#contemplazione del nuovo anno
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Haiku "Luce del domani" sul Nuovo Anno 2025
Il Nuovo Anno: un capitolo bianco da scrivere con sogni e progetti.
“Luce del domani”Sogni si accendono,tempo di nuovi inizi,l’anno respira. Recensione: L’inizio del 2025, tra speranza e riflessione Il Nuovo Anno: un capitolo bianco da scrivere con sogni e progetti. Ogni inizio anno porta con sé un senso di rinnovamento, di possibilità e di speranza. Il 2025 non è solo un numero, ma una promessa: quella di crescere, imparare e vivere con rinnovata…
#"Spirito natalizio#Alessandria today#anno 2025#anno di crescita#anno nuovo riflessioni#arte e poesia#Atmosfera Natalizia#bellezza del presente#bellezza del tempo#bellezza invernale#bilanci e progetti#calore del Natale#contemplazione del nuovo anno#contemplazione invernale#Dicembre#dicembre emozioni#dicembre riflessione#dolcezza dell’attesa#emozioni del nuovo anno#Fine dell&039;Anno#futuro e speranza#Google News#haiku 2025#haiku dicembre#haiku nuovo anno#haiku significato#haiku stagionale#inizio anno#inverno 2024#inverno e poesia
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Una delle rarissime costruzioni all'interno del Giardino: l'Eremo di Laura. Fu fatto costruire nel 1792 dal Marchese Antonio Maffei (1759-1836). Attraverso la facciata, ornata da una bifora, si può accedere alla contemplazione della statua raffigurante la Madonna. Ogni anno muta la fioritura che si estende dall'Eremo al Grande Tappeto Erboso: si tratta di uno spettacolo sempre nuovo che cambia nei colori e nelle forme nel corso delle stagioni. #parcosigurtà
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"E piantala di sbirciare cosa fanno le donne, Tonino! Sembri un cazzo di pervertito! Dacci una mano, piuttosto, altrimenti, invece che per cena, si finisce domani per pranzo." Urlò Bomba, fingendo disappunto.
Tonino non lo degnò della benché minima attenzione e continuò nella contemplazione. "Guardate come sono belle le nostre donne! Se ne stanno lì a ridere e a bere come se fossero amiche da sempre."
"E noi schiavi, chiusi in cucina!" Disse Pietro, intento a pulire una montagna di vongole.
"Assistendo a tanta armonia, nessuno potrebbe supporre che è la prima volta che si incontrano. C'è poco da fare: sono una razza superiore! Noi ci crediamo chissà che cosa, ci sbattiamo, ci incazziamo, cerchiamo di darci da fare, ma loro rimangono sempre un passo avanti a noi! La verità è che, senza di loro, saremmo già belli che fritti da un pezzo."
"Senti, filosofo dei miei coglioni, se davvero vuoi friggere qualcosa, vieni a darmi una mano con questo lattarino. Tu lo passi nella farina e io nell'uovo, o viceversa, hai anche la facoltà di scegliere. Nota bene quanto sono magnanimo." Disse ancora Bomba, con le mani vergognosamente impiastricciate.
"Eccome se sei magnanimo! Tutto quello che comincia con magna, tu lo sei. E lo fai!" Lo prese in giro Pietro, mentre salava l'acqua per la pasta.
Vorrei, " Rispose Tonino, intento a rollare un bel cannone, "Vorrei davvero, ma non posso. Come vedi, io mi occupo della verdura."
"Ancora? Cazzo, Tonì, stai sempre con la verdura in mano. I vegani ti fanno una sega. Però guarda come ti sei ridotto!"
"Taci, ignorante di uno sbirro. La verdura è la regina indiscussa della dieta mediterranea. La verdura è vita! Fatti dare una mano dal Maremmano, che è l'unico con le mani in mano."
"Veramente io il mio lo avrei già fatto. Ho pulito tutte le alici, le ho condite, le ho cosparse di pane grattugiato e le ho infornate. Ora tocca al forno completare l'opera. Organizzazione ed efficienza, è il mio motto." Rispose serio il Maremmano.
"Infatti, nel non fare un cazzo la tua organizzazione è imbattibile." Disse Bomba, "Su, dammi una mano se davvero vogliamo cenare!"
"Insomma, quand'è che si mangia?" Fu l'accorato appello che giunse dal reparto delle donne.
"Forza, sbrighiamoci, che la mia Fata ha fame!" Ordinò Pietro, accelerando i preparativi.
"Come avrà fatto quello splendore ad innamorarsi di te è un enigma destinato a rimanere irrisolto." Lo stuzzicò Bomba.
"Altro che mistero di Fatima." Aggiunse Tonino.
"Mi viene in mente quell'aforisma sulla bellezza, anche se non riesco a ricordare il nome dell'autore. Quello che dice: per essere perfetta le mancava soltanto un difetto."
"Che cazzo c'entra?"
"Lei è decisamente perfetta. E tu sei il suo difetto!"
Era la prima sera che trascorrevano insieme, dopo almeno due decenni, se non tre. Eppure si sarebbe detto che fosse passato soltanto un giorno. Forse, a dispetto di tanti paroloni spesi un po' da tutti, l'amicizia è tutta qui: un tempo fuori dal tempo e non soggetto alle sue leggi. Un tempo di mezzo, in attesa all'incrocio della vita, che non si lascia fregare dalla direzione da prendere. Un tempo elastico, dove non esiste l'uniforme, qualsiasi sia l'accezione del termine, dove tutti i punti sono equidistanti da tutti gli altri, finché sollecitazioni esterne ed interne non lo fanno tendere, scombinando, e a volte esasperando, le distanze, gli umori, i ricordi, le speranze, i sogni fatti e quelli subiti. Ma appena si allenta di nuovo la tensione, tutto torna com'è sempre stato e scompare persino la memoria della tensione. Un tempo che quella serata limpida e gelida di quasi fine anno incarnava alla perfezione.
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Eccoci arrivati al tanto atteso ed allo stesso tempo temuto "giro di boa". Sai che devi lasciare indietro qualcosa, distaccarti dalle false illusioni,ma non sempre si e' pronti...portate con voi solo chi e cosa vi rende felici.Auguro a tutti il coraggio di "morire" per poter rinascere domani in un nuovo anno magico.
)o(
"Samhain era la festività principale del calendario celtico, celebrata il 31 ottobre.
Nella dimensione circolare-ciclica del tempo, caratteristica della cultura celtica, Samhain si trovava in un punto fuori dalla dimensione temporale che non apparteneva né all'anno vecchio e neppure al nuovo; in quel momento il velo che divideva dalla terra dei morti si assottigliava ed i vivi potevano accedervi o viceversa.
Spiritualmente parlando, la festa era un momento di contemplazione. Per i Celti morire con onore, vivere nella memoria della tribù ed essere ricordati nella grande festa che si sarebbe svolta la vigilia di Samhain era una cosa molto importante. Questo era il periodo più magico dell'anno: il giorno che non esisteva.
Durante la notte il grande velo veniva abbassato, eliminando le barriere fra i mondi e permettendo alle forze del caos di invadere i reami dell'ordine ed al mondo dei morti di entrare in contatto con quello dei vivi. I morti avrebbero potuto ritornare nei luoghi che frequentavano mentre erano in vita, e celebrazioni gioiose erano tenute in loro onore. Da questo punto di vista le tribù erano un tutt'uno col loro passato ed il loro futuro. Questo aspetto della festa non fu mai eliminato pienamente, nemmeno con l'avvento del Cristianesimo.
Samhain fa parte dei momenti dell'anno che segnano tangibilmente il ritmo solare - lunare - agricolo ed è una festa di distruzione e ricostruzione del tempo cosmico.
Dal punto di vista dell'ordine cosmico, il sorgere delle Pleiadi, le stelle dell'inverno, segna la supremazia della notte sul giorno. In alcune parti della Bretagna occidentale, si usa cucinare le "kornigou", torte a forma di corna di cervo, a simboleggiare il Dio cornuto che perde le corna prima di ritornare nel suo regno nell'Aldilà."
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Gli studenti di lettere te li immagineresti diversi
Gli studenti di lettere te li immagineresti diversi. Te li immagineresti idealisti e politicizzati, intenti a cucinarsi il futuro mentre vagano per la città fra sedi distaccate e mense e aule studio recitando poesie e vibrando di entusiasmo. Invece vaghiamo per la città fra sedi distaccate e mense e aule studio facendo delle posatissime battute. Poi ridiamo, anche molto, talvolta piangiamo dal ridere. Siamo tra l’altro una specie particolare all’interno del genere dei letterati, cioè siamo quelli che la gente chiama i classicisti e però molto difficilmente chiameremmo noi stessi così. Antichisti è più comune. Sarà Padova. Saranno le seghe mentali che ci facciamo.
Magari presi singolarmente siamo pure esaltati o poeti o qualcosa del genere, ma come colleghi, compagni di classe, compagni di banco, antichisti, noi innanzitutto ridiamo tantissimo.
Puoi passare un anno con una persona e non farci mai un discorso serio. Non hai passato l’anno a fare small talk, però – l’antichista medio si annoia molto facilmente. Hai passato l’anno a fare battute del cazzo. Ogni volta diventano più complicate, più intertestuali, più dettagliate. A volte si trasformano in cose molto più elaborate, tipo il “crea la tua lezione di Storia Greca fai-da-te” (a me è uscito “Antigono, uno degli Alcmeonidi, a scopo propagandistico combatté Atene, come leggiamo in Tucidide”). Tipo i giochi da tavolo (tempo di stampare la plancia e giocheremo sul serio, promesso, e poi il Risiko macedone è sempre all’orizzonte). Tipo la volta che abbiamo preso un aneddoto narrato da Plinio il Vecchio, l’abbiamo riscritto sostituendo i nostri professori ai protagonisti, abbiamo tradotto in latino il risultato, abbiamo alterato il foglio fingendo fosse un manoscritto, poi abbiamo deciso di passarlo in esametri e ci siamo fermati alla cesura del secondo verso (ma ammetterete che era un bel tentativo). Tipo la selva di battute, soprannomi, giochi di parole, ipotesi, notizie strane, miti insoliti, pettegolezzi recuperati dai meandri di Plutarco, storielle inventate fra una lezione e l’altra coi protagonisti più svariati. Magari durante la lezione successiva il professore cita proprio quello su cui si stava scherzando poco prima e partono gli sguardi complici. Magari ti trovi a fissare una collega insistentemente ma lei si è già dimenticata la battuta e non si volta a sua volta, ed è vagamente frustrante. Magari.
Poi, oh. Persone diverse. Livelli di coinvolgimento diversi. Ambizioni diverse. Ho conosciuto dei veri vulcani di idee, ma non è che sia un prerequisito per l’immatricolazione. Però non siamo come un liceale ci sognerebbe. Uno arriva a diciotto anni e si immagina a fare la rivoluzione in un caffè parigino, o a salire sui banchi citando Walt Whitman. Poi però per fortuna nessuno si suicida, l’insegnante che ti ha cambiato la vita non viene buttato fuori, magari gli chiedi la tesi e non sali su nessun banco, anche se a volte un po’ vorresti farlo.
