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OGGI COME ALLORA
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Che il fascismo sia tornato è innegabile e chi dice il contrario o è fascista o mente. Nessuno ti picchierá per strada se non ti togli il cappello al passaggio di una divisa, né ti costringerà a bere intrugli nauseabondi (almeno per ora), ma le manovre del governo non sono più soltanto caratterizzate da tagli all'istruzione, alla sanità e alla cultura, ma sono apertamente indirizzate alla repressione e al soffocamento del dissenso. Iniziano a essere minate le libertà fondamentali: gli scioperi vengono vietati, gli antiabortisti entrano nei consultorio, le università vengono militarizzate, l'informazione è censurata o manipolata al fine di creare consenso. Se non ti allinei vieni licenziato, multato, arrestato, picchiato. A suon di leggi, decreti e ordinanze aumentano le restrizioni e il controllo per darci la sensazione di sentirci in pericolo e farci credere di aver bisogno di protezione dal nemico di turno: lo straniero, la femminista, l'ecologista, il "comunista". Ci vogliono buoni e servili per sfruttarci come hanno sempre tentato di fare. Questo 2024 non è così distante dagli anni '20 del secolo scorso, ma oggi come allora i fuochi di Resistenza esistono e riprendono vigore. Gli studenti che scendono in piazza a schivare i manganelli dimostrano di conoscere la storia meglio di chi li vuole zittire. Che fare, dunque? La verità è che il fascismo c'è sempre stato, oggi sta soltanto prendendosi il palcoscenico, ma se lo spettacolo, pagato da noi, è di bassa qualità, lo spettatore ha il diritto di fischiare, alzarsi e buttare gli attori principali giù da palco.
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......STUPENDA 🤗...
Attraverso il buchino del muro il topolino guardava il contadino e la moglie che stavano aprendo un pacchetto. "Che cibo ci sarà?" - si chiedeva il topolino che rimase sconvolto nel vedere che era una trappola per topi.
Il topolino fece il giro della fattoria avvisando tutti: - "C'è una trappola per topi in casa! C'è una trappola per topi in casa!"
Il pollo alzò la testa e disse: "Signor Topo, capisco che è una cosa grave per te, ma non mi riguarda. Non mi preoccupa affatto." Il topolino andò dal maiale dicendogli, "C'è la trappola per topi in casa! C'è la trappola per topi in casa!
" Il maiale con empatia disse: -"mi dispiace molto, Signor Topo, ma non c'è nulla che io possa fare, eccetto pregare. Ti assicuro che sarai fra le mie preghiere." Il topolino allora andò dalla mucca: -"C'è una trappola per topi in casa! C'è una trappola per topi in casa!"
La mucca disse, "Ohh.. Sig. Topo, mi dispiace per te ma a me non disturba." Quindi, il topolino tornò in casa, con la testa bassa, molto scoraggiato, per affrontare da solo la fatidica trappola.
Durante la notte sentirono uno strano rumore che echeggiò per la casa, come quello di una trappola che afferra la sua preda. La moglie del contadino si alzò subito per vedere cosa avrebbe trovato nella trappola.
Nel buio, non vide che era un serpente velenoso con la coda bloccata nella trappola. Il serpente morsicò la moglie del contadino che dovette portarla d'urgenza all'ospedale, con la febbre alta.
Come molti sanno, nella cultura contadina, la febbre si cura con una zuppa di pollo fresco, quindi il contadino con il suo coltellone uscì nel pollaio per rifornirsi con l'ingrediente principale della zuppa.
La malattia della moglie però non passava e così tanti amici vennero a trovarla per starle vicino.
La casa era piena e per nutrire tutti, il contadino dovette macellare il maiale. Ben presto la moglie morì e tanta gente venne al suo funerale tanto che il contadino dovette macellare la mucca per offrire il pranzo a tutti. Il topolino dal buchino del muro guardò il tutto con grande tristezza.
La prossima volta che sentite che qualcuno sta affrontando un qualche problema e pensate che non vi riguardi, ricordate che quando uno di noi viene colpito, siamo tutti a rischio.
Siamo tutti coinvolti in questo viaggio chiamato vita.
Prendersi cura gli uni degli altri è un modo per incoraggiarci e sostenerci a vicenda.
"Quando senti suonare la campana
non chiederti per chi suona.
Essa suona anche per te".
.......
(Ernest Hemingway)
foto del web
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“ Mentre gli europei impiegavano le lenti per costruire microscopi, telescopi ed occhiali, i cinesi si divertivano ad adoperarli come giocattoli incantati. Lo stesso fecero con gli orologi. Lenti, orologi ed altri strumenti erano stati inventati in Europa per soddisfare esigenze quali sperimentate da uno specifico ambiente socioculturale. In Cina queste invenzioni piovvero casualmente dal cielo e i cinesi le riguardarono come divertenti stranezze. I migliori intelletti si dedicavano all'arte e alla filosofia, non alle scienze. Come osservò padre Ricci, «alla matematica come alla medicina non si applicano se non persone che non possono studiare bene le loro lettere per il puoco ingegno e habilità; e così stanno queste scientie in bassa stima e fioriscono assai puoco. I gradi più solenni sono quelli delle scienze morali». In Cina non era il mondo cittadino a scandire il tono della cultura. In una società composta essenzialmente di una élite di literati nutriti alle discipline classiche e di una vasta massa di contadini che, come nota il dr. Chiang «misuravano il tempo in termini di giorni e di anni e non di minuti o di ore», l'orologio aveva scarse possibilità di imporsi come strumento di pratica utilità. Perché ciò accadesse, si sarebbe dovuto verificare un completo ribaltamento della società, delle sue strutture e dei suoi bisogni. La macchina ha ragion d'essere solo come espressione della risposta dell'uomo ai problemi postigli dall'ambiente e recepiti e interpretati traverso il filtro della cultura prevalente. “
Carlo M. Cipolla, Le macchine del tempo. L'orologio e la società (1300-1700), Il Mulino (collana Intersezioni, n° 169), 2008 [1ª ed.ne 1981]; pp. 71-72.
