#collo di bottiglia
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Perché siamo (biologicamente) uguali?
Che le razze umane non esistano è un fatto ormai scientificamente assodato. Anche se questa invenzione è sempre stata usata per giustificare il razzismo culturale.
Ognuno di noi è ovviamente una versione diversa di Homo sapiens: la riproduzione sessuale fa un gran bel lavoro di rimescolamento con il materiale genetico che ha a disposizione. Ma siamo lo stesso così simili gli uni con gli altri che è possibile trovare qualcuno dall'altra parte del mondo che casualmente ha un genoma più simile al proprio di chiunque abiti nel nostro stesso quartiere (a meno che non si viva con il proprio fratello gemello, ovviamente).
Certo, nel corso dell'evoluzione il nostro cervello ha sviluppato la capacità di riconoscere e amplificare la percezione delle differenze estetiche e la nostra cultura ne ha fatto un totem di appartenenza etnica. Ma i classici tratti somatici che usiamo per discriminare (colore della pelle, dei capelli e degli occhi, statura, forma del viso, eccetera) sono determinati solamente da una manciata di geni, su un totale che si aggira sui 20mila.
Ovvio che se un aborigeno australiano avesse migliaia di geni identici ai miei ma che codificano solo proteine che influenzano il funzionamento del cuore, del cervello, la composizione del sangue e la struttura ossea, non me ne potrei mai accorgere a colpo d'occhio.
La genetica di Homo sapiens è così poco varia che siamo la specie di primate con meno diversità genetica di tutte. È questo che ci rende così simili gli uni con gli altri. E, tra l'altro, ci espone ad un numero maggiore di malattie genetiche. Potremmo dire che siamo tutti consanguinei.
Secondo l'attuale conoscenza scientifica, il motivo è duplice.
Da un lato, circa 73mila anni fa si è verificata una drastica diminuzione della popolazione. Dall'altro, siamo sempre stati una specie fortemente migratoria.
La diminuzione della popolazione probabilmente è stata causata dalla catastrofe di Toba: l'esplosione di un supervulcano che ha lasciato un cratere di 100 km sull'isola di Sumatra e ha disperso polveri che oscurarono il Sole, rendendo ancor più freddo un pianeta che già stava attraversando una glaciazione.
Questo mise a dura prova gli ecosistemi e provocò una repentina diminuzione degli esemplari di varie specie. Provocando, dal punto di vista genetico, un cosiddetto collo di bottiglia: solo chi sopravvisse potè trasmettere il proprio corredo genetico ai discendenti, e questo ha lasciato una traccia nel genoma delle generazioni successive. I genetisti sono riusciti a datare vari colli di bottiglia di ghepardi, tigri e di molti primati, più o meno nello stesso periodo della catastrofe di Toba.
Per quanto riguarda Homo sapiens, si stima che circa 70mila anni fa fummo vicini all'estinzione: rimasero solo 20-25mila esemplari. O più precisamente, tutti gli 8 miliardi di persone che oggi abitano la Terra derivano da un ristretto gruppo di 20-25mila che vissero in Africa 70mila anni fa. Avrebbero potuto essere di più ma o non si sono riprodotti, o le loro stirpi si sono estinte.
Questo collo di bottiglia ha quindi distrutto gran parte della variabilità genetica esistita precedentemente: ad un certo punto sopravvissero e si riprodussero molti meno esemplari e quindi molte meno versioni diverse di Homo sapiens.
Un fenomeno geneticamente simile ma con cause totalmente diverse è il cosiddetto effetto del fondatore in serie, causato dalle migrazioni che Homo sapiens ha più volte intrapreso nel corso dei millenni. Si tratta di spostamenti di pochi km per ogni generazione, ma abbastanza per partire dall'Africa e raggiungere, in relativamente poco tempo, la Patagonia.
L'effetto del fondatore provoca un fenomeno di deriva genetica che porta ad una ulteriore diminuzione di una già bassa variabilità genetica. Infatti, se un sottogruppo della popolazione si stacca e non si mescola più con la popolazione iniziale, si porta dietro solo un piccolo pezzettino di variabilità genetica e quindi avrà una variabilità genetica diminuita. Il motivo è quindi simile: un sottogruppo ha meno esemplari, quindi meno versioni di Homo Sapiens, e quindi meno diversità genetica.
Certo, la variabilità può ricominciare ad aumentare col tempo e la globalizzazione può rimescolare un po' il genoma del genere umano, ma è un processo molto più lento (o molto più recente) delle migrazioni. Tanto è vero che ancora oggi si vede come la variabilità genetica sia massima (seppur bassa) in Africa e sempre minore mano mano che ci si allontana dalla culla di Homo sapiens, seguendo le antiche rotte migratorie.
Se quindi alla nascita siamo tutti così biologicamente simili, allora la quasi totalità delle differenze fra esseri umani è di origine culturale e ambientale, dovuta alla storia e alle esperienze personali. Sono queste che giocano un ruolo significativo nella distinzione fra esseri umani, che definiscono chi siamo e come ci comportiamo. E non è nulla che si possa trasmettere geneticamente.
Con buona pace dei razzisti e di taluni psicologi riduzionisti.
(L'immagine di apertura è stata creata con l'intelligenza artificiale generativa Adobe Firefly)
#homo sapiens#razzismo#razze#deriva genetica#effetto del fondatore#collo di bottiglia#catastrofe di toba#migrazioni#africa
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Il problema di questo Paese non e' Toti (o i politici come lui) ma i milioni e milioni di cittadini Toti-imitatori. Sembriamo un Paese infettato, fallato, dove i simil-Toti sono tanto emulati e mai ferocemente condannati. Non sono molti i cittadini che rifiuterebbero l'invito di qualcuno a passare vacanze "a scrocco" su uno yacht. C'e' una contropartita? -"Fa niente, tanto a me non costa nulla".
Una concessione, un appalto, un prestito bancario, l'assunzione di un figlio o parente presso qualche ente di Stato, la nomina a Preside di qualche facolta' universitaria o a primario d''ospedale, fiches per il casino'. "Tanto a me non costa niente".
La ristrutturazione di una casa, la riparazione dell'auto, una lavatrice, due chili di bistecche, qualche bottiglia di vino pregiato. "Tanto a me non costa niente."