Non fraintendetemi. Non è che ci sia anche uno solo di noi che, a domanda diretta, non giurerebbe di amare alla follia quello che fa. E non c’è neanche bisogno di fare una cosa del genere: se non lo amasse, avrebbe da lungo tempo smesso di farlo. Però siamo dei timidi. Introversione ed estroversione sono distribuite in modo equo fra noi, come in una qualsivoglia combriccola umana, con picchi dall’una e dall’altra parte. Eppure quando si viene all’argomento lettere antiche diventiamo timidi tutti. Uno usa le battute per dire poco di sé, l’altro si espone di più, uno fa l’esaltato, l’altro si limita a un’ironia posata. Però alla fine si schermiscono un po’ tutti. Non ti viene facile dire che stai scoppiando di contemplazione, e allora fai l’ennesima battuta sulle magistrature romane, ridi, vai avanti, te la tieni dentro. Magari dici: “Guardate, c’è il nuovo pezzo di Classic Shee”. Oppure: “Guardate che stronzo è questo critico nell’insultare quest’altro”. Una volta qualcuno porta un libro di Alvaro Rissa, un’altra volta uno di Stefano Tonietto. Sai che se leggendo ora ridi dieci, rileggendo quando avrai dato qualche altro esame riderai trentaquattro. Intanto ridi.
A guardarla dall’esterno non c’è frase che non possa sembrare estrinseca. Anche dall’interno tutto corre il rischio di sembrarti inessenziale. E in effetti non parli di quanto male pensi della situazione odierna, e non parli neanche di quanto male pensi della situazione nel V secolo a.C., e non parli del nulla, non parli di quello che ti angoscia, non parli di quello che ti esalta, non reciti mai in piedi sul suddetto banco “E tenebris tantis tam clarum extollere lumen…!”, non parli della necessità della cultura della società. All’inizio vuoi farlo, perché sei matricola, sei esaltato, vuoi portare il tuo messaggio salvifico e giovane al mondo.
Poi fai una scoperta incredibile: scopri di essere un ignorante. Diventi un innamorato timido e schivo, che non griderebbe mai il nome dell’amata in mezzo alla strada. Diventi il tipo di ragazzino che prende in giro la ragazzina perché non sa come dirle che le piace.
Ognuno ha i suoi miti e le sue nostalgie. Le mie nostalge saranno un po’ alessandrine, un po’ distanziate, parecchio ironiche e divertite. Mi va bene. Mi fa pure porre delle domande, ma mi va molto bene.
Non ci resta che salire sul tetto, gridare al mondo che siamo tristi:
questa è musica per quarti d’ora accademici, noi siamo i musicisti.
(citazione rielaborata).
Ah. Se tu che leggi sei uno di quelli a cui pensavo quando scrivevo – e sai, sai sicuramente di essere uno di loro, una di loro. Se lo sei, spulcia un po’ il blog e scoprirai che non mi lascio facilmente andare a considerazioni personali. Quando lo uso, questo blog è un blog fortemente teorico. Questo articolo non è affatto un’eccezione.
So anche che mi prenderai in giro a lungo per espressioni come “cucinarsi il futuro”. Che dire? Fa parte del gioco.
#riflessioni#battute#cambiano i tempi#dedicato a tutti quelli cheee#ironia#lettere antiche#libri#scazzo#università#vagamente personale
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La fortuna dell'enciclopedia
La fortuna dell'enciclopedia
Enciclopedia
Palazzo dell'Eliseo
Parigi
Dopo le lotte degli anni 1751-1759, la condanna del Parlamento di Parigi colpì una fenice destinata a rinascere dalle sue ceneri nel corso degli anni seguenti: la ristampa lucchese, le due edizioni di Livorno, i supplementi e le rielaborazioni francesi, le numerose edizioni svizzere, gli adattamenti e le traduzioni russe, si susseguirono, in un diagramma tangibile della diffusione delle idee dell'Europa dei lumi. Rivoluzione francese: quando il riflusso controrivoluzionario e antigiacobino addossò a Rousseau e a Voltaire e ali enciclopedisti la "faute" del Terrore, anche l'opera simbolo stesso dei lumi fu coinvolta in una sommaria condanna. Alle soglie del nuovo secolo, il materialismo, l'irreligione, la critica sociale e politica, il pragmatismo scientifico e tecnologico dell'Enciclopedia apparvero dotati di una carica eccesiva: demoni da esorcizzare.
Il disinteresse degli studiosi per l'Enciclopedia, dal secolo XIX fino ai primi decenni del XX, fu l'effetto di quella condanna, il riflesso dell'opera di esorcizzazione. I manuali e le opere di sintesi minimizzavano e travisavano, il ruolo svolto degli enciclopedisti nella cultura scientifica, politica ed economica dell'età loro. L'Enciclopedia figurava come metafora mal nota, da rendere attuale la metafora con cui si era espresso Federico il Grande a proposito del viaggio in Russia di Diderot, passato a nord del confine prussiano: <<Un grande fenomeno enciclopedico, descrivendo una ellissi ha sfiorato i limiti del nostro orizzonte; i raggi della sua luce non sono giunti fino a noi...>>
Nel 1951 il bicentenario della pubblicazione dell'Enciclopedia coincise, con una diffusa ripresa di interesse per la cultura e la filosofia dei lumi. Nel 2001 la scadenza celebrativa del 250° anno ha fornito un'occasione di bilancio e nuovi programmi di ricerca. La minuta industria filologica che si esercita ha affrontato una serie dei problemi testuali: i contributi autonomi, la ricerca delle "fonti" di singole voci, l'identificazione delle varie mani che hanno cooperato alla manipolazione enciclopedica, i raffronti con gli scritti extra-enciclopedici degli stessi autori, le biografie e il destino ulteriore dei collaboratori massimi e minimi, infine la decifrazione di un linguaggio spesso volutamente contraddittorio, elusivo o mistificato.
Si colma una lacuna molto vistosa: porre sotto gli occhi di chi non partecipa direttamente ai lavori i testi che sono al centro delle discussioni tra specialisti. Il Discorso preliminare di d'Alembert, la voce Economia politica di Rousseau, gli articoli di Diderot e dei teorici della Fisiocrazia, si sono moltiplicate nelle varie raccolte di opere dei singoli autori. Numerose scelte antologiche presentano l'Enciclopedia quale realmente fu: <<una macchina da guerra, un dizionario tecnico e scientifico, un'opera di collaborazione e di contemplazione. Sono state fatte selezioni o ristampe integrali dei volumi di planches, volte a soddisfare diversi interessi: la documentazione tecnologica e scientifica, l'iconografia delle arti e dei mestieri, gli usi e costumi, il gusto estetizzante per la grafica libraria, e così via. Altre selezioni, hanno attratto l'attenzione sulle voci più significative di contenuto politico e sugli articoli-chiave dell'ideologia.
E' possibile consultare on-line, l'edizione originale francese. Navigando in rete è possibile avere accesso a: repertori, notiziari divulgativi e didattici, annunci di seminari e convegni, informazioni biografiche riguardanti l'impresa i suoi promotori e collaboratori, lo stato delle ricerche, le singole voci, le planches, e così via.
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21 mar 2021 13:00
GRANDE, GROSSO E VERDONE: “IL PRIMO A CREDERE IN ME È STATO UMBERTO SMAILA. IL ROCK? ASCOLTO LA CLASSICA. MIO FRATELLO LUCA È UN GRANDE ESPERTO, SIAMO MOLTO LEGATI MA QUANDO AVEVA 4 MESI TENTAI DI SOFFOCARLO . LA CENA CON LEONARD BERNSTEIN: A DESTRA LA SIGARETTA, A SINISTRA IL WHISKY. E MIA MOGLIE GIANNA LO IMBOCCAVA - IN 'MANUALE D' AMORE 3' HO RECITATO CON DE NIRO. UN' OCCASIONE SPRECATA - I CINEMA? NON POSSO PIÙ ASPETTARE, IL MIO NUOVO FILM VA IN TV” – IL LIBRO: “DALLA GIOVANE PROSTITUTA A CUI MOSTRAI ROMA IN LAMBRETTA SI POTREBBE TRARRE UN FILM. DE LAURENTIIS HA…” – VIDEO
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Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera"
Nel tempo, Carlo Verdone ha sdoganato la nostalgia. Proviamo ad ampliare i suoi ricordi, a riavvolgere il film della sua vita. «Senza ricordi non esistiamo», dice l' attore romano che ha compiuto 70 anni e da quaranta ci fa sorridere e riflettere. I ricordi li racconta nei suoi libri.
L' ultimo è La carezza della memoria (edito da Bompiani) che nasce da uno scatolone dimenticato in un armadio pieno di foto e appunti e ritrovato durante il lockdown. «Dietro c' era un racconto, qualcosa da dire. Tanti episodi li avevo rimossi».
C' è una sua foto con Nuti e Troisi.
«La fece Alberto Sordi. Eravamo a un premio, siamo stati il terremoto della commedia, gli uomini nei nostri film sono fragili e non più rimorchiatori seriali, le donne da oggetto diventano forti. Mi spiace tanto che Francesco non stia bene e Massimo non ci sia più. Sono rimasto io, magari avremmo potuto lavorare insieme, mi sento orfano».
Ci sono ritratti femminili potenti nel libro.
«Una scelta casuale, non mi sono messo a dire: facciamo il ritratto di donne. Il loro è un pianeta interessantissimo. La terrorista incontrata in treno, la malata terminale... Sulla giovane prostituta acqua e sapone che incontrai da ragazzo, a cui mostrai Roma in Lambretta e in seguito ebbe due gemelli, si potrebbe trarre un film. De Laurentiis ha acquistato i diritti cinematografici del libro».
Chi è stato il primo a credere in lei, a parte Sergio Leone?
«Umberto Smaila. Era un ragazzo spiritoso che tirava su il morale a tutti, non sentiva invidie o gelosie. Fu il mio antidepressivo a Torino (all' epoca grigia e un po' cadente), dove facevamo Non Stop , il programma Rai che mi lanciò. Poco dopo a Siena debuttai a teatro, Umberto era in sala e non lo sapevo. Mi disse: ho visto un grande attore. L'abbracciai. Avevo trent' anni».
I suoi film nascono dall' osservazione di quartiere.
«Ho fatto crescere la mia sensibilità sotto l' impulso di una famiglia che mi ha dato l' ironia e i precetti di vita. È importante frequentare la gente. Papà (lo storico del cinema Mario Verdone, ndr ) mi portava sempre con lui in viaggio.
Nella Praga comunista segnata dalla diffidenza mi presentò il drammaturgo Zdenek Digrin, sembrava uscito da un racconto di Cechov, una persona di una dignità, di una eleganza... Io amavo la fotografia e lui mi disse che è qualcosa di intimo, uno stupore che non va spiegato. Finì a fare il portiere di notte perché sgradito al regime. Quella sera c' erano tanti attori di teatro, era come stare sul set di La vita degli altri ».
Lei ha lavorato col suo mito, De Niro.
«In Manuale d' amore 3, un' occasione sprecata. Fu una scena sciocca, avrei voluto ampliarla ma gli attori sono nelle mani dei loro agenti e quando comunicarono che si sarebbe triplicato il compenso De Laurentiis disse che non se ne faceva nulla».
Si arrabbia quando le danno dell' ipocondriaco, ma non l' ha alimentata lei questa «diceria» con le scene dei suoi film?
«Sì, ma in Maledetto il giorno che t' ho incontrato racconto la fragilità degli Anni 90, quando andava di moda lo psicoanalista, disagio tipico della società occidentale. Lo vedi un africano che va dallo sciamano? Ma quello deve trova' il pane, l' acqua, e se è in crisi con la sua donna ne trova un' altra».
Da dove nasce la sua comicità?
«Da un misto di timidezza e euforia, quando l' inadeguatezza si trasforma in adrenalina, e ti vengono fuori una concentrazione e una forza pazzesche. Ho sofferto tanto di timidezza, ero convinto di non avere tutto questo talento, mi sentivo fuori posto, poi ho capito che funzionavo col pubblico. Ma la paura è rimasta, non è che comincio un lavoro e via. La notte prima non dormo».