#Carlo M. Cipolla#letture#saggi brevi#saggistica#citazioni#Le macchine del tempo#Estremo Oriente#Europa#invenzioni#Storia economica#Cina#Impero Cinese#macchine#leggere#Storia dell'età moderna#tecnologia#Matteo Ricci#matematica#confucianesimo#scienze#antica Cina#gesuiti#innovazione#conservatorismo#tecnologie#innovazioni#modernità#libri#società del passato#tradizionalismo
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IL TOPOLINO
Attraverso il buchino del muro il topolino guardava il contadino e la moglie che stavano aprendo un pacchetto. “Che cibo ci sarà?” – si chiedeva il topolino che rimase sconvolto nel vedere che era una trappola per topi. Il topolino fece il giro della fattoria avvisando tutti: – “C’è una trappola per topi in casa! C’è una trappola per topi in casa!” Il pollo alzò la testa e disse: “Signor Topo, capisco che è una cosa grave per te, ma non mi riguarda. Non mi preoccupa affatto.” Il topolino andò dal maiale dicendogli, “C’è la trappola per topi in casa! C’è la trappola per topi in casa!” Il maiale con empatia disse: -“Mi dispiace molto, Signor Topo, ma non c’è nulla che io possa fare, eccetto pregare. Ti assicuro che sarai fra le mie preghiere.” Il topolino allora andò dalla mucca: -“C’è una trappola per topi in casa! C'è una trappola per topi in casa!" La mucca disse, "Ohh.. Sig. Topo, mi dispiace per te ma a me non disturba". Quindi, il topolino tornò a casa, con la testa bassa, molto scoraggiato, per affrontare da solo la fatidica trappola. Durante la notte sentirono uno strano rumore che echeggiò per la casa, come quello d'una trappola che afferra la sua preda. La moglie del contadino s'alzò subito per vedere cosa avrebbe trovato nella trappola. Nel buio non vide che era un serpente bloccato nella trappola per la coda. Il serpente morse la moglie del contadino che dovette portare d'urgenza all'ospedale, con la febbre alta. Come molti sanno nella cultura contadina la febbre si cura co una zuppa di pollo fresco, quindi il contadino uscì col suo coltellone nel pollaio... La malattia della moglie però non passava e così tanti amici vennero a trovarla per starle vicino. La casa era piena e per nutrire tutti il contadino dovette macellare il maiale. Ben presto la moglie morì e tanta gente venne al suo funerale tanto che il contadino dovette macellare la mucca per offrire il pranzo a tutti. Il topolino dal buchino del muro guardò il tutto con molta tristezza. La prossima volta che sentite che qualcuno sta affrontando un qualche problema e pensate che non vi riguardi, ricordate che quando uno di noi viene colpito, siamo tutti a rischio. Siamo tutti coinvolti in questo viaggio chiamato vita. Prendersi cura gli uni degli altri è un modo per incoraggiarci e sostenerci a vicenda. "Quando senti suonare la campana non chiederti per chi suona. Essa suona anche per te"."
-Ernest Hemingway
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Perché siamo (biologicamente) uguali?
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Che le razze umane non esistano è un fatto ormai scientificamente assodato. Anche se questa invenzione è sempre stata usata per giustificare il razzismo culturale.
Ognuno di noi è ovviamente una versione diversa di Homo sapiens: la riproduzione sessuale fa un gran bel lavoro di rimescolamento con il materiale genetico che ha a disposizione. Ma siamo lo stesso così simili gli uni con gli altri che è possibile trovare qualcuno dall'altra parte del mondo che casualmente ha un genoma più simile al proprio di chiunque abiti nel nostro stesso quartiere (a meno che non si viva con il proprio fratello gemello, ovviamente).
Certo, nel corso dell'evoluzione il nostro cervello ha sviluppato la capacità di riconoscere e amplificare la percezione delle differenze estetiche e la nostra cultura ne ha fatto un totem di appartenenza etnica. Ma i classici tratti somatici che usiamo per discriminare (colore della pelle, dei capelli e degli occhi, statura, forma del viso, eccetera) sono determinati solamente da una manciata di geni, su un totale che si aggira sui 20mila.
Ovvio che se un aborigeno australiano avesse migliaia di geni identici ai miei ma che codificano solo proteine che influenzano il funzionamento del cuore, del cervello, la composizione del sangue e la struttura ossea, non me ne potrei mai accorgere a colpo d'occhio.
La genetica di Homo sapiens è così poco varia che siamo la specie di primate con meno diversità genetica di tutte. È questo che ci rende così simili gli uni con gli altri. E, tra l'altro, ci espone ad un numero maggiore di malattie genetiche. Potremmo dire che siamo tutti consanguinei.
Secondo l'attuale conoscenza scientifica, il motivo è duplice.
Da un lato, circa 73mila anni fa si è verificata una drastica diminuzione della popolazione. Dall'altro, siamo sempre stati una specie fortemente migratoria.
La diminuzione della popolazione probabilmente è stata causata dalla catastrofe di Toba: l'esplosione di un supervulcano che ha lasciato un cratere di 100 km sull'isola di Sumatra e ha disperso polveri che oscurarono il Sole, rendendo ancor più freddo un pianeta che già stava attraversando una glaciazione.
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Questo mise a dura prova gli ecosistemi e provocò una repentina diminuzione degli esemplari di varie specie. Provocando, dal punto di vista genetico, un cosiddetto collo di bottiglia: solo chi sopravvisse potè trasmettere il proprio corredo genetico ai discendenti, e questo ha lasciato una traccia nel genoma delle generazioni successive. I genetisti sono riusciti a datare vari colli di bottiglia di ghepardi, tigri e di molti primati, più o meno nello stesso periodo della catastrofe di Toba.