Piu' che un Paese moderno, sembriamo un Paese rimasto all'epoca del baratto, di una mano lava l'altra... uno stivale abitato da troppi "pedrito el drito". Un condono edilizio a me e tanti voti a te. Tu mi strappi la multa e io ti do una busta d'arance. Tu chiudi un occhio sugli scontrini e io ti faccio mangiare gratis nel mio ristorante. Tu mi fai fare una Tac domani e io regalo una borsa di marca a tua figlia. Tu mi dai la pensione di invalidita' e l'accompagno e io ti voto anche se rubi a rotta di collo. Tu mi dai 20 o 50 euro e io corro alle urne.
Ma che Paese siamo?
@ilpianistasultetto
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Addicted
Le tapparelle chiuse. La stanza buia che tutta in una volta si illumina di rosso mettendo a tutti gli oggetti un velo di proibito. Sul letto. Sul tavolo con la bottiglia di vino sopra. Su di te seduto sulla sedia accanto al tavolo. Su di me in piedi di fronte a te. Anche sulla musica che si infila e si intreccia tra di noi. Mi guardi. La tua camicia di lino è aperta. Si vede come si alza e si abbassa il tuo petto quando respiri. Sempre più forte. Hai fatto un sorso dalla bottiglia. Stai passando le dita sulla tua pelle scoperta. Dal petto verso la pancia e poi sopra i pantaloni. Torni sul petto. Lo accarezzi..lo graffi. Hai voglia. Il tuo sguardo mi sta toccando..mi sta facendo a pezzi. Ti sei alzato tenendo ancora la bottiglia in mano. Adesso il tuo viso a 2 centimetri dal mio e la tua mano sta sul mio collo. Mi baci. Ti bacio. Mi lecchi le labbra. E poi mi guardi di nuovo. Passi la tua mano sulla mia guancia e mi dai uno schiaffo. Mi sta bene. Ti sorrido. Il tuo sguardo diventa serio e la mano va dietro la mia testa. Mi raccogli i capelli e tiri la mia testa indietro. Sussuri "Apri la bocca". Lo faccio tirando la lingua fuori. Sputi sopra e poi mi versi il vino in bocca.
- Bevi!
Cerco di bere ma stai versando troppo velocemente e il vino comincia a scolare ovunque su di me. Sulle braccia..sul seno..sulla pancia..sulle gambe. Ti fermi e mi baci bevendo il vino dalla mia bocca. Lasci i miei capelli e mi stringi vicino a te. Il mio seno bagnato schiacciato al tuo petto. Mi graffi la schiena con le unghie. Mi baci il collo..lo lecchi scendendo verso le braccia e le dita. Sanno di vino. Gli prendi in bocca e succhi. Mi guardi negli occhi. E in questo momento non si capisce chi sottomette chi. Salendo passi la tua lingua sulla mia pancia. Ti fermi sul seno. Lo schiafeggi e lo succhi subito dopo. Passi le unghie sopra e sui capezzoli bagnati. Mi lasci i segni addosso.
Non so il perché ma ti fermi e ti allontani. Sparisci nel buio. Sento solo il rumore. Stai cercando qualcosa. Resto ferma e aspetto. So che non devo muovermi da qui. Torni con polaroid in mano. Scatti una foto ai segni che mi hai lasciato sulla pelle. La sventoli e la metti nella tasca dei pantaloni aspettando che sviluppi. Passi le dita sul mio viso e sulle labbra. Gli prendo in bocca e gli succhio. Ti guardo. Tiri fuori le dita e gli metti nella tua bocca succhiandoli. Senti il sapore della mia saliva. Stai attaccato alla mia faccia. Gemi. Sai quanto mi eccita sentirti gemere. Passi le dita bagnate sul mio petto strizzando un po i miei capezzoli facendomi aprire la bocca di nuovo. Le dita scendono ancora...verso linguine..mi toccano leggermente. Senti come mi fa bagnare tutto questo.
Ti togli la cintura dai pantaloni con i miei occhi puntati sulle tue mani. E mentre giochi con i miei capezzoli appena colpiti con la mano avvicini il tuo orecchio alla mia bocca.
- Dimmi dove vuoi essere colpita
Non riesco a non gemere perché le tue dita sopra miei capezzoli mi fanno impazzire e ti rispondo:
- Sul culo
Vai dietro di me e scatti un'altra foto da questa prospettiva. Mi dici di stare ferma e passi la cinta su tutta la mia schiena. Mi fa vivere i brividi. Ti allontani e mi dai un colpo sul culo, e subito un altro veloce. Mi lasci i segni. Ti pieghi e passi la tua lingua sopra. Lo accarezzi per calmare il dolore. Ti alzi e dai altri due colpi..anche sulle cosce. È difficile stare ferma. Ma lo so che ti piace. Ti piace vedermi lottare per mantenere il controllo. Vieni di nuovo davanti a me. Mi baci. Sto cercando i tuoi baci perché mi danno la tregua. Scendi a baciare tutto il mio corpo. Sul collo e di nuovo sul petto, lungo le braccia, giù sulla pancia e sulle cosce.
- Posso toccarti?
- No! Prima devo finire di assaggiare tutto il tuo corpo.
Dalle cosce ti sposti verso il ginocchio e il polpaccio, e poi sui piedi. Lecchi tutto. Ti metti in gioco davanti a me e prendi il mio piede portando le dita sulle tue labbra succhiandoli uno per volta. Mi eccita molto vederti così.
Questo racconto è stato scritto in collaborazione e con l'influenza di una persona che non ci sta più su Tumblr. Però volevo pubblicare lo stesso 🖤
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Mi dicesti:
"È bello".
"Che cosa?".
"I capelli, son vivi, non te li tagliare" .
Ruppi allora le forbici, li lasciai allungare, arrivarono al collo e alle spalle e dalla spalle alla vita, dalla vita ai polpacci, ai talloni, alla terra, dalla terra ai torrenti, ai fiumi in cascata fin verso la foce, dove l’acqua da dolce si tuffa nel sale e lì, che onda nell’onda, i ricci divennero ricci di mare.
E QUESTO L'HO FATTO PER FARTI RESTARE.
Mi dicesti:
"È bello".
"Che cosa?"
"Le mani, son farfalle allo sbando,
svolazzano al ritmo con cui stai parlando".
Fu quel giorno che imparai il linguaggio dei sogni, traducevo in diretta per i non dormienti. Entrai in un’air band e accordai i miei strumenti. Mi misi a dirigere orchestre inventate e poi il traffico urbano in punta di dita. Formai code ed ingorghi, non si poteva più uscire né entrare.
E QUESTO L'HO FATTO PER FARTI RESTARE.