I medici sono i protagonisti del suo nuovo film, Si vive una volta sola . Doveva uscire più di un anno fa...
«Abbiamo aspettato finché era possibile. Un miracolo che non s' è mai avverato. Eravamo convinti che prima o poi ce l' avremmo fatta. A maggio, a settembre... A Natale le cose sono peggiorate. È diventato complicato tenerlo bloccato, perché c' è il pericolo che il film invecchi. Finiremo su una piattaforma. Abbiamo sperato in tutti i modi ma non puoi tenerlo fermo per un anno».
Le sale diventeranno i cinema d' essai di una volta, una nicchia?
«Oggi sono il posto più sicuro del mondo, si entra in pochi, con la mascherina. Non vorrei che tutti si abituassero al divano. A casa ti squilla il telefono, il cane abbaia, c' è sempre qualcuno che parla. È un' interruzione continua. Il cinema è il tempio dell' immagine.
La condizione dell' aggregazione e la condivisione sono fondamentali. Se anche Scorsese e Ridley Scott si sono messi a scrivere serie tv, anche loro pensano che non finirà presto, io stesso ho finito di scrivere la serie Vita da Carlo per Amazon: la mia vita vera al venti per cento e all' ottanta è romanzata. Ma la sala non morirà mai».
Il suo decennio migliore qual è stato?
«Dal 1990 al 2000 è stato fantastico. Un film più bello dell' altro, Maledetto il giorno che t' ho incontrato , Al lupo al lupo , Perdiamoci di vista , Viaggi di Nozze . Ora è stato finalmente rivalutato C' era un cinese in coma . Non posso più fare quei personaggi ma commedie ben scritte e interpretate».
Qual è un luogo che l' ha ispirata?
«Le bische. Erano luoghi tipici degli Anni 60 e 70, i flipper, i biliardi, erano un teatro dell' umanità, vi trovavi chiunque, il malandrino, quello che aveva soltanto il vizio del gioco... Io ero un borghese curioso di tutto. In quel minestrone riuscivi a selezionare l' apparato umano, è lì che mi sono allenato per i miei personaggi eccessivi. Oggi sono tutti uguali, vai in un locale fuori dal raccordo anulare tipo Las Vegas, vedi gente silenziosa e ti chiedi: ma chi sono questi? Tutti con il Rolex, vero o finto».
Ha un ricordo meno conosciuto di Alberto Sordi?
«Era una persona buona, quando entrava a casa era l' esatto contrario di come appariva, geloso del suo ordine maniacale e della sua privacy. Le serrande erano per tre quarti abbassate, diceva per non far prendere luce ai quadri ma era come il suo ponte levatoio alzato, a casa voleva sentire soltanto il silenzio. Alla proiezione di In viaggio con papà mi ero preparato ai tagli, invece si tagliò lui. Le cose belle bisogna lasciarle, mi disse».
A parte Roma e Siena che è la città di suo padre e del suo debutto teatrale, c' è un' altra città importante?
«Gorizia. Quando uscii da quella piccola stazione, mi trovai in un luogo dove tutto era sospeso, in un silenzio irreale, come per non offendere la memoria dei soldati morti nelle montagne di fronte».
Il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi nei suoi primi discorsi ha citato la parola cultura.
«Abbiamo un leader serio, importante, che ha studiato veramente. I dissidenti dei 5 Stelle? Persone perbene e inadeguate, ma non voglio giudicare. A Conte non puoi dirgli nulla, anzi troppo aveva fatto, un avvocato e professore che non aveva mai fatto politica e deve gestire una situazione catastrofica...».
Il film della sua vita qual è?
« La dolce vita . Fellini non è solo un grande regista, è stato un grande psicologo delle fragilità, un controllore della temperatura che c' era in Italia. Si voltava pagina. E poi Fellini non ha mai rappresentato la cattiveria, semmai i perfidi li ridicolizzava. Cercava la poesia ovunque».
Lei ha incontrato il Papa.
«Gli ho mandato il libro con una dedica, ho impiegato un bel po' a scriverla. Un uomo veramente notevole, sa ascoltare, nella sua semplicità e umiltà arriva a profondità spaventose. Sembra una brava persona incontrata al bar, piano piano eleva gli argomenti a livelli altissimi e resti come ipnotizzato».
Della sua passione per il rock sappiamo tutto. E la musica classica?
«È un conforto della maturità. Arrivi a un momento della vita in cui il rock ti ha dato molto e hai bisogno di pace, di intimità, di serenità. Se sei un vero amante della musica, scalino dopo scalino ti appare Mahler e la sua contemplazione del dolore. I miei genitori frequentavano musicisti, ricordo una sera a cena da noi Leonard Bernstein, a destra la sigaretta, a sinistra il whisky.
E mia moglie Gianna lo imboccava, tenendo sospesa la forchetta mentre cercava di non sporcargli il foulard. Mio fratello Luca è un grande esperto di classica, ha una cultura mille volte superiore alla mia, siamo molto legati ma da piccolo gliene ho fatte di tutti i colori, quando aveva quattro mesi gli ficcai un pezzetto di pane in bocca tentando di soffocarlo, gli rovesciai la culla facendolo rotolare nel corridoio...».
Lei crede nei ricordi, ma questo è un Paese senza memoria.
«Il libro è l' esercizio di una persona che ridà vita a cose che sembrerebbero morte. Invece messe su carta stampata... Il passato è vita, l' unica certezza che abbiamo. Il presente è la pandemia, il futuro è nebuloso. L' unico conforto è nella nostalgia, che non è una resa. Il libro è come andare in una sala di proiezione del tempo e farti accarezzare l' anima».
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Da quando sono iniziati ad arrivare i voli low cost, la Giordania non ha smesso di accogliere migliaia di turisti ogni giorno. Come meta era già piuttosto conveniente, ci mancavano solo le compagnie aeree come Ryanair ed easyJet a invogliare, chi ha pochi soldi ma ama viaggiare, ad andare a visitare uno dei luoghi più magici che esistano sulla faccia della Terra. Parola di chi ci è andato e ha potuto toccare con mano. Magica è la sensazione che si ha dinnanzi all’imponenza di Petra, la città scavata nella roccia rossa. Talmente inimmaginabile da sembrare finta. Invece è vera e antichissima. Ha una storia che ancora si respira camminando lungo i “wadi” (percorsi naturali scavati nella roccia) e i viali sterrati sotto il solleone, con lo sguardo che vaga a destra e a sinistra e un senso di stupore che non ti abbandona mai. La magia di Petra @123rf E, quando pensi di aver visto tutto, scopri che c’è, poco distante, c’è anche una Piccola Petra, molto più piccola ma autentica, collegata alla ‘città rosa’ da un sentiero che si può percorrere a piedi. Se Petra ospita le tombe di re e regine, quella “piccola” era adibita a hotel per i viandanti che un tempo percorrevano la strada del commercio. Ma la magia di questi luoghi non finisce con la semplice visita di un sito. In Giordania, infatti, non si smette mai di scavare e di tanto in tanto viene alla luce un nuovo e inesplorato sito archeologico. Neppure sotto quell’immenso deserto che costituisce i due terzi del territorio. Magico è quindi anche il deserto del Wadi Rum, quello di Lawrence d’Arabia ma anche quello di Star Wars. Non solo dune di sabbia, ma altipiani rocciosi e altissime montagne da cui ammirare un panorama infinito, che cambia forma e colore con la luce del sole, e che regala tramonti indimenticabili e notti stellate come non mai. La magia del deserto del Wadi Rum @Shutterstock Da poco è nato il Jordan Bike Trail, un itinerario di 730 chilometri attraverso la Giordania che, da Nord a Sud, in 12 macro tappe, permette anche a chi ci va per fare sport di visitare rovine archeologiche di immenso valore, riserve naturali e villaggi. Il percorso in bicicletta è in realtà l’evoluzione di un altro percorso magico, il Jordan Trail, un cammino di 620 km, nato nel , econsiderato uno dei sentieri più spettacolari che ci siano al mondo, tanto da avere attirato già migliaia di turisti amanti del trekking e dell’avventura. E, infine, magica è la valle del Giordano, per chi ci crede e ha voglia di crederci. Quella dove Mosè sostò in contemplazione della Terra Promessa. Lungo le rive del fiume, sul lato della Giordania (di fronte c’è Israele), c’è il luogo in cui Gesù sarebbe stato battezzato da Giovanni Battista, Betania oltre il Giordano (o Al-Maghtas) divenuto, nel 2015, Patrimonio dell’Unesco. Il punto esatto del battesimo ha assunto la forma di una croce, dicono, proprio dopo che ricevette la benedizione. Vengono i brividi solo a pensarci. Ecco, quindi, perché visitare la Giordania. Luoghi magici, prezzi accessibili. Per ora, prima che arrivino tutti. Secondo gli ultimi dati del ministero del Turismo giordano il 2019 è stato il miglior anno della storia per le presenze italiane in Giordania. Già forte di una crescita nel 2017 e 2018, il Paese ha visto aumentare i nostri connazionali del 90,4% rispetto all’anno precedente. Cosa state aspettando? https://ift.tt/2RDS4GC Italiani pazzi per la Giordania, magica e low cost Da quando sono iniziati ad arrivare i voli low cost, la Giordania non ha smesso di accogliere migliaia di turisti ogni giorno. Come meta era già piuttosto conveniente, ci mancavano solo le compagnie aeree come Ryanair ed easyJet a invogliare, chi ha pochi soldi ma ama viaggiare, ad andare a visitare uno dei luoghi più magici che esistano sulla faccia della Terra. Parola di chi ci è andato e ha potuto toccare con mano. Magica è la sensazione che si ha dinnanzi all’imponenza di Petra, la città scavata nella roccia rossa. Talmente inimmaginabile da sembrare finta. Invece è vera e antichissima. Ha una storia che ancora si respira camminando lungo i “wadi” (percorsi naturali scavati nella roccia) e i viali sterrati sotto il solleone, con lo sguardo che vaga a destra e a sinistra e un senso di stupore che non ti abbandona mai. La magia di Petra @123rf E, quando pensi di aver visto tutto, scopri che c’è, poco distante, c’è anche una Piccola Petra, molto più piccola ma autentica, collegata alla ‘città rosa’ da un sentiero che si può percorrere a piedi. Se Petra ospita le tombe di re e regine, quella “piccola” era adibita a hotel per i viandanti che un tempo percorrevano la strada del commercio. Ma la magia di questi luoghi non finisce con la semplice visita di un sito. In Giordania, infatti, non si smette mai di scavare e di tanto in tanto viene alla luce un nuovo e inesplorato sito archeologico. Neppure sotto quell’immenso deserto che costituisce i due terzi del territorio. Magico è quindi anche il deserto del Wadi Rum, quello di Lawrence d’Arabia ma anche quello di Star Wars. Non solo dune di sabbia, ma altipiani rocciosi e altissime montagne da cui ammirare un panorama infinito, che cambia forma e colore con la luce del sole, e che regala tramonti indimenticabili e notti stellate come non mai. La magia del deserto del Wadi Rum @Shutterstock Da poco è nato il Jordan Bike Trail, un itinerario di 730 chilometri attraverso la Giordania che, da Nord a Sud, in 12 macro tappe, permette anche a chi ci va per fare sport di visitare rovine archeologiche di immenso valore, riserve naturali e villaggi. Il percorso in bicicletta è in realtà l’evoluzione di un altro percorso magico, il Jordan Trail, un cammino di 620 km, nato nel , econsiderato uno dei sentieri più spettacolari che ci siano al mondo, tanto da avere attirato già migliaia di turisti amanti del trekking e dell’avventura. E, infine, magica è la valle del Giordano, per chi ci crede e ha voglia di crederci. Quella dove Mosè sostò in contemplazione della Terra Promessa. Lungo le rive del fiume, sul lato della Giordania (di fronte c’è Israele), c’è il luogo in cui Gesù sarebbe stato battezzato da Giovanni Battista, Betania oltre il Giordano (o Al-Maghtas) divenuto, nel 2015, Patrimonio dell’Unesco. Il punto esatto del battesimo ha assunto la forma di una croce, dicono, proprio dopo che ricevette la benedizione. Vengono i brividi solo a pensarci. Ecco, quindi, perché visitare la Giordania. Luoghi magici, prezzi accessibili. Per ora, prima che arrivino tutti. Secondo gli ultimi dati del ministero del Turismo giordano il 2019 è stato il miglior anno della storia per le presenze italiane in Giordania. Già forte di una crescita nel 2017 e 2018, il Paese ha visto aumentare i nostri connazionali del 90,4% rispetto all’anno precedente. Cosa state aspettando? Da quando sono iniziati ad arrivare i voli low cost, la Giordania non ha smesso di accogliere migliaia di turisti ogni giorno. Ecco perché ci vanno.