Per quanto riguarda Homo sapiens, si stima che circa 70mila anni fa fummo vicini all'estinzione: rimasero solo 20-25mila esemplari. O più precisamente, tutti gli 8 miliardi di persone che oggi abitano la Terra derivano da un ristretto gruppo di 20-25mila che vissero in Africa 70mila anni fa. Avrebbero potuto essere di più ma o non si sono riprodotti, o le loro stirpi si sono estinte.
Questo collo di bottiglia ha quindi distrutto gran parte della variabilità genetica esistita precedentemente: ad un certo punto sopravvissero e si riprodussero molti meno esemplari e quindi molte meno versioni diverse di Homo sapiens.
Un fenomeno geneticamente simile ma con cause totalmente diverse è il cosiddetto effetto del fondatore in serie, causato dalle migrazioni che Homo sapiens ha più volte intrapreso nel corso dei millenni. Si tratta di spostamenti di pochi km per ogni generazione, ma abbastanza per partire dall'Africa e raggiungere, in relativamente poco tempo, la Patagonia.
L'effetto del fondatore provoca un fenomeno di deriva genetica che porta ad una ulteriore diminuzione di una già bassa variabilità genetica. Infatti, se un sottogruppo della popolazione si stacca e non si mescola più con la popolazione iniziale, si porta dietro solo un piccolo pezzettino di variabilità genetica e quindi avrà una variabilità genetica diminuita. Il motivo è quindi simile: un sottogruppo ha meno esemplari, quindi meno versioni di Homo Sapiens, e quindi meno diversità genetica.
Certo, la variabilità può ricominciare ad aumentare col tempo e la globalizzazione può rimescolare un po' il genoma del genere umano, ma è un processo molto più lento (o molto più recente) delle migrazioni. Tanto è vero che ancora oggi si vede come la variabilità genetica sia massima (seppur bassa) in Africa e sempre minore mano mano che ci si allontana dalla culla di Homo sapiens, seguendo le antiche rotte migratorie.
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Se quindi alla nascita siamo tutti così biologicamente simili, allora la quasi totalità delle differenze fra esseri umani è di origine culturale e ambientale, dovuta alla storia e alle esperienze personali. Sono queste che giocano un ruolo significativo nella distinzione fra esseri umani, che definiscono chi siamo e come ci comportiamo. E non è nulla che si possa trasmettere geneticamente.
Con buona pace dei razzisti e di taluni psicologi riduzionisti.
(L'immagine di apertura è stata creata con l'intelligenza artificiale generativa Adobe Firefly)
#homo sapiens#razzismo#razze#deriva genetica#effetto del fondatore#collo di bottiglia#catastrofe di toba#migrazioni#africa
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Nel sesso è piacevole dare quanto ricevere, il che rende eccitante l'insieme. I limiti sono imposti da una bassa cultura generale. I limiti sono imposti per la massa .
I grandi poeti hanno varcato i limiti con una penna, figuriamoci nel XXI secolo cosa si può lecitamente condividere con chi ha varcato il limite imposto da stolti menzogneri.
L'amor si nutre di persone intelligenti. Gli ignoranti si accontentano di poco e niente. Vivono " sopravvivono " per il nulla. V Campidoglio
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Da Fb.
Ossimoro
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LA VALLE CHE SALVA I LIBRI DAL MACERO
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Salvare i libri dalla discarica, in un periodo in cui la carta rischia di essere sostituita dal digitale e la cultura sembra essere sempre più volatile.
Un’iniziativa nata nelle valli piacentine dove un gruppo di amici appassionati di libri ha deciso di costruire un’alleanza tra territorio e letteratura, creando un percorso che unisce alcuni Comuni della bassa val Trebbia in una filiera di rinascita del libro. Un sentiero dove dare la possibilità ai vecchi libri destinati al macero di tornare a vivere, di essere conosciuti, riscoperti, venduti, trasformati e valorizzati attraverso la nascita di piccole attività artigianali e artistiche di legatoria, grafica, fumetto, disegno e in generale di valorizzazione della cultura e del territorio, per riportare interesse in zone che hanno bisogno di essere ritrovate e non dimenticate, come i libri. Un modo per dare opportunità di lavoro ai giovani ma anche di salvare le collezioni di libri di privati che con le loro donazioni trovano nuovi spazi alternativi al macero.
La rete della ‘Valle dei libri’ è nata ad ottobre e comprende oggi 5 Comuni: Calendasco, Gragnano, Gazzola, Agazzano e Piozzano situati nella Val Luretta, che hanno messo a disposizione spazi e locali dove i libri donati stanno trovando posto. “L’idea è quella di caratterizzare ogni Comune con un genere; per esempio, nel castello di Rivalta confluiranno titoli di arte, architettura, design, a Gragnano, nell’ex cinema, troveranno posto libri di cinema, teatro, musica e danza” racconta Giangiacomo Schiavi, editorialista del Corriere della Sera ideatore del progetto insieme a Lanfranco Vaccari, già direttore del Secolo XIX.
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Fonte: Libertà; con il gentile contributo di Giangiacomo Schiavi; foto di Bsr Gulluk
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Gli Hobbit
Gli Hobbit sono una razza umanoide che vive nella Terra di Mezzo, principalmente nell'Eriador (vasta regione situata ad Ovest tra le Montagne Azzurre e le Montagne Nebbiose), in un paese che loro chiamano Contea, dove vivono in pace e ignari di ciò che accade nel resto del mondo.
Il terreno della Contea fu donato loro da Argeleb II (vecchio re del regno di Arnor) nel 1601 TE.
Sono un popolo sereno e gioviale, amano godersi la vita, il buon cibo e fumare l'erba pipa.
Il nome Hobbit
Gli Hobbit vengono chiamati in diverso modo, anche se pochi possono dire di averli conosciuti di persona (tra cui i Nani e i Raminghi). Hobbit è il termine hobbittish (loro dialetto nella lingua corrente) con il quale chiamano loro stessi "abitanti dei buchi". A Rohan vengono chiamati holbytla, nome che ha lo stesso significato di hobbit. I Dunedain invece si riferiscono a loro col termine "mezzuomini", per via del loro aspetto.