Mi dicesti:
"È bello".
"Che cosa?"
"Il tuo sguardo, ogni tanto si perde
e quando si perde mi viene a cercare".
Lo allenai a guardare di notte come le civette, come le mie gatte. Si fece più forte, sbattendo le ciglia sbattevo le porte, con gli occhi spostavo gli oggetti, una piuma, una foglia, poi una bottiglia. Vedevo attraverso i vestiti, i muri, le case, ti spogliavo con gli occhi, imparai a distanza ad ipnotizzare.
E QUESTO L'HO FATTO PER FARTI RESTARE.
Mi dicesti:
"È bello".
"Che cosa?"
"Dal bagno, sentirti cantare".
Imparai ninne nanne da ogni parte del mondo. Conoscevo canzoni per ogni tipo di fame, che toglievano l’ansia, che saziavano il cuore, che ti veniva anche voglia di fare l’amore. Ebbi grandi maestre, le sirene del mare.
E ANCHE QUESTO L'HO FATTO PER FARTI RESTARE.
Mi dicesti:
"È bello" .
"Che cosa?"
"Le spalle, il sedere, quando vai, ti allontani" .
Un piede e poi un altro, impettita, mi misi in cammino, divenni un miraggio, un’ombra, un puntino. E alla fine più niente, una stella cadente. Poi persi la strada per ritornare.
E ANCHE QUESTO L'HO FATTO PER FARTI RESTARE.
- E. Tesio
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Meticolosamente.
Questa sera sarò meticoloso. Lo farò perché sono un egoista, perché penso esclusivamente a cosa mi dà piacere. Lo farò perché occuparmi di te mi riempie la testa di piacere. Voglio sentire i pensieri percorrermi la testa, incontrollati, intrecciati, voglio sentirli sciogliersi sul mio collo, passarmi sulle spalle, entrami nello stomaco, fissarsi sul mio ventre. Li sentirò sulla pelle e tra le mani, faranno cambiare il mio corpo, indurire i miei capezzoli, gonfiare il mio sesso. La meticolosità delle mie azioni su di te sarà strettamente collegata alla incontrollabilità del piacere che cresce. Preparerò la cena, prima del tuo arrivo. Aprirò una bottiglia di vino. Ti siederai a tavola con me. Ascolterai quello che voglio dirti, quello che voglio fare entrare nella tua testa, ascolterai il desiderio dell’attesa, il piacere del prima, il calore di uno sguardo che ti penetra. Sentirai anche tu il sapore del vino che ti entra nelle vene, scaldandoti i desideri. Parlerai della tua giornata, di quel film che vuoi guardare, ascolterai le parole di un libro che ancora non hai letto e le note di un pezzo musicale che mi fa andare in altri luoghi. Risponderai, calma, senza fretta, alle mie domande sussurrate all’orecchio, con il bicchiere in mano, con il calore delle mie parole sul collo. Potrai lasciare andare l’immaginazione di un incontro che ancora non hai potuto fare e ricordare un momento che ti ha fatta sussultare. Andremo insieme in posti lontani, nei luoghi della memoria, nei meandri delle sensazioni e dei desideri. Scopriremo fantasie e voglie inesplorate, piaceri segreti e confessioni da condividere.
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“At first we were coming home from work and we were happy to see each other again, to cook together. There was always music, an open bottle of red wine, kisses on the neck, touches, laughter. There was no need for a special occasion to celebrate, the excuse for doing so was to be together, to be happy. The silences were also shared, I never thought of anything on my own, but I always stayed connected with her.”
“All’inizio tornavamo a casa dal lavoro ed eravamo felici di rivederci, di cucinare insieme. C’era sempre musica, una bottiglia di vino rosso aperta, baci sul collo, sfioramenti, risate. Non serviva un’occasione speciale per festeggiare, la scusa per farlo era stare insieme, essere felici. Anche i silenzi erano condivisi, non pensavo mai a qualcosa per i fatti miei, ma rimanevo sempre connesso con lei.”
(Ejay Ivan Lac)
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Coincidenze. Inizio a leggere Anaïs Nin grazie ad una citazione in Rayuela. Incontro un tipo che seguo sui social ad un concerto shoegaze- dreampop favoloso (di questo non mi stupirei, essendo entrambi della stessa città, e con gusti analoghi), mi saluta con una timidezza gentile. La stessa persona qualche giorno dopo inserisce un libro di Anaïs Nin in una sua storia. Successivamente, noto qualcosa di Anaïs Nin in una piccola libreria. Mi sembra improvvisamente che il mondo parli di Anaïs Nin e del suo rapporto con Henry Miller (e June), mentre prima non sapevo che esistesse. La spiegazione a questa coincidenza probabilmente è che il mondo già ne parlava, ma a causa del collo di bottiglia attenzionale la noto solo ora che mi avvicino e la cerco, la aspetto, ho fatto un patto profondo con lei. Conosciamoci (la invito a presentarsi).
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Team Voltron Heroes; Capitolo 1
La caduta degli eroi
Gotham City, Anno 2134
Gotham SuperNews. Servizio di Nadia Rizavi.
Un nuovo nemico a Gotham?!
Durante il giorno può sembrare una città normale: grattaceli in vetro che tolgono il fiato, strade affollate piene di gente sorridente, negozi di costosi souvenir di supereroi muscolosi, ristoranti di ogni tipo in ogni quartiere. Ma è durante la notte che il sogno inizia a diventare un incubo. Dopo il tramonto, la città viene coperta da un manto nero e oscuro. Uscire di casa è come un suicidio, tornare a casa vivi e salvi quasi una missione impossibili.
Quando il sole cala, Gotham si riempie di trafficanti di droga e essere umani, spacciatori, assassini, psicopatici con un coltello, boss del crimine con i loro scagnozzi, terroristi con la mitraglia. Ma da ogni incubo prima o poi bisogna svegliarsi; e come la sveglia la mattina presto ci riporta alla realtà svegliandoci da un sogno orribile, anche a Gotham esiste uno spiraglio di speranza: coloro che durante la notte, nascosti dietro una maschera, aiutano i più deboli seguendo le leggi della giustizia.
Le persone hanno iniziato a chiamarli eroi, e poi si accorsero che non erano solo eroi, ma grandi eroi, supereroi. Hanno protetto Gotham durante la notte per molto tempo senza lasciarla sprofondare nel caos e nella notte. Sono simbolo di speranza e ispirazione per grandi e piccoli mentre ricoprono la città da uno scudo indistruttibile.