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I dipinti di suor Chiara D'Amato e Agnese Acquaviva tornano restaurati alle Clarisse di Nardò
Questa sera, alle ore 18, nella “sala dell’accoglienza” del monastero di Santa Chiara di Nardò, avverrà la consegna di due dipinti restaurati a cura del Lions Club di Nardò, su iniziativa della presidente nell’anno sociale 2018-19 Prof.ssa Maria Rosaria Manieri, provenienti dalla stessa struttura.
Le tele, dipinte ad olio, raffigurano due importanti figure del monastero clariano neritino, la Serva di Dio Suor Chiara di Gesù, al secolo Isabella D’Amato (1618-1693), e Suor Agnese Acquaviva d’Aragona. Della prima, figlia di Francesco dei duchi di Seclì, da qualche anno gli approfonditi studi hanno delineato le virtù e le qualità umane e religiose, anche per un tentativo di procedere nel complesso e indaginoso riconoscimento della sua beatitudine. Sulla seconda invece sono pochi coloro che se ne sono interessati, pur rappresentando una forte personalità e capace di notevole incisione sulla vita del monastero, del quale fu badessa per molti decenni. Figlia del marchese di Trepuzzi Diego Acquaviva, nata a Melpignano nel 1653, professa nel 1670 e deceduta nel 1748, sotto il suo governo contribuì notevolmente a definire l’architettura e l’arte della chiesa e del monastero, chiamando diversi artisti, tra cui pittori, architetti, scultori, marmorari, stuccatori e scalpellini, che contribuirono alla magnificenza artistica dell’edificio, tra i più belli presenti in città, i cui lavori iniziarono nel 1692 per concludersi nel 1702, anno di consacrazione da parte del vescovo Orazio Fortunato (1678-1707), come ricorda l’epigrafe posta sulla controfacciata.
Si tratta delle uniche due raffigurazioni esistenti dei due personaggi, sebbene quella di Suor Chiara sia stata replicata in diverse occasioni e nelle varie pubblicazioni che la riguardano.
Le operazioni di restauro conservativo, con le opportune integrazioni cromatiche, hanno consentito agli operatori di recuperare gli antichi ritratti, offuscati da depositi e ridipinture che ne alteravano la lettura.
Entrambe di epoca settecentesca, di autore ignoto di ambio meridionale, quella raffigurante Suor Chiara misura 106,5 cm x 79 cm. Ritrae la monaca con l’abito dell’Ordine, a mezzo busto, con il soggolo bianco che incornicia il volto, il cui sguardo è rivolto verso il Crocefisso posizionato sul tavolo, in atto di contemplazione.
L’epigrafe sottostante recita: EF[F]IG[IE] [D]I SUOR [C]HI[AR]A D’AMATO DI S. CATERINA DI SIENA RELIGIOSA [D]EL MONI[STERO] [DI] [S.] CHIAR[A] [DI] [NARDO’] [N]ACQUE [A DI’] 14 [LUGL]IO L’A[N]NO 161[8] [V]ISSE [I]N GRANDE VENERAZIONE MORI’ DI ANNI 75 IN CONCETTO DI SANT[I]TA’ L’ANNO 1693 [DEI] [DUCHI] DI SECLI’.
La tela con Suor Agnese la ritrae nella sua maturità per tre quarti, con l’abito clariano, con il capo leggermente inclinato e le mani incrociate sul petto nell’atto di abbracciare il crocifisso.
Anche questa contiene un’epigrafe che la definisce “De Conti di Nardò… e morì in concetto di santità nel 1748”; misura 101,5 cm x 77,5 cm.
#Isabella D’Amato#Suor Agnese Acquaviva d'Aragona#Suor Chiara d'Amato#Suor Chiara di Gesù#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Spigolature Salentine
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RECENSIONE: Sufjan Stevens - Carrie & Lowell (Asthmatic Kitty, 2015)
L’uomo nasce, vive e muore. Egli non può scappare da questo ciclo perché la sua esistenza vi tende. C’è però un’espressione umana che sfugge al transitorio, che costruisce anche dopo la morte, intrinseca di qualcosa di permanente: l’arte. Questo non è pessimismo, questo forse non è neanche realismo, è un invito a costruire prima di distruggerci, costruire noi stessi e quelli che rimarranno. Perché accettare la morte è difficile, che non saremo più niente e che saremo tutti uguali, ma tanto mentre siamo in vita possiamo fare. Quando Sufjan Stevens si è trovato davanti al dover accettare la morte, vedendola nell’esistenza di sua madre, ha scritto il suo settimo album, Carrie & Lowell, il più bello ed irripetibile della sua carriera.
Similmente a come successe per A Crow Looked At Me di Mount Eerie - anche se stavolta in maniera meno assoluta - questo è un disco che non si può recensire. Significherebbe valutare le caratteristiche letterarie di un diario privato, sfogliare un album fotografico di famiglia in cui sono ritratte persone che non ci sono più e criticare la messa a fuoco degli scatti. Si potrebbe dire di come quest’album sia un ritorno al folk semplice di Seven Swans, un abbandono del barocco e dell’eclettismo di Illinois e The Age Of Adz per seguire una certa linearità, ma la verità è che Stevens non crede che ci sia nessun grado di artisticità in Carrie & Lowell. Questo disco è la sua vita. Ma non è forse arte la vita stessa? Se non altro, egli sa quanto è preziosa e vuole raccontarla: la nascita, la vita, la morte e la rinascita - che sta nell’atto stesso dell’aver realizzato l’album. Conficcata nel mezzo c’è la spina di sua madre che tiene insieme tutti i ricordi.
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Carrie è una donna colpita dalla depressione, dalla schizofrenia e dalla dipendenza di varie sostanze tra cui l’alcool. Si allontana dalla famiglia quando Stevens ha solamente un anno e manterrà una relazione a distanza con il figlio, ad eccezione di alcune vacanze estive passate insieme a lui e al patrigno Lowell, anch’egli alcolista ma sicuramente una figura più presente nella vita del musicista. La perdita di Carrie, avvenuta nel 2012 a causa di un cancro, influisce duramente sulla vita di Stevens, lasciandolo a piangere un rapporto basato sull’assenza. In Carrie & Lowell la contemplazione di questo vuoto diventa una difficile ricerca spirituale, suggestioni di una religione amorfa tra riferimenti biblici e mitologici, nella speranza di rinascere. Se quindi i momenti vissuti con lei si perdono nella memoria di un numero ridotto di eventi, dove il “racconto” completa la mancanza con l’immaginazione, la visita alla madre sul letto di morte spinge Stevens a ricombinare questi elementi e ad affrontare il vuoto da una diversa prospettiva, perché il dolore e il desiderio di amare, devono fare i conti con il niente: vuoto di ricordi condivisi, vuoto di immagini, vuoto di momenti vissuti.
La storia non viene raccontata con ordine cronologico - perché non si potrebbe fare altrimenti quando tra i ricordi ci sono così tanti spazi bianchi - saltando, dunque, dall’infanzia, alla giovinezza fino all’età adulta. In ogni fase c’è una nudità senza precedenti, una vulnerabilità spiazzante, che si trova nelle atmosfere rarefatte del disco, tra forti compressioni vocali ed una serenità tale da ammorbidire i toni come un velo, dolci arpeggi di chitarra acustica, qualche pianoforte e dei synth che si insinuano come spiragli di luce in una pellicola, come se fosse un fuoco nella foto di una notte scurissima e piena di stelle. Tutto è una grande elegia, un sospiro da catturare prima che svanisca.
Il ricordo della madre che lo abbandona in un negozio di videocassette all’età di tre anni riaffiora nel brano Should Have Known Better, insieme al rimorso di non aver provato prima ad avvicinarsi a lei, scrivendole una lettera in cui le dice cosa prova, spiegandole il suo sentirsi come una piuma, chiara come il vento dell’Oregon, ma intrappolata in un sudario nero.
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In quel capolavoro di scrittura che è All Of Me Wants All Of You approfitta dell’ambiguità del linguaggio da lui scelto per descrivere una canzone d’amore che può essere indirizzata al partner così come alla madre. “On the sheet, I see your horizon / All of me pressed onto you / But in this light, you look like Poseidon / I’m just a ghost you walk right through”. Così come il corpo avvolto dalle coperte - reminiscenze delle sagome di una montagna - che Stevens abbraccia può essere quello del partner, d’altra parte può essere quello della madre sul letto di morte. Nella traccia si solidifica il rapporto col paesaggio dell’Oregon, il luogo che accoglieva gli incontri sporadici tra Stevens e Carrie, e che ora lui osserva dalle alture dello Spencer Butte. Dalla contemplazione del vuoto davanti al paesaggio egli riceve una rivelazione che gli permette di cambiare punto di vista. “Traced your shadow with my shoe / Empty outline changed my view / Now all of me thinks less of you”.
In Eugene si interroga sul valore positivo del nucleo familiare e mette in dubbio la sua fede. “Since I was old enough to speak, I've said it with alarm / Some part of me was lost in your sleeve / Where you hid your cigarettes”. E ripercorre i ricordi dell’infanzia, lo yogurt al limone, un portacenere caduto a terra, le lezioni di nuoto con un uomo che non riusciva a pronunciare il suo nome e che ha deciso di dargliene uno nuovo, mentre lo immergeva nell’acqua, proprio come in un battesimo. Stevens entra nello specchio della morte senza alcuna scorciatoia simbolica ed in questo senso raggiunge l’apice - o forse il fondo - in Fourth Of July. “It was night when you died, my firefly”. Una madre che poco prima di morire gli dice che, come un fuoco d’artificio nella notte del quattro luglio esplode nel cielo e per poi spegnersi, tutti gli uomini sono destinati a morire e che gli confessa le scuse di una vita per averlo abbandonato. Continuare l’ascolto del disco fa male come una pugnalata al petto, perchè Stevens non si risparmia nulla e racconta tutto. In No Shade in the Shadow Of The Cross lo spirito distruttivo della madre sembra aver preso possesso di Stevens, mentre strapparsi il cuore dal petto, buttarsi giù dal canyon con l’auto in una notte scura, tagliarsi via un arto sono i pensieri che abitano The Only Thing, insieme alla domanda “Do I care if I survive this?”. La risposta è si, e quell’unica cosa del titolo che lo trattiene dal compiere uno di questi gesti sono le piccole meraviglie del mondo intorno a lui.