Aspetto
Gli Hobbit sono una razza umanoide di bassa statura (tra i 90 e i 120 cm) dai grossi piedi pelosi e dalla pianta così dura da rendere superflue le scarpe. Non hanno la barba ma possono avere lunghe basette e capelli folti, castani e bruni per la maggior parte. Quando nasce un hobbit biondo viene visto come un ottimo presagio.
Gli hobbit arrivano alla maggiore età a 33 anni, ma vengono considerati adulti raggiunti i 50. La loro prospettiva di vita è di 100 anni, i più longevi che vengono ricordati sono Il Vecchio Tuc e suo nipote Bilbo Beggins (130 e 131 anni rispettivamente).
Razze
Esistono 3 razze principali di hobbit e queste sono : I Pelopiedi (più scuri e bassi, non hanno la barba, hanno le mani piccole e agili e preferiscono la montagna alla pianura. Furono tra i primi a giungere nella Contea e si dice fossero grandi amici dei nani. Sono i più numerosi e vissero in caverne scavate nella terra), Gli Sturoi (con mani e piedi più grandi, preferiscono le pianure e le sponde dei fiumi. Si stabilirono sulle rive dell'Anduin per poi seguire i Pelopiedi verso ovest. Alcuni di loro hanno la barba) e i Paloidi (i più alti e chiari di pelle e di capelli. Amano i boschi e le foreste e sono i meno numerosi. Amano il canto, la poesia e l'artigianato, preferiscono la caccia. I più spericolati e avventurieri delle 3 razze.
Cultura
Gli Hobbit sono un popolo di antica origine, discreto e modesto, meno numerosi che in passato. Amano la pace , la tranquillità e la terra per coltivata. Sono ottimi artigiani e lavoratori. Sono un popolo estremamente timido infatti non hanno rapporti con gli altri abitanti della Terra di Mezzo. In passato erano amici dei nani, sono molto bravi a nascondersi dalla "gente alta". Tendono ad essere grassocci e pigri. Non indossano scarpe per via di una pianta del piede molto spessa e callosa. Hanno piedi grandi con una folta peluria ma in compenso hanno un viso più grazioso.
Amano bere e far festa. Sono tra i popoli coloro che si avvicinano di più agli uomini, e da loro hanno ereditato l'abilità nel costruire case (imparata a loro volta dagli elfi), ma a differenza loro tendono a costruire porte e finestre circolari in case costruite dentro la terra.
Il mondo ha quasi sempre ignorato la loro esistenza, cosa che li rende assai felici dato che non si interessano di ciò che non li tocca direttamente. Vivono in famiglia, Frodo e Bilbo con la loro vita solitaria sono delle eccezioni.
Origini
Le origini degli hobbit sono perlopiù sconosciute. Gli elfi sono gli unici che conservano registri di epoche così lontane e in questi registri loro parlano unicamente della loro storia. Si presuppone che fossero un popolo nomade, civilizzati grazie al contatto con gli uomini del nord. Vivevano nei pressi del Bosco Atro e per via delle continue incursioni di altri popoli decisero di andare ad ovest superando le Montagne Nebbiose. Tuttavia a causa delle lotte tra le forze di Angmar e i Dunedain, si spostarono ancora di più ad ovest passando da Le Colline Del Vento alla Terra di Brea. Qui, l'ultimo re del regno del nord (Argeleb II) concesse agli Hobbit il terreno in cui, dopo la fine di Arnor, prese il nome di Contea (poiché gli hobbit misero a capo un conte).
La Battaglia di Terreverdi
Negli anni successivi alla nascita della Contea ci fu un periodo di pace, anche perchè gli hobbit erano protetti a nord dai Raminghi che li difendevano dalle incursioni degli orchi. Tuttavia nel 2740 TE, un gruppo di orchi sfuggì dalla guardia dei raminghi e giunse sulla Contea. A salvare la situazione ci pensò l'hobbit Bandobras Ruggitoro Tuc (che si dice fosse abbastanza alto da cavalcare un cavallo adulto) che grazie ad un esercito di Hobbit scacciò gli orchi e di loro non vi fu più traccia. I racconti dicono che Bandobras staccò la testa dal corpo di Golfinbur (capo degli orchi) con una mazza, e che la testa andò a finire nella tana di un coniglio. Così nacque il gioco del golf, che gli hobbit tanto amano.
Il Crudele Inverno
Dieci anni dopo la Battaglia di Terreverdi ci fu un lungo inverno che mise ad dura prova gli hobbit. Il popolo fu decimato a causa del gelo e dalla fame. Si salvarono però grazie all'aiuto dei raminghi e di Gandalf. Proprio in questo periodo Gandalf prese a cuore gli hobbit, colpito dal loro coraggio e dalla loro forza.
Calendario della Contea
Spesso abbreviato con CC o SR (in inglese), è il calendario degli hobbit. Questo calendario differisce dagli altri della Terza Era di 1600 anni, poichè gli hobbit cominciarono a contare da quando si insediarono nella Contea ( nel 1601 TE). E' composto da 12 mesi da 30 giorni, a questi si aggiungono i 2 giorni di Yule (che cadono nei nostri 21/22 Dicembre, ovvero nel solstizio d'inverno) e 3 giorni festivi a metà anno (primo e terzo chiamati Lithe e il secondo Giorno di Mezzo Anno). Negli anni bisestili si aggiunge un giorno di festa chiamato Superlithe.
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Non mi piacerebbe sentir dire che ho tentato di stupire, che voglio fare il moralista, che sono troppo autobiografico, che ho cercato nuove vie.
Non mi piacerebbe sentir dire che il film è pessimista, disperato, satirico, grottesco. E nemmeno che è troppo lungo.
La dolce vita, per me, è un film che lascia in letizia, con una gran voglia di nuovi propositi. Un film che dà coraggio, nel senso di saper guardare con occhi nuovi la realtà e non lasciarsi ingannare da miti, superstizioni, ignoranza, bassa cultura, sentimento.
Vorrei che dicessero: è un film leale.
