mostra di un orribile velo di lividi. Di fatto, eccetto che per una volgare collana di grosse pietre nere che lui non aveva mai visto, la ragazza era completamente nuda. Lo sguardo di Alexander si era fermato sul suo petto generoso, quel seno dove spesso aveva trovato conforto e riposo dopo la battaglia, con la mente sgombra da ogni pensiero, finché non riuscì a scorgere un movimento impercettibile della collana. Su e giù.
Era viva.
Non c’era tempo per festeggiare, ma nemmeno per tirare il fiato e leccarsi le ferite, Alexander si precipitò sul letto e si avventò sulle catene, nel frattempo la chiamava per nome per cercare di destarla dal suo sofferto torpore, rifugio mentale dalle sevizie e dagli abusi di ogni tipo che Kaspar e la sua cricca dovevano averle inflitto nelle ultime settimane. Non fu facile liberarla, si adoperava con la spada cercando di assestare colpi efficaci, ma doveva ovviamente fare attenzione a non fare del male alla sua Coril. Sua… Non era sua, non poteva esserlo, lei era speciale, una futura regina, anzi, una futura dea, era a un altro livello, non sarebbe stato possibile, non più. Ma il suo cuore sarebbe appartenuto a lei e a lei soltanto, per sempre.
Finalmente la catena che imprigionava il polso sinistro cedette sotto i fendenti di Alexander, il braccio cadde di colpo sul letto, anche per il peso del bracciale e del pezzo di catena che le era rimasto attaccato.
Alexander si dedicò all’altra catena, in ginocchio sul letto impugnava la spada con entrambe le mani e colpiva con rabbia, finché anche questa si ruppe, quasi nello stesso momento in cui l’erede al trono di Senaria sentì qualcosa sfiorargli il fianco e accennare una debole stretta. La fissò per un istante, forse gli occhi di Coril erano ancora chiusi (chi poteva dirlo in quel macello), ma la sua mano lo stava cercando. In quel momento Alexander provò sollievo, assieme a una profonda vergogna: non vedeva la futura regina dei Kos da mesi, non ricordava quanto era passato da quando l’aveva tenuta l’ultima volta tra le sue braccia, da quando ne aveva saggiato il corpo con le dita e con la lingua, da quando si era insinuato dentro di lei per l’ultima volta. Ora la donna che amava era lì nuda sotto di lui e nell’osservarla, sebbene fosse in uno stato di incoscienza e straziata dalle torture di Kaspar, si era ignobilmente eccitato.
Tornò in sé quasi subito, cercò di sollevare Coril con delicatezza fino a metterla in posizione semi-seduta, dopodiché l’avvolse nel suo mantello di seta. Dovevano fare presto, ma non poteva portarla fuori dal palazzo così, sarebbe stato umiliante per lei, inoltre il freddo pungente dell’inverno di Talmaren avrebbe potuto peggiorare le sue condizioni di salute già precarie.
In un attimo si caricò l’amata sulle spalle come un fagotto e corse verso la porta della camera degli orrori. Gli sembrava più piccola, l’aveva presa in braccio più di una volta e mai a peso morto, e non l’aveva mai sentita così leggera, così fragile. Percorse correndo, ma con circospezione, il largo corridoio, rallentò quando gli parve di distinguere l’ombra in movimento di una persona, presumibilmente un uomo, proiettata da una torcia in fondo al passaggio, dove il corridoio voltava a destra. Tolse la mano dalla spada solo quando riconobbe Gabriel, suo fratello. Accelerò di nuovo, gli fece un cenno, Gabriel si bloccò e ricambiò sollevando appena il capo, poi si accorse che l’aveva trovata e gli diede il segnale di via libera. Se la situazione non fosse stata talmente agghiacciante da rendere impossibile solo pensarlo, Alexander avrebbe giurato di aver visto comparire sul viso del fratello un sorriso.
Il drappello capitanato da Alexander si era accampato sulle rive del fiume Neeto. Per evitare le ronde avevano pensato di raggiungere il castello attraversando la foresta. Lungo il cammino si erano d’un tratto imbattuti in questa piccola radura che spuntava dal nulla in mezzo al fitto bosco e il principe aveva deciso di stabilirvi la loro base operativa. La fortezza distava circa un’ora di cammino e Alexander aveva pensato che, per salvare Coriliana, un “attacco silenzioso” nel cuore della notte, con un pugno di uomini che giungessero al castello a piedi e vi si introducessero senza farsi notare, sarebbe stato più efficace di un assedio. Aveva scelto quindi una ventina di uomini che lo seguissero, incluso Gabriel, lasciando il resto della spedizione, destrieri compresi, alla radura.
Si malediceva per questa scelta mentre percorreva a ritroso il sentiero che si inerpicava sul Colle Zham, il basamento della dimora di Kaspar, cercando di non sbilanciarsi e cadere nel vuoto. Tirò un sospiro di sollievo quando finalmente terminò la discesa e iniziò il bosco, almeno fin quando non si rese conto che stare attenti a non inciampare sulle radici esposte e a non farsi schiaffeggiare dai rami sporgenti, assicurandosi che anche Coril non si ferisse, richiedeva altrettanto impegno.
Ripensò allo sguardo che il fratello minore gli aveva riservato quando gli aveva detto che si sarebbe occupato lui di Coril. Gabriel invece avrebbe coperto la loro fuga, assieme agli altri, per poi trovare la moglie di Kaspar. Se tutto fosse andato bene, sarebbe bastata qualche minaccia a voce grossa per farsi dire dove si trovava il consorte. Gabriel aveva recepito l’ordine e si era congedato con un mezzo inchino, non prima di aver lanciato al principe un’occhiata al veleno. Alexander doveva dimenticare quella donna, lo sapeva benissimo, e lo avrebbe fatto, non c’era bisogno che gli altri glielo ricordassero in continuazione. Si sarebbe fatto da parte un giorno, sapeva di essere fuori posto nel cuore di Coriliana, ma prima doveva prendersi cura di lei, farla stare meglio, prepararla al futuro che l’aspettava. Un futuro al comando, che non prevedeva la presenza del principe di Senaria al suo fianco, se non come alleato nella guerra contro il Sanguinario e la sua stirpe.
La profezia parlava chiaro.
Sentiva il rumore dell’acqua, il Neeto era vicino. Riconobbe su un tronco d’albero il segnale tracciato all’andata dal fratello e voltò a sinistra. Seguì un’altra indicazione e si ritrovò a costeggiare il fiume. D’un tratto sentì che Coriliana si muoveva e, per quanto poteva, si stringeva a lui. Ebbe la mezza idea di fermarsi. L’avrebbe fatta sedere per un momento, sarebbe sceso velocemente verso la riva per raccogliere dell’acqua nella borraccia, tornato da lei gliene avrebbe data un po’, a piccoli sorsi, e avrebbe usato il resto per lavarle via il sangue dal viso e dai capelli. Senza bagnarli troppo, era ovvio, o le sarebbe venuto un accidente con quel freddo. L’avrebbe rassicurata, mancava poco all’accampamento. Le avrebbe detto che era tutto finito e che sarebbe stata meglio, che quei viscidi vermi non l’avrebbero più toccata, che avrebbe ucciso Kaspar con le sue mani. Oppure sarebbe semplicemente rimasto accanto a lei, in silenzio, con gli occhi nei suoi mentre si abbeverava. Rallentò pensando alle sue labbra, bagnate, quando queste ultime si appoggiarono sulla sua guancia sinistra accennando un bacio asciutto. Poi sussurrarono:
“Gabriel...”
Alexander sentì le ginocchia cedere. Improvvisamente il suo fardello gli sembrava troppo pesante, lo schiacciava, ciononostante accelerò il passo. Non si curò più delle fronde che lo colpivano in volto.
Ora il veleno aveva tutto un altro sapore.
Coriliana è proprio una stronza. Scuoto il capo e sogghigno, mentre rimuovo il foglio dalla macchina da scrivere. Cos'ho da ridere poi non si sa. Vivo in un appartamento squallido di New York, mi affaccio da una qualsiasi delle due finestre e vedo solo mattoni, sono single, non ho neanche un gatto perché il mio padrone di casa non vuole animali. Sento un rumore strano, uno squillo. Il telefono? Ma io nemmeno ce l'ho il telefono, ogni volta che ho bisogno di fare una chiamata devo arrivare fino alla cabina di fronte al negozio di sedie all'angolo. Che poi che cazzo mi rappresenta un negozio che vende solo sedie? Non dico vendere arredamenti completi, ma almeno offrire anche sgabelli, poltrone, tavolini. No, da Pianeta Sedia trovi solo sedie. Come quella su cui sono seduta adesso, che viene proprio da lì. Compro sedie da Pianeta sedia e mi mantengo scrivendo stronzate. Come mi sono ridotta: da aspirante sceneggiatrice di Hollywood a scrittrice di romanzetti rosa da quattro soldi che pure Harmony si rifiuterebbe di pubblica-
Mi sveglio di soprassalto, sudata e boccheggiante.
“Ma che cazzo” commento ad alta voce il mio sogno di merda. Grazie tante Morfeo, si può sapere che ti ho fatto? Mi lascio ricadere sul letto e prendo fiato. La parte fantasy era anche interessante e il principe Alexander aveva il suo perché, anche perché somigliava un casino a Eddie; la parte del mio ipotetico futuro in disgrazia, invece, l'avrei evitata volentieri. Il trillo del telefono continua e per un attimo ho il terrore di trovarmi ancora nell'incubo squallido, ma poi capisco che è il mio vero telefono a suonare. Allungo la mano sul comodino e prendo il cordless al secondo tentativo, dopo che al primo mi era cascato per terra.
“Pronto”
“E' già venerdì?” la voce del principe, ehm, volevo dire di Eddie, mi porta a un altro tipo di sogno.
“No, Eddie.” ripeto in automatico sbadigliando, continuando il nostro gioco degli ultimi tempi.
“Eheheh come no? Oggi sì!”
“Che?” sento che mi sto svegliando del tutto, anche se non vorrei, perché so che impegnandomi potrei chiudere gli occhi, riaddormentarmi, riprendere il sogno e arrivare velocemente al punto in cui quella stronza di Coriliana muore e Alex resta solo e consolabile da qualcuno a caso, come la figlia del fattore, che è tipo la copia della sottoscritta, ma magra, figa, con gli occhi azzurri e i denti dritti. Che poi chi li aveva i denti dritti nel medioevo? Mica c'erano gli apparecchi. Non c'erano neanche i dentisti. E' già tanto se arrivavano a quarant'anni con quattro denti in bocca. E' già tanto se arrivavano a quarant'anni e stop.
“Ma stavi dormendo? Guarda che oggi è venerdì sul serio”
“Non proprio, ma che ore sono?” posso capire l'impazienza di Eddie, soprattutto dopo la nostra piccola prima lite dell'altra sera, ma non pensavo arrivasse a chiamarmi a notte fonda per festeggiare il gran giorno.
“Sono le 8. Scusa se ti ho svegliato, ma pensavo fossi in piedi da un pezzo. Non hai mica lezione stamattina? Avevo capito che oggi fosse l'ultimo giorno...”
“COSA?! LE OTTO?” i miei neuroni si destano tutti assieme non appena capiscono che la sveglia non ha suonato e che sono in ritardo. Un'eventualità più unica che rara. Insomma è difficilissimo che io non punti la sveglia e, anche quando questo dovesse capitare, è impossibile che io non mi svegli ugualmente all'orario in automatico. Il panico è talmente immediato che mi alzo, afferro vestiti a caso e corro in bagno bestemmiando. Dopo cinque minuti pieni mi rendo conto di aver dimenticato qualcosa. Torno al volo in camera e cerco il telefono. Non lo trovo. Ritorno di corsa in bagno e in mezzo alla pila di vestiti recupero il cordless “Sei ancora lì?”
“Sì, lo sai che mi piace ascoltarti al telefono”
“Non avrai sentito granché, a parte un sacco di parolacce”
“Mmm non erano poi così tante”
“E io che mi spazzolo i denti”
“E la tua pipì”
“EDDIE!” l'elastico con cui mi stavo legando i capelli mi sfugge parte come un proiettile, finendo chissà dove.
“Eh ho sentito anche quella, che posso farci”
“DIO CHE FIGURA DI MERDA” mi nascondo la faccia con la mano, come se Eddie potesse vedermi.
“Questa è vera intimità di coppia”
“Ma non potevi riattaccare?” piagnucolo mentre sondo il pavimento del bagno in cerca dell'elastico.
“Nah, la telecronaca del tuo delirio era troppo divertente, micetta”
“Micetta invece non è divertita per niente” se comincio a usarlo pure io questo nomignolo siamo rovinati.
“Dai, per così poco?”
“Micetta è alquanto imbarazzata”
“Se vuoi posso scoreggiare al telefono, così siamo pari e non ti imbarazzi più”
“Ahahahah ma vaffanculo!” lo insulto quando finalmente trovo l'elastico, sopra il calorifero.
“Comunque è incredibile: anche tu dimentichi le cose come i comuni mortali”
“Già, hai visto? A volte capita perfino a me che qualcosa sfugga al mio controllo”
“Wow sei umana”
“Comunque ti devo lasciare, perché l'umana è in stra-ritardo e deve farsi la doccia”
“Ti scoccia se seguo in diretta anche quella?”
“Cos'è, anche il rumore dell'acqua ti rilassa?” passo il cordless da una mano all'altra mentre tolgo il sopra del pigiama e lo butto fra le cose da lavare.
“Sì, esatto. Proprio quello m'interessa. L'acqua che scorre. Mica il pensiero di te nuda sotto la doccia”
“Dai, non posso stare al telefono, devo correre” mi vengono in mente un sacco di battute sul gusto di Eddie per l'orrido, ma non ho voglia né tempo di farlo incazzare di prima mattina. Beh, prima, sono già le otto. Passate. Mi tiro gi�� i calzoni e li lancio con un calcio nella cesta dei panni sporchi..
“Comunque i denti potevi lavarli direttamente in doccia e avresti guadagnato minuti preziosi, si vede che sei una principiante dei ritardi”
“E spero di restare principiante. Ti chiamo dopo pranzo, ok?”
“E va bene... Wind?” mi tiro sù di scatto e le mutande che mi stavo levando rimangono arrotolate ad altezza ginocchia.
“...”
“Angie?”
“Uh...” mi guardo attorno persa e imbarazzata, come se mi fossi trovata all'improvviso nuda di fronte a Eddie. Ed è proprio così, in fondo.
“ASPETTA, HO AZZECCATO??”
“Quasi”
“CHE VUOL DIRE QUASI? Ci ho preso o no?”
“Ci hai preso... a metà” finisco di spogliarmi completamente e prendo l'asciugamano.
“In che senso a metà?”
“Te lo spiego dopo, dai, devo andare” entro in vasca e appoggio l'asciugamano sullo sgabello qui a fianco.
“Col cazzo, me lo spieghi adesso”
“E' metà del nome” sono in piedi, nella vasca, in ritardo, con il telefono in una mano e il doccino nell'altra, non possiamo rimandare questa conversazione?
“Cioè sei WindQualcosa o QualcosaWind?”
“Esatto”
“Esatto cosa? La prima o la seconda?”
“Ciao Ed, a dopo”
“A DOPO UN PAIO DI PALLE, ANGIE?!”
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“Grazie, eh? Arrivederci!” il mio saluto ad alta voce va dritto alla schiena del tizio che ha appena comprato una stecca di Pall Mall Extra Mild e se ne va indisturbato senza rivolgermi la parola. Io lo capisco che uno possa non aver voglia di parlare, socializzare o interagire come un essere umano di tanto in tanto e sono praticamente la portabandiera dell'idea che non puoi giudicare gli altri, specialmente gli sconosciuti, perché in fondo non sai che cazzo stanno passando. Però, perfino nei miei momenti più bui, un buongiorno e un grazie alla commessa, al cameriere o alla cassiera di turno non li ho fatti mai mancare, perché queste persone fanno già lavori di merda, sfruttati e mal pagati, e non mi sembra giusto privarli di quel minimo di dignità che gli spetta. Senza contare che essere gentili è gratis. La giornata dell'ultimo cliente deve essere davvero di merda però, perché non mi risponde e quasi non fa caso alla persona che sta entrando nel mini market, andandoci a sbattere praticamente addosso.
“Ehi, attenzione!” appena lo sento inveire contro l'uomo delle sigarette, alzo lo sguardo sul suo viso e sono io che vado a sbattere in pieno contro un paio di occhioni verdi e furbi.
“Sei in anticipo Stone, la tua ragazza stacca tra mezz'ora” Hannigan gli rivolge la parola prima di me, che ho la bocca occupata a mangiarmi una pellicina del pollice.
“Uhm, non possiamo fare un po' prima? Abbiamo il soundcheck alle sette” Stone guarda l'orologio che sta sulla parete proprio dietro di me e si aggiusta il berretto dei Chicago White Sox sulla testa, quello che si mette ogni volta che vuole far incazzare un po' Eddie, che ultimamente vuol dire ad ogni concerto.
“Oh Grace, non sapevo facessi parte del gruppo anche tu, cosa suoni?”
“Grace non fa parte della band. Lei suona... me, fa vibrare soavemente le corde del mio cuore, musica per la mia anima.” Stone continua a parlare col mio capo come se io non ci fossi, ma la cosa anziché indispettirmi mi diverte, come se stessi guardando una puntata del Muppet Show, che è più o meno come mi sento ogni volta che Stone parla a qualcuno di me “E se non vibro, non riesco a esibirmi”
“Se Grace si esibisce nel prezzare i cereali e li riassortisce, vi lascio andare a vibrare dove cazzo volete, ok?” anche il boss parla di me in terza persona come se non fossi presente, ma a questo punto finalmente reagisco.
“Ok, grazie. Lo faccio subito” mi guardo il dito per verificare se me lo sono mangiucchiato tutto assieme alla pellicina e vado spedita in magazzino.
Stone. Che diavolo ci fa qui Stone? Cioè, lo so cosa ci fa qui, ma quello che mi chiedo è... come? Insomma, sparisce per giorni, per metabolizzare tutto quello che gli ho detto, e non è che voglia fargliene una colpa, cioè lo capisco anche. Ma poi che fa? Si ripresenta così come se niente fosse per portarmi al concerto? Senza avvisare prima? Non mi ha neanche chiesto se ci voglio andare, se ho altri impegni. Non mi ha praticamente parlato. Altro che cuore, gli farei vibrare la prezzatrice sui denti ora come ora.
“Vuoi una mano?” mi volto di scatto quando sento la sua voce e per un pelo non realizzo la mia fantasia di un secondo fa.
“No, grazie” regolo le rotelline sul prezzo giusto e comincio a etichettare le scatole.
“Non ne hai un altro di quegli aggeggi? Aspetta, te li metto in fila, così fai prima.” Stone inizia a impilare le scatole tutte nello stesso verso, in modo da facilitarmi il compito, quando ha raggiunto tre pigne si allontana e va a recuperare due scatoloni vuoti, dove infila le confezioni già prezzate.
“Com'è che sei molto meglio di me a fare il mio lavoro?” vorrei dirglielo con una smorfia, con un tono arrogante, con aria seccata, invece alla fine glielo dico sorridendo. Perché è così che mi viene, perché mi è mancato e sono contenta che sia qui, perché se è qui vuol dire che è tutto a posto. O no?
“Sono solo più bravo a organizzare, tutto qui.” fa spallucce e mi da il bacio che stavo aspettando da quando l'ho visto sulla porta, mentre fa scivolare la sua mano lungo il mio braccio fino a portarmi via la prezzatrice “Vai a riempire gli scaffali, qui continuo io”
“Ok, capo”
“Era ora, che è successo? Hannigan ti ha fatto prezzare il resto del magazzino? E sì che te l'ho insegnato il metodo” Stone commenta il mio apparente ritardo quando lo raggiungo in macchina.
“Scusami, ma dovevo almeno darmi una sistemata. A saperlo prima, sarei uscita di casa in maniera un po' più presentabile” continuo controllando il lavoro fatto con la matita per gli occhi nello specchietto laterale.
“Che significa a saperlo prima? Sono settimane che ti parlo di questo concerto” Stone mi risponde allibito e io non capisco se ci fa o ci è.
“Del concerto lo sapevo, non sapevo se mi avresti voluta lì...”
“Che cazzo dici, eravamo anche d'accordo che saresti venuta al soundcheck”
“Sì, ma ci eravamo messi d'accordo prima”
“Prima?” quindi ha deciso di fare finta di niente e andare avanti come se nulla fosse successo?
“Prima del nostro discorso. Sai, il discorso...”
“E allora? Il discorso non ha cambiato niente”
“No?”
“Certo che no, non credo che all'Ok Hotel ci sia un regolamento che vieta l'ingresso ai portatori di protesi” la risposta alla mia domanda di poco fa è che ci è. Perché anche se lo fa apposta, lo fa proprio perché è così: un cazzone.
“E tra di noi?”
“Noi non abbiamo stipulato regolamenti”
“Tra di noi non è cambiato niente?” l'unica maniera di interagire con Stone in questi casi è ignorare cosa dice e andare avanti seguendo il tuo percorso logico, aspettando che lui ti reputi abbastanza degno e decida di venirti dietro.
“No, perché?” sbuffa perché stavolta è costretto a rispondere seriamente.
“Beh, non lo so, sei sparito per giorni, non ti sei più fatto sentire”
“Ho avuto da fare, lo sai”
“Non dire cazzate, me l'hai detto chiaramente che avevi bisogno di schiarirti le idee”
“E allora se lo sapevi, non c'era nulla di cui preoccuparsi, no?” Stone sorride e pensa di risolvere tutto con un'alzata di spalle e accendendo l'autoradio, ma ha sbagliato a capire.
“Quindi?” gli chiedo spegnendo la radio e guadagnandomi un'occhiata stupita.
“Quindi che?”
“Te le sei schiarite?”
“Sì”
“E?”
“E... ora ce le ho chiare” improvvisamente è diventato avido di parole?
“E non potresti illuminare anche le mie, di grazia?” lo illuminerei anch'io, dopo averlo ricoperto di benzina, se non la smette di fare così.
“Dobbiamo farlo proprio adesso? Ho il concerto stasera e ho un sacco di cose per la tes-” non lo faccio neanche finire di parlare e ho già slacciato la cintura e aperto la portiera, approfittando del fatto che siamo fermi a uno stop “Dove credi di andare adesso?”
“Vado a casa, ci rivediamo quando hai la mente libera” rispondo chiudendo la portiera e incamminandomi sul marciapiede verso la fermata del bus più vicina, seguita dall'auto, che procede a passo d'uomo col finestrino abbassato.
“Grace, torna in macchina, su”
“Salgo se hai intenzione di parlare, se no passo” gli rispondo, mentre le altre macchine che sopraggiungono gli suonano il clacson e lo sorpassano bestemmiandogli dietro.
“E va bene, parlo, basta che sali”
“Non lo so” potrebbe essere molto più convinto e convincente di così, se solo volesse.
“Ok, OK!” Stone spegne il motore, mette le quattro frecce e scende dalla macchina, per andarsi poi a sedere sull panchina della fermata “Allora? Non volevi parlare? Vieni su, parliamo” tocca lo spazio accanto a lui facendomi segno di raggiungerlo e sedermi.