Ora, per la prima volta dopo anni, supereroi di tutto il mondo si incontreranno nuovamente qui a Gotham. La città è in panico: una nuova minaccia è in arrivo? Un nuovo nemico a Gotham così potente da dover richiedere tutti i supereroi del mondo? La polizia non riesce a dare spiegazioni o non vuole? Dobbiamo preoccuparci per la città e le nostre vite?
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“Sono solo un sacco di cazzate”: Keith brontolò, buttando il giornale sul tavolino in vetro del salotto di Bruce Wayne. L’impatto violento rimbombò attraverso la lastra in vetro del tavolino da caffè, facendo tremare il whisky nei piccoli bicchierini ricchi di decorazioni e particolari. Si massaggiò la fronte, accasciandosi con foga nel comodo divanetto verdastro, infastidito dai giornali che accarezzavano la stessa tematica da giorni in prima pagina. I supereroi di tutto il mondo si stavano riunendo a Gotham, e allora? L’unica cosa che sicuramente non volevano era scatenare il panico tra la gente, e Rizavi riusciva sempre a essere un passo avanti a loro. L’ossessiva giornalista era sempre col fiato sul collo a Bruce e alla polizia, indagando su nuovi scoop eccelsi tra Batman e Wonder Woman, i gossip sui Titans o eventuali teorie su nuovi supercattivi che la gente prendeva alla lettera. Il problema era che lei lavorava per la polizia, fungendo da comunicatore tra polizia, supereroi e popolo, ma ignorava completamente le regole che le avevano imposto e non migliorava il fatto che si fosse segretamente alleata con il giornalista televisivo Ryan Kinkade, in questo modo avevano il telegiornale e i giornali modificati a loro piacimento.
“Iverson o Sanda non posso semplicemente licenziarli entrambi?”: brontolò l’uomo, scuotendo in pressione la testa e guardando nuovamente la prima pagina del giornale piegato.
“Nadia e Ryan sono giornalisti troppo di successo tra le gente, questo non li fermerà…”: rispose Takashi, sedendosi accanto a lui sul divanetto e bevendo il whisky dal bicchierino tutto d’un sorso:” Sono solo dei ragazzi che amano i supereroi e si divertono, sai, come te lo eri con la formula 1…”
“Hai detto giusto, lo ero. Adesso sono cresciuto, Takashi, non sono più un adolescente”: grugnì lui, incrociando le braccia al petto, scuotendo nuovamente la testa e ripensando ai tempi in cui suo padre era ancora in vita, in cui esultava ogni volta che lui sfrecciava vittorioso sul traguardo sollevando un enorme trofeo o stappando una bottiglia di costoso champagne mentre lo prendeva in braccio o lo faceva salire sul podio con lui. Ma allora era solo un bambino, un marmocchio. Keith era cresciuto, era diventato un adulto e così dovevano anche fare gli altri.
“Io non capisco, davvero”: continuò lui, brontolando e alzandosi dal divanetto, camminando intorno al salotto in stile classico e vecchio, pieno di mobili, oggetti e arredi antiquati e costosi:” E’ così difficile per loro dire in giro che Bruce ha offerto a tutti i supereroi del mondo un bicchiere di vino e che quindi saranno a Gotham solo per una stupida cena?!”
“Vuoi davvero la mia risposta?”: Takashi alzò un sopracciglio, versandosi dell’altro whisky nel bicchiere e sedendosi comodamente, appoggiando la schiena al morbido schienale. Nel suo tono c’era un po’ di ironia, quella stessa ironia che lo seguiva sempre.
“No, voglio solo capire il motivo per cui mettono sempre nel panico la gente…”: lui scosse la testa, passeggiando fino a una finestrella che dava sulla grande città. Grattaceli alti che coprivano il tramonto occupavano il paesaggio e nascondevano gli edifici più piccoli. Keith fece un sorrisetto, ridacchiando un po’ tra sé e sé.
“E’ quasi il tramonto, sai cosa vuol dire questo, Shiro?”: lui sogghignò, girandosi verso l’uomo più anziano, che quasi si strozzò con il whisky.
“Ne abbiamo già parlato, Keith”: lui scosse la testa, guardandosi la protesi robotica in acciaio e titanio:” Ho smesso di essere Shiro tanto tempo fa…”
“Ma non ti senti… arrabbiato?”: lui strinse i pugni:” Non ti senti arrabbiato di aver perso qualcuno, sapendo che la causa di tutto è ancora là fuori?”
“Se vuoi sapere la mia opinione, no.”: ha risposto, alzandosi dal divanetto mettendo le mani dietro la schiena e guardando l’enorme quadro di Bruce sopra il camino:” La pazienza produce concentrazione, Keith, non devi seguire Sendak in capo al mondo. Lui uccide, Keith. Lui può toglierti tutto e farti molto male.”
“Sono diventato Zarkon solo per vendicare mio padre; sei stato tu a farmi diventare un supereroe”: lui strinse i pugni, sistemandosi i guanti in pelle e prendendo la sua giacca dalle spalline del divano, dirigendosi con foga verso la porta.
“Keith”: la voce ferma e autoritaria di Takashi lo fece fermare sull’uscio, una mano sulla parete fredda e ruvida:” Lo dico solo per il tuo bene”
“Lo so, Takashi…”: lui sospirò, appoggiando la fronte sul dorso della mano:” Ma la città ha bisogno di me, e anche di te”
“I cittadini di Gotham hanno troppa fiducia su noi supereroi”: lui continuò, continuando a guardare il quadro e avvicinandosi a Keith:” E noi abbiamo troppa fiducia su noi stessi. Succederà solo quando finalmente inizierai a trovare una squadra.”
“Lo ripeti sempre”: lui ridacchiò leggermente, girandosi verso di lui:” Ma Zarkon lavora da solo”
“Devi solo aspettare, a volte ti ritroverai qualcuno quando meno te lo aspetti”: lui sorrise:” E’ così che ho incontrato Adam…”
“Ci risiamo…”: lui alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa abbastanza divertito, guardando nuovamente la finestra e lasciando un’occhiata a Takashi.
“Devi andare, lo so…”: lui annuì, mettendosi le mani in tasta:” Stai attento là fuori, e sopravvivi anche stanotte…”
“Come tutte le notti del resto…”: Keith canticchiò, girandosi nuovamente.
“Keith”: l’uomo lo fermò di nuovo:” Stai attento stanotte, in particolare. La riunione degli eroi può essere un bersaglio.”