La base del discorso presuppone un certo tipo di angoscia che non arriva alla coscienza di tutti. L'episodica invece è molto spettacolare, attinta com'è da una cronaca che ha interessato, commosso, irritato, divertito il pubblico... penso che La dolce vita possa venir accettato come un giornale filmato, un rotocalco in pellicola. Sono anni che i settimanali vanno pubblicando queste vicende.
Federico Fellini
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La dolce vita
Cit wikipedia
Gif davidlynch
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Corrado Bonomi Rosencrantz e Guilderstern a cura di Edoardo Di Mauro Corrado Bonomi è uno degli esponenti più significativi di quell’area di “concettualismo ironico” che in Italia sta ormai definitivamente imponendosi, complice una diffusa stanchezza nei confronti dell’ininterrotta sequela di trovate neoconcettuali, tanto patinate ed estetizzanti quanto vuote di significato al di là di una diligente ma pedestre citazione di quanto abbondantemente già visto nel recente passato, che hanno qualificato in negativo gli anni ’90. Gli “ironici” si caratterizzano viceversa per una ampia dose di irriverente e caustica irrisione di molti luoghi comuni dell’immaginario collettivo. Da un punto di vista estetico le opere si presentano connotate da un estroso eclettismo, marcato è lo spazio concesso alla decorazione, frequente l’uso della pittura, espressa con modalità analitiche e concettuali, oppure con intervento “primario” su di un ampio repertorio oggettuale. Nell’ambito di un frequente utilizzo di forme provenienti dall’immaginario ludico dell’infanzia assistiamo, inoltre, ad una tipologia compositiva che prevede l’impiego di materiali sintetici e derivati plastici, idonei alla realizzazione di assemblaggi dalla colorazione viva e squillante. Corrado Bonomi, personalità dotata di un curriculum importante ed apprezzata da anni anche al di fuori dei confini nazionali, particolarmente in Germania, adopera l’oggetto con gioia e creatività infantili, mostrandoci il volto di un’arte che è gioco combinatorio, calembour di citazioni in bilico tra cultura “alta” e “bassa”, in grado di stupire chi guarda con soluzioni spiazzanti ed inaspettate, specie per chi si aspetta di fruire l’arte in una dimensione aulica ed inaccessibile. I temi prescelti da Bonomi per le sue originali installazioni castigano con soave ironia i luoghi comuni del rigore concettualista come nella serie dei “Castelli in aria”, autentici manieri d’epoca confezionati in cartone e sospesi su nuvole di cotone, sdrammatizzano senza negarle retoriche e tragedie nazionali, come nel Mussolini in miniatura affiorante da un piatto di spaghetti al pomodoro in ceramica mentre declama l’incauta dichiarazione di guerra, od ancora stravolgono il concetto di serializzazione dell’opera d’arte con la performance “Pizzeria Belle Arti” dove l’artista, sui classici involucri da asporto realizza su ordinazione, col pennello ed in presa diretta, per poi venderle a costi contenuti, pizze dai molteplici gusti, e questo solo per citare una piccola parte del suo inesauribile repertorio. Esperto nella realizzazione di opere costruite con materiali e rifiuti riciclati, altro aspetto rilevante della sua pirotecnica vena creativa, Bonomi ha studiato, per questa personale nello spazio di Fiorile Arte, una installazione ad hoc. Questa volta il tema trattato, sempre con sagace ironia, è quello del carcere. Dalla vetrata posta a ridosso della strada si potrà ammirare un tipico muro carcerario realizzato con cartoni dipinti. Entrati all’interno della galleria si noterà una porta, anch’essa di cartone, su cui è affissa una targa recante il nome di Rosencrantz e Guilderstern, “gli avi di Bibi e Bibò”, per citare le parole di Bonomi nel descrivere il progetto. Dalla fessura della porta si potrà avere, uno per volta, la visione completa dell’opera. Assistiamo quindi alla consueta ma sempre geniale commistione di elementi sapientemente decontestualizzati da ambiti diversi, dove la tetraggine del luogo di prigionia si stempera con le citazioni letterarie e fumettistiche, per concludersi con un tuffo nel passato della storia dell’arte, con i riferimenti piuttosto evidenti a “Etant donnes” di Duchamp, rispetto alla fessura da cui sbirciare voyeuristicamente la parte finale dell’opera, nonchè all’iconografia tipica delle stampe piranesiane.
Edoardo Di Mauro, gennaio 2004
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IL CANE DEL VAJONT
Furono giorni di tragedia.
Nel Sudest asiatico, causa un terremoto, il mare venne avanti più alto del normale debordando come il latte quando esce dalla pentola e provocando forse mezzo milione di morti.
Si è sentito affermare più volte da televisioni, radio e giornali che gli animali di quelle zone disastrate, poco prima della tragedia, davano segni di nervosismo, paura, angoscia e, in certi casi, addirittura terrore.
Molti sorridono quando ascoltano discorsi sugli animali che sentono il pericolo.
Invece non c'è niente da ridere.
La notte del Vajont, qualche ora prima del cataclisma che uccise duemila persone, le vacche nelle stalle strappavano le catene dalla mangiatoia a furia di strattoni e muggivano disperate.
Alcuni superstiti, ancora viventi, lo possono testimoniare.
Se molti avessero dato retta ai lamenti disperati delle vacche, che erano grida di allarme, forse sarebbero qui a raccontarla, se non morti per altre cause.
Uno di loro, però, sopravvisse e per anni poté rievocare il suo giorno fortunato proprio perché, al contrario di altri, dette retta alle grida del cane che si chiamava Olmo.
Quella notte che il monte Toc franò nella diga del Vajont, da almeno un paio d'ore il cane Olmo abbaiava, ringhiava, dava strattoni alla catena, si buttava per terra e rotolava impazzito.
Il suo padrone, Giambattista Corona Ziano, all'inizio non ci badò, anzi tirò un paio di calci all'animale che lo disturbava. Ziano abitava nella parte bassa di Erto, nella zona della cuaga, una rampa verticale proprio al bordo del lago. Abitava così vicino all'acqua che, con la canna da pesca, cavava le trote stando in piedi sulla porta di casa. Diceva a tutti che a mezzogiorno teneva pronta la teglia sul fuoco con l'olio bollente per cacciarvi il pesce appena pescato.