“Sei tu quello che ha qualcosa da dire, io quello che dovevo farti sapere te l'ho già comunicato. E capisco sia una cosa difficile da digerire, credimi, lo so. Però mi aspetto anche una certa franchezza da parte tua. Insomma, sei qui, quindi ho capito che vuoi portare avanti questa cosa con me, ma-”
“Che cazzo vuol dire che l'hai capito? Perché avevi forse dei dubbi?” Stone mi strattona e mi fa sedere sulla panchina mentre io mi ci stavo avvicinando lentamente.
“Beh, hai detto che avevi bisogno di tempo per pensare”
“Pensare a quanto sono stato deficiente, a quante volte ti avrò ferita senza volerlo, magari anche la sera stessa, usando le parole o gli sguardi sbagliati, reagendo in maniera troppo esagerata o troppo composta. Pensare a quanto devi fidarti di me, al valore che devi dare alla nostra relazione per arrivare a dirmi una cosa del genere, a quanto devi aver ponderato la scelta del modo e dei tempi. Pensare a come posso fare per farti capire che anch'io ci credo e mi fido di te alla stessa maniera. Pensare a come comportarmi con te in maniera diversa e allo stesso tempo non cambiare di una virgola e continuare a essere il solito stronzo. Pensare a cosa posso dare io a te in questa storia, di altrettanto significativo, a come posso aiutarti, o almeno capirti, a qual è il mio valore aggiunto in tutto questo. Pensare a come posso starti vicino in questa cosa, ma senza darti fastidio, trovare la chiave. Oh e credo di averla trovata, sai? Ecco, queste sono le cose a cui ho pensato, beh, una parte, ma fra queste cose stai pur certa che non c'era assolutamente il dubbio se stare con te o no, perché quello non è mai stato messo in dubbio, neanche per un secondo”
“Ah” ha ritrovato le parole. E per fortuna.
“Ah?”
“E qual è?” sono io adesso ad essere senza parole. Anzi no, ne ho tre.
“Cosa?”
“La chiave, che hai trovato”
“Gaby Pearce”
“Chi?”
“La mia nemesi in seconda elementare”
“Uh, il piccolo Stone aveva una cotta!” non so dove cavolo voglia andare a parare, ma pensare a baby Stone mi mette istantaneamente un sorriso sulle labbra.
“No no, non è il caso di bambino che tira le trecce alla bambina perché la ama, la odiavo proprio. E infatti Gaby ha tentato di uccidermi”
“Che?”
“Mi ha letteralmente scaraventato giù dall'altalena durante la ricreazione”
“Ahahah magari era il tipico caso di bambina che prende a calci il bambino perché lo ama”
“Beh, doveva amarmi un sacco visto che mi ha causato un trauma cranico di grado severo e mi sono fatto quasi un mese in ospedale, più due di riabilitazione”
“COSA?”
“Già. Quando mia madre mi ha raggiunto al Virginia Mason era sconvolta, mi ha visto sveglio e mi ha abbracciato. Io l'ho guardata e l'ho chiamata pane. E' svenuta”
“Pane?”
“Non so se questa cosa abbia un nome, la botta aveva danneggiato la parte del cervello che si occupa del linguaggio. Capivo tutto e riuscivo a parlare, ma le cose che dicevo non avevano senso. Non mi ricordavo come si chiamavano le cose oppure me lo ricordavo e pensavo una parola, ma me ne usciva un'altra”
“Pane”
“Esatto. Due mesi di logopedista per tornare come prima. Anzi meglio. E meno male perché ti puoi immaginare uno come me privato dell'uso della parola”
“Posso immaginare, come toglierti l'aria che respiri praticamente”
“Eheh appunto. Comunque va beh, è stata una roba non grave e transitoria, non ho avuto nessuna conseguenza”
“Questo lo dici tu” scherzo per allentare la tensione e sono contenta di trovare il mio stesso ghigno riflesso sul viso di Stone.
“Ehi, non si scherza su queste cose!” mi spintona per scherzo per poi catturarmi di nuovo e tirarmi più vicino a sé sulla panchina.
“Chi lo dice? Ti ricordo che mi manca un piede, praticamente ho un free pass per qualsiasi cattiveria”
“Ah è così?”
“Già, e visto che anche tu hai una piccola storia triste del passato, hai il permesso di prendermi per il culo e prendere la cosa con leggerezza. E' questa la chiave, giusto?”
“Oh mio dio, no! Sei totalmente fuori strada, nemmeno io sono così cinico, vergognati!” Stone mi spinge via di nuovo, ma io mi sento disorientata davvero.
“E allora qual è il senso?”
“Il senso è che so cosa vuol dire ripartire da zero, Gracie. Non voglio tirarmela, ma credo che poche persone capiscano cosa significhi dover attraversare il processo di imparare di nuovo a fare cose basilari. Camminare e muoverti nel tuo caso, parlare nel mio. Perché io ero più piccolo di te e molte cose me le sono scordate, ma la fatica e la frustrazione no, quelle me le ricordo bene. In pochi sanno cosa significa spingere te stesso fuori dalla comfort zone per raggiungere degli obiettivi. Lo sai che avevo appena iniziato a suonare la chitarra? Ho dovuto ricominciare da capo anche lì, perché a quanto pare la parte sinistra del mio cervello andava da una parte e la destra dall'altra e ho imparato a mie spese che questo non è un bene quando devi suonare un cazzo di strumento”
“Mi sembra che tu abbia recuperato alla grande” gli prendo le mani con cui stava accennando una sorta di air guitar e gli accarezzo le dita lunghe e affusolate.
“Sì, ma mi sono dovuto fare il culo, sicuramente non quanto te, ma non è stato facile. Anzi no, cazzata, lo è stato in fondo, è stato facile, ma solo perché io ho deciso che doveva esserlo, ho deciso che potevo fare qualsiasi cosa e che ce l'avrei fatta. Bastava capire quando potevo spingere e quando invece dovevo abbassare l'asticella di un paio di misure, e io l'ho capito, l'ho imparato. E con questo non voglio giustificare il mio essere un perfezionista del cazzo maniaco del controllo. Però, tant'è” Stone intreccia le dita con le mie e allarga le braccia, come per dire eccomi, sono così, è questo quello che ti offro. E io non chiedevo di meglio.
“Io non sono una perfetta perfezionista però”
“E vai bene così. Io non pretendo di sapere e capire tutto di te, anche perché sei completamente pazza, ma capisco lo schema di pensiero che sta dietro a questa cosa, a questa parte di te. Posso capire quando spingerti e quando abbassare l'asticella, e tu puoi fare lo stesso con me. Capisco cosa vuol dire seguire il proprio istinto anche quando gli altri ti dicono di fare il contrario, magari anche per il tuo bene. E penso che anche tu possa capirlo, anzi, ne sono sicuro. E per me è una cosa importantissima. Perché nessuno nella mia vita è mai stato capace di distinguere tra quando sono testardo per il gusto di esserlo o di dimostrare che ho ragione e quando invece spingo su me stesso per raggiungere un obiettivo vero”
“Tra testardaggine e determinazione”
“Già. Vedi che tu mi capisci? Da quando ho ripreso in mano la chitarra da bambino non ho mai più smesso. Mai. Non ho smesso quando si sono sciolti i Green River. Non ho smesso quando Andy è morto. Non ho smesso quando mio padre mi consigliava di tornare al college. Ed ora è il mio mestiere e lo sarà per sempre. E non c'entra il successo, Mark Arm può dire quel cazzo che vuole, a me interessa farlo perché fra tutte le cose che so fare, e ti dirò, non sono certo poche, è quella che mi riesce meglio”
“Mmm presunzione, ne abbiamo?” gli riesce tutto bene, specialmente con me.
“Io la chiamo consapevolezza”
“Sei consapevole che dopo questo discorso non potrò mai lasciarti perché non troverò mai un altro che mi parli in questa maniera?”
“Dici che ho alzato troppo l'asticella?”
“Se l'abbassi ti ammazzo”
“Adesso andiamo, sono in ritardo per il soundcheck e Jeff starà già dando fuori di matto” Stone sorride e si alza in piedi, invitandomi a seguirlo.
“Jeff lo sa? Dico, di questa cosa...”
“Nah, non lo sa nessuno, a parte la mia famiglia. E quella stronza di Gaby Pierce. Sai che non mi ha mai neanche chiesto scusa?”
“Io avrei iniziato da lì in poi a chiamarla stronza anziché usare il suo nome, dando la colpa al trauma”
“Sei... un genio del male, cazzo. Perché questa cosa non è venuta in mente a me? E soprattutto, dove diavolo eri nel 1974 se non nella mia vita?” Stone si ferma a un passo dall'auto, si gira e mi abbraccia stretto.
“Kenosha, Wisconsin”
“Oh. Cavolo questo sì che cambia tutto. Ehm... non so se posso stare con una del Wisconsin, non ti offendere, ma non credo di farcela” mi lascia andare di colpo e si affretta a salire in macchina.
“Scusa se non ti ho confessato prima questo segreto, ero preoccupata di come l'avresti presa” salgo anch'io e non posso fare a meno di seguirlo anche in quest'ultima cazzata, come sempre.
“E facevi bene a preoccuparti. Però se vuoi possiamo rimanere amici”
“Metti in moto, Stone” seguirlo, ma senza perdere l'orientamento.
“Possiamo andare a caccia di tassi insieme qualche volta, se ti va”
“Ti amo” seguirlo ovunque.
“Anche se non so distinguere un tasso da un procione?”
“Te lo insegno io”
“In questo caso, ti amo anch'io”
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Quando sento Angie al telefono nel primo pomeriggio riesco a convincerla a venire all'Ok Hotel con me e i ragazzi già dal soundcheck, ma non riesco a convincerla a dirmi il suo cazzo di nome.
“Ok deve essere per forza Windqualcosa perché sei Angelina W. Pacifico, quindi inizia per doppia vù” le dico non appena esce dal portone del suo palazzo.
“Ciao anche a te, Eddie”
“Windflower? O Windchill?” le chiedo mimando un brivido di freddo, neanche tanto per finta, vista l'aria frizzante del tardo pomeriggio, per poi avvicinarmi e baciarla.
“Acqua e acqua” risponde dopo aver alzato gli occhi al cielo. La bacio di nuovo e lei si guarda attorno in maniera un po' subdola per non farsi notare da me. Illusa. Non lo sai che noto tutto?
“Sono nel furgone che ci aspettano. E poi è venerdì, no?” le sorrido e la bacio di nuovo e stavolta mi sembra un po' meno tesa.
“Già, hai ragione” risponde con un sorriso dei suoi e mi accarezza una guancia, prima di baciarmi ancora a sua volta.
“Windstorm?” le chiedo, lanciando poi un'occhiata al cielo per cercare di prevedere come girerà il tempo.
“No. E adesso taci perché se gli altri vengono a sapere anche questa sei morto.” mi raddrizza il collo della giacca e mi prende per mano “Da che parte?”
“Laggiù, dopo il bowling, all'angolo... Windsurf”
“Ahahah figurati!” scuote la testa e attraversa la strada con me tenendo lo sguardo fisso sul furgone e, anche se non dice nulla e cerca di dissimulare, lo so che nella sua mente sta facendo un veloce calcolo di angolazione e prospettiva per capire se da lì possono averci visti che ci baciavamo. Tra parentesi io l'ho già fatto mentre arrivavo ed è sicuro come l'oro che ci hanno visti.
“Va beh, però dopo me lo dici, ok?”
“Sì. Se te lo meriti”
Quando arriviamo davanti al van, Mike e Jeff, seduti davanti, sono rivolti entrambi verso Dave, seduto nel mezzo, apparentemente molto concentrati in una conversazione. Tanto concentrati da non cagarci di striscio. Sicuramente stanno parlando di noi e non si sono accorti che siamo proprio qui. Chissà che faccia faranno appena aprirò lo sportello e-
“Dai, Lynch è un genio” ehm, no, mi sa che parlano di altro.
“Lynch è un genio, ma ci sta prendendo tutti per il culo secondo me, ora è palese” Mike ribatte all'affermazione di Jeff scuotendo la testa.
“A me è sembrata una scena perfettamente in linea con lo show. Quell'uomo è in contatto diretto con un altro mondo, la sua arte è piena di momenti della serie che-cazzo-ho-appena-visto” Dave cerca di mediare, ma i risultati sono scarsi a quanto pare.
“Un pomello? Un cazzo di pomello??” McCready sbotta facendo sobbalzare sia me che Angie, che cerchiamo l'uno lo sguardo dell'altra nello stesso istante, lei divertita e io perplesso.
“Ahahah mi piace perché fra tutte le cose nonsense come il gigante, la signora ceppo, i gufi, l'uomo nel sacco, l'uomo con un braccio solo... a te fa incazzare il pomello!” Jeff sghignazza aggiustandosi il cappello sulla testa.
“Di che cazzo state parlando?” mi decido a intervenire nella questione e a comunicare la nostra presenza ai ragazzi, che non ci hanno ancora cagati.
“Della morte di Josie, nell'ultimo episodio” Angie risponde al posto dei miei compari, che si voltano appena a guardarci.
“Quando arriva Cooper, sembrava dormisse” il batterista inizia a spiegare.
“Invece aveva appena ammazzato uno” aggiunge Jeff.
“Che però non muore subito subito, eh, fa due passi giù dal letto prima” Mike ironizza cercando il mio appoggio, mentre gli altri due continuano ad aggiungere dettagli alla trama a turno.
“E confessa di averne ammazzati altri”
“Poi sembra si stia per sparare”
“Ma non lo fa”
“Però sembra”
“Però sviene”
“Ricade sul letto ed è morta”
“Poi lei e lo sceriffo scompaiono, un riflettore da chissà dove illumina l'agente Cooper e lì inizia il che-cazzo-sto-guardando”
“Bob ciccia fuori da sotto il letto e fa tutti i suoi versi alla Bob”
“E sembra molto soddisfatto di se stesso per l'interpretazione, devo dire”
“Ma scompare subito anche lui e chi spunta?”
“Il nano del cazzo” Mike irrompe nel serratissimo botta e risposta.
“E cosa fa? Quello che gli riesce meglio”
“Balla a caso sul letto”
“Fa il suo balletto del cazzo” è ancora 'Cready a manifestare la sua poca ammirazione nei confronti del personaggio.
“Poi scompare”
“E ricompaiono Josie e lo sceriffo”
“E lo spirito di Josie viene misteriosamente teletrasportato nel pomello di un cassetto del comodino” e non può che essere sempre Mike a ritirare fuori il pomello incriminato.
“E lei cerca di venire fuori da quel minchia di pomello, ma non ci riesce e il pomello prende la forma della sua faccia” stavolta è Angie ad aggiungere ulteriori dettagli.
“E io dico che è successo? Chi è stato? L'ha fatto Bob? L'ha fatto il nano? Insomma che-cazzo-ho-appena-visto??” Mike pone le sue domande a tutti noi singolarmente, che non sappiamo rispondergli.
“E non avremo mai delle risposte” appunto, Jeff.
“Ed è quello il bello! Voglio dire, se cominciano anche a darci delle risposte non ha più senso guardarlo. Già l'aver svelato in anticipo chi fosse l'assassino di Laura è stata una grandissima stronzata secondo me” commenta la mia ragazza mentre fa per aprire il portellone di dietro e io la aiuto.
“Effettivamente è diventato un po' moscio da allora” Krusen ammette mentre Jeff mette in moto e Mike da man forte a Angie nella sua critica.
“Secondo me Lynch non voleva dirlo fino alla fine, ma l'emittente l'avrà obbligato. E adesso ci sta perculando tutti per vendicarsi”
“Col pomello?” intervengo io, che mi sento un po' tagliato fuori dalla conversazione, e così facendo suscitando un'altra mini-reazione isterica nel chitarrista.
“Quel pomello del cazzo!!”
“Dai, quale altra serie tv può vantare di aver fatto morire un personaggio trasformandolo in un pomello?” Angie cerca di calmarlo con una pacca sulla spalla, mentre io chiudo il portellone da dentro.
“Già, è la morte definitiva” ammette Jeff cercando di non ridere.
“Potevano anche attaccarci un bel cartello con scritto Fine su quel pomello”
“Ehm si è fatto tardi, direi che è ora di andare” richiamo l'attenzione del gruppo quando vedo che Jeff non ha ancora intenzione di partire. E continua a non farlo, invece si gira e si rivolge direttamente a me.
“Tu che ne pensi, Eddie?”
“Eddie non guarda ancora Twin Peaks, ma non temere, ho registrato tutte le puntate su cassetta, possiamo iniziare a colmare la tua lacuna quando vuoi” Angie mi fa pat-pat su un ginocchio e mi prende per mano e lo fa proprio davanti a Jeff, a cui il gesto non passa certo inosservato. Lo vedo chiaramente abbassare lo sguardo sulle nostre mani unite, anche se per un nano-secondo, prima di sorridere e voltarsi di nuovo in avanti.
“Comunque la mia preferita è la signora ceppo, lei è ancora un mistero” continua Angie mentre finalmente ci muoviamo. Il segreto che dobbiamo svelare oggi, invece, credo non sia altrettanto misterioso in fondo.
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For the liberal optimism that has been under assault since 11 September, 2001, the coronavirus pandemic is another rattling blow. The late-1990s vision of a world progressing steadily towards global harmony, towards sunlit uplands of universal democracy and technological wonder, has long since given way to pessimism, anxiety and crisis. But even more than terrorism and the Iraq War, the financial crisis of 2008 and the eurozone stalemate, Brexit and the election of Donald Trump in 2016, the pandemic of 2020 promises to stall globalisation, harden borders, freeze economies, and push the dream of liberal progress ever further into history’s rear-view mirror.
Twenty-five years ago the liberal establishment was embodied by youthful politicians, by Bill Clinton and Tony Blair in their pre-Iraq, pre-Jeffrey Epstein flower. Even 12 years ago it was embodied by Barack Obama, the soaring orator and handsome post-racial technocrat. But in 2020, even if the coronavirus dooms Trump’s populist presidency and allows some sort of establishment restoration in the United States, it will be personified by Joe Biden – a reassuringly normal politician in certain ways, but also the physical embodiment of political sclerosis, exhaustion and old age.
…
There is, however, another possibility besides a looming liberal crack-up – that a political order can be exhausted and sclerotic, its great ambitions foreclosed and its projects frustrated, and still continue for a good long while without either real reform or real collapse.
That may well be the fate of the liberal order over the next few generations: a kind of sustainable decadence, a zombie existence punctuated by periods of temporary crisis and alarm that continues indefinitely because all of its plausible rivals and inheritors have too many challenges and weaknesses of their own to effectively exploit its incompetence, torpor and stagnation.
…
Such an intellectual and cultural revolution could happen: Islam’s encounter with the secular heir of its ancient Christian rival is the kind of strange collision in which unexpected futures might be forged. But the form of Islam that could imaginably replace liberalism has yet to be invented.
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Take the case of Vladimir Putin’s Russia, which has lately sought to return the ideological role that Moscow played under the czars – as a rallying point for traditionalists worldwide, and as a religious-conservative bulwark against Western liberalism and secularism. Putin has enjoyed some success with this gambit: he has admirers among Europe’s far-right parties, such as Marine Le Pen’s Rassemblement National in France, authoritarian friends around the globe, and his interventions in Ukraine and the US elections in 2016 have prompted a surge of Western-liberal Russophobia, with talk of great ideological conflict and a renewed Cold War.
But as a world-view, a system, an alternative civilisational architecture, Putinism is mostly smoke and mirrors. The Romanovs embodied a real ancien régime, an order rooted in a deep historical inheritance even when its days were numbered. Putinism does not have a similar justification for its powers, and following the collapse of Soviet communism from 1989 and the prolonged doses of neoliberal economic “shock therapy” that came after, Russian society is no more traditional than its more liberal and democratic neighbours. There is no legitimate mode of transmission for Putin’s system once he dies: his successor will either take power by brute force or claim (like his predecessor) the pseudolegitimacy of a rigged election – even liberalism’s enemies pay tribute to its norms. Either way, there will not be a clear alternative to liberalism, only violence, or parody, or both.
Perhaps there is something embryonic within the regimes of various Putinesque strongmen that could develop into a serious ideological challenger to the West. But unlike the totalitarianisms of the 1930s – or, for that matter, unlike the Islamic Republic of Iran or the Kingdom of Saudi Arabia – none of these regimes has claimed an alternative source of legitimacy; an alternative vision of where sovereignty resides. In practice “illiberal democracy” is either liberal democracy with somewhat more nationalism than Western bien-pensants prefer, or pseudodemocracy dominated by a dictator who refuses to admit his authoritarianism.
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Nor is this illiberal form of politics even necessarily new. Set aside his cultivation of nationalist and post-liberal intellectuals, and is Viktor Orbán’s democratic but one-party-dominated Hungary all that different from the de facto one-party rule that often characterised 20th-century Mexico, South Korea, or Japan? It is not unusual for democratic systems to produce powerful parties that bend the rules to keep themselves in power. Nobody thinks that Mexico, when it was governed uninterrupted by the Institutional Revolutionary Party between 1929 and 2000, represented an ideological challenge to liberal democracy. For all the anxiety about Orbán or the Poland’s nationalist Law and Justice party, the same may be true of eastern Europe today.
…
It is for this reason that, unlike Islamism, the Chinese system has won soft admiration among the Western elite. Though not admirers of one-party rule, precisely, they are pundits and businessmen – such as Michael Bloomberg, a failed candidate for US president – who are impressed by the way that Beijing can implement big policy changes without the snarls of democratic debate.(Or the way that it can shut down an entire province to contain a viral outbreak that runs wild across the liberal West.) And unlike Putin’s Russia, China has enjoyed a rate of economic growth that is both an advertisement for its system and a source of growing global soft power. Those elites in developing nations – in Africa especially – who think China’s one-party meritocracy is a model worth imitating are closer to constituting a nascent post-liberal order than the illiberal client states of Moscow.
But there is an alternative hypothesis, that in the near future there will be a kind of convergence-in-decadence between the world’s rising powers and the liberal West. In this scenario, growth and progress outside the West levels off and political futility increases, and the afflictions of Western liberalism – problems of political sclerosis and intellectual exhaustion – wait to greet China (and India and Brazil, and Turkey and Nigeria…).
…
Disappointing growth is hardly a hypothetical. In Brazil and South Africa, often touted as potential great powers of the future, the growth rates of the last ten years have been indistinguishable from growth rates in the US and Europe. India has done better, and the absence of one-child totalitarianism means that it is not growing old as fast as China. But in the last few years, there has been an unexpected Indian deceleration, linked in part to the ham-fisted way that Prime Minister Narendra Modi’s government imposed currency and tax reforms. The joke often applied to Brazil, that “it’s the country of the future, and it always will be”, recurs with similar countries for a reason: it is (relatively) easy for poor, misgoverned countries to grow rapidly for a time when government policy improves, but it is a lot harder to accelerate past the pacesetters and into the new economic territory that a would-be rival of liberalism would need to do.