Alla fine di Should Have Know Better, la traccia di cui abbiamo parlato all’inizio, c’è anche un momento di gioia, quella rinascita che conclude il suo percorso e sento debba concludere anche questo articolo. Accettare il passato e guardare al presente, alle piccole cose belle, come la nascita della nipote. “My brother had a daughter / The beauty that she brings, illumination”.
Le malattie mentali e le dipendenze portano un dolore immenso, a coloro che ne sono affetti ed allo stesso modo - se non a volte di più - a chi gli sta vicino. La sofferenza di queste situazioni può diventare insopportabile, distruttiva, e minacciare l’amore. Perché per difendersi dal dolore e proteggere la propria integrità si tende ad odiare, ma alla fine, anche quando è troppo tardi, ci si rende conto che non ci si è mai riusciti, ad odiare. Stevens conosce bene questa complessità nel rapporto con la madre e all’interno del disco mai percepiamo questo sentimento. La sente ovunque. Gli passa dentro come un apparizione e tutto ciò che fa in qualche modo lo rimanda a lei. “I love you more than the world can contain / In its lonely and ramshackle head” canta in John My Beloved. Non le attribuisce colpe, se non altro, l’ha perdonata.
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TRACCE MIGLIORI: Should Have Known Better; All of Me Wants All of You; Drawn To The Blood; Fourth Of July
TRACCE PEGGIORI: non ce ne sono, addio.
CLICCA QUI PER LA VALUTAZIONE FINALE
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E mentre la luna si levava più alta le inutili case cominciarono a confondersi gradualmente finché non mi resi conto dell'antica isola che spuntò davanti agli occhi dei marinai olandesi - un seno verde e fresco del nuovo mondo. I suoi alberi scomparsi, gli alberi che avevano ceduto il posto alla casa di Gatsby, avevano fatto da ruffiani bisbiglianti all'ultimo e immane dei sogni umani; per un attimo transitorio e incantato l'uomo doveva aver trattenuto il respiro alla presenza di questo continente, costretto a un'estatica contemplazione che né capiva né desiderava, faccia a faccia per l'ultima volta nella storia con qualcosa commensurato alla sua capacità di meraviglia. E mentre sedevo là a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che l'aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre la città, dove i campi bui della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa - domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia... e una bella mattina... Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.
Francis Scott Fitzgerald dal libro “Il grande Gatsby”
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Frida: la Paloma Negra
Conoscere Frida.
Non sapevo molto anzi, quasi nulla di Frida. Di lei avevo solo un’immagine, piuttosto caricaturale e popolare, dei suoi autoritratti e di alcuni suoi quadri che mi era capitato di sfogliare e vedere per caso sui libri di storia dell’arte o su delle riviste. Solo un’idea di qualcosa molto colorato e vivace, messicano, caliente. Niente di più.
Mi trovo a Bologna, in visita a una mia cara amica e vengo a sapere che da qualche mese in città c’è una mostra su Frida Kahlo.
Che si fa? Si va? ... SI VA!
E’ una giornata fredda, gelida e ventosa, dove vuoi stare meglio che al calduccio per un paio d’ore?! Non abbiamo fatto i biglietti per cui ci toccano ben 2 ore di fila e dentro di me penso “Ma chi me l’ha fatto fare ... forse è meglio tornare il giorno dopo, ci sono un sacco di cose da vedere a Bologna, c’è ArteFiera, mostre gratuite, start up e mercatini, perdere due ore di tempo in fila..poi magari non è tutto ‘sto granchè ...”
Insomma alla fine entriamo e le riserve avute sino a quel momento lasciano il posto alla meraviglia...
Frida Kahlo, anno 1907, nasce a Coyoacàn in Messico, figlia di Guillermo e Matilde Kahlo, lui fotografo di provenienza ungherese e lei messicana.
DI primo acchito, Frida non appare così avvenente, con le sue folte sopracciglia e i baffetti, molto magra e dallo sguardo quasi corrucciato. In più veniamo a sapere che è stata anche molto sfortunata in vita sua perchè quando era una ragazzina ebbe un grave incidente che la costrinse al letto per molti mesi, subì più di trenta operazioni e dovette convivere per sempre con dolori lancinanti, sia nel corpo che nell’anima.. insomma è stata davvero una miracolata!
Quindi penso “povera Frida, oltre che brutta è anche sfigata! Insomma ma che cosa ha questa donna di così speciale???!”
Beh, col senno di poi, direi che speciale è dir poco: mi è bastato stare in sua compagnia per due ore scarse per cambiare completamente opinione, anzi per farmene una del tutto nuova!
Girovagando per la mostra, accostarsi ai suoi dipinti, osservare le linee, i colori, le espressioni del suo volto, le sue fotografie in B&N, i suoi vestiti, i suoi occhi il suo sguardo... LO SGUARDO!
Ecco la chiave di lettura, l’espressività del suo sguardo!
Ecco qui il suo fascino, un fascino strepitoso, particolare, magnetico, misterioso, talvolta malinconico, talvolta malizioso, triste, nostalgico, sofferente, ammaliante, intelligente, arguto, intimidatorio, rivoluzionario, infantile, amaro, fiero, drammatico, pittoresco, vitale, seducente, consapevole, impetuoso e insolente, superbo, enigmatico... tutto questo in uno sguardo, è impressionante!
Premetto che non mi intendo molto di pittura, soprattutto contemporanea, anzi talvolta non riesco proprio a capire le stranezze di certi artisti e forse non ho capito neanche la sua, ma quello che scriverò è tutto ciò che mi è rimasto dentro da questo incontro, tutto ciò che ha iniziato a passarmi per la testa, pensieri, emozioni e sensazioni nude e crude, mie personali e che non vogliono avere la presunzione di essere esatte ma vere, questo sì.
Ho incontrato Frida e l’ho conosciuta, attraverso i suoi autoritratti e i suoi soggetti.
Frida era una donna all’apparenza fragile, la sua figura esile e magra, la carnagione scura, i tratti del volto piuttosto marcati, i suoi capelli neri raccolti in alti chignon e tirati ai lati fino all’estremo, acconciature sgargianti con fiori e fiocchi esagerati, amava vestire con abiti della tradizione antica messicana caratterizzati da lunghe gonne a pieghe o ornate di pizzi e merletti dai colori vivaci, ampie camicie bianche di tessuto leggero che lasciavano intravedere la sua magrezza e poi le collane, i bracciali e gli orecchini, un sacco di orpelli che addosso a qualsiasi persona sarebbero stati eccessivi, su di lei invece erano la pura essenza della sua figura.
A che cosa era destinata Frida?
L’incidente è stato il vero cambiamento, c’è stato un prima e un dopo. L’incidente è stato la sua nemesi ma è stato anche la sua rinascita. L’incidente l’ha segnata in tutti i sensi, l’ha ferita nel corpo e nell’anima, il suo corpo è stato trapassato e straziato a metà, la sua natura violata, la sua maternità negata. Dall’incidente è nata forse una nuova Frida, la Frida che nonostante la tragedia sarebbe sopravvissuta e avrebbe trovato la forza di rinascere, di riprendere in mano la sua vita e di ridisegnarla.
Frida non aveva scelto la carriera artistica, benchè fosse comunque vicina al mondo delle arti visive dato che suo padre era un fotografo e che negli anni della scuola preparatoria si fosse avvicinata alle idee rivoluzionarie del nuovo Messico nascente, facendo parte di quella generazione di giovani che crebbero nell’ epoca riformista e progressista di Vasconcelos, dove si difendevano gli ideali del futuro e dove si aspirava alla contemplazione dei sensi. In più, in tempi non ancora sospetti, incontrò anche colui che poi un giorno sarebbe diventato suo marito, Diego Rivera, pittore già affermato e famoso, che dipinse un murale all’interno della scuola di Frida, dove lei lo vide per la prima volta.
Insomma, il destino già ci mise lo zampino ma nella mente di Frida non c’erano nè pennello e nè colori, si preparava invece per la scuola di medicina e i suoi interessi erano la biologia, gli animali, le piante e la natura.
Però poi tutto cambia. Come un fulmine a ciel sereno, improvviso e inaspettato arriva l’incidente e la sua vita cambia drasticamente.
E’ con l’incidente che inizierà a dipingere: troppo tempo passato a letto sdraiata, senza potersi muovere, la noia e la tristezza, la solitudine soprattutto la portano a dipingere: il suo letto a baldacchino viene dotato di uno specchio sul soffitto così riesce a vedersi. Il soggetto più frequente è proprio lei stessa, perchè come disse “dipingo me stessa perchè sono il soggetto che conosco di più”.
La sua è una pittura introspettiva, intima, lei si ritrae non solo esternamente ma soprattutto internamente, dentro le sue emozioni, dentro il suo corpo e dentro la sua anima (vedi Le due Frida e La colonna spezzata), l’incidente ha violato il suo corpo, lei è nuda, lei è fragile, lei è rotta.
Quello che mi colpisce e quello che mi ha portato a tante riflessioni è questo suo rapporto con l’incidente: Frida si è aggrappata alla pittura con tutte le sue forze, è stata la sua scialuppa, la sua salvezza da una vita che altrimenti sarebbe stata grama e disperata. E come se la salva la vita? dipingendo sì, dipingendo se stessa e la sua disperazione, una forza d’animo e una voglia di vivere inaudita che si riflette in tutto e per tutto nelle sue opere, piene di colore, di realismo, di surrealismo, di astrattismo, di espressionismo, ma soprattutto pregne di VITA (vedi il suo quadro Viva la Vida). Non esiste in Frida il bianco e il nero, il grigio ma solo colore e questo è un inno alla voglia di vivere!
Sfido chiunque nelle sue condizioni ad avere una tale forza d’animo e nonostante tutto quello che la vita stessa gli ha negato (non potè mai avere figli ed ebbe vari aborti) ha amato, ha gioito, ha vissuto, ha sperimentato e ha fatto della sua esistenza un esempio da seguire.
Ecco, Frida è un esempio.
Quindi, apparenza a parte, alla fine della mostra negli occhi non ho più la Frida bruttina e sfigata, ma ho un esempio da ammirare. Frida è bellissima, nel suo essere tutto e il contrario di tutto, Frida è affascinante, è contraddittoria, è enigmatica, più della Gioconda di Leonardo. Adesso capisco anche perchè è stata la musa del suo Diego e di tanti altri uomini (e donne) che l’hanno amata e lusingata.
Andare oltre le apparenze è un altro esempio che mi ha lasciato.
Frida aveva una personalità talmente forte che è andata oltre se stessa, ha esasperato la sua figura, si è scavata dentro, si è fatta vedere nuda e vulnerabile ed è arrivata al cuore delle persone. Non aveva paura. Non aveva paura di soffrire, di farsi vedere fragile, non aveva paura di amare.
Frida non si vergognava del suo aspetto fisico e di come appariva: portava le sopracciglia folte e persino i baffetti e una volta si tagliò i capelli a maschio, non aveva timore di non piacere, non si curava di questo perchè lei era altro, e Diego Rivera, nonostante tutte le sue scappatelle e i tradimenti, lo sapeva e la amava e la ammirava, soprattutto per questo.
Mi ha colpito anche il rapporto tra lei e Diego: lui era molto più vecchio, era grasso e non molto avvenente ma ha avuto moltissime donne e amanti per il suo carattere carismatico e intellettuale. Insieme sembrano la strana coppia: lei una bambina rispetto a quest’uomo alto e grosso, ma sotto c’era qualcosa di più... lei di lui amava il suo essere proprio così, grasso e materno, lui di lei amava il suo aspetto mascolino. Nonostante le apparenze anche in questo caso le loro anime erano destinate a stare insieme e ad essere unite e complementari e, tradimenti a parte, si sono amati moltissimo, a modo loro ovviamente.