“Capito, signore”: lui annuì.
“E non cercare Sendak, c’è qualcosa di diverso stanotte… ho una cattiva sensazione…”: lui spiegò, guardandosi nuovamente la protesi:” Promettimelo, Keith.”
“Scusa, Takashi, ma Zarkon non fa promesse”: lui si morse il labbro, uscendo dalla stanza.
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L’aria di Gotham di notte è sempre fresca, abbastanza da dover indossare una giacchetta per passeggiare negli stretti e bui vicoli. Il profumo di gas e inquinamento era sempre presente, così come il normale suono delle sirene della polizia e le luci traballanti dei lampioni rotti.
Si potevano udire dei leggeri e veloci passi in un vicolo tra vecchi edifici abbandonati al centro della città, pieni di graffiti, immondizia e fumo. Un uomo incappucciato stava passeggiando, le mani nelle tasche mentre si guardava intorno per non essere seguito. La luna alta nel cielo illuminava lievemente il vicolo e, quando l’uomo svoltò a destra, un lampione illuminava una macchina parcheggiata vicino a un cassonetto dell’immondizia, un uomo altrettanto incappucciato appoggiato comodamente a esso.
Alla vista dell’arrivato, la figura si ricompose, spegnendo la sigaretta e buttandola senza troppi problemi nel cassonetto.
“Ce ne hai messo di tempo, Pronok”: disse, fermandosi poco prima del confine con la luce:” Ti hanno seguito?”
“Sono stato cauto…”: rispose l’altro:” Il pipistrello non è tanto veloce quando invecchia…”
Ridacchiò tra sé e sé, tirando fuori dalla tasca del cappotto un gruzzoletto di banconote.
“Bada a come parli. Tutti i supereroi del mondo si sono riuniti, aiuteranno sicuramente il pipistrello”: lo rimproverò, avvicinandosi alla macchina, aprendo la portiera e prendendo un sacchetto di carta con dentro della polverina bianca.
“Non volevo della farina, Haxus!”:Pronok esclamò, ringhiando all’uomo non appena gli porse il sacchetto che sembrava venisse da una panetteria:” Cos’è successo? Sendak si è messo a fare il pasticcere?”
Haxus tirò fuori un coltellino, avvicinandolo alla gola dell’altro, con aria minacciosa:” Gotham brulica di supereroi stanotte, non vorrai mettere il nostro capo nei guai! Questa è cocaina!”
“Mi scuso”: annuì, prendendo il sacchetto grugnendo:” Non voglio di certo mettere Sendak nei guai attirando l’attenzione…”
“Lo farai se continuerai a nominarlo!”: Haxus ripetè, rimettendosi le mani in tasca e dirigendosi verso la macchina. Il rumore di qualcosa di metallico li fece sobbalzare entrambi, guardando il cielo e prendendo delle pistole dalla cintura dei pantaloni.
“E’ il pipistrello?”: Pronok chiese, girando su se stesso e puntando la pistola in aria, sentendo dei passi veloci in tutte le parti, ma non riuscendo a indentificare niente nonostante il lampione.
“Guarda il cielo, idiota, vedi il batsegnale? Niente batsegnale niente Batman”: ridacchiò Haxus, mettendo via la pistola. Quando udì nuovamente un rumore metallico, come se si fosse appena sfoderata una spada, ritirò fuori la pistola e poi il lampione si spense improvvisamente. Qualche pezzo di vetro cadde a terra, mentre entrambi gli uomini puntavano le loro pistole dappertutto.
“Merda”: Pronok imprecò, girandosi improvvisamente quando sentì passi più lenti dietro di lui, il dito tremante stretto al grilletto, ma non vide nessuno. Da qualche parte dal tetto degli edifici che perimetravano il vicolo, cadde un piccolo oggetto con leggere fluo viola, l’impatto con il suolo, fece spigionare dal piccolo cilindro un fumo bianco che ricoprì tutto in pochi secondi.
“Chi va là?”: Pronok esclamò, facendo cadere il sacchetto a terra per mirare meglio. Haxus ne approfittò, scattando in avanti e prendendolo, correndo subito dopo alla macchina, ansimando. Si fermò a pochi passi, quando una figura si lanciò dall’alto, atterrando in piedi proprio sopra l’auto parcheggiata. Nonostante il buio, si potevano riconoscere i spettinati capelli neri, il mantello viola scuro e l’armatura viola contornata da particolari oro, bianchi, rossi scuro e strisce neon viola e rosse sul petto.
“Zarkon!”: urlò, correndo fuori dal vicolo mentre l’altro uomo lo seguiva. Il supereroe sogghignò, saltando dall’auto al lampione, prendendo con la mano sinistra la spada che aveva usato per romperlo mentre con la destra ne sfoderava un’altra dalla schiena. I due uomini corsero fuori dalla stradina, correndo e ansimando per le strette vie del quartiere povero, sporco dove si trovavano. Quando voltarono angolo, prendendo una vietta che portava verso un quartiere più popolato di notte, si accorsero che la strada era bloccata da un grande contenitore di immondizia, piazzato orizzontalmente in modo da evitare il passaggio.
“No! No! No!”: esclamò Pronok, indietreggiando, andando poi a sbattere contro qualcosa. O qualcuno. Si accorse subito dell’errore, urlando e tornando indietro, vedendo l’uomo mascherato, ma prima che potesse fare qualche altro passo, Zarkon usò la spada, infliggendogli un taglio netto e profondo proprio sul petto. Pronok cadde a terra, tenendosi una mano sul petto mentre il sangue sgorgava dalla ferita profonda ma non letale. Haxus, nel mentre, nonostante lo spavento, aveva approfittato della distrazione del supereroe, scappando.
“Dov’è Sendak?”: Esclamò Zarkon, prendendolo per il colletto della giacca e agitandolo violentemente. L’uomo non rispose, lasciandosi scappare una leggera imprecazione di dolore mentre l’emorragia prendeva il sopravvento.
“Dov’è Sendak?”: Ripetè, dandogli uno schiaffo in faccia:” Dimmi dove si trova o ti faccio morire come un bastardo!”
“Fanculo…”: gnugnì, tossendo del sangue dalla bocca:” Non lo so…”
Lui ringhiò, tirandolo su per il colletto e facendolo sbattere contro il muro in pietra dandogli il colpo letale, esclamano dalla rabbia e disperazione, ansimando vedendo il corpo senza vita davanti a lui. Diede un pugno al muro dove c’era del sangue e poi un altro.