…
If disaster fails to strike, Chinese power will be greater in a generation than it is today. But a powerful China is not the same thing as a hegemonic China, or a China that is held up as a cultural or political model for the world. If China ends up as another rich-but-stagnating economy with a distrusted elite relying on a surveillance state to maintain its power, then it will not have pioneered an alternative to Western liberalism; it will be another case study in the convergence of liberal democracies, pseudo-democracies and would-be meritocracies, all becoming de facto oligarchies trying to manage stagnation and its discontents.
****
The desire of China’s elites – the very people who seemed poised to guide the West’s great rival – to leave for New York and London illustrates another way in which liberal decadence is well defended: the Western order is still good at weakening potential rivals through recruitment.
…
Two types of brain drain sustain this balance: one global and the other national. The global brain drain happens through high-skilled immigration – the one kind of immigration that still has something like bipartisan support in the polarised West; and for good reason, if you think of it as a process whereby the skilled professionals or would-be professionals of Latin America and Africa find their way to Europe and North America. In 2012 Ethiopia’s health minister claimed there are more Ethiopian doctors in Chicago than in their homeland, to pick a particularly arresting example. These professionals try to help their children find their way into the West’s elite, while the countries that they leave behind get remittances in exchange for losing their natural leadership class to Western cities.
The efficiency of this global brain drain is blessed by practically every professional economist, but its political consequences are also notable: it is a good way to make the Western world’s potential rivals a little bit better off monetarily but a lot less talent rich, by siphoning away their most ambitious citizens through offering them membership of an elite that they might otherwise supplant.
Something similar happens domestically as well. The most feared “barbarians” in the Western world today are not invaders from the distant steppes; they are the Rust Belt “deplorables” voting for Trump, the gilets jaunes burning shops on the Champs-Élysées, the Little Englanders forcing their country into Brexit. A great deal of elite commentary about the crisis of the liberal order assumes that these internal rebels might topple the system from within, that populists “inside the gates” are now the existential threat that Western institutions last faced from the Soviet Union.
But there is little to suggest that the populist movements are prepared to wield power in any effective way; their power, too, is limited by the way that meritocracy has recruited away the men and women who in a different era might have been the working class’s leaders and the hinterland’s elite. Populists can fill the streets and sometimes elect prime ministers and presidents, but they are disorganised, poorly led, conspiratorial and anti-intellectual in a way that undercuts their own effectiveness.
Perhaps populists just await the right combination of the man, the movement and the moment to become agents of actual regime change in the West. But it is also possible that meritocracy really does protect elites from effective challenges, and enables even an exhausted liberal establishment to return, Biden-esque, to power once the disturbances are over or once the populists conspicuously fail. This points to a future distilled by the US intellectual Michael Lind and his vision of what the later-21st century might hold if populism is defeated:
The other possibility… is that today’s class war will come to an end when the managerial minority, with its near monopoly of wealth, political power, expertise and media influence, completely and successfully represses the numerically greater but politically weaker working-class majority. If that is the case, the future of North America and Europe may look a lot like Brazil and Mexico, with nepotistic oligarchies clustered in a few fashionable metropolitan areas but surrounded by a derelict, depopulated and despised ‘hinterland.’”
…
On the other hand, rising temperatures have a greater chance of seriously destabilising poorer countries in the global South, Africa, the Middle East and India. They are more likely to limit economic growth, to overwhelm efforts at mitigation, to encourage yet more of those regions’ elites to decamp for London or Los Angeles, and to kill those left behind.
In which case, it is possible that strictly as a matter of Machiavellian self-interest, unmoored from moral debt or humanitarian obligation, climate change will help sustain the zombie liberal order instead of threatening it. A crisis created unintentionally by Western industrial development could, in one of history’s cruel ironies, help a decadent West hold off challenges from its rivals because it imposes greater ecological costs on the formerly colonised and defeated, than on the countries that led the first industrial wave and began to warmthe world.
One can imagine a future shaped by climate change that is like the present, but more so. Every rich place on Earth would be more like every other rich place, likewise every poor place, and the national-level political order would seem like a fractal of the international political order.
There would be an elite that seems interchangeable from country to country, a restive impotence and a lot of human suffering wherever that elite is hated or opposed, zones of chaos and disorder that do not really threaten the metropole, and no nation or civilisation charting a radically different course. That is a picture of what it would mean for the liberal order’s decadence to endure even after the pandemic, and to gradually become universal; that is what sustainable decadence would mean.
Why this sudden restlessness, this confusion? Because night has fallen and the barbarians have not come. And it is more likely than you think.
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Writober #1 (OTP)
Eccolo qui, il primo pezzo del Writober2018 organizzato da Fanwriter.it (perché nessuno mi ha fermato?! Non ce la farò mai!!)
Ho scelto di scrivere di Lancillotto e Artù, nell’universo di quella dea in terra che è Marion Zimmer Bradley.
—————————————
Non morire... ti prego, non morire.
Artù esitò sulla soglia della buia camera da letto per un secondo, ingoiando il fiotto acido di saliva che gli era salito fino alla gola. Nemmeno il fuoco che scoppiettava feroce nel camino riusciva a scaldare il freddo intenso che gli permeava le ossa, impedendogli di muovere anche solo un passo.
Lancillotto era disteso fra lenzuola bianche che erano state pulite una volta, prima che il sangue del ragazzo le sporcasse di un rosso vivo, crudo.
«Artù, fratello mio.»
Fu la voce di Morgana a riscuoterlo da quel freddo torpore. Era seduta al capezzale di Lancillotto, su una sedia, la mano intrecciata a quella del ragazzo.
«Sei arrivato finalmente.»
Per un solo, folle istante, Artù avvertì il bisogno... no, l’istinto di separare le loro dita e prendere il posto della sorella.
Non toccarlo!
«Cos’è accaduto?» chiese invece avvicinandosi al letto, pregando che le gambe lo sorreggessero.
«È caduto da cavallo» rispose lei.
«Ma è ridicolo, non è mai stato disarcionato in vita sua.»
Morgana scosse la testa, passando una pezza bagnata sul volto pallido dell’uomo.
«Nessuno sa cosa sia successo... credo abbia un polso rotto. E ha battuto la testa.»
Artù si guardò attorno, assicurandosi che nessuno, fatta eccezione per sua sorella, potesse vederli. Si chinò su Lancillotto e passò una mano fra i suoi capelli scuri, folti e lucidi, attento a non toccare il taglio sulla tempia destra.
Lo sguardo duro di Morgana si ammorbidì per un secondo e un sorriso triste le deformò le labbra.
«Artù, credo che questo incidente non sia stato frutto del caso» confessò alla fine.
Il Re strinse i denti e si sedette sul bordo del letto.
«Stupido... cosa credeva di risolvere in questo modo?» ringhiò, appoggiando la fronte a quella di Lancillotto.
Prese un gran respiro, stronfiando appena il naso contro la sua guancia calda. Sapeva di polvere, di sole, di sangue, riusciva a sentirne il sapore metallico sul fondo della lingua.
«La disperazione è un sentimento potente» ripose Morgana. «Non credo volesse togliersi la vita, se questo ti consola. Credo volesse... scomparire. Almeno per un po’, per non dover pensare a te...» abbassò la voce a un sussurro. “E a Ginevra.”
«E quindi ha deciso di cadere di proposito da cavallo e rischiare la morte il giorno del mio matrimonio? Stupido, stupido ragazzo...»
Morgana si schiarì la gola e si alzò, appoggiando una mano sulla spalla del fratello.
«Fai attenzione Artù. Anche se sei il Grande Re, per i cristiani non sei immune alla legge del loro Dio. Sposare Ginevra è stata una mossa saggia... nonostante tutto.»
Sollevò appena la gonna da terra e scivolò via dalla stanza, lasciandoli soli al loro silenzio.
Il respiro di Lancillotto contro la sua guancia era debole, certo, ma era pur sempre qualcosa!
Dea, aiutami. Non farlo morire...
Gli accarezzò il volto, intrecciando le dita alle sue come aveva tanto desiderato fare.
«L’ho sposata» sussurrò, gli occhi che bruciavano. «E tu non c’eri. Ti ho cercato, ma hai preferito i tuoi cavalli al vedermi con lei.»
Fece scorrere una mano sul petto nudo del ragazzo, ripercorrendo ogni centimetro di quel corpo che conosceva ormai quanto il proprio. Ogni cicatrice, avvallamento, neo... ogni sfumatura della sua pelle.
Di Lancillotto si dicevano molte cose, ma la più incredibile, forse, era che fosse stato concepito la notte di Beltane, sull’isola di Avalon. Artù non aveva mai dubitato di questo, nemmeno per un secondo: come poteva qualcosa di così bello essere frutto di un Dio freddo e crudele come quello dei Cristiani? Tutto in lui trasudava del potere della Dea Madre.
Era stato concepito di notte, fra canti, fuoco, nebbia e sangue, mentre sua madre veniva montata in preda all’estasi più pura. Era figlio del sacrificio, del sudore, della Madre stessa, e quell’anima primordiale si riversava in ogni parte del suo essere, ogni gesto, ogni sguardo...
Sentì l’improvviso bisogno di chinarsi e passare la lingua sulla pelle del suo petto per sentire ancora una volta in bocca quel suo sapore scuro, salato.
Ma un suono lo interruppe.
Un gemito, poi un sospiro dolorante e gli occhi scuri, profondi di Lancillotto si aprirono, incrociando i suoi.
Non si ritrasse nel vederlo così vicino.
«Artù...» la sua voce era roca, assonnata. «Cos’è successo?»
«Sei caduto da cavallo» rispose lui avvolgendogli il viso fra le mani. «Lo hai fatto di proposito non è vero? Cosa speravi di ottenere?»
Lancillotto abbassò lo sguardo sulle sue labbra.
«L’oblio» rispose. «Perché sei qui amico mio? È la tua notte di nozze, questa.»
«Non chiamarmi così, ti prego» gemette Artù. «Non posso... non posso farlo.»
«La tua sposa ti aspetta» la mano di Lancillotto si chiuse nella sua, sfiorando con il pollice il serpente blu tatuato sul suo polso. «Torna da Ginevra. Non devi farla aspettare: il regno vuole un erede.»
«Non posso. Cosa devo dirle? Come posso... farcela?»
Lancillotto si morse un labbro e alzò una mano, sfiorando con le dita il profilo del suo mento.
«Pensa a me» rispose, la voce spezzata. «Ricordi quella notte, ad Avalon? Mi capita di sentirlo ancora, il calore del tuo corpo.»
Artù gemette come un animale ferito, la sensazione che qualcuno gli avesse affondato una mano nel petto per cavarne via il cuore, graffiando e ferendo senza pietà.
Come poteva non ricordare? Ogni notte sentiva ancora il rumore dell’ansimare spezzato di Lancillotto contro il suo orecchio, la sua voce che lo incitava, mentre le unghie affondavano nella sua schiena come arpioni, graffiando, ferendo... Nelle serate più scure, percepiva anche il suo gemito roco, quasi sorpreso, che aveva emesso quando lo aveva lasciato venire sul suo petto.
Si allungò verso di lui e posò le labbra sulle sue, dischiudendo la sua bocca per accarezzarlo con la lingua. Dio quanto gli era mancato quel sapore!
«Fallo» ringhiò Lancillotto quasi rabbioso, prima di mordergli il labbro con forza. «Ma domani... domani sei mio Artù. Promettilo...»
Un sospiro gli sfuggì dalle labbra, mentre le dita si stringevano fra i capelli biondi del Re, così forte da graffiare lo scalpo.
“Non lo vedi Galahad?» ripose Artù. «Sono già tuo.”
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La mostra di Duillio Cambellotti a Terracina dal 25 luglio
Mostra Cambellotti E una mostra dal titolo “Duilio Cambellotti al di là del mare” che il Comune di Terracina ospiterà dal 25 luglio al 20 novembre negli ambienti della duecentesca chiesa di San Domenico, una splendida architettura cistercense bombardata durante la seconda guerra mondiale e finalmente restituita alla vita della comunità cittadina da un filologico intervento di restauro. La mostra a cura di Francesco Tetro è organizzata dalla Fondazione Città di Terracina e Archivio dell’Opera di Duilio Cambellotti. Non è casuale la scelta di inaugurare il nuovo spazio culturale con una mostra dedicata a Duilio Cambellotti, artista di vertice nel panorama artistico italiano della prima metà del ‘900, legato al territorio dell’Agro Pontino e, in particolare, alla città di Terracina da un rapporto profondo e di nodale importanza nella sua ricerca, come opportunamente messo in luce dalla rassegna. Le novantatre opere e l’interessante repertorio di fotografie d’epoca messe a disposizione dall’Archivio dell’Opera di Duilio Cambellotti costruiscono una mostra dall’andamento antologico che segue l’attività del poliedrico artista-artigiano dalla fine dell’Ottocento, l’epoca del suo esordio come disegnatore di manifesti teatrali e pubblicitari, alla fine degli anni ’40. Un lungo cammino nel corso del quale la sua torrentizia creatività viene assoggettata alla missione di produrre arte totale per tutti. Cambellotti si esprime nel campo delle arti applicate realizzando mobili, ceramiche e vetrate, è illustratore, incisore, grafico pubblicitario, scultore, scenografo, non pone limiti alle sue incursioni nel campo dell’arte. Sullo sfondo, il costante richiamo a una terra amatissima, la sua inesauribile fonte di ispirazione. Figura del tutto eccentrica nel contesto dell’arte italiana del ‘900, tenacemente impegnato in una ricerca dai modi arcaizzanti ma in realtà d’avanguardia, Duilio Cambellotti è un artista difficile da inquadrare. Francesco Tetro, il curatore della mostra, sceglie di iniziare il racconto della sua carriera dall’incontro che cambierà la sua vita, quello con i paesaggi, la gente, gli animali e la storia del paludoso, malsano, affascinante territorio immediatamente a Sud di Roma, lungo il rettilineo della via Appia. L’artista e il territorio: “Sto rivivendo! Ho rivisto oggi la palude e i neri animali. Ho rivisto il mare; Questo è bastato perché il torpore del mio cervello e delle mie membra scomparisse per incanto. Nuove visioni così appaiono ai miei occhi e potranno, lo spero sinceramente, rimettere in movimento la mia produzione”. È il 1910, nelle lettere inviate da Terracina alla futura moglie Maria Capobianco si legge quanto importante fosse diventata per Cambellotti la frequentazione dell’arcaico mondo contadino in cui, all’inizio del secolo, lo aveva introdotto l’amico Alessandro Marcucci, direttore delle Scuole dell’Agro Romano impegnato nel programma di alfabetizzazione delle arretrate popolazioni rurali locali. Un programma che, oltre a Marcucci, coinvolge anche altri illustri esponenti dell’ambiente socialista umanitario romano: Giovanni Cena e la compagna Sibilla Aleramo, Anna Fraentzel Celli con il marito, il malariologo Angelo Celli, anche Giacomo Balla condivide i loro ideali. Cambellotti, un convinto sostenitore della funzione educatrice dell’arte, si getta a capofitto nell’impresa, contribuendo a realizzare, nella zona compresa tra Cisterna di Latina e Terracina, una fitta rete di scuole ricavate in locali di fortuna concessi da privati, chiese rurali o capanne costruite ex novo da allievi e maestri. Per quelle scuole illustra i sillabari, realizza decorazioni e arredi, suoi persino i crocifissi da appendere alle pareti. Quando è nell’Agro, soggiorna a Terracina, la città che lo incanta per la bellezza delle sue marine con vista sul promontorio del Circeo e sulle Isole Pontine, per la fierezza della sua gente e la ricchezza di una storia millenaria che affonda le sue radici nel mito. Benché la sua arte finalizzata a raggiungere massivamente la parte migliore del pubblico, il popolo si esprima preferibilmente attraverso le arti applicate, la scenografia teatrale, la grafica pubblicitaria e l’illustrazione, la suggestione esercitata dall’ambiente di Terracina gli ispira una produzione particolare, quella delle visioni, il modo in cui chiama certe composizioni fantastiche “Nate per fissare sulla carta cose che non erano dinanzi ai miei occhi ma…sorgevano da dentro di me”. Attento osservatore della natura, Cambellotti riempie di annotazioni e schizzi dal vivo i taccuini che porta sempre con sé. Giunto a casa, quelle idee raccolte en plein air germogliano in narrazioni visionarie che attingono al suo profondo interesse per la mitologia greco-romana. L’allestimento della sala che introduce il visitatore alla mostra si sviluppa proprio attorno a una di quelle visioni, per la precisione la prima di una famosa serie di quattro grandi tempere acquarellate su carta a sviluppo orizzontale, le Allegorie del Circello, esposte nel 1922 alla mostra degli Amatori e Cultori. L’essenziale, elegante composizione eseguita a monocromo mostra il promontorio del Circeo trasformato in una nave dalla prua equina pronta a salpare, mentre, sullo sfondo, le Isole Pontine, assumono le fattezze di chimere dalla testa leonina. Il lavoro per il teatro classico Un artista che produce arte programmaticamente diretta al popolo per promuoverne l’educazione e migliorarne le condizioni di vita non può che apprezzare le opportunità di diffusione dei propri principi offerti dal mezzo teatrale. Esteso ed entusiasta fu infatti l’impegno di Cambellotti nel campo della scenografia e, più in generale, dell’allestimento di spettacoli all’aperto tratti dal repertorio della drammaturgia classica. Una sezione della mostra è interamente dedicata a documentare il contributo offerto dall’artista alla realizzazione di indimenticabili rappresentazioni presso il Teatro greco di Siracusa, il Teatro antico di Taormina e quello di Ostia antica. Nei modellini e nei bozzetti scenografici si evidenzia la sua moderna propensione alla riduzione degli elementi scenici. Cambellotti fa muovere gli attori entro ambienti dalle geometrie essenziali in cui un sapiente uso del colore svolge la funzione di evocare i principi etici sottesi al dramma. La scultura. Anche per motivi economici, Cambellotti produce soprattutto sculture di piccole dimensioni, grandiose, però, nella potenza dell’invenzione iconografica. Ai visitatori della mostra è riservata la sorpresa di una ricostruzione del prototipo dei famosi vasi cambellottiani con gli animali, il Vaso dei cavalli del 1903, semidistrutto nell’incendio della Sezione Arti Decorative dell’Esposizione Internazionale di Milano del 1906. Dalle macerie fumanti Cambellotti trasse due cavallini di bronzo, quel che restava del manufatto. Nell’occasione della mostra, i cavalli superstiti sono stati montati su un vaso di gesso della stessa forma di quello originario, in modo da rivelare la deliziosa idea compositiva dei due animali che sporgono il muso oltre l’orlo del recipiente nell’atto di abbeverarsi. La Cibele del 1910, arcaica dea della fecondità calata nei panni di una stilizzata contadina dell’Agro, è una delle più felici invenzioni di un artista capace di traghettare il mito nella dimensione del quotidiano. Sono anche esposte due versioni di Buttero a cavallo, quella realizzata tra il 1918 e il 1919 e il Magister Equitum del 1924. Monumento equestre più volte e in varie dimensioni realizzato nel corso della sua carriera, il buttero è la risposta antiretorica alle celebrative sculture di eroi a cavallo che popolano le piazze dell’Italia post risorgimentale. Nel progredire degli anni, Cambellotti avvia su questa sua originale tipologia scultorea un processo di semplificazione formale in cui il profondo legame tra cavallo e cavaliere viene sottolineato modellando il gruppo come un’unica creatura, un centauro della Campagna Romana. Dal Simbolismo alle Arti Applicate. Nell’ambiente un tempo occupato dalla sagrestia della chiesa di San Domenico è stata infine ricavata una sorta di Wunderkammer che rende conto della molteplicità di interessi di Duilio Cambellotti. Il suo talento di designer di mobili di minimale eleganza in cui l’apparato decorativo è sacrificato a favore di una approfondita ricerca sulla struttura è testimoniato dal Tavolo dei timoni, modernissima creazione del 1912 in cui il sostegno che regge un semplice piano rotondo è costituito da tre timoni per barca. Tante le ceramiche e le terrecotte che traggono ispirazione da motivi naturalistici: il vaso con il serpente e quello con i porcellini lattonzoli, il vasellame dipinto con motivi di falchi, leopardi e cavalli, un repertorio zoologico completato dai corvi di palude che occupano lo spazio di una vetrata degli anni ’30. In memoria del suo impegno di costruttore di scuole per l’alfabetizzazione delle popolazioni contadine stanziate a sud della capitale, si espongono i suoi abbecedari illustrati e la grande raffigurazione di un olivo multicolore che decorava l’interno di un’aula affacciata su un cortile dominato da un olivo vero, in un gioco di corrispondenze tra arte e natura che è tipico del suo modo di progettare gli ambienti destinati alla vita dell’uomo. Di grande raffinatezza la serie dei bozzetti esecutivi di manifesti pubblicitari, un genere che sente congeniale alla sua vocazione di divulgatore dell’arte: “Preferivo sempre il cartellone al quadro perché diretto al popolo E da questo fu facile passare ad una forma più atta alla diffusione perché moltiplicabile: la silografia”. E infatti nella camera delle meraviglie cambellottiana compaiono alcune bellissime illustrazioni. Chiude la mostra una serie di xilografie del ’47 di eccezionale qualità esposte, accanto alle loro matrici in legno, in un ambiente in cui è ricostruito lo studio dell’artista. I Monumenti ai caduti della Prima e Seconda Guerra Mondiale Appendice ideale del percorso espositivo della mostra è la visita al Monumento ai caduti della I Guerra Mondiale in piazza Garibaldi e al Monumento ai caduti della II Guerra Mondiale in piazza IV Novembre (Borgo Hermada). Commissionati a Cambellotti dal Comune di Terracina all’indomani dei due conflitti mondiali. La mostra sarà ospitata a Terracina presso l' Ex Chiesa di San Domenico Via San Domenico, 15, fino al 30 settembre tutti i giorni dalle 17 alle 24 e dal 1 al 20 novembre dal lunedì al venerdì dalle 16 alle 19 il sabato e la domenica anche dalle 10 alle 13 Info: +39 06 6789949 - +39 345 0825223 [email protected] Read the full article
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Ipocrisia politica e finanziamenti di Soros: il bluff del femminismo liberal
Roma, 6 feb – “Al lupo al lupo” gridava il giovane pastore di Esopo. Così allo stesso modo, la rediviva distorsione del movimento femminista starnazza su presunte molestie impossibili da verificare – perché spesso commesse nel secolo scorso – additando il “maschio bianco” nella quasi totalità dei casi. Le conseguenze di questa ondata di denunce mediatiche avrà il solo effetto di banalizzare una questione assai delicata e complessa: la vera violenza sulle donne, che ogni giorno, spesso nel completo anonimato, subiscono abusi di ogni genere perpetrati da codardi senza attributi di ogni etnia (razza non è politicamente corretto) e colore. E poi chissenefrega che in molti paesi islamici, dove la sharia è il fondamento su cui si basa la giurisprudenza nazionale, le donne non godano di nessun diritto umano e civile, e siano alle mercé dell’uomo padre e padrone.