Così diceva Ziano, che amava esagerare.
Ma quando raccontava la storia di Olmo non esagerava, e sul viso gli correva qualche lacrima. Oggi Giambattista Ziano è passato a miglior vita.
La notte in cui il cane strappava la catena, mugolava e si rotolava per terra, aveva quarant'anni. Oltre che pescare andava a caccia con Olmo, il suo bracco tedesco.
Verso sera di quel mercoledì 9 ottobre 1963 Ziano, dopo un paio d'ore che Olmo dava segni di paura, incominciò a pensarci su.
Si sapeva che il Toc ormai era precario e, riflettendo bene, l'agitazione del cane lo mise sul chi vive.
Gli venne una certa ansia che non voleva dichiarare nemmeno a se stesso, tanto era stramba l'idea che il cane agitato segnalasse un pericolo imminente.
Ma tant'è, per non rischiare, e in omaggio al santo precetto del "non si sa mai", decise di recarsi a Erto a bere un litro da Pilin.
Bevendo avrebbe fatto passare qualche ora, poi sarebbe tornato a casa e un buon sonno gli avrebbe tolto ogni pensiero.
A Giambattista Corona Ziano non passò nemmeno per la testa di portare con sé il cane Olmo.
Se lo avesse fatto, avrebbe rinforzato quell'idea quasi ridicola che l'animale percepisse il pericolo.
Così, per non sentirsi ridicolo, lasciò Olmo alla catena.
Ziano non aveva terminato di bere la seconda caraffa di rosso quando scoppiò l'apocalisse.
Tutto venne spazzato via in tre secondi.
Case, persone, boschi e animali non esistevano più. Anche la casa di Giambattista Ziano fu polverizzata e il povero Olmo, che aveva intuito e segnalato il pericolo, scomparve nel nulla.
Da quel giorno fino alla morte, avvenuta il 18 novembre 2003, Ziano portava i fiori al suo cane ogni anniversario del Vajont. Li posava sul pavimento della casa distrutta.
Erano quattro lastre sbilenche; tutto ciò che rimaneva.
E ogni volta, per quarant'anni, ripeteva la stessa frase: «Dei cani bisogna fidarsi, degli uomini no».
Alludeva a quei geologi che gli avevano assicurato l'assenza totale di pericolo.
Mauro Corona
[Dalla pagina FB "Cultura Veneta", post di F. Levorin Carega]
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È stata Marguerite Gautier ne “La signora delle camelie” di Alexandre Dumas figlio, e Violetta Valery ne “La Traviata” di Giuseppe Verdi: tutti nomi che il mondo dell'arte le ha dato.
La storia però la ricorda come 𝗠𝗮𝗿𝗶𝗲 𝗗𝘂𝗽𝗹𝗲𝘀𝘀𝗶𝘀.
Ma in realtà neppure così si chiamava: alla nascita, il 15 gennaio del 1824, era Alphonsine Rose Plessis. Intorno ai sedici anni, quando si affacciò nel demi-monde parigino, volle cambiar nome: il Plessis venne “nobilitato” con il prefisso “du”, e i due nomi di battesimo furono sostituiti da Marie. Erano nomi da cameriera, racconterà più tardi a uno dei suoi amici, e poi Marie è più elegante.
Alphonsine fu fin da piccola affascinata dal demi-monde parigino, a metà tra la borghesia e l’ambiente aristocratico.
Nata a Nonant-le-Pin, un paese della Bassa Normandia, era figlia di Marin Plessis, un commerciante ambulante, violento, alcoolizzato e sempre a corto di soldi; ma anche un vizioso sempre in caccia di donne ammaliate dal suo rozzo fascino. Tra le vittime del suo discutibile fascino vi era stata la madre, Marie Deshayes: di origine nobile, essendo figlia di Anne du Mesnil d'Argentelle, ma la sua famiglia era da tempo decaduta. Per sfuggire alla brutalità del marito, affidò a una sorella le figlie Alphonsine e Dauphine, andò a servizio presso una nobildonna inglese e morì a Ginevra nel 1830.
Appena adolescente, Alphonsine trovò lavoro come cameriera d'albergo a Exmes, poi in una fabbrica di ombrelli a Gacé, sempre nelle vicinanze del paese d'origine. Decise però di andare a cercar fortuna a Parigi, dove inizialmente cercò di mantenersi con lavori umili. Forse ancora quattordicenne, divenne l'amante di un commerciante; iniziò così la vita da mantenuta, passando per vari altri uomini ammaliati da quella giovane donna dall’aspetto esile ma elegante, spontanea ma dotata di temperamento passionale.
In poco tempo imparò a leggere e fu abile nell’assorbire la cultura che le servì a frequentare salotti bene, in cui conobbe Balzac, Thakeray, Dickens List e tanti altri maitre-à-penser.
Sessualmente disinvolta, Alphonsine era coinvolgente, spesso sfacciata, e riusciva a farsi notare a primo impatto, grazie al suo innato gusto per gli abiti eleganti ma senza sfarzo, che la rese modello di eleganza e savoir-faire.
Molti uomini dell’élite parigina erano ammaliati dalla sua fresca bellezza, dal suo spirito arguto e dalla sua vivacità. Riuscì ad introdursi sempre più spesso nei posti frequentati dalla migliore società, e si fece persino ritrarre dal pittore più alla moda: Édouard Vienot, il cui studio era frequentato dal bel mondo parigino.
Legandosi a uomini dell’aristocrazia, spesso si smise in urto con le loro famiglie, che non accettavano che i loro rampolli fossero soggiogati dal fascino di questa raffinata cortigiana. “Senza amanti – scrisse di lei Dumas – il tedio la uccideva”.