Conoscere Frida è stato un privilegio, un’onore e un’esperienza inaspettata, è stato come avere un incidente, un colpo violento che ti scuote e ti cambia la prospettiva.
Frida si guarda dentro e fa in modo che anche tu ti guardi dentro, dentro le viscere del più profondo essere.
Frida è irripetibile, è libertà, è voglia di vivere, è irriverenza e tenerezza, è candida ma anche sfuggente, è delicata ma anche forte...
.......proprio come una Paloma Negra.
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Albert Camus vs. Ernst Jünger: l’uomo in rivolta & il ribelle
Nel 1951 accade un parto gemellare. I gemelli, però, sono radicati per la schiena, si voltano di lato, senza vedersi – possono torcere il collo a dismisura, stendere il petto in continente, ma gli occhi tacciono. Per Gallimard, nel 1951, Albert Camus pubblica L’uomo in rivolta; per Klostermann Ernst Jünger stampa Trattato del Ribelle. In realtà, il libro di Jünger s’intitola Der Waldgang, “il passaggio al bosco”. Il titolo è significato nell’incipit, “Passare al bosco: dietro questa espressione non si nasconde un idillio”. Il cuneo, ecco, non è l’uomo, ma il bosco. Un bosco che non appartiene all’etica bucolica, un bosco a cui bisogna apparentarsi. Nel bosco, infatti, si va “non solo fuori dai sentieri tracciati, ma oltre gli stessi confini della meditazione”. Il bosco è l’ambito del rischio, l’abito della prova: puoi abitarlo, domandoti, o morire. Il passaggio al bosco è come l’attraversamento del deserto. Non c’è compenso di contemplazione, ma un patto, una pattuglia, il bivio della profezia. Nel libro di Jünger, tuttavia, si parla del ribelle.
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Tra ribelle e in rivolta la differenza non è minima, ma miliare. Ribelle è chi ritorna alla guerra, chi si solleva in armi. Nella rivolta c’è la possibilità di rivolgere la parola – una parola contraria, in contrasto –, o di volgersi da un’altra parte. C’è, appunto, l’angolo di un’altra possibilità. Non c’è, immediatamente, la guerra. Nel ribelle, invece, al contrario, non c’è più spazio di mediazione, le parole – la dialettica, che dilaga nella città – non servono, si sceglie il bosco per imparare il suono della poiana, l’astuzia della faina, l’organizzazione del branco. La parola francese révolté, va detto, contempla la ribellione e la furia, l’indignazione, il disgusto: pretende, comunque, accezioni molteplici. Nel ribelle qualcosa di inderogabile è accaduto, qualcosa deve compiersi.
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Nel 1951 Camus è già l’autore de Lo straniero e de La peste, tenuto in palmo di mano da Gallimard. Il libro prosegue la riflessione inaugurata da Il mito di Sisifo: lì (era il 1942) si parlava del suicidio (“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio”); qui dell’omicidio (“Ci sono delitti di passione e delitti di logica. Il confine che li separa è incerto”). Tra uccidersi e uccidere l’organo metafisico è lo scempio. In ogni caso, chi si rivolta, anche solo per il fatto di volgersi in direzione contraria al flusso della massa, lascia uno squarcio, una ferita. Sul proprio corpo, sul viso del prossimo, nell’occhio della Storia. Come si sa, il libro permise a Camus di liberarsi di Sartre: gli pareva il quaderno di un rassegnato. Nel 1951 Jünger si è trasferito in Alta Svevia, a Wilflingen, dialoga con Carl Schmitt e Martin Heidegger, ha da poco pubblicato il diario degli anni dell’occupazione parigina, Irradiazioni, che ha un successo straordinario (ne furono vendute 200mila copie in una manciata di settimane). Il dottor Albert Hofmann l’ha appena introdotto all’estasi dell’Lsd, dal 1949 gli è concesso di pubblicare; proprio quell’anno, nel ’51, gli furono consegnate le spoglie del figlio Ernstel, morto sul fronte italiano. “Il bosco è segreto… il bosco è la grande casa della morte, la sede del pericolo di annientamento… Il bosco fa morire e risorgere simbolicamente”, scrive Jünger. Nel bosco matura l’ombra, nel deserto la luce accecante. Quando pubblica il cosiddetto Trattato del ribelle Jünger è già l’autore di Nelle tempeste d’acciaio e Sulle scogliere di marmo; è un uomo che ha fatto la Prima guerra, ha sessant’anni, diciotto più di Camus. Camus muore, come si sa, nel 1960; lo stesso anno in cui muore Gretha, la prima moglie di Jünger.
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Naturalmente, il tono, l’intenzione, l’oriente e il destino dei due libri è diverso. Camus scrive uno studio per dimostrare che l’uomo, per natura, si ribella all’assurdo di esistere. “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi”. Il linguaggio di Camus è radicato nello studio, ma non è radicale: le frasi sono nitide, schiette, scarne, ma non rinunciano alla contraddizione. Camus sta costruendo una città – oltre alle arterie essenziali ci sono anche i vicoli ciechi, i vincoli, gli svincoli – ed è bello ascoltarlo mentre racconta di Dostoevskij e di Sade, di Lucrezio e di Lautréamont, di Breton e di Bakunin e di Saint-Just. Leggere L’uomo in rivolta non comporta la rivolta, ma l’ascolto. Camus ci parla, lungo il fiume blu e severo che sega in due la città, indica monumenti, basiliche, cul-de-sac, e a noi viene voglia di continuare questa ricerca tra giacobini e anarchici, nichilisti e rivoluzionari, parteggiando per tutti. A differenza del libro di Jünger, che deve stare in una tasca, come un manuale pronto all’uso, quello di Camus, 400 pagine nell’edizione francese (L’uomo in rivolta è tradotto quasi subito in Italia, nel 1957, per Bompiani, da Liliana Magrini; il manuale di Jünger è tradotto per Adelphi da Francesco Bovoli nel 1990), va tenuto in camera, sulla scrivania, per studiarlo. Jünger scrive tra la schermaglia degli arbusti, dove la luce del sole gocciola; Camus sotto l’aura di una lampada. La lingua di Jünger, piuttosto, è estratta da un ghiacciaio, ha la rarefatta perfezione di ciò che toglie il fiato, è una spina di cristallo che cela regni. Non c’è storia né sapienza, nel libro di Jünger, e pochissime le citazioni: qui una pietra ha più valore delle cronache dei re, un albero celebra l’essere con più forza di una orazione. Il Trattato non tratta di nulla: è il ritratto del Ribelle – esemplificato dal poeta –, è una chiamata, un atto di presa senza trattative. Il libro di Jünger parla di rischio e di sacrificio, di proprietà inderogabile dell’individuo, di potere e di potenza, di morbo e di malattia. “L’equipaggio vaccinato e rivaccinato, depurato dai microbi, aduso alle medicine e di età media assai avanzata ha minori possibilità di sopravvivere di un equipaggio che nulla sa di tutto questo. Un quoziente minimo di mortalità in tempi tranquilli non è la misura di un vero stato di salute che, da un momento all’altro, può rovesciarsi nel suo contrario. Quando addirittura non produca malanni ancora sconosciuti. Il tessuto dei popoli è diventato fragile”.
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Comunque li intendiamo, questi due eventi, la rivolta e il ribelle, devono turbarci, ora.
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Camus sembra preparare ciò che Jünger attua – l’uno tenta di definire il male che l’altro ha già scontato. L’ultimo capitolo de L’uomo in rivolta s’intitola Il pensiero meridiano. “Al meriggio del pensiero, l’uomo in rivolta rifiuta così la divinità per condividere le lotte e la sorte comune. Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa”, scrive Camus. Seducente quando parla di altri, riduttivo nel rispondere all’etimo del tempo. Itaca è il proprio, la proprietà umana – ma è l’inappropriato che va scelto, Sion, Gerusalemme, l’abbaglio del deserto, l’infedele e l’infecondo, il belato di Dio o del nulla, più che le sorti progressive. In Camus la profondità del linguaggio, estivo – cioè, caduto, caduco; mi riferisco anche a quel libro, bellissimo (perché la caduta è beatitudine, a volte), L’estate – suona rassegnato, appagato. “La lingua può trovarsi in piena decadenza e il poeta venire fuori come un leone dal deserto”, scrive Jünger al termine del suo manuale. Dal bosco, passa al deserto. “Perfino in epoche in cui è decaduta a semplice strumento di tecnici e burocrati, perfino quando per simulare qualche freschezza prende a prestito le forme del gergo, la lingua rimane indefettibile nel suo immoto potere. Il grigio, la polvere, coprono solo la sua superficie. Chi scava più a fondo, in ogni deserto, tocca lo strato da cui sgorga la fonte”. La rivolta non implica altra replica che la compassione – il ribelle crea il nuovo. Il Camus più grande, credo, è quello dei Taccuini, informe, disfatto, disinibito (“Ho scelto la creazione per sfuggire al delitto. E il loro rispetto! C’è un malinteso”), aperto a una purezza ambigua (“Contro la letteratura impegnata. L’uomo non è soltanto sociale. Almeno la sua morte gli appartiene. Noi siamo fatti per vivere verso gli altri. Ma si muore veramente solo per sé”). Quelle parole hanno odore di paglia – possono infiammare. (d.b.)
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MACERATA – “Verso l’infinito” è il titolo della 25^ edizione di Libriamoci – Festival del libro illustrato, rassegna promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Macerata, da Macerata Musei, in collaborazione con Ars in Fabula – Scuola di illustrazione editoriale presentata questa mattina nel corso di una conferenza stampa alla presenza dell’assessore alla Cultura Stefania Monteverde, di Mauro Evangelista, direttore artistico di Ars in Fabula e curatore di Libriamoci e Rosaria Cicarilli di Macerata Musei.
“Libriamoci a Macerata compie 25 anni. È una grande notizia! Significa che questa città da 25 anni cura l’amore per i libri belli – afferma l’assessore alla Cultura Stefania Monteverde -. Fu un’intuizione dell’allora assessora alla cultura, l’indimenticata e illuminata Barbara Pojaghi: un progetto di città a misura di bambine e bambini deve fondarsi sui libri belli. Nacque Libriamoci. Festival dei libri illustrati. Ebbi l’opportunità di contribuire alla scelta del nome, per dire che i libri ci fanno volare. – ricorda l’assessora alla cultura Stefania Monteverde- in 25 anni ogni anno è la mostra dei migliori libri illustrati prodotti dalle più grandi case editrici italiane, attesa e visitata da scuole turisti famiglie cittadini.
È la scoperta di straordinari artisti delle illustrazioni, capaci di trasformare in visioni sogni, desideri e paure. È lo spazio dei bambini per crescere con le cose belle, e degli adulti per non perdere l’immaginazione. Da 25 anni Libriamoci è curata da Ars in Fabula, prestigiosa scuola di specializzazione nell’illustrazione che ha fatto crescere artisti bravissimi Made in Macerata, raccogliendo premi e riconoscimenti. Merito dell’ingegno creativo di Mauro Evangelista e della passione operativa di Michela Avi, ai quali va il riconoscimento della città per aver fatto di Macerata un punto di riferimento internazionale nel campo del libro illustrato.”
E prosegue: “Ho avuto il privilegio, da assessora alla Cultura in questi dieci anni, di ereditare un così grande patrimonio, e, insieme al sindaco e alla giunta, abbiamo cercato di averne cura. In questi anni il Comune di Macerata non ha smesso mai di investire su Libriamoci come progetto di comunità, considerato da tutte le amministrazioni che si sono succedute un patrimonio culturale che bene alla città. L’augurio è che anche nei prossimi 25 anni continui a vivere e crescere Libriamoci. Festival dei libri illustrati a Macerata, un luogo necessario che può regalare a tutti noi un dono raro, gli occhi per vedere l’invisibile.”