Una famosa femminista – la paladina della vocale A come fonte di emancipazione femminile – dal suo scranno istituzionale sentenziò: “I migranti sono l’avanguardia, portano uno stile di vita che presto sarà uno stile di vita molto diffuso per tutti noi”. Speriamo che non intendesse con la sua dichiarazione lo stile di vita islamista, proprio di molti uomini sbarcati sulle coste italiane. Da qualche mese, le streghe femministe sono tornate con i loro calderoni dove cucinare uomini che poco prima idolatravano: Harvey Weinstein è il loro primo famoso sacrificio alla dea coerenza.
Harvey Weinstein, potentissimo produttore cinematografico e fondatore della Miramax, nonché acclamato eroe della Hollywood patinata tutta paillettes e glitter, per anni è stato sostenitore finanziario dei democratici, della campagna elettorale di Hillary Clinton e dei salotti buoni liberali americani. Non sembra infatti una coincidenza che le denunce sulle presunte molestie sessuali siano arrivate proprio a pochi mesi di distanza dalla caduta della Clinton e la conseguente fine delle protezioni connesse. Il produttore è stato scaricato da tutte le sue importanti sostenitrici che fino al giorno prima posavano con lui sorridenti, da Oprah Winfrey a Meryl Streep, passando per le attrici da cui sono piovute le denunce. Il tribunale delle femministe aveva sentenziato senza possibilità di appello: Weinstein era un molestatore seriale e andava mandato al confino.
Dalla vicenda, sono nate diverse campagne e diversi movimenti, coscienze femminili improvvisamente svegliatesi da un torpore che durava da almeno 50 anni. L’hashtag #MeToo è stato lanciato da un tweet di Alyssa Milano, famosa per il suo ruolo nella serie TV “Streghe”, nell’ottobre scorso.
Ma non si deve alla Milano la paternità dello slogan: nel 2006 l’attivista newyorkese Tarana Burke, in seguito alle confidenze di una ragazza di 13 anni che aveva subito abusi sessuali, ha lanciato il Me Too Movement[1] per supportare le donne che denunciavano le violenze[2]. Ma chi è Tarana Burke? Il Time Magazine nel 2017 la nomina “Person of the Year” per il suo ruolo nel gruppo di femministe “the silence breakers” oltre ad essere un’accanita oppositrice del Presidente Donald Trump; a Business Insider[3] ha dichiarato: “Un sacco di persone hanno iniziato il nuovo anno (il 2017) con un forte senso di disperazione, perché avevamo un Presidente eletto (Trump) che è stato un predatore sessuale.(…) Come donna, come cittadina americana, è scoraggiante sapere che la persona che è il leader del tuo paese pensa e opera così. E siamo passati dalla Marcia delle Donne(21 gennaio 2017), al movimento #MeToo, e altri eventi nel mezzo. In un certo senso, penso che questo abbia incoraggiato le donne e ci abbia dato il potere di intensificare e amplificare ancor più le nostre proteste”. La Burke coordina le campagne femministe grazie all’organizzazione di cui è direttrice, la Girls for Gender Equity, fondata da Joanne Ninive Smith grazie al supporto finanziario di Open Society Foundations di George Soros[4].
Quindi c’è il magnate ungherese dietro alle proteste femministe dell’ultimo anno, scaricando e seppellendo opportunamente il decaduto amico democratico Weinstein, dal #MeToo alla Marcia delle Donne contro l’elezione del Presidente Trump; infatti come riportato da Roberto Vivaldelli per Gli Occhi della Guerra[5] “più di 50 associazioni che hanno organizzato e aderito alla Women’s March sono finanziate dall’Open Society Foundations di George Soros”, ad affermarlo è una fonte non certamente complottista, la giornalista Asra Q. Nomani sul New York Times, musulmana, femminista e nota attivista dei movimenti liberali nell’Islam.
Contestualmente al movimento #MeToo, 300 signore del cinema hollywoodiano e del bel mondo americano, durante la cerimonia dei Golden Globe, hanno lanciato a livello internazionale il movimento Time’s Up – il tempo è scaduto, ora è tempo di cambiare e dobbiamo agire ora – per aiutare donne meno privilegiate di loro a proteggersi dalle molestie e dai contraccolpi di una denuncia. Lo scopo del movimento è quello di costituire un fondo che aiuti legalmente le vittime delle violenze e delle molestie sessuali; questo sarà amministrato dal National Women’s Law Center, un’organizzazione legale americana per i diritti delle donne. Il gruppi di lavoro di Time’s Up sono invece guidati da Anita Hill, professoressa di diritto e divenuta famosa quando accusò di molestie sessuali il giudice Clarence Thomas prima della sua nomina alla Corte Suprema, da Gloria Allred, avvocato che sta raccogliendo fondi per finanziare l’azione legale di una donna, Summer Zervos, che accusa il presidente Donald Trump di molestie, e da Christina Tchen, ex capo dello staff di Michelle Obama. Allo stesso tempo, il gruppo American Bridge 21st Century Foundation sta istituendo un fondo per far incriminare altri politici repubblicani[6].
Torniamo all’organizzazione che gestirà il fondo di Time’s Up: la National Women’s Law Center “sostiene politiche e leggi che aiutano le donne e le ragazze a raggiungere il loro potenziale in ogni fase della loro vita” ed è finanziata dalla Open Society Foundations di Soros[7] oltre a sviluppare progetti con la Girls for Gender Equity della Burke[8].
Le organizzazioni femministe americane, le loro campagne contro le molestie sessuali e le loro leader sembrano più una grossa lobby sorosiana contro il Presidente Trump che movimenti in difesa della donne. Questa teoria, che i benpensanti potrebbero tacciare di complottismo (loro preferiscono preoccuparsi solo di ingerenze russe mai provate), è comprovata anche dal docu-film “16 Women or Donald Trump”[9] che riporta le testimonianze di 16 donne che accusano il Presidente americano di molestie sessuali (ovviamente senza alcune prova); il documentario è prodotto dalla Brave New Films[10], finanziata proprio dalla fondazione di George Soros.
Ovviamente anche i salotti buoni italiani non potevano esimersi dal scendere in campo contro le molestie sessuali: Dissenso Comune, collettivo formato da 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo, che con una lettera manifesto pubblicata su La Repubblica[11] esprime la propria solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate e querelate, appoggiando e sostenendo quante in futuro sceglieranno di raccontare la loro esperienza. Le 124 sottoscrittrici della lettera si dicono “unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini”.
L’improvviso risveglio delle coscienze delle attrici italiane è arrivato quasi in risposta alla lettera firmata da cento donne in Francia, tra cui l’attrice Catherine Deneuve, pubblicata da Le Monde[12] il 9 gennaio scorso che contiene un appello per rigettare “un tipo di femminismo che esprime odio verso gli uomini” affermando che “lo stupro è un crimine, ma le avances insistenti o goffe non lo sono, né la galanteria è un’aggressione maschilista”. Le donne francesi dichiarano anche che “questa febbre d’inviare i ‘porci’ al mattatoio, non aiuta le donne ma serve in realtà gli interessi dei nemici della libertà sessuale, gli estremisti religiosi e i peggiori reazionari” e rischia di “incatenare le donne al loro status di eterne vittime”.
L’ispiratrice della lettera a Le Monde è il critico d’arte Catherine Millet, in seguito alla censura fatta da Facebook riguardo ad una foto postata da un professore parigino che ritraeva il celebre quadro del pube di donna di Gustave Courbet. Secondo la Millet, questa vicenda è un esempio dell’imperante “puritanesimo protestante” esondato dall’America nella vecchia Europa, movimento iniziato per fare un repulisti a Hollywood ma poi estesosi nel mondo dell’arte. “Le fotografie di Chuck Close bandite dalla National Gallery di Washington, i nudi diafani di Egon Schiele oscurati nella metro di Londra, il finale della Carmen rivisitato in chiave femminista, i direttori d’orchestra che hanno perso il lavoro e persino il nome (il caso Dutoit alla radio pubblica canadese), Belle de Jour di Buñuel bollato come violenza sulle donne, una mostra di Gauguin a Londra che sulla Bbc è stigmatizzata come apologia della pedofilia. Pare un delirio senza fine” afferma Catherine Millet, e sul movimento #MeToo dichiara che è un “femminismo castrante, questo puritanesimo è tanto più pericoloso perché proviene da circoli che si considerano ‘di sinistra’, cioè progressisti”[13].
A proposito di cultura, ricordiamo anche la rimozione di Ila e le Ninfe di J.W. Waterhouse dalla Galleria dell’Arte di Manchester[14]. Clare Gannaway, la curatrice di arte contemporanea della galleria, ha affermato che l’obiettivo della rimozione è stato quello di stimolare una discussione sul #Metoo.
Questo tipo di censura artistica ricorda, anche se per idiozia ideologica differente, la scelta, sottolineiamo senza nessuna richiesta specifica e ufficiale, di coprire con ampi pannelli bianchi le statue di marmo raffiguranti corpi nudi ai Musei Capitolini durante la conferenza stampa, avvenuta nel gennaio del 2016, del presidente dell’Iran, Hassan Rouhani con l’allora premier italiano Matteo Renzi[15].
Il neo femminismo liberal, che negli ultimi anni sta proponendo un’idea di donna anni luce lontano dalla realtà quotidiana femminile, forse plebea e distante dalle esponenti del cinema e della politica, fonda le proprie battaglie su alcuni punti chiave: demonizzazione del “maschio bianco” ritenuto incapace di provare empatia, crocifissione pubblica di uomini noti senza nessuna prova a supporto nella maggioranza dei casi, censura delle opere d’arte e della cultura in genere portatrici di messaggi ritenuti maschilisti, sostegno del velo islamico come libera scelta e della maternità surrogata, e in Italia la riscrittura del vocabolario e le manifestazioni di piazza solo quando i colpevoli di turpi delitti contro le donne sono connazionali.
Quindi si può dire che il femminismo 2.0, più che richiedere pari diritti per le donne di tutto il mondo come il movimento originale, sembra che abbia come obiettivo la svalorizzazione dell’uomo e una sua netta intimidazione nei confronti delle donne, una vera “castrazione” morale per riprendere la Millet.
Ed è paradossale che proprio Claudia Torrisi, giornalista e collaboratrice di Open Society Foundations, su 50.50 gender sexuality and social justice (rubrica femminista dalla stessa curata) di Open Democracy si scagli contro Carlotta Chiaraluce e la presenza femminile all’interno di CasaPound; la morale della lunga dissertazione della Torrisi, supportata da un’antropologa e una docente universitaria, è che le donne sono solo uno strumento delicato e glamour per sdoganare mediaticamente il partito.
È chiaro e lampante il pensiero femminista di ispirazione sorosiana: le donne vanno sostenute e valorizzate solo quando sono favorevoli alla loro causa, altrimenti sono marionette senza cervello. Con buona pace della solidarietà femminile.
Francesca Totolo
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Cartoomics 2019 nuova frontiera
Andreas Hennen è uno scrittore, grafico e creativo, laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano.
Da anni segue con crescente interesse il panorama del genere Fantasy trovandolo: “Una forma di chiara espressione artistica, la libera porta per far dono della propria preziosa fantasia a chi sia disposto a leggere e comprendere.”
Grazie alla TRONDHEIM SAGEN questo bardo dei nostri tempi ci conduce in un mondo articolato composto dall’intreccio di svariate storie, caratterizzate da una narrazione incalzante e personaggi dal sapore ormai perduto nelle pieghe del tempo.
Unendo la conoscenza derivante da anni d’interessamento al settore storico militare e le splendide immagini evocative concesse dalla scrittura, ha creato un mondo di proporzioni vastissime, ricolmandolo d’ogni creatura immaginaria, ove le forze in gioco prevaricheranno l’umana comprensione. La forza evocativa del suo stile scrittorio, particolarmente adatto al genere Fantasy Epico, concede una visione dettagliata delle vicissitudini narrate, scaraventando il lettore nel pieno della battaglia.
Volume primo “Tumulto della terra”
Nel beato torpore, indotto dall’ozio e dalle ricchezze di un lungo periodo di fittizia pace, l’Imperatore viene ragguagliato dal Signore del Nord riguardo ad anomalie nelle nemiche azioni. Travolgenti peripezie attanaglieranno più volte i reali e le loro esigue scorte durante il viaggio alla ricerca delle risposte, nell’esile tentativo di bloccare gli ingranaggi della guerra ormai in moto.
Amori travolgenti ed inaspettati sbocceranno, mentre le fila dei guerrieri si ingrosseranno, incontrando lungo la via altri valorosi uomini non disposti ad essere solo spettatori nella propria vita. Re Holaf condurrà i suoi compagni, dal primo grido di incoraggiamento, attraverso la tensione ed il terrore antecedente l’urto degli schieramenti nemici. Tra l’efferatezza delle molteplici battaglie giungeranno fino al silenzioso epilogo circondati da cadaveri distesi sui prati a far da pasto per cani e volatili.
Volume secondo “Marea verde”
L’Impero degli Uomini Uniti a tuttora giace squassato dal turbinio degli eventi e, nonostante l’adoperarsi dei Signori dei Regni Cardinali, tutto appare più torvo di quanto mai non sia stato. Il verdetto della predizione espresso dalle Sacre Rune ha indicato una traccia, senza veramente nulla svelare. Ancora celato agli umani occhi, il male muove le proprie pedine, non divulgando la sua vera forza o il reale fine ultimo dell’ordire empio.
I Re si vedranno costretti ad ammettere quanto in realtà siano scarse ed effimere le possibilità di giungere dove serve per opporsi alla guerra, le cui ossute dita protendono le corvine ombre di dolore ove in maggior numero ne riempiranno i pugni. Le fiamme dei cadaveri accarezzeranno il cielo, mentre le città tremeranno sotto l’urto del nemico, nel protrarsi della più grande battaglia a memoria d’uomo.
Volume terzo “Sangue del Nord”
Nonostante l’estremo immolarsi dei guerrieri per erigere barriera, le cortine sono venute meno, consentendo alla Dea Morte di calcare al galoppo del suo oscuro destriero le lande dell’Impero tutto. I Re dei Re, avvedendosi di esser stati inconsce pedine in una sconfinata partita a scacchi, si troveranno travolti entro un inarrestabile turbine di accadimenti, tra i cui fini inganni e sotterfugi navigheranno ciechi.
Tra lande deserte e perigli senza fine il passo si sospingerà, coltivando vacua speme d’aver ancora sabbia nella vitale clessidra, mentre il male stesso abbandonerà il suo fosco cunicolo ove fin lì si era celato per riversare tra gli ignavi la malevolenza iconoclasta delle proprie orde. I pilastri della terra si scuoteranno fino a sgretolare le montagne e l’umana arroganza d’esser tracotanti Dei, poiché simile natura non è concessa loro.
Presso lo stand 201 nell’area Autori Fantasy saranno disponibili tutti e tre i tomi dalle TRONDHEIM SAGEN.
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Ricordi (Fred Weasley x Lettore)
A/n: (T/c)= tuo cognome. Scusa tantissimo se ci ho messo secoli a scrivere questo, ma non riuscivo a renderlo come volevo. Fammi sapere se ti è piaciuto, ci tengo tanto! 💗💗
Avvertimenti: nessuno
Richiesta: sì. Ciao,posso chiederti un favore?potresti fare una storia Fred Weasley× lettore,te ne sarei grata 💗
Parole: 1373
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-(T/n) non c’è nulla di cui preoccuparsi. Guardati, sei stupenda.- disse Ginny mentre le sistemava i capelli.
(T/n) era terrorizzata ed estatica al tempo stesso. Le mani le tremavano e sentiva un intero zoo danzarle nello stomaco. Non poteva credere che stava per sposarsi. Con Fred Weasley, l’ultima persona sulla terra che pensava potesse rubarle il cuore.
“Le tue labbra sono talmente belle che dovrebbero stare al Louvre”. (T/n) arrossì e nascose il pezzo di carta sotto il libro di pozioni. Da qualche giorno aveva iniziato a trovare dei foglietti, scritti in una grafia a dir poco illeggibile, ovunque: nei libri, nella sua borsa, nel budino perfino! Era il terzo biglietto del genere che riceveva quella settimana. Come i precedenti era firmato “il tuo ammiratore segreto”, il che la faceva impazzire. Aveva tentato di tutto pur di scoprire da chi venissero quei messaggi tanto snervanti, ma non era riuscita a cavare un ragno dal buco.
-Signorina (T/c), ha deciso che il soffitto della classe è più interessante della lezione?- la voce monotona e tagliente di Piton la strappò dai suoi pensieri e (T/n) si ritrovò ad arrossire incontrollabilmente. –Cinque punti in meno a Corvonero. Magari adesso si deciderà a prestare attenzione.
(T/n) gridò frustrata tra sé e sé. Non solo stava permettendo a questo seccante “ammiratore” di distrarla, ma anche di far perdere punti alla sua casa. Se avesse scoperto di chi si trattava gliene avrebbe dette quattro.
(T/n) era in biblioteca a leggere dopo aver studiato tutto il pomeriggio, trattenendo le lacrime a stento. Era stata una lunga giornata, ma almeno lì si sentiva al sicuro. Dal suo ammiratore, dal resto della scuola, da tutti.
Da piccola era sempre stata una bambina vivace e allegra, sempre orgogliosa di quante capitali del mondo ricordasse o di quanti sinonimi di “promiscuo” conoscesse. Poi, crescendo, aveva scoperto che alla gente la sua intelligenza dava fastidio e si era chiusa in se stessa. Alla gente non importava quanti libri di Dickens aveva letto e quanti aveva effettivamente apprezzato, no. La bellezza importava più di tutto. Ma (T/n) non era tagliata per quel genere di cose, così aveva deciso che, tutto sommato, stare da sola non sarebbe stato così terribile.
Si era sbagliata enormemente. Non avere amici con cui parlare, con cui sfogarsi, la uccideva dentro. Era sola, e per sua scelta. Voleva terribilmente tornare ad essere quella di una volta, più di ogni altra cosa, ma sapeva di non potercela fare.
Un foglietto entrò svolazzando nella biblioteca e si posò sul libro che (T/n) stava leggendo, risvegliandola dal torpore dei suoi pensieri.
“Sei così bella quando leggi che mi fai venir voglia di trasformarmi in un libro” firmato FW. Il suo cuore mancò un battito. Sì, in un primo momento aveva trovato quei messaggi snervanti, ma lì, con le lacrime che minacciavano di cadere, si sentì lusingata e anche un po’ grata nei confronti di FW, chiunque fosse. Almeno c’era qualcuno a cui importava di lei.
-Sei quasi pronta, devo solo sistemarti il velo.- disse Ginny, strappando (T/n) dai suoi ricordi. La ragazza sorrise riconoscente all’amica. (T/n) si guardò allo specchio. L’abito bianco le abbracciava le curve perfettamente. I fiori bianchi che aveva tra i capelli le illuminavano il viso. Si sentiva bella, eterea come un ninfa, come una dea.
Era cambiata così tanto dai suoi anni ad Hogwarts che quasi non si riconosceva più. Si sentiva più forte, più importante, più bella. E tutto grazie all’esuberante, vivace, meraviglioso Fred Weasley.
Quando (T/n) aveva scoperto l’identità del suo ammiratore era rimasta scioccata. Non si sarebbe mai aspettata che potesse trattarsi di Fred Weasley, il ragazzo più popolare, insieme al gemello George, di tutta Hogwarts. Era anche spaventata. Terrorizzata. Non era nemmeno minimamente alla sua altezza. Eppure lui non sembrava pensarla allo stesso modo e aveva insistito incessantemente per avere un appuntamento con lei e (T/n), sebbene riluttante, aveva acconsentito, un po’ per farlo smettere di infastidirla, un po’ perché lui forse le piaceva.
L’aveva portata al campo di Quidditch e l’aveva fatta salire sulla sua scopa.
-Ti conviene tenerti- disse Fred sporgendosi da sopra la spalla. (T/n) si perse nei suoi occhi. Da quella distanza poteva vedere esattamente dove il verde si mescolava con il marrone, poteva contare le lentiggini che gli spruzzavano il naso e poteva sentire il suo profumo, insieme a quello di erba appena tagliata, invaderle le narici. Le sorrideva, anche se quasi impercettibilmente, come non aveva mai sorriso a nessuno. (T/n) avvolse le braccia intorno al torso del ragazzo e si strinse ancora di più a lui quando si diede la spinta per volare. Anche se sperava che non si capisse, le piaceva stargli vicino. La faceva sentire più coraggiosa, più audace. Voleva restare lì all’infinito, con Fred vicino, il castello sotto di sé e il vento impetuoso tra i capelli. In quel momento tutti i suoi problemi parvero sparire, troppo piccoli per essere notati da quell’altezza.
Prima che se ne accorgesse erano già atterrati e Fred la stava guardando negli occhi, i capelli rossi completamente scompigliati dal vento indomabile e uno sguardo ribelle. (T/n) lo trovava bellissimo.
-Allora?- disse alzando un sopracciglio e scendendo dalla scopa.
(T/n) non rispose, alla ricerca di parole adatte per descrivere come si era sentita. Ma i suoi pensieri furono interrotti da un paio di labbra morbide sulle sue. Il bacio sapeva di tramonto e di erba appena tagliata, di vento e di abbracci.
-Non vedo l’ora di rifarlo- mormorò (T/n) con un vero sorriso sulle labbra per la prima volta in molto tempo, prima di baciare nuovamente Fred.
I metri che separavano l’ingresso della chiesa all’altare non le erano mai sembrati così tanti. Ma alla fine del lungo corridoio c’era lui ad aspettarla e (T/n) sapeva che per Fred avrebbe fatto qualsiasi cosa, affrontato qualsiasi sfida, rinunciato alla sua stessa vita. Nel momento in cui i loro sguardi s’incrociarono e il sorriso commosso di Fred si allargò ancora di più, entrambi seppero di star ripensando allo stesso preciso momento.
Il mondo magico non era più lo stesso. I negozi chiudevano presto, le persone non si fermavano più per strada, la voglia di ridere e di gioire sembrava essere sparita nel nulla, sostituita dal terrore. Il tipo che ti faceva mangiare le unghie fino alla carne, che non ti faceva dormire né mangiare, che ti faceva temere persino la tua stessa ombra. La guerra era vicina.
(T/n) fissava fuori dalla finestra in una sorta di trance, tendando di trovare un motivo per mantenere la gioia viva dentro di sé. Sentì qualcuno avvicinarsi e, battendo gli occhi, si girò. Senza una parola Fred le mise un braccio intorno alle spalle e la strinse a sé.
-So a cosa stai pensando- mormorò contro la testa della ragazza. (T/n) sospirò.
-Tutto è cambiato così in fretta, senza che potessimo farci nulla.
-Lo so.
(T/n) alzò lo sguardo verso il fidanzato. Non poteva che pensare a come doveva sentirsi Harry. Aveva il peso dell’intero mondo sulle spalle e aveva appena diciassette anni. E nello sguardo di Fred vide la sua stessa tormentata preoccupazione.
-(T/n)…- cominciò il ragazzo con voce incerta.
-Fred- lo imitò lei, cercando di strappargli un sorriso. –Fred- ripeté, addolcendo il tono.
-So che… forse questo non è il momento più adatto, ma non posso più aspettare.- disse e s’inginocchiò davanti a lei. (T/n) trattenne il fiato e sentì le lacrime pizzicarle gli occhi.