Delle tante relazioni di Marie, diede scandalo soprattutto quella con Agénor de Gramont duca di Guiche, rampollo di illustre famiglia che sarà un uomo politico di primo piano nella Francia di Napoleone III; tanto che la famiglia allontanò Agénor da Parigi per mettere un freno all’ondata di pettegolezzi che stava umiliando il casato, visto che lui esibiva Marie al suo fianco in tante pubbliche occasioni.
Frequentando uno dei salotti la Duplessis conobbe il già celebre scrittore Alessandro Dumas, il cui omonimo figlio si innamorò follemente di lei; la loro relazione durò un anno, dal settembre 1844 all'agosto 1845.
Alexandre e Marie vissero per un breve periodo insieme in campagna a Saint-Germain-en-Laye, piccolo comune dell'Ile de France a poca distanza da Parigi; con i ricordi di questo periodo Alexandre scriverà la sua opera più nota: “La signora delle camelie” (La Dame aux Camélias).
Le camelie: ormai baricentro del demi-monde parigino era proprio lei, Alphonsine Duplessis, nota a tutti come “La signora delle camelie” per il vezzo di presentarsi in società con alcune camelie intrecciate nella folta capigliatura bruna.
La relazione con lo scrittore finì quando lui la troncò con una lettera in cui le diceva che la loro vicenda così coinvolgente era divenuta per lui una sorta di tormento.
Ma non lo rimpianse a lungo: si gettò tra le braccia del compositore Franz Liszt, ma poi ammaliò il conte Édouard de Perrégaux suggellando la loro relazione con il matrimonio celebrato a Londra nel 1846. Aveva ventidue anni, Marie, e da piccola prostituta qual era stata al suo arrivo a Parigi circa sette anni prima, era diventata una contessa.
Presto però il matrimonio si rivelò un fallimento; Londra le parve luogo ostile, e decise di rientrare a Parigi gettandosi in una vita sempre più tumultuosa e disordinata, come se ogni giorno fosse l’ultimo della sua vita; la tisi che l’aveva colpita da qualche tempo avanzava inesorabile, minandola nel fisico e nello spirito.
Marie non era più in grado di frequentare salotti, con il petto scosso dagli attacchi di tosse. Il male la stava consumando, e si ritirò in un appartamento sul boulevard de la Madeleine. Era il 3 febbraio 1847 quando il suo tormento ebbe fine; dei suoi tanti ammiratori solo due le furono accanto nelle ultime ore: il conte svedese von Stakelberg e il marito conte de Perrégaux.
Ma ebbe ancora un po’ di celebrità: ai suoi funerali partecipò una gran folla di ex ammiratori e di curiosi.
Alla sua morte la signora delle camelie aveva lasciato una gran mole di debiti; per risarcire i numerosi creditori, fu stabilita una vendita all’asta di tutto ciò che fu trovato nella sua casa. Il manifesto che annunciava l’asta per il venerdì 27 febbraio 1847, ad appena ventiquattro giorni dalla sua morte, elencava mobili, gioielli, argenterie, un intero guardaroba con capi lussuosi, carrozza e cavalli.
Morbosamente attratti, i partecipanti fecero a gara per assicurarsi gli oggetti andati all'asta: la breve esaltante vita di Marie fu smembrata in una mattinata.
(testo di Dedo di Francesco)
#lasorgentedellemuse
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🎨 Dipinto di Joseph-Désiré Court (non è un ritratto di Marie Duplessis)
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Aiutatemi a capire questa mia breve storia triste: camminavo con una mia amica e un esemplare di uomo intento alla guida urla “Ue tesoro che belle gambe che hai” e continua a guidare che se fossi stato il lupo cattivo di cappuccetto rosso gli avrei risposto è per prenderti meglio a calci nel culo, ma vabbè, dettagli. Suddetto uomo, non contento della mia inconcepibile indifferenza difronte a tale commento, si fa il giro del palazzo e a sto giro accosta di fianco a me e alla mia amica che onestamente volevamo solo tornare a casa a fare pipì. Il galantuomo così sfoggia la sua battuta migliore con “ogni riccio è un capriccio eh” ed è li che io capisco che deve essere proprio un uomo di cultura, si sente proprio l’impronta degli studi face to face con Shakespeare. Ancora non soddisfatto del mio camminare a testa bassa, il cavaliere non demorde ed esordisce con un “oggi che capriccio hai?”. Amo non lo so, vado dalla psicologa per questo, se vuoi ti do il numero però, mea culpa, ho risposto con “troppi”. Ed ecco che anche l’eroe più valoroso cade nella trappola pronunciando la sola ed unica frase che fa indemoniare una donna “vabbè ja, stai nervosa stasera” tu immagina che ho anche il ciclo, hai fatto tombola, cuoricino. Morale della storia, se ne va, salutandomi in modo davvero originale e cito testualmente “hai una sgommata di merda a culo, sei una zozzona”. Forse devo chiedere alla mia prof del liceo di parafrasare questa poesia perché non credo di aver ben capito il senso della cosa. Forse se l’è presa perché non ho ceduto al suo corteggiamento di maschio alfa? però io sono sicura che lui l’otto marzo ha fatto gli auguri a tutte le donne dicendo che non si devono toccare nemmeno con un fiore, quindi non capisco davvero, risp urg.
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Anche oggi ho fatto cose da sola. Come sempre. Non mi ha messo tristezza in sé, ma mi ha messo tristezza il fatto che sia considerato triste. Io sto bene da sola però, lo ripeto, so che è sbagliato, ma è anche vero che non è colpa mia se lo sono. Ormai anche se sono sola, non provo più solitudine, mi sono abituata, il che è forse considerata una forza, ma non lo so se vada bene che sia così.
A volte (anzi sempre) le osservo, le persone che stanno insieme. Chissà perché stanno insieme: perché amano o perché si sentono/non voglio stare sole? Dall'alto della mia superiorità di cui mi fregio sempre a sproposito, io opto sempre per la seconda. La gente non si ama quasi mai, vuole solo non stare da sola.