Zarkon non era un supereroe conosciuto da tutto il mondo, ma tutta Gotham sapeva che era tra tutti il più vendicativo e, in un certo senso, peggiore. Tutti i cattivi sapevano quanto fosse emotivo, ma allo stesso tempo letale, soprattutto nei confronti del più grande nemico di Gotham, Sendak, dopo la morte del Joker. Lui incuteva terrore, spaventava le proprie vittime, attaccava velocemente, ma allo stesso tempo le faceva soffrire infliggendo loro ferite grandi e profonde, ma capaci di lasciarli vivere per sentire il dolore.
“Keith, cerca di riprendere il controllo. Non andare a cercare Sendak.”: Takashi gli ordinò dal piccolo e invisibile auricolare. Lui si tirò indietro la frangetta, asciugandosi del sudore dalla fronte.
“L’altro è scappato.”: fece notare, infilando le spade nelle fodere sulla schiena, prendendo dalla cintura deli pantaloni un rampino che le condusse fino al tetto:” Devo solo trovarlo”
“Keith, fermati. Devi fidarti, Keith, torna a villa Wayne, ho una brutta sensazione”: ripetè, il tono leggermente preoccupato e allarmato. Lui alzò gli occhi al cielo
“Bruce ha lanciato il Batsegnale, tutti i supereroi si stanno radunando nella piazza della città e c’è qualcosa di grosso e imponente che si sta avvicinando dallo spazio”: lo avvertì nuovamente, ma alla prima frase i suoi occhi si aprirono.
“Scordatelo Takashi, potrebbero aver trovato dove si nasconde Sendak”: Keith sogghignò, camminando più velocemente, la sua mano pronta sull’auricolare.
“Keith, no-!”: Interruppe le comunicazioni con un semplice tocco, togliendosi l’auricolare e lasciandolo cadere a terra, pestandolo con un piede.
“Scusa Takashi”: disse, guardando l’auricolare distrutto, e iniziando a camminare sui tetti per raggiungere il più velocemente possibile la piazza della città. Per sua sfortuna, il tragitto era parecchio lungo, ma ce l’avrebbe fatta con un’andatura veloce e costante.
Tuttavia, doveva ammettere che Takashi aveva ragione. Guardando l’orizzonte, si poteva già scorgere il sole e il cielo aveva assunto un colore rossastro, e Sendak usciva solo quando c’era buio. Inoltre tutto ciò sembrava una trappola, ma se tutti i supereroi erano in pericolo, allora sarebbe stato lui a liberarli. Forse allora i cittadini di Gotham lo avrebbero riconosciuto come un supereroe degno di essere conosciuto per il suo altruismo, e non la mania vendicativa verso Sendak.
Si fermò all’improvviso, impallidendo quando vide, a pochi grattacieli di distanza, la piazza e, davanti, non molto in lontananza, un’enorme astronave che non sembrava di pianeta conosciuti. Sentì la gente urlare, mentre i cittadini scappavano urlando dalle loro case quando l’astronave nemica iniziò a sparare sulle strade e poi sulle abitazioni.
Zarkon, sudando e ansimando, si sbrigò ad arrivare, notando volare sopra gli edifici un elicottero della polizia e uno della televisione. Dio, Keith avrebbe tanto voluto uccidere Nadia per aver gufato l’attacco, ma non era il momento per pensare di due giornalisti da strapazzo.
Corse il più velocemente possibile, ricordando poi che c’erano anche gli altri supereroi e che la città era al sicuro. Quando si accorse che una piccola navicella nemica, probabilmente un caccia, stava girando attorno a lui, era troppo tardi. Iniziò a sparare, facendo cadere Keith dal tetto in un vicolo, ferendolo alla gamba, rimbalzando tra i muri in mattone fino a terra, battendo contro il cemento. Si rimise in piedi nonostante la gamba dolorante, sibilando per il dolore e zoppicando fino al muro, dove si appoggiò.
“Merda…”: grugnì, gemendo dal dolore, accasciandosi alla parete e sedendosi, ansimando toccandosi la gamba ferita. I suoi occhi si aprirono di scatto sentendo la pelle leggermente bruciacchiata e non la solita sensazione di avere del sangue su tutto il polpaccio. Guardò nuovamente il cielo che diventava man mano di una sfumatura d’azzurro, le urla e gli attacchi che non si placavano, ma andava tutto bene. Tutti i supereroi del mondo erano lì, alla piazza, pronti a combattere, e avrebbero vinto. Zarkon si può riposare un po’…
La gamba aveva smesso di fare male, cosa molto sorprendente, mentre sentiva sirene della polizia o ambulanza ovunque, la vista leggermente annebbiata. Keith scosse la testa, alzandosi in piedi, usando il rampino per arrampicarsi debolmente sul tetto degli edifici, capendo che effettivamente qualcosa non andava. Gli attacchi sembravano diminuire, eppure non c’era alcuna traccia di un altro supereroe professionista.
Capì il perché solo qualche minuto, il sole leggermente alto nel cielo, le astronavi nemiche che si allontanavano dalla città, ma atterravano abbastanza lontano dai confini, la piazza completamente distrutta, i corpi inceneriti di tutti i supereroi.
“No. No. No!”: esclamò Zarkon, correndo nonostante il fastidio al polpaccio verso i cadaveri, riconoscendo tutti i supereroi, uno per uno. Tutti morti. Persino Bruce. Persino Batman.
“Maledetti bastardi!”: urlò al cielo con tutta la voce che gli rimaneva verso l’astronave che atterrava lontano da Gotham. Sfoderò le spade affilate e già sporche di sangue, asciugandosi la frangetta bagnata, pronto a scattare.
Il suo sviluppato udito percepì un suono, debole e spezzato, provenire dal confine della piazza, vicino alle macerie degli edifici e dei negozi distrutti. I sopravvissuti e i feriti che riuscivano a camminare erano riusciti a scappare, e per un attimo pensò di aver sentito male. Ma quando quel richiamo, quello stesso identico richiamo, si ripeté, girò la testa, vedendo un uomo sulla trentina, capelli castani e occhi marroni, sdraiato a terra, ferito gravemente, allungare la mano in segno di aiuto.
E in quel momento, per la prima volta, si ritrovò davanti a due scelte: uccidere il colpevole di tutto, o aiutare un singolo individuo? La sua mente diceva di andare avanti, seguire l’astronave e uccidere tutti, insisteva continuamente, ma allora perché era ancora fermo?