-Dopo che tutto questo sarà finito, quando la guerra non sarà più una minaccia, mi vorrai sposare?- chiese tirando fuori un anello piuttosto semplice, ma bellissimo.
(T/n) era senza parole.
-Sì. Sì, certo che ti vorrò sposare, Fred.- disse piangendo e ridendo allo stesso tempo. Il ragazzo le fece scivolare l’anello al dito e le baciò la mano prima di alzarsi e abbracciarla. (T/n) sentì le ossa sciogliersi a contatto con il corpo di Fred, caldo, familiare, rassicurante. Era così che voleva sentirsi per tutta la vita.
-(T/n) (T/c), vuoi tu prendere in sposo il qui presente Fred Weasley?
Gli sguardi dei due giovani s’incollarono l’uno all’altro, attratti come due calamite. Si parlarono, durante quei pochi secondi. Si raccontarono il loro amore solo con la dolcezza nei loro occhi. (T/n) strinse la mano del quasi-marito per un attimo, prima di rispondere.
-Sì, lo voglio.
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Moments before going into Torpor
Kain,, is bieng a ma,s,,i;ve dic kan;;d lockde me in the; tower..;;. ,,My b,,rotheer is Missing, a..nd my kinGdom i s .dea,, dI ;;am just,- I can,,'t even. Oh ym god;...
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part 2!: torpor
A swashbuckling and intrigue filled fantastical history, inspired by ye olde Romanticism. dea, a blind bard is drawn into plots and adventures when her bf turns out to be the lost heir to the traditional fennic ruling family. he runs away bc he doesnt want to become fennlord, and she follows to try and change his mind and stop denying his family history, as she feels it is for the good of their people. to prove a point to him, she starts trying to discovery more ab her lost family with the help of her meanwhile employer, Mme Amalasuintha, Cressidy of Dinesen. However, dea's past is equally shrouded in mystery, and may prove even more troublesome…
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“Non abbiate timore dell’assurdo; non indietreggiate dinanzi al fantastico”. Sia lode a Karen Blixen e alle sue mille maschere
Sarebbero morte, entrambe, tre anni dopo. Lei, l’attrice, per scelta. L’altra era più vecchia di quarant’anni – la prima aveva sedotto Hollywood, e da quella luce era stata sconfitta; l’altra, capitata lì da un mondo tanto lontano da sembrare perduto, aveva conquistato l’Africa, l’aveva lasciata e una nostalgia, luminosa come l’assalto, continuava a tormentarla. L’incontro del 5 febbraio 1959 era stato organizzato da Carson McCullers, la grande scrittrice de Il cuore è un cacciatore solitario. La baronessa von Blixen-Finecke pasteggiava con ostriche, uva e champagne. Fu accontentata. Secondo la leggenda – sconfitta dalle ciniche testimonianze di Henry Miller – Marilyn Monroe si mise a ballare con la Blixen, “sul tavolo della sala da pranzo, con ripiano in marmo”. In ogni caso, la McCullers amava ricordare questo episodio che, forse, le dava vento ai capelli, la rendeva felice. Naturalmente, l’evento accadde in favore di fotografi, i giornali scandinavi partorirono spumeggianti copertine – “Karen Blixen incontra Marilyn Monroe, icona sexy”. In una fotografia, la McCullers fissa il vuoto, sconfitta, mentre la Blixen mostra, frizzante, un dattiloscritto alla Monroe, che ha il consueto sorriso lunare. Di fianco a Marilyn, il corpo assoluto, carne che scintilla, la Blixen appare minima, magrissima, eppure inequivocabile. Un verbo in pietra.
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Mario Praz, che l’aveva conosciuta a Roma, l’aveva descritta così: “Uno scheletro dagli stinchi fasciati di calze trasparenti, con occhi vuoti come succhielli, e un collo così scarso di carne da somigliare a uno dei teschi animati di Félicien Rops”. La Blixen si era mutata in feticcio, figura da temere.
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La Blixen fu nominata al Nobel per la letteratura con costanza, dal 1955 in poi. Il 1959 pareva l’anno adatto: le insondabili arpie svedesi le preferirono Salvatore Quasimodo. Tra i romanzieri del gineceo, la Blixen appariva incatalogabile, rétro, disimpegnata. Ignara dello sperimentalismo narrativo, scevra dai battibecchi intellettuali, amava narrare, riavviando una tradizione antica, che unisce le Mille e una notte ai canti serali, intorno alle mura di Troia, i racconti islandesi alle leggende dei cantastorie d’Africa. Troppo ‘virile’ per gli scrittori da rivista, Karen. Nel 1954, contattato dai giornalisti dopo l’annuncio dell’assegnazione del Nobel, Ernest Hemingway sorprese tutti. “Sarei stato felice – più felice – se questo premio, oggi, fosse andata a quel meraviglioso scrittore che risponde al nome di Isak Dinesen”. La Blixen aveva cominciato a pubblicare, nel 1934 – Sette storie gotiche – con lo pseudonimo, Isak Dinesen, appunto. Aveva perso tutto. Non le restò che inghiottire il nome. Nel viaggio americano avrebbe voluto incontrare Hemingway: non si incrociarono mai. Lei gli rispose con un telegramma: “Spesso ho immaginato che sarebbe stato bello condividere un safari, insieme, lungo le pianure dell’Africa”.
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Più che i libri – editi, in Italia, da Adelphi e Feltrinelli – della Blixen si conosce il tradimento cinematografico. Orson Welles gira, nel 1968, Storia immortale; nel 1982 Emidio Greco elabora Ehrengard; nel 1987, con Il pranzo di Babette, Gabriel Axel ottiene l’Oscar come miglior film straniero. Naturalmente, tutti conoscono La mia Africa (firma Sydney Pollack, 1985): la Blixen è interpretata da una straordinaria Meryl Streep, mentre l’amato Denys Finch-Hatton – aristocratico inglese, dandy cacciatore, playboy in quinta esotica – è Robert Redford. Il tutto – sei Oscar su dieci nomination – rischia di essere un melodramma coloniale, una indimenticabile cartolina, avulsa dal libro, che è ben altro. Eppure, la baronessa tra le fiere – s’intenda: gli umani in quella fetta di mondo – è immagine affascinante. La Blixen, per potenza ipnotica, potrebbe cavalcare i leoni. Uno dei capitoli più belli del libro – autobiografia africana per taccuini – è dedicato al legame tra Karen e la gazzella Lulu, cresciuta nella fattoria, poi libera. “Un tempo conoscevo una giovane principessa in esilio, che aspirava al trono; ora, quella stessa principessa, la ritrovavo nello splendore della regalità riacquistata… Ora era interamente se stessa. Ogni spirito aggressivo l’aveva abbandonata: chi avrebbe dovuto assalire e perché? si fondava tranquilla sui suoi diritti divini… Mi squadrò un attimo, gli occhi viola e fumanti, senza espressione. Non battè ciglio e ricordai che questo è un tratto degli dei e delle dee: avevo la sensazione di trovarmi davanti Hera, la dea dagli occhi bovini”.
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Sylvain Tesson, in La pantera delle nevi, parla con meraviglia de La mia Africa. Insegna, dice, come sia possibile continuare a stupirsi pur guardando, ogni giorno, lo stesso paesaggio. Lo splendore di quel libro è questo, in effetti: la Blixen – la Danimarca conficcata nell’occhio sinistro dell’Africa, Amleto sul trono di un baobab – ammira un mondo sorgivo, violento e violato, al di là della giustizia e dunque della corruzione, nel torpore dell’ultimo giorno. La mia Africa sembra – pure per genesi letteraria e intenti – il contrario di Cuore di tenebra: la Blixen tenta di tessere la luce, e il suo gergo oscuro. Ma l’Africa non si lascia conoscere né convincere, non ha un sapere da divulgare, come l’Oriente, ma respinge, oppure inghiotte. La natura del Buddha, qui, è la caccia e la danza; il rito è il sonno meridiano, la contemplazione della preda. “I kikuyu sono preparati all’imprevisto e abituati all’inaspettato. In questo sono diversi dai bianchi, che di solito cercano in tutti i modi di proteggersi dall’ignoto e dagli assalti del fato. L’indigeno, invece, considera il destino un amico, perché è nelle sue mani da sempre; per lui, in un certo senso, è la sua casa, l’oscurità familiare della capanna, il calco profondo delle sue radici. Egli affronta con grande calma ogni cambiamento”. Se sei un uomo in fuga, l’Africa ti azzanna, non offre rifugio; è per chi segue vaste avventure, disperde i nomi, non ha fretta né scopo, ha storie da narrare.
*
Karen Blixen, prima di perdere il nome per penetrare la giungla letteraria, perse tutto. Il padre, Wilhelm Dinesen, si era ucciso quando aveva dieci anni. Era un tipo della stirpe di Caino: dopo la morte di una amata, partì per gli Stati Uniti, visse due anni nel Wisconsin come cacciatore, tornò nell’avita Danimarca. Accasato, mise incinta la donna di servizio. Il tradimento e la depressione lo stroncarono. Innamorata di un cugino, che non ricambiava, Karen sposò il fratello gemello di lui, il barone Bror von Blixen-Finecke: insieme, nel 1914, si trasferirono in Kenya. “Non amava il marito, ammalato tra l’altro di sifilide, da cui fu contagiata, e il matrimonio durò pochi anni”. Si unì, per sporadici momenti di felicità, a Finch-Hatton, ma perse pure lui, in un incidente aereo, nel 1931. L’Africa le aveva dato molto, le aveva sottratto altrettanto, le fece capire che aveva un talento nel costruire storie: quello stesso anno tornò in Danimarca. Scrisse Racconti d’inverno, I vendicatori angelici, Ultimi racconti, Capricci del destino. “Non abbiate timore dell’assurdo; non indietreggiate dinanzi al fantastico. Di un dilemma scegliete la più inaudita, la più pericolosa delle soluzioni”, diceva. Non tornò mai più in Africa, perché è inutile vedere ciò che la scrittura ha sancito. Scrisse sotto la maschera di diversi nomi, a seconda dei paesi in cui pubblicava e dei generi che praticava: Tania Blixen, Osceola, Pierre Andrézel sono quelli più noti. Le piaceva camuffarsi da maschio. (d.b.)
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Veja em Artigo Jurídico
https://artigojuridico.com.br/2017/12/15/as-terminologias-do-narcotrafico/
As terminologias do narcotráfico
Por Breno Eduardo Campos Alves
Resumo: O presente artigo tem como escopo a investigação sobre as terminologias do narcotráfico, confluindo entendimentos de significantes e significados. As terminologias institucionais ligadas ao combate do Estado ao narcotráfico através de suas instituições policiais, bem como as terminologias jurídicas que embasam o primeiro viés, são os espeques que apoiam a presente investigação. Neste pé, se vislumbra percorrer de forma lógica, dentro do contexto de emprego, e dentro do contexto de uso, de palavras que influem diretamente no palco de eventos relacionados às instituições policiais, às leis que estipulam o combate ao narcotráfico, dando um balizamento norteador nesta confluência.
Palavras-chave: Lei de drogas; narcotráfico; investigação policial.
Abstract: This article has as scope the investigation on the terminologies of drug trafficking, converging understandings of signifiers and meanings. Institutional terminologies linked to the State’s fight against drug trafficking through its police institutions, as well as the juridical terminologies that underlie the first bias, are the factors that support the present investigation. In this context, it is envisaged to logically traverse, within the context of employment, and within the context of use, words that directly influence the stage of events related to police institutions, laws that stipulate the fight against drug trafficking, giving a guiding beacon at this confluence.
Keywords: Drug law; drug trafficking; police investigation.
Sumário: 1. Introdução. 2. As diversas terminologias institucionais do narcotráfico. 3. As diversas terminologias institucionais do narcotráfico. 4. Conclusão. 5. Referências.
1. Introdução
O narcotráfico e sua escusa atividade criminal se trata de um dos maiores problemas de segurança pública no Brasil, sendo o entrave para o sucesso de índices de pacificação social, elevando as estatísticas criminais de maneira a termos números comparados com países comumente beligerantes.
O Brasil elencou na Constituição Federal de 1988 as suas forças componentes do sistema de segurança pública, criando no âmbito federal, bem como nos Estados e no Distrito Federal, as forças policiais.
As instituições policiais judiciárias, aquelas apontadas para a investigação do narcotráfico, criaram em seu âmbito de atuação, unidades específicas, conhecidas como delegacias especializadas e departamentos especializados.
Neste pé, no primeiro capítulo abordaremos o viés das terminologias institucionais do narcotráfico.
Por outro lado, os regramentos estipulados pelas leis vigentes no nosso país também especificaram terminologias para designar as substâncias proibidas. O que vai de encontro ao segundo capítulo, o qual versa sobre as terminologias jurídicas do narcotráfico.
Por fim, o trabalho pretende criar um elemento norteador de pesquisas e entendimentos técnico-jurídicos do trabalho policial.
2. As diversas terminologias institucionais do narcotráfico
O enfrentamento mundial ao tráfico ilícito de drogas acabou por fornecer um vasto número de substantivos utilizados para designar substâncias e produtos que o Estado adotou como itens de proibição de negociações, transações, tradições, utilizações indiscriminadas, entre outras. Neste sentido, surgiram ao longo dos tempos uma gama de identificações como narcóticos, ópios, tóxicos, drogas, entorpecentes, alucinógenos, psicoativos, psicotrópicos, entre outros.
No Brasil, primeiro país do mundo em que foi editado uma lei para proibir a maconha, a primeira denominação foi de “pito de pango”, em uma lei criada pela Câmara Municipal do Rio de Janeiro no §7 da postura que regulamentava a venda de gêneros e remédios pelos boticários, conforme menção:
Diz o §7º do Título II:
É prohibida a venda e uso do pito de pango, bem como a conservação dele em casas públicas; os contraventores serão multados, a saber: o vendedor em 20$000, e os escravos e mais pessoas que dele usarem, em oito dias de prisão. (PREFEITURA DA CIDADE DO RIO DE JANEIRO, 2017)
“Pango” se referia a um cachimbo de barro comumente utilizado naquela época para se fumar a maconha, ou cânhamo, como também era designada à época, sendo um anagrama da palavra maconha. Boticários, por sua vez, tratavam-se da denominação do ofício que hodiernamente designamos como farmacêuticos. Observa-se, que no regramento a conduta de usar era mais gravemente punida do que a de vender, o usuário era preso, o vendedor ilegal (traficante) pagava multa.
O termo DROGAS aparentemente é proveniente do francês antigo, “drouge”, que veio do termo “droge-vate”, usado pelas línguas germânicas (“droog”, holandês antigo) das partes baixas da Europa, designando mercadorias secas como remédios, os quais consistiam na época, na maioria das vezes, em ervas desidratadas (secas). Neste diapasão, temos uma gama de produtos que designam substâncias que possam prevenir ou curar doenças, aumentar o bem-estar físico ou mental, designando agentes químicos que alteram os processos bioquímicos e fisiológicos de tecidos e organismos, tendo como proa a visão farmacológica.
Carneiro (2005) aduz que uma conceituação para a palavra droga, vejamos:
A palavra “droga” provavelmente deriva do termo holandês droog, que significa produtos secos e servia para designar, do século XVI ao XVIII, um conjunto de substâncias naturais utilizadas, sobretudo, na alimentação e na medicina. Mas o termo também foi usado na tinturaria ou como substância que poderia ser consumida por mero prazer. (p. 11)
A utilização do termo “drogas” isoladamente, conforme acima exposto, acaba não apresentando a sua função designativa da atividade de repressão estatal, vez que existe o comércio de drogas lícitas, ou de forma lícita, que podem ser manejadas (produção, estocagem, venda e aquisição) com autorização legal. Ademais, essa noção de ervas secas não traduz, em sua genealogia, às substancias sintéticas que atualmente também são objeto de proibição estatal.
O legislador brasileiro optou, quando da gênese da Lei 11343/06, conhecida como Lei de Drogas, pelo termo “drogas”, definindo-a como sendo as substâncias ou os produtos capazes de causar dependência.
Parágrafo único. Para fins desta Lei, consideram-se como drogas as substâncias ou os produtos capazes de causar dependência, assim especificados em lei ou relacionados em listas atualizadas periodicamente pelo Poder Executivo da União. (Lei 11343 de 2006)
Como exemplo comparado, temos nos Estados Unidos da América uma polícia federal específica para o combate ao macro tráfico ilícito de drogas, designada pela sigla DEA (Drug Enforcement Administration), que em tradução figura como Administração de Fiscalização de Drogas.
O termo TÓXICOS, nas lições de Genival Veloso de França, designa “um grupo muito grande de substâncias naturais, sintéticas ou semi-sintéticas que podem causar tolerância, dependência e crise de abstinência” (2007, p. 321). O termo “tóxicos” advém do latim “toxĭcum”, que advém, por sua vez, do grego “τοξικόν”, que significa “veneno”). Neste sentido é a qualidade que caracteriza o grau de dano de qualquer substância nociva para um organismo vivo ou para uma parte específica desse organismo (órgão), como um veneno ou uma toxina produzida por um agente microbiano. Por esta razão o termo é ligado em primeira testa, com pesticidas e venenos (defensivos) agrícolas.
O termo ENTORPECENTES se referem a substâncias que entorpecem. O verbo entorpecer significa o ato de produzir torpor em (alguém ou a si mesmo); estar ou ficar em estado de torpor; sendo que por sua vez, torpor designa o sentimento de mal-estar caracterizado pela diminuição da sensibilidade e do movimento; entorpecimento, estupor, insensibilidade. Acontece que algumas drogas não causam a diminuição da sensibilidade, pelo contrário, aumentam a sensibilidade, são estimulantes, como as anfetaminas.
SERGIO DE OLIVEIRA MÉDICI aduz que dependente é “aquele que está subordinado às substâncias entorpecentes, sujeito às drogas, sob o poder dos tóxicos”, entendendo-se por dependência “o estado de quem está sujeito, sob o domínio, subordinado aos entorpecentes” (1977, p. 36). Em que pese o significado do conceito ser latente, percebe-se um jogo de palavras, uma necessidade de incluir todas as substâncias.
O termo ÓPIO, apesar de ser tratado como sinônimo de droga, origina-se da substância extraída da “papoula do oriente” (Papaver somniferum), neste sentido infere-se na produção de tipos específicos de substancias, entre elas a morfina, a codeína, a heroína, e outras. Desta forma, a maconha, e.g., não é um ópio.
Ao se fazer cortes na cápsula da papoula, quando ainda verde, obtém-se um suco leitoso, o ópio (a palavra ópio em grego quer dizer “suco”). Quando seco, esse suco passa se chamar pó de ópio. Nele existem várias substâncias com grande atividade. A mais conhecida é a morfina, palavra que vem do deus da mitologia grega Morfeu, deus dos sonhos. (CEBRID, 2014, p. 25)
Assim, temos já a ideia de que a ação dos opiáceos no homem são de substâncias depressores do sistema nervoso central, diferentemente da cocaína, por exemplo, que é um estimulante.
O termo ALUCINÓGENOS designa substâncias capazes de produzir alucinações nos usuários, alterando sentidos, a percepção, a concentração, os pensamentos, e a comunicação, tendo como exemplo o LSD ou o ecstasy. Desta forma, não são todas as substâncias reguladas pelo Estado que são capazes de produzir alucinações, sendo que nos leva a um entendimento de que alucinógenos seria espécie e não gênero.
A palavra alucinação significa, em linguagem médica, percepção sem objeto; isto é, a pessoa em processo de alucinação percebe coisas em que elas existam. Assim, quando uma pessoa ouve sons imaginários ou vê objetos que não existem ela está tendo uma alucinação auditiva ou uma alucinação visual. (CEBRID, 2014, p. 49)
O termo PSICOTRÓPICO, também relacionado como drogas psicoativas, referem-se a substâncias que agem principalmente no sistema nervoso central. Em sua etimologia temos psico- (grego: alma; atividade mental) + -tropico (tornar; volta; ter atração por), resultando em ter atração pela atividade mental. Existe também uma classificação de psicotrópicos em estimulantes, depressores e alucinógenos, que acabam por designar alterações psicológicas.
No sentido acima, temos uma combinação denominada drogas psicotrópicas, que por sua vez se divide em três grupos. O primeiro identificado como drogas psicotrópicas depressoras da atividade do Sistema Nervoso Central, sendo aquelas capazes de diminuir a atividade de nosso cérebro, “deprimem seu funcionamento, o que significa dizer que a pessoa que faz uso desse tipo de droga fica ‘desligada’, ‘devagar’, desinteressada pelas coisas” (CEBRID, 2014, p. 7). O segundo identificado como drogas psicotrópicas estimulantes da atividade do Sistema Nervoso Central, sendo aquelas capazes de aumentar a atividade do nosso cérebro, “estimulam o funcionamento fazendo com que o usuário fique ‘ligado’, ‘elétrico’, sem sono” (CEBRID, 2014, p. 7). Por fim, o terceiro, identificado como drogas psicotrópicas perturbadoras da atividade do Sistema Nervoso Central, sendo aquelas ligadas não a quantidade de percepção, mas à qualidade, “o cérebro passa a funcionar fora de seu normal, e a pessoa fica com a mente perturbada” (CEBRID, 2014, p. 8).
O termo NARCÓTICOS (do grego νάρκωσις, significa estupefação ou torpor) refere-se a uma variedade de substâncias que induzem o adormecimento e reduzem ou eliminam a sensibilidade. Em termos medicinais, o termo designa apenas o ópio, os derivados do ópio e os seus substitutos sintéticos ou semi-sintéticos (opióides ou opiáceos), usados como anestésicos. O estado de narcose, por sua vez, é o estado de consciência (letargia) provocado pelo uso de narcóticos, sendo que narcótico seria uma substancia que causaria uma sonolência, um adormecimento.
Desta forma, a variedade de termos e designações acabam adentrando no linguajar do senso comum, produzindo um fenômeno de formação de signos que culmina em alterações de significados no modo prático, sobretudo pelas agências e unidades de polícia judiciária que detêm proa voltada para apuração de crimes desta estirpe.
Em Minas Gerais a Polícia Civil do Estado de Minas Gerais detém um Departamento Especializado, DENARC – Departamento Estadual de Combate ao Narcotráfico, o qual combate ao tráfico ilícito não apenas de narcóticos, mas de todas drogas estipuladas na Portaria n. 344, de 12 de maio de 1998, da Secretaria de Vigilância Sanitária do Ministério da Saúde. A Polícia Federal, por sua vez, detém a DRE – Divisão de Repressão a Entorpecentes, a qual por sua vez não combate apenas o tráfico de drogas que causam torpor, desestimulam (entorpecentes), mas sim, as drogas estipuladas na mesma Portaria descrita alhures.