Inserita nel calendario di Libriamoci 2019, nella suggestiva ambientazione di Palazzo Buonaccorsi, la mostra, dedicata alla più celebre poesia di Giacomo Leopardi, inaugura il 15 dicembre e sarà visitabile fino al 2 febbraio.
L’infinito trova nuove forme e colori nelle immagini dell’artista Marco Somà, vincitore del Premio Andersen 2019 come miglior illustratore, formatosi alla Scuola di illustrazione Ars in Fabula. Le visionarie tavole esposte rappresentano un invito, per grandi e piccoli lettori, alla scoperta, al ritorno, al viaggio nell’universo leopardiano. Si trova lo spunto per riflettere sullo spazio e sul tempo, nelle loro declinazioni personali e intime in relazione alla vastità del mondo e alla sua contemplazione.
A veicolare questi significati possono essere proprio i libri, che dallo spazio finito delle pagine diventano luoghi d’accesso protetti al dolce navigar nell’immensità del mondo. Come scrive lo scrittore Daniele Aristarco nella prefazione dell’albo L’infinito illustrato da Somà, pubblicato da Einaudi Ragazzi in occasione del bicentenario della composizione della poesia:
“Ognuno ha la sua siepe, un luogo nel quale stare da solo e lasciare che l’immaginazione si muova liberamente nel tempo e nello spazio. Non sappiamo se quell’infinito esista realmente, eppure ci piace provare a immaginarlo. In questo preciso istante, mentre sei seduto e i tuoi occhi scorrono questi segni, la tua mente viaggia indietro di duecento anni e poi in avanti, forse, o chissà dove. Forse la tua siepe la stai stringendo tra le mani. Nello spazio finito della pagina di un libro, un luogo d’accesso al tuo splendido naufragio”.
“La preziosa collaborazione con Libriamoci – ha detto Rosaria Cicarilli di Macerata Musei – è iniziata nel 2009 con l’inaugurazione del Museo della Carrozza per la quale Mauro Evangelista e i suoi studenti illustrarono un libricino dedicato ai bambini. Un rapporto, proseguito negli anni con l’allestimento di mostre e con l’accoglienza a Palazzo Buonaccorsi dei corsi di illustrazione e master, costante e motivo di grande orgoglio.”
Il viaggio verso l’infinito inizia domani, domenica 1 dicembre, alle 18, con l’inaugurazione di Libriamoci 2019 nella storica sede della Galleria degli Antichi Forni.
“La rassegna quest’anno festeggia venticinque anni – sottolinea il direttore artistico Mauro Evangelista, illustratore Premio Andersen – e, insieme alla Scuola di illustrazione Ars in Fabula, ha fatto conoscere la città di Macerata al mondo come capitale italiana del libro illustrato”.
Ci accompagneranno verso l’infinito le illustrazioni tratte da ben 13 libri pubblicati quest’anno nati tra i banchi di Ars in Fabula: Il signor Erik (edizioni Uovonero), Ada al contrario (Settenove), I tre porcellini (Carthusia), La povera gente e Sredni Vashtar (entrambi Orecchio Acerbo), Marc est devenu un chat e Dejeuner sur l’herbe (entrambi Notari), La leggenda del paese dove nascono le parole (Feltrinelli kids), L’alfabeto delle emozioni (Gribaudo), La ragazza della foto (Il battello a vapore), Com’è nata l’Italia (Mondadori), Il re e i suoi cavalieri (Sinnos) e Poesie della neve (Fatatrac).
Insieme ai giovani illustratori, in mostra anche professionisti navigati: ritroviamo Marco Somà con La vera storia di King Kong (Kite), Mauro Evangelista con Il principe felice ed altre storie di Oscar Wilde (Bompiani), Giacomo Garelli con Io e Charlie (Orecchio Acerbo).
Anche quest’anno saranno esposti i lavori degli studenti del corso Entry-Level di Ars in Fabula che si sono cimentati nell’illustrare opere di grandi autori: Fedro, Italo Calvino, Gianni Rodari, Topelius. La novità di quest’anno vede l’arrivo agli Antichi Forni dei progetti personali degli studenti del nuovo corso Advanced Ars in Fabula. Si troveranno illustrazioni di diverse fiabe della tradizione popolare, opere di inediti e grandi autori come Borges, Yeats, Pasolini, Guy de Maupassant e tanti altri.
Come sempre, in programma mattina e pomeriggio visite guidate gratuite per le scuole (nell’ultima edizione hanno partecipato oltre cento bambini al giorno), arricchite dalla presenza degli illustratori ospiti. Ogni pomeriggio sono in programma appuntamenti no stop dedicati all’albo illustrato: Fiabe in galleria con il Teatro Rebis, incontri in collaborazione con il Museo della Scuola, laboratori con gli autori ospiti e attività curate da Ars in Fabula. Come di consueto uno spazio della rassegna è dedicato alla mostra-mercato del libro illustrato, bookshop – a cura di Bottega del Libro e Libreria del Monte – che spazia dai classici dell’infanzia alle ultime novità editoriali italiane ed estere.
Info: www.comune.macerata.it
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ogni singola volta che torno da un viaggio, piango.
piango sempre, c’è poco da fare, ci provo a trattenermi, ma niente.
ho questa capacità di non piangere per mesi e poi scoppiare tutta d’un botto.
come quella volta che sono andata alla national gallery, stavo lì, col naso all’insù e la bocca spalancata, incantata come una bambina la mattina di natale, quando trova tutti i pacchi sotto l’albero e non capisce come ci siano finiti.
giro, schivo la gente, vago senza meta e poi sbam! qualcosa chiama il mio sguardo, mi giro, il mio corpo va da solo verso un quadro, uno di turner che vi giuro, è piccolo di un piccolo che più piccolo non si può. ma io vado lí.
non faccio in tempo a guardarlo che il mio labbro superiore inizia a tremare, gli occhi mi si riempiono di lacrime come dei palloncini per gavettoni, apro i rubinetti e inizio a dar sfogo a tutte le emozioni.
continuo il giro, singhiozzando come non so cosa, me ne frego delle persone che mi guardano, anzi, in realtà non mi si filava nessuno, come fosse normale. a me sembra normalissimo piangere.
arrivo da van gogh e niente, stessa scena, uguale a prima, con la differenza che stavolta sono stizzita. c’è troppa gente e non riesco a vedere bene. scappo via, potrei dare di matto.
continuo il giro, convinta che a questo punto io sia abbastanza al sicuro da pianti improvvisi. giro un paio di angoli, con un alone di malinconia addosso, ma è gestibile.
sono quasi all’uscita quando, di nuovo, i miei piedi vanno da soli, un quadro mi sta chiamando ed eccolo lì, il motivo della mia crisi di pianto più grande degli ultimi mesi. un quadro di un artista mai sentito, mai visto, mai studiato, in cui vi è rappresentato san giorgio che uccide il drago.
quando ero piccola andavo sempre al paese dei miei nonni siciliani e, vicino alla spiaggia, c’era questo quadro del protettore del paese, ovvero san giorgio, davanti al quale passavo intere ore, senza muovermi, guardando e basta, in totale contemplazione facendo a volte preoccupare tutta la sfilza di parenti perché non mi si trovava.
forse è stato proprio questo ricordo a farmi piangere tanto, però io sto lì, non mi muovo, piango e basta. vorrei mettermi seduta, evitare che altri mi si piazzino davanti per vederlo, vorrei fosse mio, mio e solo mio. ma mi limito a esercitare il moccio per le prossime olimpiadi de “il pianto più lungo della storia”.
a un certo punto scappo via, cerco i miei amici, li trovo seduti, arrivo da loro e andrea mi fa “come va?”. io, che ho appena smesso di piangere, con due occhi da pesce palla, il naso di rudolf e le spalle pronte per la disco dancing, mi giro, lo guardo, e inizio a piangere.
il giorno dopo, british museum. io gasata come un bambina il primo giorno della prima elementare, mi faccio il giro col mio migliore amico.
passa la sezione egizia, quella assira e quella babilonese. sto discutendo con lui della raffinatezza dei dettagli delle sculture di questi popoli antichi e nel frattempo camminiamo.
a un certo punto, a tradimento, ma a tradimento vero, giro l’angolo e mi ritrovo davanti una statua greca. mezzo secondo e niente scoppio a piangere. emi mi guarda preoccupata e in quel momento vedo andrea e irene e scrocco nuovamente un fazzoletto a andre. non ce la sto facendo. singhiozzo come quando avevo cinque anni e facevo i capricci.
si lo so, sembra che io non faccia altro che piangere. ma non è finita qui.
la sera dopo sono all’o2 a vedere il concerto di john mayer. sto lì sulla mia bella poltroncina numero 175 e vedo alla perfezione il palco, siamo un po’ lontani è vero, ma amen io e i miei amici siamo qui per il concerto e basta.
i minuti passano, l’arena si riempie, noi ci facciamo i nostri selfie di rito, contenti come pochi. a un certo punto si spengono le luci, parte una proiezione sul maxi schermo, inizia lo spettacolo.
appena lo vedo lì, in carne e ossa a poche entrate da me, inizio a piangere e a ridere come una pazza isterica. non mi sembra vero.
il concerto va avanti, io mi ripiglio, l’unica cosa che vorrei è ballare ogni singola canzone.
pausa. mi giro verso i miei friends e siamo tutti increduli, emozionati, spaventati dalla seconda parte. scommettiamo sulla scaletta e mentre ancora ci guardiamo totalmente smarriti, john ricomincia.
mi fanno male le mani, un po’ per gli applausi, un po’ perché sto giro andò alla piccola batterista sulle mie cosce. domani sarò piena di lividi, lo so già.
una, due, tre canzoni, ma quella che aspetto io non arriva.
uno dei suoi musicisti fa un pezzo cantato meraviglioso, io lo ascolto, totalmente rapita, mi perdo nei miei pensieri tanto che non mi accorgo che ha finito di cantare. realizzo appena in tempo per sentire la prima nota della canzone che voglio sentire, anzi no l, che fremo di sentire live da tutta la vita.
alla seconda nota sono già faccia spalmata sui palmi, e piango. piango tantissimo, non respiro, cerco di essere silenziosa, non voglio perdermi nulla, ma non riesco a guardare il palco, continuo a piangere e piango, piango, sempre, fino alla fine. otto minuti di canzone e io li piango tutti, dal primo all’ultimo.
la canzone finisce, io sono disperata, guardo emi, lui senza dire nulla, mi abbraccia, mi accarezza la testa e piange, più composto di me. non abbiamo nemmeno un minuto di tregua da quello strazio dilaniante, che il concerto riprende, e noi con lui.
usciamo. morale sotto i piedi, gioia tanta. io cerco un bagno, devo fare pipì e sciacquarmi la faccia. sembro un panda. ho il trucco nero che è arrivato fino al collo.
esco, trovo gli altri, cerchiamo un bus per tornare a casa. faccio fatica a parlare, sono troppo immersa nelle mie emozioni.
arriviamo a casa, una fame della madonna, mi metto ai fornelli e faccio una pasta per me e emi, andre e ire si mangiano due cagate e vanno a letto.
mangiamo, facciamo due chiacchiere, ci laviamo e ci mettiamo a letto anche noi. io ho sonno zero e così costringo quel povero cristo di emiliano a rimanere sveglio con me, anche se la cosa non sembra dispiacergli.