Ed è giusto così, anche per tutta una serie di motivi biologici. Se non siamo da soli non ci accoppiamo e la specie non può sopravvivere. Simple like that. E non importa se non ami, l'importante è avere attrazione sessuale quel tanto che basta per riprodurti. In fondo noi siamo impulsi, quasi solo impulsi.
La bellezza, infatti, è anche data da tutta una serie di misure del corpo che biologicamente consideriamo attraenti perché adatte alla procreazione: le donne con anche e culo largo; gli uomini con spalle avvenenti. Il nostro cervello è in grado tramite queste cose di capire che è quell' essere quello più adatto per la sopravvivenza della specie. Non scegliamo, siamo scelti. In fondo, non siamo che macchine biologiche il cui funzionamento è ancora oscuro persino a noi stessi.
E il libero arbitrio? Eh boh, chissà in quale percentuale possiamo definirci liberi di poter decidere davvero. Potrebbe essere bassa tanto quanto nel momento in cui dovete scegliere tra pasta al pomodoro e pizza, sapete già cosa sceglierete, per dire. Per quale motivo? Gratificazione. Endorfine, viviamo per quelle.
Siamo anche cultura e tecnica, è vero. Ma a volte ho come la sensazione che più che accettare queste componenti, ci dovrebbe essere un po' di rivalsa della natura sulla tecnica.
Anche se per il nostro benessere psicologico è importante accettare la solitudine, come animali non va per niente bene. Che non vuol dire affannarsi per stare sempre non da soli, ma nemmeno bollarlo come comportamento sano. Stessa cosa per mille altre cose come l'obesità e il sovrappeso, l'utero in affitto, la chirurgia estetica ecc.
Mi rendo conto che il passo indietro non lo si può più fare, un po' come la crisi climatica. Ma io mi rendo sempre più conto che l'uomo nella storia ha fatto passi avanti solo per accorgersi successivamente che era meglio fare un passo indietro. E sarà così anche per queste cose.
Io non sono nessuno, ma se mai ci rivedremo in questa o in altre vite, galassie, spazio-tempo e pianeti, sappiate che io ve lo avevo detto.
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(contesto:la sequela di notizie sulla ragazza che su tiktok sclera per le 8 ore di lavoro+connessi e un mio pippone mentale)
Io in un altro 68' ci spero,anche perché o così o il mondo va a puttane.
Il problema è che: 1) non mi fido, perché vedo quello che ha combinato la generazione che il 68' lo ha fatto una volta arrivata nei luoghi di potere,e reputo che il sistema sia malato e si autoreplichi, altrimenti è inspiegabile come la stessa generazione che ha vissuto e lottato sia passata dalla parte dell'oppressione o giustifichi le storture che sono rimaste/si sono incrementate( a meno che non volevano solo scopare e avere una società ipersessualizzata,ma non mi risulta).
2)vedo troppi pari che boh hanno il mindset da imprenditore vincente yuppies evasore medio,inculato in testa per cui:"gnooo non possono pagarti come è tuo diritto(coff coff),quindi accontentati del minimo e lavora 480 ore,perché lo stato cattivissimo tassa troppo(in parte è vero che le tasse sono molto alte,lo sappiamo tutti)" che manco viene fatto perché pagando il giusto andrebbero sotto un ponte,ma solo perché l'essere imprenditore deve implicare avere 4 macchine da 70k,fare la BELLA vita,andrew tate💎/Berlusconismo ed è per questo che fai la merda o evadi.
Ed il problema grosso è che, prendendo a caso la questione della tiktoker che tra 8 ore di lavoro e 3 di trasporti ha una crisi di nervi e dice che non ha una vita, io dalle vecchie generazioni me lo aspetto l'astio,la paternale ecc. Ecc. Perché sono cresciute con una cultura del lavoro oppressiva e schiavizzante e sono pieni di risentimento e problemi di salute,perché sono stati a testa bassa una vita intera convinti che le 8 ore di lavoro vadano sempre e per sempre bene(piuttosto che essere un conquista del secolo scorso DA CUI PARTIRE,per diminuirle in modo sostenibile); ma quando vedo che questo astio viene dai miei coetanei che diocane manco andranno in pensione,mi cade il mondo.
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io lo so che il discorso che sto per fare è razzista, ma è figlio di un ripetersi di costanti, osservate e vissute quotidianamente a lavoro; un'insieme di statistiche empiriche che si sommano nella mia mente e mi portano alla conclusione, soggettiva e personale, che un'insieme di etnie di extracomunitari sia decisamente tossica per la nostra società, o quantomeno per la società in cui vivo io
sono loro ad essere maleducati, sono loro ad essere aggressivi, sono loro ad essere cattivi, genuinamente cattivi e incattiviti
sono i meno integrati, i più violenti, i più maschilisti
ogni volta che c'è un evento violento so già di che nazionalità si tratta
appena sento l'accento so già che verrò insultato, nella mia lingua o nella loro, e che mi renderanno il lavoro inutilme difficile
e questa è solo la punta dell'iceberg, le sensazioni più forti che mi vengono in mente, ma potrei continuare citando tante altre sfumature più sottili
vivo quotidianamente esperienze di questo tipo, esperienze molto negative con una determinata cultura, e la mia reazione di pancia è quella di nutrire odio nei loro confronti, di averne paura e di esserne sospettoso
la ragione cerca di frenare questi pensieri e queste emozioni, cerca di dare un senso ed una spiegazione, nonché una giustificazione a queste persone
mi ripeto che il mio sia un bias cognitivo, che sto cadendo nella trappola del luogo comune
e probabilmente è vero
ma per una volta mi sento di capire che il fenomeno del razzismo è più complesso di quello che appare, che non è solo frutto della bassa scolarizzazione, che non ne fanno parte solo i mostri e i fascisti
il modo in cui si comportano le persone nei nostri confronti genera in noi dei sistemi di difesa
mi accorgo di capire chi è razzista, ma mi impongo di non condividere né appoggiare il razzismo
ma quanto è difficile mettere un freno all'odio, mettere un freno all'istinto
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