Urlò dalla tensione, correndo verso la persona ferita con un ringhio, inginocchiandosi di fianco a lui, vedendolo lentamente perdere conoscenza.
#voltron legendary defender#keith voltron#voltron pidge#vld shiro#superheroes#takashi shirogane#bruce wayne#superhero#dc universe#gotham#team voltron#Team Voltron heroes
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Trova la differenza..
Il 26 Dicembre, il figlio di Matteo Salvini, Federico, viene aggredito in strada da 3 tipacci e minacciato con un collo di bottiglia rotta. Dopo le minacce il ragazzo e' stato rapinato del cellulare. Telefonata al padre Matteo che allerta la questura. Subito indagini, al setaccio i filmati delle telecamere della zona e dopo poche ore ritrovato il cellulare..
22 Dicembre 2021..mia figlia Giulia va in stazione Centrale per prendere il treno per Roma. Passa come un razzo un ragazzo che le sfila il cellulare dalla tasca del giubbino e scappa. Salto in caserma per la denuncia. Lei dice che quel tipo di cell ha il localizzatore per essere rintracciato. Controlla sul suo I-pad che aveva in valigia e viene fuori che sta in tale via a tale numero..risposta dei carabinieri.." e mica possiamo andare a suonare tutti i citofoni di quel condominio! Stia piu' attenta la prossima volta che c'e' tanta brutta gente dalle parti della stazione".
Credo sia la stessa risposta che le forze dell'ordine, pagate con i nostri soldi e non con i soldi dei politici, darebbero ad altri 59milioni e 900mila italiani.
Che dire..un vero Paese di merda.
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Non so perché, ma mi ecciti un sacco
Come installare i coni Blumat sulle tue piante:
1. Metti a bagno sia i coni che i tappi per almeno 15 minuti.
2. Nel frattempo, seleziona il contenitore che farà da riserva: io consiglio una bottiglia col collo stretto,in modo che ci sia meno evaporazione.
3. Riempi i coni di acqua fino all'orlo, chiudili, e posizionali vicino alla pianta, facendo attenzione a non rompere delle radici.
4. Posiziona vaso e contenitore sullo stesso livello o il vaso più in basso rispetto alla riserva, ma mai il contrario.
Esistono altre alternative a questo sistema: i vasi con riserva idrica, l'acqua in gel o un sistema di irrigazione a goccia professionale.
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entro in casa, sfamo toma affamato, tiro il collo a una bottiglia di vino rosso. tutto questo in cinque minuti. ora sono qui a bere mentre contemplo la morte perché questi ritmi per due settimane non li reggo.
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Giorgia
sotto i tuoi capelli che mi ricordano per colore la notte per mistero il telo pesante di un palco nell'altra stanza per riflessi la luce di un collo di bottiglia scavalcata da una lampada sotto i tuoi capelli c'è il suono, dicevo dei tuoi pensieri. Frusciano come foglie, graffiano come rami millepiedi che io mi fermo a contare, come corre il mio desiderio di sentirli frusciare per ore attraverso la tua bocca. A guardare da vicino anch'io mi rischiaro, divento campagna una velocità diversa, parole veloci per stare ai tuoi mille veloci passi una lentezza diversa per raggiungerti in silenzio e assecondare il desiderio che corre di poterti ascoltare. Non ho mai sentito il bisogno di guadagnarmi spazio tuo assente, mi manca il coraggio di ripensare alla sconosciuta che sei stata o alla paura che provo almeno una volta alla settimana quando la mia domanda d'amore sembra farsi inadeguata e posticcia e ogni volta che mi rassicuri con la tua amicizia prometto di non chiederti più niente di così volgare. Seta e pelle: ci scambiamo di continuo la consistenza e non c'è un'altra persona che mi faccia quest'effetto così mi ritrovo in tutto quello che ti definisce chiedo a me stessa di esserti diversa per avvicinarmi alla tua essenza. Non porti anelli, ti piacciono i baci senza rumori sono due cose che so di te.
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La mia buona stella si è schiantata a terra, è iniziata un’altra piccola era delle tenebre. c’è ghiaccio che copre ogni cosa, disegna dei piccoli arabeschi sulle auto parcheggiate. a volte mi rilassa pensare alla precisione con cui le punte dei suoi capelli arrivano alla sua mascella. i festeggiati al funerale di ieri eravamo noi, mi faceva sorridere l’atmosfera che c’era al locale, mi sembravano tutti lavoratori portuali sfiniti a fine giornata. aveva un senso anche l’assenza del verso dei gabbiani o del fragore delle onde contro la battigia. quella aveva più senso con il funerale surreale a cui si arriva sulle proprie gambe. come al solito ho aggredito il tappo della birra e ho grattato con le unghie il rivestimento interno fino a staccarlo. le tue espressione smarrite le provocavo io. la tristezza che vedevo nei suoi occhi, che mi faceva pensare che in fondo quella maledetta famiglia del Mulino Bianco non lo aveva allontanato troppo da me, era la mia tristezza, non una uguale, ma proprio la mia. la mia angoscia che pesa come un macigno su 23 anni di cattolicissima, indipendente e con una vergognosa etica del lavoro, sanità mentale. sono lo spettro sbiadito che piscia in un parcheggio dopo essersi fatta scopare da uno che sarà così gentile da non ricontattami mai più così che io possa diventare una musa dal trucco colato. s. non mi piaceva ma a lui io piacevo davvero. ha scritto una canzone su di me, una canzone semplice per descrivere la manic pixie dream girl che da piccola sognavo di diventare. ci si sta quasi comodi in una canzone di 3 minuti in cui ci si specchia nella pozza del proprio piscio, sedotta e abbandonata. una bottiglia di plastica come unica compagna. sto più scomoda sulla mia poltrona reclinabile. RIDICOLO. ma immagino che lo sapesse di essere ridicolo con i suoi sentimenti non ricambiati. al locale ci volevo andare per guardare i suoi fianchi perfetti volteggiare tra i tavoli e quel collo da cigno da mille e una angolazione diversa. perché prima che l’inverno cadesse impietoso e portasse con sé marce funebri e livelli di litio troppo bassi nel sangue, lo amavo. non c’è mai stato nessun parcheggio fra di noi ma lo amavo malissimo come so fare solo io.
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Mi dicesti:
“È bello”.
“Che cosa?”.
“I capelli, son vivi, non te li tagliare”.