si fanno le quattro, propongo uno shot di vodka ghiacciata di frigo, il mio compagno di bevute preferito accetta di buon grado. spariamo due cazzate in cucina e torniamo in camera.
ho un macigno sullo stomaco, me ne devo liberare, do fiato alla bocca.
chiedo scusa a emi per tutto, per non avergli risposto, per averlo ingorato, per non avergli detto come stanno le cose, quanto sono agitata per l’università, la mia continua spirale di depressione, i litigi con mia sorella, lui che mi manca da dio perché si è trasferito.
mi salgono le lacrime, sto per fare come gli altri giorni, come qualche ora prima, sto per aprire tutta la diga di sentimenti che trattengo molto, troppo spesso.
gli ripeto quanto mi manca, quanto non so vedermi senza di lui a due passi da casa, anche se in realtà non ci vediamo praticamente mai. però ecco mi sembra bello sapere che una persona sta lì e che al limite basta suonare a un campanello. adesso no, adesso lui sta a chilometri e chilometri da me, e nonostante fino a qualche anno fa la cosa era al contrario, ora mi sembra che c’è qualcosa fuori posto. gli dico che lui è il mio centro, il mio punto fisso e ora è come se la mia stella polare si fosse spostata, facendomi perdere in un mare sconfinato di tristezza.
sono arrabbiata con lui perché mi ha lasciata sola.
lui mi abbraccia, mi accarezza la schiena, i capelli, mi coccola e mi culla, quasi fossi una bambina impaurita, mi sento piccola piccola vicino a lui. gli infradicio la maglietta, continuo a piangere, non riesco a fermarmi, finché non so se per il suo respiro calmo o il ritmo crescente del suo battito cardiaco, riesco piano piano a riprendermi.
mi dice che anche a lui manco molto. mi aggiusto fra le sue braccia, fino a che le nostre labbra si sfiorano. lui le appoggia delicatamente sulle mie e iniziamo a baciarci. sono baci di consolazione, dolcissimi, assomigliano molto al primo bacio, il primo in assoluto, che non sai come funziona ma lo fai, totalmente guidato dall’istinto.
mi scende ancora qualche lacrima, ma continuo a baciarlo, ormai troppo presa per smettere. ad essere sincera non voglio smettere. io lo voglio, lo voglio con tutta me stessa. i baci cambiano ritmo, si fanno le sei, ci mettiamo a dormire, io ho smesso di piangere e lui ha iniziato a russare. mi addormento felice.
il giorno dopo non piango, mai, mi rattristo forse, ma non piango. strano ma vero.
oggi siamo tornati a casa. abbiamo fatto notte bianca e io sono collassata sul volo. mi sveglio una volta atterrati. mi viene da piangere, piango. gli altri non mi vedono, direi anche menomale perché la cosa potrebbe risultare patetica, quantomeno per andre e ire, per emi no, mi rimprovera sempre quando dico di essere patetica se piango.
usciamo dall’aeroporto, mi accompagnano al treno.
ogni singola volta che torno da un viaggio, piango. non importa se è stato lungo, breve, stancante, divertente o deprimente. io piango, sempre.
piango perché lascio i posti, saluto le persone, il clima, le abitudini, insomma devo salutare tutto.
devo salutare i miei compagni di viaggio, il che mi uccide sempre. fosse per me vivrei solo con i miei amici. sempre.
ogni singola volta che torno da un viaggio, piango.
come adesso, che sono due ore che sto sul treno, e ho bisogno di un idraulico perché sto piangendo come una disperata.
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C'è una tecnica per annoiarsi in maniera utile e salutare
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/ce-una-tecnica-per-annoiarsi-in-maniera-utile-e-salutare/
C'è una tecnica per annoiarsi in maniera utile e salutare
C’è una tecnica per annoiarsi in maniera utile e salutare
Siamo cresciuti evitando la noia. Ci hanno spronato a giocare, a divertirci, a studiare, a coltivare hobby, a impegnarci in qualcosa. Qualsiasi cosa. Tutto fuorché abbandonarsi alla noia. Eppure annoiarsi fa bene. Lo dicono gli scienziati che oggi riabilitano il contrastatissimo sentimento con studi su studi, i quali sostengono che chi si arrende alla noia aumenta la propria creatività e reprime i sentimenti aggressivi.
Non solo. La noia può rappresentare un importante campanello d’allarme che ci indica che abbiamo bisogno di un cambiamento. Certo, non bisogna esagerare e scadere nell’inettitudine, ma una giusta dose di noia è una buona cosa. Lo sapeva bene Giacomo Leopardi che la definiva “il più sublime dei sentimenti umani”. Quello che nessuno sapeva fino a poco tempo fa, però, è che la noia sarebbe diventata un vero e proprio business.
Nel 2017, il New York Times ha osservato che la noia stava vivendo “un momento letterario”. Secondo Quartz, nel database dell’Istituto Nazionale di Sanità si contano 7.138 studi relativi a questo tema. I titoli più in vista di libri e studi scientifici riportati nel 2019 da Google sono 12.300. L’interesse per la noia sembra strettamente collegato alla cultura tecnologica. Possiamo fare acquisti 24 ore su 24, e viviamo bombardati da social media e intrattenimento in streaming. L’informazione è ovunque. Il messaggio sembra chiaro: non dobbiamo più annoiarci. Eppure, un americano in media si annoia 131 giorni in un anno, mentre un bimbo pronuncia 4 volte al giorno la frase “Mi annoio”. Ma è davvero un male?
Uno studio della Australian National University, pubblicato nel marzo 2019 sulla rivista Academy of Management, ha esaminato gli effetti della noia sulla generazione di idee e sulle emozioni negative come rabbia e frustrazione. I ricercatori hanno osservato come la noia aumenti la creatività e la produttività. Non fare nulla ci orienta verso ciò che è già intorno a noi, che a sua volta ci ri-orienta. La nostra stessa idea di produttività, osserva Quartz, si basa sull’idea di produrre qualcosa di nuovo, mentre non tendiamo a vedere la manutenzione e la cura come produttive allo stesso modo”.
Ma come ci si annoia nel modo giusto? Come fanno gli olandesi. Il consiglio arriva da Stuart Heritage, del Guardian: “Smetti di fare tutto adesso. Congratulazioni, hai appena fatto un niksen”. Si tratta di una parola olandese che significa letteralmente “non fare nulla o essere ozioso”. Consiste nell’operare su di sé un rilassamento mentale e abbandonarsi a digressioni fantasiose, il dolce far nulla si può tradurre in guardare fuori dalla finestra e rimanere in contemplazione, ascoltare della musica a letto o ancora passare un fine settimana lontano dalla tecnologia. Ma in generale, allontanarsi da ciò che si fa nella quotidianità.
Il far nulla olandese, sottolinea il sito Green me, non significa rimanere come automi fermi immobili, ma piuttosto ricrearsi un angolino durante la giornata in cui lasciare fuori le preoccupazioni e spezzare la routine. Quest’arte però non si impara dall’oggi al domani, perché pochi sanno apprezzare realmente il significato del non far niente. Questo succede perché siamo abituati a vedere il far niente come un aspetto negativo che fa rima con apatia, depressione, al contrario va visto in chiave positiva come qualcosa che riesce a migliorare la qualità della nostra vita.
Diverso è il caso dei bambini: Un bimbo annoiato presto o tardi vorrà fare qualcosa. Colorare, costruire, distruggere. Tutte attività strettamente collegate alla creatività. Ma il successo o meno dell’impresa dipenderà molto dai genitori. Mamma e papà hanno un ruolo, che è quello di capire che le soluzioni o le proposte veloci e pre-confezionate non funzionano. E, soprattutto, che la creatività richiede spazio, tempo, materiali e la possibilità di combinare pasticci (entro certi limiti).
Siamo cresciuti evitando la noia. Ci hanno spronato a giocare, a divertirci, a studiare, a coltivare hobby, a impegnarci in qualcosa. Qualsiasi cosa. Tutto fuorché abbandonarsi alla noia. Eppure annoiarsi fa bene. Lo dicono gli scienziati che oggi riabilitano il contrastatissimo sentimento con studi su studi, i quali sostengono che chi si arrende alla noia aumenta la propria creatività e reprime i sentimenti aggressivi.
Non solo. La noia può rappresentare un importante campanello d’allarme che ci indica che abbiamo bisogno di un cambiamento. Certo, non bisogna esagerare e scadere nell’inettitudine, ma una giusta dose di noia è una buona cosa. Lo sapeva bene Giacomo Leopardi che la definiva “il più sublime dei sentimenti umani”. Quello che nessuno sapeva fino a poco tempo fa, però, è che la noia sarebbe diventata un vero e proprio business.
Nel 2017, il New York Times ha osservato che la noia stava vivendo “un momento letterario”. Secondo Quartz, nel database dell’Istituto Nazionale di Sanità si contano 7.138 studi relativi a questo tema. I titoli più in vista di libri e studi scientifici riportati nel 2019 da Google sono 12.300. L’interesse per la noia sembra strettamente collegato alla cultura tecnologica. Possiamo fare acquisti 24 ore su 24, e viviamo bombardati da social media e intrattenimento in streaming. L’informazione è ovunque. Il messaggio sembra chiaro: non dobbiamo più annoiarci. Eppure, un americano in media si annoia 131 giorni in un anno, mentre un bimbo pronuncia 4 volte al giorno la frase “Mi annoio”. Ma è davvero un male?
Uno studio della Australian National University, pubblicato nel marzo 2019 sulla rivista Academy of Management, ha esaminato gli effetti della noia sulla generazione di idee e sulle emozioni negative come rabbia e frustrazione. I ricercatori hanno osservato come la noia aumenti la creatività e la produttività. Non fare nulla ci orienta verso ciò che è già intorno a noi, che a sua volta ci ri-orienta. La nostra stessa idea di produttività, osserva Quartz, si basa sull’idea di produrre qualcosa di nuovo, mentre non tendiamo a vedere la manutenzione e la cura come produttive allo stesso modo”.
Ma come ci si annoia nel modo giusto? Come fanno gli olandesi. Il consiglio arriva da Stuart Heritage, del Guardian: “Smetti di fare tutto adesso. Congratulazioni, hai appena fatto un niksen”. Si tratta di una parola olandese che significa letteralmente “non fare nulla o essere ozioso”. Consiste nell’operare su di sé un rilassamento mentale e abbandonarsi a digressioni fantasiose, il dolce far nulla si può tradurre in guardare fuori dalla finestra e rimanere in contemplazione, ascoltare della musica a letto o ancora passare un fine settimana lontano dalla tecnologia. Ma in generale, allontanarsi da ciò che si fa nella quotidianità.
Il far nulla olandese, sottolinea il sito Green me, non significa rimanere come automi fermi immobili, ma piuttosto ricrearsi un angolino durante la giornata in cui lasciare fuori le preoccupazioni e spezzare la routine. Quest’arte però non si impara dall’oggi al domani, perché pochi sanno apprezzare realmente il significato del non far niente. Questo succede perché siamo abituati a vedere il far niente come un aspetto negativo che fa rima con apatia, depressione, al contrario va visto in chiave positiva come qualcosa che riesce a migliorare la qualità della nostra vita.
Diverso è il caso dei bambini: Un bimbo annoiato presto o tardi vorrà fare qualcosa. Colorare, costruire, distruggere. Tutte attività strettamente collegate alla creatività. Ma il successo o meno dell’impresa dipenderà molto dai genitori. Mamma e papà hanno un ruolo, che è quello di capire che le soluzioni o le proposte veloci e pre-confezionate non funzionano. E, soprattutto, che la creatività richiede spazio, tempo, materiali e la possibilità di combinare pasticci (entro certi limiti).
sonia montrella
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