A tendência nacional das Policias Civis é a utilização da nomenclatura DENARC, embora tenhamos outras siglas e denominações, vejamos: PARANÁ (DENARC – Divisão Estadual de Narcóticos); MATO GROSSO DO SUL (DENAR – Delegacia Especializada de Repressão ao Narcotráfico); DISTRITO FEDERAL (CORD – Coordenação de Repressão às Drogas); BAHIA (DTE – Delegacia de Tóxicos e Entorpecentes, ligado ao DENARC-BA); MARANHÃO (DENARC- Delegacia de Narcóticos); AMAZONAS ( DENARC – Departamento de Investigações sobre Narcóticos); GOIAS (DENARC – Delegacia Estadual de Repressão ao Narcotráfico); TOCANTINS (DENARC – Delegacia Especializada na Repressão a Narcóticos).
Conforme se vê, a tendência nacional das unidades de polícia judiciária que combatem o tráfico ilícito de drogas ilícitas é a denominação de combate ao narcotráfico, aderindo em sua repressão/ investigações, as variadas espécies de drogas estipuladas na Portaria n. 344 da Agência Nacional de Vigilância Sanitária.
Em 2014 a Secretaria Nacional de Segurança Pública –SENASP, vinculada ao Ministério da Justiça, elaborou um caderno temático baseado na terminologia POP – Procedimento Operacional Padrão. Um procedimento operacional padrão (POP) é uma espécie de estudo técnico que procura descrever requisitos e atividades necessários para alcance de um determinado resultado esperado, muito embora não seja de aplicação obrigatória, acaba por ser tornar um referencial aplicável a determinados contextos e operações da segurança pública como um todo.
No documento acima referenciado a SENASP adotou a terminologia “Drogas ilegais”, sendo que o referido caderno temático detém o título: “A Polícia Judiciária no enfrentamento às Drogas Ilegais”. (MINISTÉRIO DA JUSTIÇA, 2014)
Em que pese o termo “narcóticos” ter tido um crescente uso no Brasil pelas polícias judiciárias, no mundo todo a designação “drogas” é a mais comum nas instituições, como nos exemplos: na ONU o Escritório das Nações Unidas Sobre Drogas e Crime (UNODC); na Rússia o Serviço Federal para o Controle de Drogas; e, também, nos Estados Unidos da América com o Drug Enforcemente Administration – DEA.
Percebe-se uma separação de significantes, mas não de significados vez que temos, de forma mais costumeira, a designação de “drogas” quando falamos em políticas públicas, e de como o tráfico ilícito de drogas afeta o Estado; e temos, por outro lado, a determinação de “narcóticos” quando apontamos a repressão policialesca do Estado. Como outro exemplo temos o Chile, país sul-americano, onde existe a Jefatura Nacional Antinarcóticos y Contra el Crimen Organizado, tal seja, Sede Nacional Anti-Narcóticos e Contra o crime organizado.
A palavra “tráfico” detém sentido semelhante da palavra “tráfego”, apontando a circulação de mercadorias, mas no sentido stricto aponta o viés de ilicitude, ou seja, aquilo que circula de forma ilegal. A palavra vem do italiano traffico. Em um estudo da Universidade Federal do Pará, realizado pelo Professor José Maia Bezerra Neto, temos o esclarecimento do caráter polissêmico da palavra Tráfico, bem como de um apontamento histórico referindo à escravatura e sua abolição no Brasil:
Antes disso, era uma atividade comercial legal e lícita, senão legítima, sendo uma das formas de comércio denominadas como tráfico ou trafego, realizada por mercadores ou comerciantes também chamados de traficantes, isto é, aquele que leva uma mercadoria de um lugar ao outro, negociando-a com terceiros. Quando de sua proibição legal e, principalmente, quando de sua efetiva repressão, o comércio de escravos africanos tornou-se prática ilícita e condenada moralmente, sendo por isso muitas vezes denominado como tráfico ilícito, distinguindo-se, portanto, esse comércio infame de outras práticas comerciais denominadas como tráfico. Iniciava-se assim a construção da identidade dos comerciantes de escravos como traficantes e de seu comércio como tráfico, com o sentido negativo que essas palavras são usualmente empregadas no Brasil contemporâneo; ou seja, tráfico como negócio ilegal ou sujo e traficante como sujeito imoral e criminoso. (NETO, 2009)
Observa-se, no contexto exposto, que temos substâncias nocivas à saúde pública definidas pelo Estado que não podem ser portadas, vendidas, ofertadas, sem autorização do Estado, ensejando àqueles que a manejam em conformidade com os núcleos dos tipos penais da legislação, a subjunção penal da sua conduta, ou seja, a prática de crime.
A designação “tráfico ilícito de drogas” nos apresenta como a terminologia mais adequada para a referência proposta, sendo que, embora o mais lógico seria unidades de polícia com a denominação de Delegacia Especializada na Repressão do Tráfico Ilícito de Drogas, temos a polissemia de palavras, bem como a construção de signos, ou seja, elementos gráficos de identificação que já levam ao receptor do signo um conjunto de mensagens, e que acabam por aproximar a população dos propósitos da instituição, fato que hodiernamente ocorre com a marca/signo DENARC e NARCÓTICOS.
Temos que ao investigar um fenômeno (tráfico ilícito de drogas), encontramos diferentes prismas, sejam eles referentes a normas jurídicas, referentes a instituições policiais, instituições sociais, e, neste sentido, situar-se sobre as facetas diversas que o tema referenciado pode nos chegar, é situar-se no seu objeto de investigação.
Drogas se referiam no passado a ervas desidratadas, mas agora detém novos significados, e o pesquisador que lida com essa estirpe de repressão acaba por ter a necessidade de deter um mínimo de entendimento morfológico e etimológico dos termos, pois assim, irá compreender a perspectiva proibitiva dos dias atuais.
3. As diversas terminologias jurídicas do narcotráfico
No capítulo anterior, quando vimos algumas terminologias utilizadas no estudo da temática do tráfico ilícito de drogas, verificamos que os regimentos, ou seja, as leis que criminalizam a conduta do comércio de drogas também denominaram as substâncias proscritas de substantivos diferentes ao longo da história.
Como já dito, a primeira proibição brasileira para o uso da maconha foi em um código de posturas que previa na redação da referida lei a descrição “pito de pango”, ou seja, proíbe-se o pito (fumo) que se usa no “pango” (cachimbos de barro), que era, a saber, a maconha. Aqui há um dado importante, vez que, nem no momento histórico em que o legislador detinha tamanha facilidade para legislar (escrever leis), vez que ele só tinha uma substância para proibir o uso, e nem nessa vez, conseguiu ser objetivo e escrever diretamente a substância “maconha”.
Certa feita, uma equipe de investigadores da Polícia Civil recebeu Ordem de Serviço para investigar e apurar determinado fato criminoso, tal seja: policiais militares realizavam patrulhamento em uma via pública quando avistaram um indivíduo segurando uma sacola, este mudou seu comportamento ao avistar a viatura policial, demonstrando nervosismo. Os milicianos continuaram o patrulhamento rumando ao referido indivíduo, o qual em um ato de valentia criminosa, evadiu por dentro de um beco até não ser mais visto pelos policiais, deixando para trás a sacola plástica contendo diversos papelotes com substâncias brancas de características e texturas semelhantes à cocaína, e cerca de R$130,00 (cento e trinta reais). Também deixou para trás, sua carteira de identidade, sendo identificado pelos policiais através da fotografia no referido documento.
Diante das diversas terminologias que verificamos no capítulo anterior, realmente se nota uma dificuldade em manter um discurso objetivo quanto à representação gráfica das substâncias que o Estado queria proibir ou controlar a venda e o uso.
No caso do indivíduo que evadiu da abordagem policial, a equipe realizou primeiramente uma análise do panorama, ou seja, verificaram se o local onde o indivíduo seria abordado, era ou não um ponto de venda de drogas conhecido socialmente. Assim, os investigadores conseguiram aquilatar informações relevantes para indicar o local como ponto de venda amplamente conhecido, isto porque, entrevistaram moradores do logradouro que foram categóricos em afirmar que já não aguentavam mais a tamanha insegurança que sentiam ao ter tão próximo um ponto de venda de drogas frequentado por “pessoas estranhas”. Também adicionaram à investigação algumas ocorrências policiais que indicavam prisões de traficantes de drogas no mesmo local de onde o nacional evadiu, e cumpriram uma importante etapa da investigação do tráfico varejista.
Quando o Brasil ainda era império, vigeu o Código Penal do Império, o qual previa em sua norma do artigo 200 o tipo penal de fornecer “drogas” para o aborto. Em um regulamento da Junta de Higiene Pública datado de 1851, encontramos a menção às “substâncias venenosas”. Em 1919, encontramos a menção “ópio e outras substâncias perigosas” quando da criação na Liga das Nações do Comitê Consultivo sobre o Tráfico de Ópio e Outras Substâncias Perigosas. Em 1925 encontramos a menção “drogas nocivas”, quando da Convenção Internacional de 1925 sobre Drogas Nocivas. Em 1932, na Consolidação das Leis Penais, o termo usado foi “substâncias entorpecentes”, expressão também usada em 1940 quando da edição do Código Penal Brasileiro.
Em 1971, a Lei n.º 5.726 de 29 de outubro, teve como ementa o seguinte texto: “Dispõe sobre medidas preventivas e repressivas ao tráfico e uso de substâncias entorpecentes ou que determinem dependência física ou psíquica e dá outras providências”. (grifo nosso) (BRASIL, 2017)
Em 1976, a Lei 6.368 de 21 de outubro, teve como ementa o seguinte texto: “Dispõe sobre medidas de prevenção e repressão ao tráfico ilícito e uso indevido de substâncias entorpecentes ou que determinem dependência física ou psíquica, e dá outras providências”. (grifo nosso) (BRASIL, 2017)
Por fim, em 2006, a Lei 11.343 de 23 de agosto, teve a seguinte ementa:
Institui o Sistema Nacional de Polícias sobre Drogas – Sisnad; prescreve medidas para prevenção do uso indevido, atenção e reinserção social de usuários e dependentes de drogas; estabelece normas para repressão à produção não autorizada e ao tráfico ilícito de drogas; define crimes e dá outras providências. (BRASIL, 2017)
Conforme exposição acima, vemos que vez a lei chamou de substâncias venenosas, outrora a lei chamou de substâncias entorpecentes, e em 2006 a lei chamou de drogas.
De volta ao caso da investigação citado alhures, os investigadores realizaram novos levantamentos sobre a pessoa que evadiu da abordagem policial, mas identificado por conta de sua carteira de identidade. O indivíduo já havia sido preso por tráfico ilícito de drogas em duas oportunidades, sendo que em ambas estava realizando o tráfico varejista, ou seja, em pontos de venda de drogas. Neste pé, além das informações que os policiais militares já haviam registrado, os investigadores de polícia arregimentaram informações referentes ao passado policial do investigado, bem como sobre o ponto (localização geográfica) onde ocorreu o crime investigado.
Entretanto, um ponto chamou a atenção da equipe de investigação, o endereço do indivíduo investigado era em um bairro da regional Pampulha, situada na capital Belo Horizonte, mas o local onde ocorreu a tentativa de abordagem era em uma via pública na Pedreira Padre Lopes, outro bairro muito conhecido por policiais de Belo Horizonte como possuidor de diversos pontos de venda de drogas. Analisando as prisões anteriores do investigado, notaram que estas ocorreram no bairro onde ele residia, faltando, então, aos investigadores, o entendimento desta circunstância, ou seja, porque o “traficante” teria saído de seu local (onde costumeiramente vendia drogas) e teria ido para bairro um pouco distante? A equipe fez enésimas ilações lógicas. Teria o investigado feito amizades com integrantes de outro magote do tráfico e teria migrado para outra região? Teria o investigado mudado de bairro com sua família: Teria ele parentes nesta outra região? Mil diligências necessárias para “arredondar”, tornar cristalina, a investigação.
Em que pese o hercúleo trabalho da equipe, a resposta às inquietudes dos bons investigadores, é suprimida com o conhecimento que este artigo propõe, a criação de um raciocínio lógico. Veremos.
Como vimos, as concepções semânticas que as instituições policiais, os órgãos do Estado, a ciência, as leis, deram para as substâncias que são controladas (ou proscritas), variam de forma a levar aos sujeitos aplicadores da lei, defensores dela, no caso de policiais, a um confuso caminho. Mas a Lei 11343, já referenciada, grafou em seu artigo 66, um norte geográfico sem desvio de bússola, porque, segundo esta norma, não importa qual o nome genérico irá se atrelar ao conjunto das substâncias, vez que se delimitou como drogas as substâncias controladas pela referida lei, ou seja, o conjunto das substancias proibidas/controladas é denominado drogas, e as espécies deste conjunto são descritas por uma Portaria (espécie de lei em sentido amplo) do Ministério da Saúde.
Art. 66. Para fins do disposto no parágrafo único do art. 1o desta Lei, até que seja atualizada a terminologia da lista mencionada no preceito, denominam-se drogas substâncias entorpecentes, psicotrópicas, precursoras e outras sob controle especial, da Portaria SVS/MS no 344, de 12 de maio de 1998. (BRASIL, 2017)
Quando a equipe colecionava as informações da investigação que haviam progredido, tiveram acesso ao laudo pericial advindo da seção de perícias criminais, sendo que o respectivo laudo descrevia que as substâncias apreendidas pelos militares, não se tratavam de cocaína, mas, sim, de talco. Ora, os investigadores detinham, neste momento, o seguinte panorama: um indivíduo estava em um ponto de venda de drogas, assustou ao ver a equipe policial, evadiu e deixou para trás sua identificação, papelotes endolados e prontos para a venda, e dinheiro. Este indivíduo não residia no bairro e já detinha outras passagens policiais por tráfico. O único fato que não se encaixava era o porquê ele estava vendendo suas substâncias tão longe de casa, mas acabou sendo explicado pelo resultado do laudo, vez que talco não é droga. E porque não é droga? Porque não está na lista das substâncias que tem a Portaria 344, e somente as substâncias que estão nesta lista são consideradas drogas, conforme o artigo 66 da Lei 11343/06.
Concluíram a investigação com os elementos acima, os quais indicam que o vendedor fujão, estava, em termos esdrúxulos, vendendo gato por lebre, ou seja, talco por cocaína, induzindo os usuários a erro. Estava longe de casa, pois sua farsa não poderia durar muito, e ele devia estar longe de lá antes que um dos compradores voltasse para reivindicar os seus direitos de consumidor.
Assim, temos que a lei proíbe determinadas condutas como portar, trazer consigo, expor à venda, vender, ceder, drogas em desacordo com autorização legal. Para entender a proibição acima, é necessário se valer de uma lista que vai nos dar a relação de quais substâncias serão consideradas drogas. Essa relação de substâncias vem em listas da Portaria n.º 344, de 12 de maio de 1988, a qual regulamenta as substâncias e medicamentos sujeitos a controle especial.
Após avançarmos na nossa investigação literária, vamos analisar alguns casos policiais reais. Uma equipe de investigadores recebeu em uma Delegacia de Polícia um homem que lá aportou para denunciar seu vizinho, o qual foi visto entrando no interior de sua casa com duas sacolas contendo substâncias brancas, acreditando, o denunciante, que se tratavam de sacolas de cocaína. A equipe realizou levantamentos que acabaram por revelar que o indivíduo que entrou com as sacolas em seu lar se tratava de um traficante conhecido pela polícia, visto já ter sido preso outras vezes por tráfico de cocaína. Os levantamentos também apontaram que este indivíduo não estava trabalhando, e que utilizava um veículo do ano para se locomover, chamando a atenção dos vizinhos. Após a representação por mandado de busca e apreensão domiciliar, foi localizado, arrecadado e apreendido na residência deste indivíduo 5 quilos de ácido bórico.
No exemplo acima, não se trata de localização e apreensão de drogas, vez que, ácido bórico (ácido ortobórico) não consta nas listas da Portaria n.º 344 de 1998 do Ministério da Saúde. Entretanto, a conduta pode se enquadrar no Art. 33, §1 da Lei 11343/06, vez que este tipo penal tipifica a conduta de posse, guarda, venda, entre outros verbos, de substância que seja matéria-prima, insumo ou produto químico destinado à preparação de drogas. Mas o que temos de entendimento necessário neste caso é o de que não se trata de drogas, ou seja, ácido bórico não é droga para a lei.
Outro caso ocorrido junto ao DENARC/MG versou sobre grande operação policial, na qual os policiais civis cumpriram simultaneamente cerca de 40 mandados de busca e apreensão domiciliar, no intuito de desarticular uma organização criminosa que realizava a venda de anabolizantes através de aplicativos de celulares, pela rede mundial de computadores e com entrega pelos Correios. Em uma das residências em que foi cumprida as buscas foram encontrados 100 frascos de acetato de trembolona produzidos no Paraguai.
Novamente temos que fazer a pesquisa junto à Portaria 344 de 1998 do Ministério da Saúde, e ao fazermos, verificamos que acetato de trembolona não consta na lista C5, a qual enumera substâncias anabolizantes consideradas como droga para efeitos da Lei 11343/06. Entretanto, vislumbra-se que o comércio desta substância de maneira clandestina ainda é crime, não de tráfico ilícito de drogas, mas, sim, de Falsificação, corrupção, adulteração ou alteração de produto destinado a fins terapêuticos ou medicinais, previsto no Art. 273 do Código Penal Brasileiro, pois esse medicamento é produzido não é produzido dentro das normativas reguladas pelo Ministério da Saúde e pela ANVISA.
Por fim, apontamos o fato de um indivíduo que foi flagrado pela força policial em posse de 7 litros de acetona, sendo preso pela conduta de tráfico ilícito de drogas, isto porque, a Portaria 344 de 1988 do Ministério da Saúde elenca em suas listas a substância ACETONA, e portar a substância sem a correta autorização legal, tendo como destino a preparação de drogas, configura crime, vejamos:
TJ-SP – Apelação APL 597053520098260576 SP 0059705-35.2009.8.26.0576 (TJ-SP) Data de publicação: 11/04/2011 Ementa: Lei de Tóxicos . Artigo 33, § 1º(I). Agente que guardava em sua residência frascos de acetona e éter e que, confessadamente, utilizava tais matérias-primas no refino da cocaína. Condenação criminal decretada. STJ – HABEAS CORPUS HC 219311 SP 2011/0226165-9 (STJ) Data de publicação: 19/12/2011 Ementa: HABEAS CORPUS. PRISÃO EM FLAGRANTE. TRÁFICO ILÍCITO DE DROGAS.INDEFERIMENTO DO PEDIDO DE LIBERDADE PROVISÓRIA. VALIDADE DA VEDAÇÃOCONTIDA NO ART. 44 DA LEI N.º 11.343 /06. CONDIÇÕES PESSOAISFAVORÁVEIS. IRRELEVÂNCIA. ORDEM DENEGADA. 1. Paciente preso em flagrante como incurso no art. 33 da Lei de Tóxicos, uma vez que foi surpreendido em 21/12/2010 na posse de 7litros de acetona, utensílios com resquícios de cocaína e R$ 900,00divididos em maços de R$ 100,00.2. Quanto à alegação de inocência, além de demandar incursão na seara probatória, tarefa insuscetível de ser realizada na presente via, o tema não foi analisado pela Corte de origem, o que inviabiliza o conhecimento da matéria nesta instância superior, sob pena de vedada supressão de instância.3. É firme a orientação da Quinta Turma deste Superior Tribunal de Justiça no sentido de que a vedação expressa da liberdade provisória nos crimes de tráfico ilícito de entorpecentes é, por si só, motivo suficiente para impedir a concessão da benesse ao réu preso em flagrante por crime hediondo ou equiparado, nos termos do disposto no art. 5.º , inciso XLIII , da Constituição da República, que impõe a inafiançabilidade das referidas infrações penais. Precedentes desta Turma e do Supremo Tribunal Federal.4. Habeas corpus parcialmente conhecido e, no mais, denegado.
A ACETONA, por exemplo, é usada por manicures, bem como vendida em pequenos comércios, como a posse dela pode ensejar crime. Pois bem, a Portaria 344 ao colocar a acetona em uma de suas listas, também coloca um adendo, referenciando que estas substâncias estarão sujeitas à controle da Polícia Federal. Neste sentido, existe uma regulamentação feita pela Polícia Federal, Portaria 1.274 de 2003, a qual descreve regras para manejo, venda e estoque de substâncias como a ACETONA, o THINER, etc.
Necessário, pois, que o policial esteja atento às diretrizes acima explanadas, pois, sabedor de elementos como os acima descritos, terá sequências lógicas, “sacadas”, “tirocínio policial”, para realizar seu trabalho investigativo com maior robustez. Uma vez ocorreu uma operação policial para o cumprimento de mandados de busca e apreensão em diversas residências, tendo em uma destas sido localizado pelos investigadores algumas dezenas de frascos de acetona, cerca de 10 litros, o tirocínio policial não rendeu frutos naquela ação, visto que não conseguiram à época ligar o fato da acetona ser usada pelos traficantes para refinar a cocaína.
A Lei 11343/06 também criminaliza a posse de substâncias percussoras, e acetona é uma substância precursora. Observa-se que a posse, guarda, destas substâncias para serem consideradas crime deve ter como destino a preparação de drogas.
A matéria-prima, o insumo ou o produto químico não precisam ser tóxicos em si, bastando que sejam idôneos à produção de entorpecentes. Assim é que a posse de éter ou acetona pode configurar o delito, desde que exista prova de que destinavam à preparação de cocaína. (GONÇALVES; JUNIOR; 2016, p. 103)
Analisamos as diversas terminologias institucionais do narcotráfico, lembrando que optamos pela terminologia “narcotráfico” para designar o tráfico ilícito de drogas, após, analisamos as diversas terminologias jurídicas do narcotráfico.
3. Conclusões
Diante de todo exposto, conclui-se o presente artigo, o qual traz informações que possibilitam o norteamento do pesquisador profissional diante das diversas facetas e terminologias que fazem parte do mundo dos fatos no tocante ao narcotráfico.
Cotidianamente os operadores policiais se encontram em situações fáticas que podem levar a uma dificuldade de entendimentos, vez que as diversas nomenclaturas utilizadas pelas instituições e pelas legislações criaram um limbo onde quase todos termos vão tendo o seu significado alterado.
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4. Referências
BRASIL. Código Criminal do Império, de 18 de dezembro de 1830. Disponível em: http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/leis/lim/LIM-16-12-1830.htm. Acesso em: 10 jul. 2017.
BRASIL. Consolidação das Leis Penais, de 14 de dezembro 1932. Disponível em: http://www.stf.jus.br/bibliotecadigital/DominioPublico/72115/pdf/72115.pdf . Acesso em: 15 ago. 2017.
BRASIL. Decreto 829, de 29 de setembro de 1851. Manda executar o regulamento da Junta de Hygiene Publica. Disponível em: <http://www2.camara.leg.br/legin/fed/decret/1824-1899/decreto-828-29-setembro-1851-549825-publicacaooriginal-81781-pe.html>. Acesso em: 08 ago. 2017.
BRASIL. Decreto 847, de 11 de outubro de 1890. Promulga o Código Penal. Disponível em: <http://www2.camara.leg.br/legin/fed/decret/1824-1899/decreto-847-11-outubro-1890-503086-publicacaooriginal-1-pe.html>. Acesso em: 08 de ago. 2017.