Ruppi allora le forbici, li lasciai allungare, arrivarono al collo e alle spalle e dalla spalle alla vita, dalla vita ai polpacci, ai talloni, alla terra, dalla terra ai torrenti, ai fiumi in cascata fin verso la foce, dove l’acqua da dolce si tuffa nel sale e lì, che onda nell’onda, i ricci divennero ricci di mare. E questo l’ho fatto per farti restare.
Mi dicesti:
“È bello”.
“Che cosa?”.
“Le mani, son farfalle allo sbando, svolazzano al ritmo con cui stai parlando”.
Fu quel giorno che imparai il linguaggio dei sogni, traducevo in diretta per i non dormienti. Entrai in un’air band e accordai i miei strumenti. Mi misi a dirigere orchestre inventate e poi il traffico urbano in punta di dita. Formai code ed ingorghi, non si poteva più uscire né entrare. E questo l’ho fatto per farti restare.
Mi dicesti.
“È bello”.
“Che cosa?”.
“I posti in cui viaggi quando dormi, la notte. Mi piace ascoltarti di ritorno, al mattino”.
Cominciai a dormire con grande attenzione, per segnarmi i dettagli e variare il copione. Cambiavo scenari, volevo stupirti con effetti speciali. Con trame intricate e personaggi da amare. E anche questo l’ho fatto per farti restare.
Mi dicesti:
“È bello”.
“Che cosa?”.
“Il tuo sguardo, ogni tanto si perde e quando si perde mi viene a cercare”.
Lo allenai a guardare di notte come le civette, come le mie gatte. Si fece più forte, sbattendo le ciglia sbattevo le porte, con gli occhi spostavo gli oggetti, una piuma, una foglia, poi una bottiglia. Vedevo attraverso i vestiti, i muri, le case, ti spogliavo con gli occhi, imparai a distanza ad ipnotizzare. E anche questo l’ho fatto per farti restare.
Mi dicesti:
“È bello”.
“Che cosa?”.
“Dal bagno, sentirti cantare”.
Imparai ninne nanne da ogni parte del mondo. Conoscevo canzoni per ogni tipo di fame, che toglievano l’ansia, che saziavano il cuore, che ti veniva anche voglia di fare l’amore. Ebbi grandi maestre, le sirene del mare. E anche questo lo feci per farti restare.
Mi dicesti:
“È bello”.
“Che cosa?”.
“Le spalle, il sedere, quando vai, ti allontani”.
Un piede e poi un altro, impettita, mi misi in cammino, divenni un miraggio, un’ombra, un puntino. E alla fine più niente, una stella cadente. Poi persi la strada per ritornare. E anche questo lo feci per farti restare.
Enrica Tesio
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AAAA Vendesi.
Vendo, per fine bella ma corta estate calda ma non troppo, comodo PORTASÓCERE per auto adatto a gite fuoriporta (invece di lasciarla in casa a bighellonare per tutte le stanze, la si può portare appresso come un portafortuna... si fa per dire).
Costruito con le migliori plastiche riciclate di tappi di bottiglie di plastica di quelle che rimangono attaccate al collo della bottiglia e finemente rivestito di quattro mosche di velluto grigio molto confortevole e l'ho personalmente rifinito con un bellissimo, morbido, cuscino fregato in una bara mentre la stavano allestendo in cappella mortuaria.
Inoltre, come optional di lusso, il PORTASÓCERE è fornito di fiaschetta in alluminio piena di acqua, aceto e dado da brodo, questo rigorosamente vegetale, affinché la congiunta possa attingere per non patire la sete, che tra l'altro è cosa brutta.
Il tutto al prezzo di 350,69€, che è anche un buon prezzo... genovesi che non siete altro.
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Non avete più la SÓCERA? Poco male, la potete sempre utilizzare per la vostra mogl...[ERROR_404]
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Riflessioni dall’apocalisse
Lo « schermo blu della morte » in tutti i monitor dei miei colleghi, dei miei amici, dei miei vicini e degli sconosciuti seduti in uno #Starbucks in giro per il mondo, in telelavoro per una piccola startup o per una grande società, alla fine è arrivato per il motivo che in tanti (ma evidentemente non abbastanza) prevediamo e raccontiamo con ansia da tempo.
Chiunque si sia occupato di sviluppo software negli ultimi 10 anni ha visto avanzare la scelta dell’esternalizzazione del codice e dell’infrastruttura, in alcuni casi senza alcun limite chiaramente definito, con strategie IT deboli, ma con obiettivi sicuramente chiari quanto semplicistici : ridurre i costi di sviluppo e manutenzione e aumentare la capacità di scalabilità a costo ridotto.
Per anni si è provato a far capire che il rischio di un’anomalia subìta per un errore dei propri fornitori era alta : errori dovuti al rispetto delle norme GDPR, o ancora alla gestione della qualità del codice, fino alla gestione dell’infrastruttura.
Per anni mi hanno risposto che « questo è il loro lavoro » e saranno sempre e comunque « meglio di noi » (e il « noi » l’ho visto declinare in tutti i miei clienti e datori di lavoro).
Ho cercato di dire che l’errore è umano e avviene ad ogni latitudine e qualunque possa essere il colore del badge appeso al collo: la differenza sarebbe stata giusta la portata dell’errore e l’impotenza delle organizzazioni clienti di fronte a questa eventualità.
Che sia chiaro: io non sono contrario all’uso di cloud, in qualsiasi forma (sarei un informatico quantomeno miope). Dico solo che tocca impegnarsi a non creare colli di bottiglia, di nessun tipo e in nessun strato, capaci di paralizzare i nostri business.
E posso testimoniare di un gran numero di amici e colleghi di Microsoft e Google, giusto per citare due grandi player, che ho sentito allertare e provare a responsabilizzare i loro clienti, che persistono in un atteggiamento probabilmente ancora troppo superficiale nelle loro strategie di metamorfosi dell’IT.
Ora ne abbiamo un primo esempio concreto.
Basterà a convincere il business a prendere in considerazione soluzioni diverse, ibride, e sotto il controllo e responsabilità dei propri architetti IT interni ?
Di certo ora faremo i conti (e spero che il risultato possa giustificare una riflessione meno dogmatica) su quanto ci è costato questo terremoto dovuto ad un battito d’ali di una farfalla in Texas : che poi magari era una farfalla indipendente, in telelavoro, che sbatteva le ali in qualche #Starbucks lontano centinaia di miglia dall’afa texana del venerdì 19 luglio del 39 DW (Dopo Windows).
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