BRASIL. Lei 5.726, de 29 de outubro de 1971. Dispõe sobre medidas preventivas e repressivas ao tráfico e uso de substâncias entorpecentes ou que determinem dependência física ou psíquica e dá outras providências. Disponível em: < http://www2.camara.leg.br/legin/fed/lei/1970-1979/lei-5726-29-outubro-1971-358075-publicacaooriginal-1-pl.html>. Acesso em: 22 jul. 2017
BRASIL. Lei 6.368, de 21 de outubro de 1976. Dispõe sobre medidas de prevenção e repressão ao tráfico ilícito e uso indevido de substâncias entorpecentes ou que determinem dependência física ou psíquica, e dá outras providências. Disponível em: http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/leis/L6368.htm. Acesso em: 26 jul. 2017
BRASIL. Lei n. 9296, de 24 de julho de 1996. Regulamenta o inciso XII, parte final, do art. 5° da Constituição Federal. Disponível em < http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/leis/L9296.htm> Acesso em 28/04/2017.
BRASIL. Lei nº 11.343, de 23 de agosto de 2006. Dispõe sobre medidas de prevenção e repressão ao tráfico ilícito e uso indevido de substâncias entorpecentes ou que determinem dependência física ou psíquica, e dá outras providências. Disponível em: < http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/_ato2004-2006/2006/lei/l11343.htm>. Acesso em: 20 jul.2017.
BRASIL. Lei n. 12850, de 02 de agosto de 2013. Define organização criminosa e dispõe sobre a investigação criminal, os meios de obtenção da prova, infrações penais correlatas e o procedimento criminal; altera o Decreto-Lei no 2.848, de 7 de dezembro de 1940 (Código Penal); revoga a Lei no 9.034, de 3 de maio de 1995; e dá outras providências. Disponível em < http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/_ato2011-2014/2013/lei/l12850.htm> Acesso em 28/04/2017.
CARNEIRO. Henrique. Transformações do significado da palavra “droga”. In: VENÂNCIO, Renato Pinto; CARNEIRO, HENRIQUE (Org.). Álcool e drogas na história do Brasil. Belo Horizonte. Editora PUC Minas, 2005.
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FRANÇA, Genival Veloso de. Medicina Legal. 8ª ed. Rio de Janeiro: Guanabara Koogan, 2007.
GONÇALVES, Victor Eduardo Rios; JUNIOR, José Paulo Baltazar. Legislação Penal Especial. 2ª ed. São Paulo: Editora Saraiva, 2016.
MÉDICI, Sergio de Oliveira. Tóxicos. Bauru: Javoli, 1977.
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Veja também: A Educação prisional no Mercosul, Unidade Prisional de Bom Jesus, Estado do Piauí, Brasil
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SAN BENEDETTO – Trecento tifosi al seguito della Samb anche a Meda. A loro va un gran bel dieci in pagella. Un incintamento costante per tutti i novanta minutima resta in loro la delusione per la mancata vittoria.
Queste le pagelle dei rossoblù.
Aridità 8: Sarebbe stato un bel nove pieno se non avesse azzardato l’ uscita sul cross che ha determinato l’autorete di Patti. Fondamentale nel primo tempo sulla conclusione di Lunetta, fenomenale nella ripresa sul colpo di testa dello stesso attaccante lombardo.
Rapisarda 6: Soffre la velocità degli avanti neroazzurri. Strano per uno che fa di questa qualità la sua forza. E’ sempre con la testa nel match.
Miceli 6,5: Convincente prestazione del centrale rossoblù. Abile in marcatura e sempre pronto nelle chiusure in diagonale.
Patti 6,5: Praticamente perfetto quando bisogna cancellare gli avversari dal campo. Si avventura anche in sortite offensive sfiorando il gol da inizio ripresa con un colpo di testa.
Tomi 6: La dea bendata gli gira le spalle in occasione del pareggio del Renate. Cerca di abbassarsi per fare scivolare il pallone sul fondo ed invece ecco il patatrac. Copre con diligenza la corsia mancina.
Gelonese 7,5: Quantità, qualità ed anche fiuto del gol. Si sta mettendo in mostra come uno dei centrocampisti più concreti di tutta la serie C. Con la Samb sta trovando la sua dimensione.
Bacinovic 5: Sempre in difficoltà sia nel pressing che nel costruire gioco. Sostituito.
Vallocchia 6: Nella rirpesa si sveglia dal torpore mettendo il suo dinamismo al servizio della squadra.
Esposito 5: Impalpabile non incide mai nell’ economida del gioco della Samb. Mandato da Moriero a fare la doccia nell’ intervallo.
Miracoli 6,5: Ci prova al termine del primo tempo con una conclusione dal limite. Lotta egregiamente tra i due centrali del Renate per porporsi con terminale offensivo, facendo spesso la sponda per i compagni di reparto.
Troianiello 6,5: Sempre proprosiovo e pronto nelle ripartenze. La condizione fisica migliora di partita in partita e si vede.
Bove 7: Entra in campo con il piglio del veterano, coordinando sapientemente le manovre rossoblù. Suona la sveglia a tutta la Samb. Possibile che abbia solo 19 anni? Ricorda il Cigarini dell’ era Ballardini.
Valente 7: Mister assist. Ne confeziona almeno uno a partita. Quando entra in corso di gara spacca sempre il match con le sue giocate in velocità.
Damonte 6: Moriero si affida a lui quando c’è da fare il lavoro sporco. E da bravo pretoriano risponde presente.
Moriero 7: Ancora una volta c’è la mano del tecnico in questo pareggio, il primo della sua gestione. Striglia la squadra all’ intervallo, azzecca sostituizioni e cambi. Dal carattere fumantino, crediamo che non abbia lesinato parole nello spogliatoio per stimolare la squadra ad un migliore atteggiamento nella ripresa. I rossoblù lo hanno seguito e questo fatto vuole dire anche che ikl tencico ha ben saldo il polso dello spogliatoio.
Nella foto di Alberto Cicchini, Luca Gelonese
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El Chapo: Inside the Hunt for Mexico's Most Notorious Kingpin
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El Chapo: Inside the Hunt for Mexico's Most Notorious Kingpin
Illustration by Mike McQuade
Rush hour starts early on Heroin Highway, generally by 6 a.m. Hockey dads in sport-utes; high school teens in car pools; commodities brokers and pensioners making their early-morning runs into Chicago on I-290. The Eisenhower Expressway – the Ike, as locals call it – is a straight shot in from the western suburbs to the mob-deep blocks of West Chicago. So Gangster Disciples and Vice Lords are up with the sun to pitch their work to the early birds, hugging the corners under the Ike’s offramps to do much of their day’s business by 8 a.m. Since cheap, potent heroin flooded Chicago 10 years ago and addicted a bell-cow demographic – middle-class whites – those corners off the Ike have become bull markets for gangs strong enough to hold them down. “They serve you in your car, quick-out in under a minute, and you’re back home in Hinsdale before the kids wake,” says Jack Riley, the ex-special agent in charge of the Chicago office of the Drug Enforcement Administration. “That’s why gangsters kill for those corners. They’re the Park Place and Boardwalk of the drug game.”
Riley, the town’s most famous federal agent since the days of the Untouchables, put together a strike force that jailed the major kingpins and left the gangs rudderless and scrambling. “We knocked down the big guys – the suppliers and OGs – but the young ones started killing their way up. That’s what happens when you get your targets: The gangsters don’t know who they work for.” Actually, even before his strike force rolled up the leaders, no one here knew who they really worked for. Riley estimates that Mob City has 150,000 gangsters in residence – and though most are in endless wars with one another, they’ve all blindly served the same master for 10 years: Joaquín Guzmán Loera, better known as El Chapo. The king of all kings has likely never set foot here, though he made this city his American office, trucking heroin (and coke) from Mexico by the metric ton and taking billions of dollars out in small bills. Chicago has been a most congenial hub for Chapo. Centrally located and braided by interstates, it is a day’s drive, or less, from most of America – and from the Mexican border.
For 15 years, Chapo has been Riley’s white whale, the object of an obsession that teetered on derangement and sidelined everything else, including his family. “I love my wife and kid, but I was never home for dinner,” says Riley, who fought Chapo’s proxies in five different cities while rising through the chain of command at the DEA. Seven years ago, when he returned to Chicago for a third (and final) tour of duty, his charge was to quash Chapo’s deadliest gambit: a species of heroin spiked with fentanyl that killed seasoned addicts by the hundreds. Riley stormed in, knocked a bunch of heads together and brought everyone – the DEA, FBI, state troopers and Chicago PD – under one roof to chase the “choke-point guys”: brokers who were buying in bulk from Chapo and selling wholesale weight to the gangs.
By most measures, Operation Strike Force was a smash success; arrests and seizures soared, the local drug lords fell and the busts netted many millions in cash forfeitures, enough to pay the salaries of strike-force adjuncts. But by the only metric that mattered – the price of heroin on the street – Riley’s mission was a wash. “It was 50K a kilo when we started this, and 50K a kilo” three years later, he says.
For the past year and a half, El Chapo has been in solitary confinement in a Manhattan facility. He faces life without parole.
And so, in 2013, Riley summoned his stagecraft and pronounced Chapo public-enemy number one. At a press conference carried by hundreds of outlets, Riley and members of the Chicago Crime Commission proclaimed Chapo the greatest threat since Al Capone, a mass poisoner of the city and its suburbs. The fallout from Riley’s broadside surprised everyone, Riley included. “At most, I hoped they’d find some corrupt colonel to go after him down there,” says Riley. Instead, the Mexican government was barraged with phone calls from infuriated business leaders. “They screamed that Chapo was disgracing their country” and demanded his arrest, says Riley. Authorities in Mexico changed their tack, offering new levels of cooperation. That included a firm commitment to use SEMAR, Mexico’s tactical corps, to hunt down Chapo in the hills. Working hand in glove, the DEA and SEMAR closed the net on Chapo. A year after Riley’s announcement, they chased him to Mazatlán and arrested him, without resistance, in his hotel room. His escape from prison in 2015 merely prolonged the ending: He was busted by SEMAR (using DEA leads) five months after he’d fled. Thus fell the dragon: After a 30-year reign of murder and terror, Chapo was caught fleeing a sewer tunnel in a shit-stained tank top and chinos.
Last spring, I flew out to sit with Riley, who retired after Chapo’s arrest. At 59, he’d moved with his long-suffering wife, Monica, to a resort town whose name I can’t divulge. (For 10 years, Chapo has had a price on Riley’s head, a threat confirmed in recent interviews with captured traffickers.) A ruddy, white-haired bruiser who holds court from a bar stool, Riley seemed dispatched from the days of fedoras and cops lighting Luckies at crime scenes. Born and raised in Chicago, he joined the DEA out of college and moved his family 12 times as he climbed the ladder. By the time he had quit last fall, he was the nation’s number-two drug cop, having been at or near the center of nearly every major mission to catch foreign kingpins since the early Nineties. (It was his squad in Washington that built the intel platform to bring down Pablo Escobar in Medellín, Colombia; that helped catch the leaders of the Cali cartel and, later, the overlords in the Mexican mobs.) Riley recites their names, but they mean nothing to him now. Only Chapo endures, though he’s being held at the Manhattan Correctional Center, where he awaits his trial of the century in New York.
“Part of me understands it – he’s done, he’ll die in jail,” said Riley. “But the other part says, ‘No, he’s still out there.’ All those routes he opened, all that fentanyl he shipped – he’s gonna kill our kids for years to come. This monster he built, this Sinaloa thing: It’s too big to fail now, thanks to him.”
“Explain it to me,” says one retired DEA agent. “How did this mope become El Chapo?”
In the months we talked, either in person or on the phone, Riley spoke of Chapo in the present tense, as though he were still at large at his mountain retreat, running the world’s largest supplier of illicit drugs from a town without power or plumbing. Twice, Chapo had famously escaped maximum-security prisons, traveling Mexico in bulletproof cars to dine and frolic with call girls in seaside towns. Since 2001, when he launched a crusade to corner Mexico’s $30-billion-a-year drug trade, he’d been everywhere and nowhere, growing the parameters of his empire and leaving defiled corpses as deed of ownership. He waged war by atrocity in Juárez and Tijuana, bribed generals and governors to feed him intelligence, and sent his lieutenants to the DEA, ratting on both his enemies and his allies. “Other bosses you waited out ’cause they always make mistakes,” said Riley. “But this guy? Invisible. You couldn’t find him.”
He grunted and drained the last of his beer. We’d been at this bar for hours and hadn’t looked at menus; Riley flagged the bartender and ordered lunch. Since retiring, he had spent his time knocking tee shots into tree lines and starting early on the day’s first cold one. Maybe it was just his nervous system resetting, but six months after he left, he still mooned over Chapo, the enigma he never fully worked out: “He’s on top for 30 years, has billions of dollars hidden – and he’s a second-grade dropout who can barely read and write and has to dictate love letters in prison. So explain it to me, ’cause I don’t get it: How did this fucking mope become El Chapo?”
Jack Riley, former head of the DEA in Chicago, spent 15 years searching for Chapo.
If you wanted to create a nursery for narco princelings, you’d probably build your greenhouse in the mountains of Sinaloa, where the conditions for pathology are peak harvest. A dirt-poor ribbon of rivers and farmland on the southwest shank of Mexico’s coastline, Sinaloa was largely ignored by the central government from the moment it became a state, in 1830. Roads went unpaved, villages did without schools, and no self-respecting official would visit the plazas of those remote, no-horse towns in the Sierra Madre. And so the peasants, left to their own devices, developed a shadow economy. In the 1920s and Thirties, they ran booze to Tijuana, where Hollywood’s darlings blew in for the weekend to flee the dry torpor of Prohibition. Marijuana grew wild in the pastures; farmers trucked their bales five hours down the road to market in Badiraguato. In time, some harvested the poppy fields that Chinese tradesmen planted in the 1860s. Sons were taught by fathers how to bleed the bulbs for their vile-smelling opium gum. You couldn’t make a killing, but you could make a sort of living if your kids didn’t waste their days learning how to read.
That was Chapo’s boyhood, and the boyhood, by degrees, of most of Mexico’s drug lords of the past half-century. He grew up with, or close to, kids who became his partners and, eventually, his mortal foes: the Beltrán Leyva brothers, five cutthroat charmers who would one day be his enforcers and political fixers; the Arellano-Félix brothers, seven legendary sadists who roasted their victims alive in vacant fields. Even Chapo’s mentors were from Sinaloa, first-gen capos like Don Neto and El Padrino, who turned a backwoods sideline into a multinational machine that stretched from Cancún to San Diego. To this day, Sinaloa’s hills are to gangsters what western Pennsylvania is to frac pads and NFL quarterbacks.
“He came of age in the Eighties, when everyone got rich moving coke,” explains one former Mexican operative.
Chapo was one of seven kids born to Emilio, a rancher, and Maria, a devout Catholic, in La Tuna, population 200. The family raised cows and grew sustenance crops behind a two-room house with dirt floors. What money they laid their hands on was earned uphill, where Emilio tended his poppies and marijuana. Once a month, he took the yield to Badiraguato. There he’d be paid for his contraband, then drink and whore all weekend and go home broke. A mean little man, he beat Chapo and his brothers; Chapo fled, for good, in his early teens. He stayed at his grandma’s, grew his own weed and sent some of the proceeds home to feed his siblings.
Chapo (Spanish for “Shorty”) was a small, squat teen who burned to spit his nickname in people’s faces. He wore hats with tall crowns that lent him an inch or two, rocked on his tiptoes when talking to friends and later, as a boss, only posed for photos while standing on a custom-built stool. His will to power sprang from being the picked-on runt despised and driven off by his father. That’s not junk science; it’s the finding of the psychiatrist who assessed him as an adult in prison. While jailed for eight years in the 1990s, Chapo sat for therapy sessions. The psychiatrist filed a report on the man he treated. Chapo’s “tenacity” and “disproportionate ambition” were wound to a sense of inferiority. To compensate, he craved “power, success and [beautiful women],” orienting his “behavior toward their obtention.”
No farm was going to hold a kid like that, and at 15 or 16 (early details are murky) he won an introduction to the don of Badiraguato, Pedro Avilés Pérez. Avilés, the first of the air smugglers in Mexico, hired him to do odd jobs for his lieutenants. Chapo rode along on their runs to the U.S. border, soaking up knowledge of roads and checkpoints and befriending dispatchers and truckers. Though he couldn’t read or write, he had a head for numbers and a steel-trap memory for detail. Best of all, he didn’t have an ounce of mercy in him. Ordered to kill a man, he’d calmly walk up to him and put a bullet in his head.
Avilés’ lieutenants were a dream team of smugglers. After Avilés was killed in a shootout with cops, they moved the operation to Guadalajara and named it the Federation. Chapo learned logistics from Amado Carrillo Fuentes, an avid flier who bought a fleet of planes and was nicknamed “Lord of the Skies.” From Ismael Zambada, the silent assassin called El Mayo, Chapo learned to leverage violence just so, using only enough to send a message. And from Arturo Beltrán Leyva, he learned bribes were the grease that kept the wheels of power turning. “He was around smart guys and paid attention,” says Alejandro Hope, a former senior operative with CISEN, Mexico’s version of the CIA. “And his timing was perfect: He came of age in the Eighties, when everyone got rich moving coke.”
Chapo’s first big break was a quirk of history: the U.S. war on Colombia’s cartels. In the 1970s, when Escobar and his counterparts in the Cali mob swamped Miami with coke, they put themselves in the crosshairs of the DEA. “They got rich, then they got lazy – they talked on their phones, which was how we finally took them down,” says Riley. By the middle of the 1980s, U.S. Coast Guard cutters had sealed off the cartels’ sea lanes in the Caribbean. The Colombians had no choice but to transship over land, sending their coke through Mexico to America. This arrangement wasn’t new – they’d used Mexicans for years and paid them flat fees to serve as mules. But now all the leverage was with the Federation, and Chapo was the first to see it. “He said, ‘Screw you, Pablo, I’ve got the smuggling routes. From now on, pay me in coke,’ ” says Carl Pike, a former special agent in the Special Operations Division, an elite unit created by the DEA that brings together the resources of a couple of dozen agencies to attack the cartels from all sides. “The Colombians took Chapo’s terms because he was the best at what he did: getting their drugs off the plane and up to L.A. in 48 hours or less.”
“Chapo was creating a new kind of cartel,” says one expert.
Then a second piece of luck fell into Chapo’s lap. El Padrino, his cartel leader, ordered the kidnapping and killing of a DEA agent named Kiki Camarena. It was a blunder that brought the hammer of God down: a tenacious offensive by the Mexican army, at the behest of the U.S. government. Padrino was arrested and sentenced to 40 years, handing off his kingdom to his capos. In 1989, Chapo’s peer group divvied up the country: Amado Carrillo Fuentes took the routes through Juárez; the Arellano-Félixes got Tijuana and the coast, and Chapo took the run straight north to Arizona, sharing Sonora with El Mayo and the Beltrán Leyvas. He had recently turned 30 and was still wrapping his head around the burdens of excessive wealth. But he was already investing in creative fronts: “He bought a fleet of jets for ‘executive travel,’ and a grocery business to can cases of peppers that actually contained cocaine,” says professor Bruce Bagley of the University of Miami, a cartel expert who’s written six books on the narco-economy. “He was so sure of his supply lines that he guaranteed shipment. If any of his loads got seized by the cops, he paid the Colombians in full.”
Chapo learned to use just enough violence from the assassin Ismael Zambada.
While the other capos got drunk on plunder, building villas with waterfalls and private zoos, Chapo lived like a handyman, sequestering himself on a dusty ranch 20 miles clear of Culiacán. (He was by then twice married, with at least seven kids; he’d go on to have 11 more by five women.) But it was his vision that firmly set him apart. “Chapo was creating the new cartel, a decentralized, hub-and-spoke model,” says Bagley. “He saw what was happening to the top-down version: If you chopped the head of the snake off – Pablo being an example – the rest of his operation fell apart.” Chapo formed alliances with local gangs and cut them in on his profits. He planted cells in new cities and left his staff alone to run them, and happily shared power with his closest partners, El Mayo and El Azul, a former cop. They were men like him: discreet and coolheaded, occupied only by business. The other lords’ loud lifestyles were an affront to them. The only fit response was to take their routes from them – and Chapo knew whose turf to grab first.
The other capos got drunk on plunder – Chapo lived like a handyman on a dusty ranch.
There are roughly two kinds of agents who go to work at the DEA. The Type A’s – Jack Riley, for one – are moral avengers who wage their war on drugs in a fissile rage. Then there’s the second type: the behind-the-scenes mechanic who patiently builds a case for weeks or months, and goes home to his wife and kids at a decent hour.
Miguel Q. is a Type-B plugger who chased Chapo almost as long as Riley did. (Still on the job, he asked that I change his name; active agents risk their safety going public.) He’s done multiple missions, on war-zone footing, in cities south of the border. He was on the scene for Chapo’s arrest in 2014 – and his escape from prison a year later. “Most ridiculous engineering I ever saw,” he says of the trench dug under Chapo’s cell from a half-built house a mile away. “I mean, a dead-plumb line” from end to end, and “a hole just big enough for him to ride that cycle” and be out and on a plane back to the hills. “Who even thinks that, let alone does it?”
Well, Miguel, for one: He’d seen it up close as a young agent in the early Nineties. At the time, he was focused on truckloads of coke coming through major checkpoints out west. “It was Arellano-Félix dope, or so we thought,” Miguel says – the cartel owned these particular checkpoints. Then his team started hearing chatter about a tunnel underneath the fence. A tip led them to a warehouse on the Mexican side, where miners were digging a quarter-mile tube, with rail cars, strong rooms and ventilation piping. It was a stroke of audacity and technical smarts far beyond the prowess of the Arellano-Félix Organization, who were brutal cocaine cowboys with a penchant for boiling rivals in acid and pouring their remains down a drain. “We’re like, ‘Who is this guy, and how many tunnels has he got?’ ” says Miguel. Hundreds more have been discovered in the decades since.
Chapo while he was incarcerated in Juarez, Mezico, in July 1993. Gerardo Magallon/Getty
What vexed Miguel wasn’t that he knew so little of Chapo; it was that no one in Mexico seemed to know him either. Since co-founding the Sinaloa cartel in 1989, Chapo had run it, yet there wasn’t a single recent photo of him on file. It wasn’t till his arrest, in June 1993, that the public got a glimpse of him. He’d been caught in Guatemala after fleeing the country in connection with a gunfight at an airport. The shootout had left several bystanders dead, including Juan Jesús Posadas, the cardinal of Guadalajara. Posadas’ murder was an inflection point: the day that Mexico was forced to come to terms with the narco-state growing under its feet.
Chapo was convicted in a closed-door trial and given 20 years, hard time, for narco-trafficking. He treated this as a senseless inconvenience. At Puente Grande, a supermax facility 50 miles west of Guadalajara, he bought off everyone from wardens to washerwomen and settled down to do his business. He received his lieutenants in a sumptuous parlor and sent them away with detailed orders on where to ship his tonnage. He brainstormed markets with his older brothers, whom he’d deputized to manage his affairs. They were easy enough to reach; he had cellphones smuggled in. He was partial to BlackBerry, a Canadian company whose hardware was hellish to crack, says Pike.
But Chapo wasn’t all work. He paid guards to round up hookers in town for orgies he threw in the mess hall. He kept up his spirits with fiestas and concerts: Chapo loved to dance with pretty chicas. The first feminist drug lord, he ordered the prison’s integration with a select group of female convicts; one of them, Zulema Hernández, became his muse and in-house lover. He sent her schoolboy mash notes in hothouse prose that he dictated to his steno, a fellow convict. All the while, he juggled conjugal visits from his girlfriends, wife and ex-wife. The wear and tear of a multivalent love life took its toll on Chapo. Cocaine had previously been his drug of choice, but in jail he renounced it for Viagra. His people brought it in big batches, along with steak, lobster, booze and tacos – Chapo’s weakness, besides women, was food. Eventually, the overindulgence levied its toll: At the time of his rearrest, in 2014, he’d been scheduled to meet with a specialist – “the penis-pump doctor to the stars,” says Riley. “The vitamin V didn’t cut it anymore.”
“We knew he was moving tons while he was still in jail, ” says one agent. “Turned out he had hired the warden”
In the end, though, he mostly used his time in jail to learn from the errors of other bosses. “Rule one: Don’t talk on phones or send texts,” says Miguel, who walks me through Chapo’s communications methods. A densely complex system of encrypted squibs and Wi-Fi pings between lieutenants, it was built around a network of offshore servers that bounced the posts off mirrors in other countries. “We found 60 iPhones and hundreds of SIM cards when we raided his house in Guadalajara – and still we couldn’t track where his calls came from,” says Miguel. Chapo hired experts to constantly revise his tactics, and always made sure to toss his phones after a couple of days of use. He was an early adopter of social media, deploying hackers to mask his instructions to staffers on Snapchat and Insta-gram. “After years of trying to track him, we moved on in 2012 and got up on his tier-two guys – the bodyguards and cooks,” says Miguel. Still, it took two years to divine his “pattern of life” – the small corps of people who served Chapo closely and could point to his general location.
Rule number two: Be a nimble supplier. He fitted tractor-trailers with elaborate traps – fake walls and subfloors that hid hundreds of kilos of product (and millions in shrink-wrapped cash on the trip back). He bought jumbo jets and filled them with “humanitarian” goods for drops in Latin America, then flew the planes back, bearing tons of cocaine, to bribed baggage handlers in Guadalajara. There were fishing vessels and go-fast boats and small submarines that could lurk underwater till the Coast Guard passed above. “We knew he was moving tons while he was still in jail, but we didn’t find out how till later on,” says Miguel. “Turned out he had literally hired the warden” to work as his logistics guy. That warden, Dámaso López, would vanish from sight shortly before Chapo escaped. Over the next 15 years, López rose through the cartel ranks, overseeing much of the daily churn while el jefe traveled the country dodging cops. Though Chapo trusted no one but family members and the men he came up with in Sinaloa, he made two exceptions to that rule. The first one was for López; the second, a pair of brothers who became his distributors in the States. In both cases, he’d have cause to deeply regret it.
Chapo used an intricate network of tunnels to ship drugs to the U.S. Mexico Police
Given his honeycomb of routes and the tonnage he pushed through, there wasn’t much point in warring for turf. But something happened to Chapo during those eight years in prison, some fundamental shift in his sense of self. Once happy being the wizard behind the curtain, he now seemed intent on announcing to the world who the real boss had been all along. “He broke out of Puente Grande with an S on his chest, thinking, ‘I’m the baddest motherfucker on the planet,’ ” says Dave Lorino, a retired DEA cop who helped mastermind the case against Chapo in Chicago. “He’d learned he could buy anyone, get out of any jail – and there was nothing that us gringos could do about it.” “Prison made him hard, at least in his own mind, and all the other bosses were soft,” says Riley. “He thought, ‘Why should I settle for a chunk of the pie when I can have the whole thing?’ ”
After escaping Puente Grande in 2001, either crouched in a laundry cart or strolling out the door – “official” versions vary; none are confirmed – Chapo lost no time planting his flag. He paid Tejano pop bands to spread the news, crafting narcocorrida ditties that sang his praises and warned rival capos to leave town. Stories began running in the Mexican papers about Chapo’s generosity to the poor. “He was building roads here and sewage plants there and schools in the pueblos and all that crap,” says Riley. “But the hell of it is, we never found those schools – and if he ever built a road, it was for his trucks.” The thesis of these ploys was always the same: Chapo was the great exception. He was the honorable capo who would swell peasants’ hearts with his derring-do defiance of los Yanquis. “Please,” says Riley. “This is a guy who chops heads off and leaves ’em in coolers.”
In 2002, Chapo launched a war on the Gulf Cartel; he sent his death squad, Los Negros, into Nuevo Laredo to bang it out in the streets. The Gulf returned fire with its own band of crazies, a U.S.-trained group of army deserters who called themselves the Zetas. The Zetas were (and are) a special slice of hell, terrorists who happen to deal drugs for a living and are as happy killing citizens as narcos. To defeat them, Chapo upped his cruelty quotient. His assassins stormed a nightclub and rolled severed heads across the dance floor. Body parts were stuffed in the mouths of dead Zetas as dumb-show warnings to his foes: “A hand in the mouth meant you’d stolen from him; a foot meant you’d jumped to the other team,” says Riley.
By 2006, Chapo’s violence was general in Mexico. He pushed his fight with the Zetas into Juárez, where the gutters ran red for years. Tens of thousands of people were slaughtered in Murder City, as Juárez came to be known. Riley was the agent in charge of El Paso, Texas, when the worst of the carnage erupted. “We’d intercept calls from the other side of the fence” – Chapo’s hit squads checking in with their bosses. “They’d say, ‘We took care of that thing on Calle so-and-so; what else you got for us tonight?’ ”
The violence of the Sinaloa spreads into the streets, like this shooting in August 2009. Reuters
Being two miles from bedlam – with no jurisdiction – drove Riley to desperate measures. He broke with protocol and phoned the local papers, calling Chapo a “coward” and a “butcher.” Chapo took the bait: He put a hit out on Riley. One night, Riley was at a gas station refueling when two men in a pickup pulled in. They got out of the truck and came at him in the dark. He drew his pistol first. They turned and fled. “Maybe that was a warning: ‘Back off and shut up,’ ” he says. “I hope he knew better than to have me whacked. He’d seen what happens when you shoot DEA.”
History bears this out: Chapo has never killed a fed or declared war on the U.S. government. But it’s clear now that he entertained the option. According to multiple witnesses who’ll testify at trial, Chapo went looking for heavy ordnance in 2008 to attack the U.S. Embassy in Mexico City. He was furious at extraditions of cartel leaders, who were getting long sentences in U.S. courts and dispatched to spend their days in federal pens. Many of them were sent to Supermax, a facility in Colorado where inmates live in near-total isolation. It was one thing to do time at Puente Grande, where a man of Chapo’s means could live like a pimp while waiting for his crew to dig him out. It was another to go to Supermax, where anyone wishing to pay him a call would be subject to extreme vetting by U.S. Marshals.
In 2007, Chapo tipped the DEA off to a coke shipment coming from a man he’d grown up with. “Chapo was basically saying, ‘No more friends,’ ” says one agent.
Still, that Chapo would consider buying a bomb suggests that he’d lost his bearings. In 2007, Miguel was stationed in Guadalajara when he got a hot tip from Chapo’s camp. A ship from Colombia was bound for Manzanillo with an enormous cache of coke onboard. Of even greater interest was the name of the cocaine’s owner: Arturo Beltrán Leyva, or ABL. Chapo and ABL had been like brothers since their teens in Badiraguato. They’d made each other rich with their complementary gifts: Chapo the genius at blazing new routes – ABL the master of pervasive bribes. To be sure, there’d been tensions building between them – but what made Sinaloa the world’s biggest drug gang was its settling of internal disputes. Its bosses had stuck together while Chapo was away, then welcomed him back, without a squawk, when he returned to his seat of power in 2001.
“For Chapo to reach out about ABL’s dope – yeah, I was shocked,” says Miguel. “All those years together and all the money they made? Chapo was basically saying, ‘No more friends.’ ” One morning in the fall of 2007, Miguel and 120 heavily armed troops descended on the freighter. Unsealing the shipping pods, they found double what was promised, almost 25 tons of cocaine. Gathered end to end, it ran four basketball courts in length. Street value: $2 billion. “When we loaded it out to burn on the Army base, it was the biggest fire you ever saw,” says Miguel. “And I had to stick around for every minute, make sure no kilos went out the door.” With the exception of El Mayo, Chapo had burned all his bridges; he was now, like Macbeth, so steeped in blood that there was no going back, only forward.
Authorities distributed this photo of Chapo in 2011, when he was on the run from authorities. Reuters
Somewhere in America, in the witness-security wing of an undisclosed federal prison, sit the two men whose testimony will seal Chapo’s fate. Margarito and Pedro Flores, identical twins in their thirties, are two of the least fearsome thugs on the planet, nerds who somehow noodled their way to the center of Chapo’s circle. “They’re, like, five-foot-five and a buck-40,” says Lorino, who spent months debriefing them when they surrendered, in 2008. “I laugh when I read that they’re Latin Kings. Real Kings would eat ’em for lunch and still be hungry.”
In 2005, while launching his quest to monopolize Mexico’s drug trade, Chapo was told about a pair of Chicago natives with the best broker network in the country. For years, the Flores brothers had been buying in bulk from one of Chapo’s lieutenants near the border. They were smart and street-avoidant, faithfully paid on time and looked like they worked at a Wendy’s in La Villita, the barrio on Chicago’s West Side. Chapo was intrigued. Set a meeting, he told his guy. The twins were brought to Mexico for the rarest of honors: a face-to-face with Chapo at his compound.
Chapo was impressed when he sat with them: They were all about business, not bravado. He and his principal partners, El Mayo and ABL, came to an agreement on a deal. They would front as much dope as the twins could handle and give them a break on the price. They would also allow them to buy on terms instead of cash on delivery for each load. For the twins, it was like cashing a Powerball ticket. In the summer of 2005, they swamped Chicago with Chapo’s H. Almost immediately, the city’s hospitals were packed with ODs: Newbies and junkies abruptly stopped breathing after snorting or spiking the product. The Chicago DEA went to wartime footing, scrambling to interdict the lethal batch that would kill a thousand people in less than a year. Agents traced the dope to a lab near Mexico City. “Chapo had brought in chemists to make it extra-super-duper,” says Riley. How? By adding fentanyl, a synthetic narcotic that looks (and cooks) like heroin. “It’s 30 to 50 times stronger than heroin, and you can’t tell which from which when you cut ’em up.” In May 2006, authorities raided the lab and arrested five employees. One of them had been busted in California for manufacturing fentanyl.
But Chapo shrugged off the takedown. He had a vise grip on Chicago – and Milwaukee, Detroit, Cincinnati, Columbus, Ohio, and cities farther east that the twins supplied. From 2005 to 2008, they moved $2 billion of Sinaloa’s product. The arrangement worked smashingly for the cartel. It was supplying half the coke and heroin in America, according to reports by the Justice Department. It had partners in West Coast cities, was moving heavily into Europe and planting new cells in South America. With cash pouring in from every port, it was paying hundreds of millions a year in bribes to Mexican officials, and getting white-glove service in return. Attempts by the DEA to catch Chapo and his partners were subverted time and again by intel leaks. “Outside of SEMAR, there was no one we could trust,” says a frustrated DEA hand. “We’d feed them information and our informant would turn up dead.” Often, Chapo would saunter away minutes before a raid, as if to thumb his nose at the pinche gringos.
He’d become, in short, the man he dreamed up as a pudgy teen in La Tuna. No one could touch him, and everyone feared him. He even had the requisite beauty-queen wife: In the summer of 2007, he married Emma Coronel, Miss Coffee and Guava. Their wedding was virtually an affair of state. Drug lords and ladies flocked to the event, dancing to Tejano combos playing songs of praise for the groom. For added amusement, the Mexican army swooped down to finally corner Chapo. This time, he didn’t even make it exciting. He skipped out a full day early, having fed the generals a phony wedding date.
Chapo trusted the Flores twins (Margarito, left, and Pedro) from Chicago, but he would come to regret it. U.S. Marshals Service
In May 2008, Chapo called the Flores twins to a summit at his compound in La Tuna. Pedro couldn’t make it, but Margarito went, taking the five-hour car ride up the mountain. He’d done this once before, but something was different this time: As he glanced out the window, he saw bodies chained to trees, their flesh being eaten by coyotes. He’d been in the game long enough to know what that meant – there was a tree along that road reserved for him.
At the meeting in La Tuna, Flores was given an ultimatum: Stop buying ABL’s dope now, or else. “Chapo told him to pick a team – and he only warned people once,” says Lorino, the retired DEA agent. “He liked the twins personally – they’d made him a lot of money,” but he was prepared to kill them and forfeit billions to settle his accounts with the Beltrán Leyvas. This put the Flores twins in a desperate fix: Soon after, ABL called and told them not to buy from Chapo. Caught between two killers, the twins weighed out the options, then phoned their lawyer in Chicago. Reach out to the DEA, they told him – “We’ll give them Chapo and ABL if they protect us.”
In June 2008, DEA agents flew to Mexico to sit with the Flores twins. “We needed a lot of convincing; we’d been promised Chapo before,” says Lorino, who was at the meeting. “But the twins, man, they had the bona fides.” There were stacks and stacks of logbooks listing every drug shipment, four dozen cellphones with texts and voicemails saved from Chapo’s lieutenants, and flowcharts of brokers back in the States who were buying hundreds of kilos apiece. It was one of the greatest caches of court-admissible evidence in the history of the War on Drugs, but the DEA wanted more: It wanted Chapo himself on tape. In exchange for reduced sentences in a witness-protection wing, the twins agreed to stay in Mexico for several months and record their every phone call with the cartel. They also promised to tip the DEA to each major shipment going north. Lorino returned to Chicago and assembled a team of agents to obtain warrants, tap phones and stage raids. Then he sat and waited, holding his breath.
“In two weeks, we got the first call,” says Lorino: a quarter-ton of coke in a produce truck. He alerted state troopers, who pulled over the semi a half-hour south of Chicago. Major takedowns followed for the next four months. Stash houses, count houses, tractor-trailer loads – three tons of cocaine and heroin were seized, $22 million in cash was recovered, and 68 people were arrested in Chicago, many of them brokers and gang chiefs. By November, the feds had their sweepstakes ticket: two crystal-clear audio recordings of Chapo and Pedro Flores discussing a 20-kilo order of heroin on the telephone. “I was putting my daughter to bed when my cellphone rang: ‘Dave, we got the big guy on tape,’ ” says Lorino. “I said, ‘Dude, if you’re fucking with me, I’ll end your career.’ But he said, ‘Nope, it’s over. We got him cold.’ ”
Marines of the Mexican Navy took Chapo into custody. David De La Paz/Redux
In the following years, Mexican soldiers and marines killed or caught dozens of the 37 tier-one drug lords on the country’s kingpin list. Chapo was the 33rd to be nailed. He was first busted in February 2014 in Mazatlán. But the following summer, he was gone again, vanishing down the wormhole below his cell. Riley, who’d left Chicago for Washington, D.C., to take the number-two job at the DEA, let himself seethe for 10 minutes. Then he made calls to Mexican officials, demanding they dedicate a SEMAR unit to a third, and final, arrest. SEMAR is the unicorn of Mexican law enforcement: a bribe-proof corps of tactical fighters trained by U.S. soldiers in Colorado. Small in relative numbers (there are just 16,000 marines), they rarely stay in one place long, racing from fire to fire. But the government, mortified by Chapo’s escape, agreed to Riley’s terms. It dispatched 100 marines to track down Chapo, using leads from the special-ops group in D.C.
“We went back to what we knew – get up on his people,” says Riley, meaning the cooks and drivers who serve him. Pings from their phones suggested Chapo was in the hills, moving nightly between a cluster of farms in and around La Tuna. SEMAR rallied for an all-out raid, then got orders from the top to stand down. “I was furious,” says Riley. “What’s the fuck-up this time?” He learned after the fact that the actor Sean Penn, on assignment from Rolling Stone, had gone up the mountain to see Chapo. SEMAR was instructed to wait till Penn and his associates left, then go in hot and heavy. This it certainly did, storming La Tuna in a shoot-’em-up, weeklong siege. Eight people perished, none of them Chapo. Reportedly, a SEMAR marksman had him in his sights as he ran from one of his ranches. But Chapo was carrying a small child, and the marine declined to fire. Chapo slipped into the bush and disappeared.
When Chapo was caught, one agent couldn’t believe it. “I wanted pictures of that prick in cuffs,” he says.
For weeks, he and his henchmen went zero-dark silent: No calls or BlackBerry messages hit the wire. Then someone saw Ivan, Chapo’s son and security chief, scouting neighborhoods in salty Los Mochis. A sweatbox of a city on the Sinaloan coast, it had everything Chapo lacked while he hid out in the hills: fiery taquerias, underage hookers and an easy in-and-out by land and sea. SEMAR sent spies in civilian clothes to check out the report. They fixed on a bloc of condos getting aggressive renovations – loads of steel and concrete were arriving daily. For weeks, the spies lunched at a corner bodega and heard chatter among the workmen that “Grandpa” was coming. Late one January night, sitting vigil across the street, they saw a white van leave the complex. There were three men inside it; one of them looked like Chapo. “They were going out for burritos and porn – who else would need both at that hour?” says Riley.
Before dawn on the morning of January 8th, marines stormed the condo. Inside was a maze of reinforced doors designed to blunt and confuse them. By the time they crashed the right one and killed Chapo’s gunmen, he’d bolted down an escape hatch under a closet. Accompanied by El Condor, his lieutenant and chief assassin, he slogged through thigh-deep water in the sewers. Emerging a mile later, he was barefoot and filthy; none of his men were there to scoop him up. Chapo jacked a car, ordered its occupants out at gunpoint, then raced through town, heading south. He made it a couple of miles before police cut him off; the prolific killer went meekly. For the third and last time, he’d surrendered without a shot after his men fought and died to protect him.
Riley was at a ceremony in Quantico, Virginia, presenting badges to a class of new agents. His cellphone, on vibrate, kept growling in his pocket; it all but killed him not to answer for an hour. When at last he ducked out, he got the word from his team: Chapo was being held by the cops. “I refused to believe it till they sent me proof. I wanted pictures of that prick in cuffs.” An hour or so later, a photo came through: Chapo sitting disheveled, in a dirty wife-beater, his hands bound tightly behind him.
Riley informed his chief, thanked his counterparts at SEMAR, then rounded up the boys to celebrate. They all piled out to a bar in Crystal City – a dozen senior DEA agents roared like pledges at the final keg party of rush week. News of Chapo’s capture flashed across the television. From then on, none of them could pay for drinks; fellow patrons bought toast after toast. “We were badly overserved,” Riley recalls, still basking in the glow of that night. Alas, he was so excited that he did it again the next day, and the day after, and the day after that. Finally, his wife said enough. “Chapo never managed to kill you,” she said. “But keep this up and you sure will.”
A year and a half later, Chapo sits in his cell, quietly losing his mind in solitary. He is denied human contact, except with his lawyers; his wife and kids are barred from seeing him. One hour each weekday, he leaves his cage for a slightly bigger enclosure. There, he can either ride an exercise bike or watch a nature program; the TV isn’t viewable from the bike. His hair is falling out and his “mental health” declining: He suffers “auditory hallucinations,” per his lawyers. “We run a real risk of him going crazy,” says Michael Schneider, a senior public defender on Chapo’s team.
In early 2017, Chapo was extradited to the U.S. on multiple charges under the kingpin statute. AP
Chapo faces 17 counts in Brooklyn’s federal district, including charges of narco-trafficking. A conviction for narco-trafficking would get him life without parole under federal kingpin sanctions. In no known universe does he stand to beat those charges. Among dozens of witnesses on the government’s list are fellow narcos who’ve pleaded out for shorter terms. The most crucial, of course, are the Flores twins, whose encyclopedic records are damning to the point of overkill. “His lawyers can attack them till the cows come home – there’s nothing they can do about those tapes,” says a U.S. attorney. Adds Riley, with a sprig of Gaelic glee, “How great that the rap he can’t get out of is for 20 lousy keys of smack. He wipes out Chicago and kills tens of thousands of people – and his smallest deal is the one that does him in.”
Then there are the indictments in five other cities, though no one thinks those trials will happen. The likeliest outcome, say those close to the case, is that Chapo pleads guilty to an omnibus proffer that settles all counts, Brooklyn’s included. Says the U.S. attorney, “He can’t win at trial, but he has assets he could trade” for better conditions in prison. It’s presumed that Chapo’s hiding billions of dollars in cash and business holdings. If the feds want that money, they will need his help to find and claw it back. A second bargaining chip is his years-long log of bribes paid to Mexican officials. Under the Obama administration, that log would be worthless – but in the age of Trump, it’s priceless. Vicente Fox, the ex-president who compared Trump to Hitler, has long been accused of taking money from Chapo in exchange for going easy on Sinaloa. President Enrique Peña-Nieto, who vowed never to fund Trump’s wall, lost close colleagues to bribery charges after Chapo fled in 2015. If Chapo has any proof that he paid those people, he’ll be holding a set of aces when the dealing starts.
Finally, there’s the question of his legacy. For years, experts thought that the syndicate he built would stand long after he fell. “If you kill the CEO of General Motors, General Motors will not go out of business,” said a Mexican official to The New Yorker. But 20 months after Chapo’s final arrest, his monolith is falling apart. His sons – the “Chapitos” – are at war with Dámaso López, the ex-prison warden who helped Chapo flee and became his key lieutenant for 15 years. In February, López lured the sons to a narco summit in Sinaloa. Gunmen broke in and tried to kill the Chapitos, who fled, on foot, into the brush. “This was weeks after Chapo was extradited – the war to replace him was on,” says Alejandro Hope, the ex-intelligence officer for the Mexican CIA. It was a bold betrayal and a sign of the chaos to come.
Ten years ago, five cartels ran Mexico. Now there are 80 splinter sets, all of them vicious and unstable. Beheadings are banal, civilians are being slaughtered and the government hasn’t the faintest clue how to stem the havoc. Mad as it sounds, we may mourn the passing of Chapo. He was the Assad of cartel bosses, but he kept the carnage bottled, stopping at his side of the fence. What replaces him – chaos – respects no borders. We could wake one day and find we’re next door to Aleppo, with flames overleaping our beautiful wall.
Watch our exclusive interview with El Chapo from 2016.
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Torpor project - all - 37. Love asking about tropes!
37. Is there a trope/archetype that they fit? are there more than one?
Dea: blind seer is a pretty good fit, with a healthy dose of traveling bard and
Amahla: wicked stepmother, though not always step and not always mother. also kinda a femme fatale, but leans more towards the grifter/manipulator version of it
Marya: nerdy ingenue, but a bit more pessemistic than most examples ive seen
Osric: overprotective father figure who is so so depressed ab his evil wife
Fhiann: king incognito/rags to royalty who prefers spending his time as a forest ranger
Alphaeus: weirdly serious child + guy who knows all the secrets/hot gossip
Lystra: total paladin. real galahad/jeanne d'arc stuff
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