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#come fare un viaggio sciamanico
lunamagicablu · 2 years
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Vi sono vari modi per contattare il proprio animale di potere.
Si può fare un viaggio sciamanico, si può chiedere la visione nei sogni o ancora possiamo andare in un bosco e camminare fino a quando non incontriamo l'animale.
E con l'animale instauriamo un contatto visivo.
L’Animale Totem, conosciuto anche come Animale di Potere, Guida Sciamanica, Animale Medicina ecc… è un’energia astrale portatrice di simboli che dona capacità e verità particolari a seconda della sua natura e a seconda della natura della persona in cui si manifesta.
Nelle culture sciamaniche di tutto il mondo la connessione con gli Animali di Potere è fondamentale. L’Animale di Potere, attraverso il suo riconoscimento ed in alcuni casi attraverso un’ iniziazione, dona le sue qualità alla persona che lo invocare realizzando così un legame che può durare anche per tutta la vita.
Ogni Animale ha un significato diverso.
Sara
lasorgenteeladea.blogspot.com
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There are several ways to contact your power animal.
We can go on a shamanic journey, we can ask for the vision in dreams or we can go to a wood and walk until we meet the animal.
And we make eye contact with the animal.
The Totem Animal, also known as Power Animal, Shamanic Guide, Medicine Animal, etc ... is an astral energy carrying symbols that gives particular abilities and truths depending on its nature and depending on the nature of the person in which it manifests itself.
In shamanic cultures around the world, the connection with the Animals of Power is fundamental. The Animal of Power, through its recognition and in some cases through an initiation, gives its qualities to the person who invokes it, thus creating a bond that can last for a lifetime.
Each Animal has a different meaning.
Sara
lasorgenteeladea.blogspot.com
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ilpellegrino · 5 years
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Quando si parla di viaggio sciamanico, ma più in generale di viaggi fuori dal corpo o attività "occulte" in senso lato, da una parte ci sono rischi obiettivi di dui tener conto, dall'altra la tendenza di "persone esperte" a creare terrore e far pensare che solo alcuni di noi possano accedere a ciò che sta oltre questa vita. Non è proprio così, e ne parleremo in modo approfondito anche nei prossimi periodi, sulla base di autori e occultisti illustri.
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pangeanews · 4 years
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“L’ideologia del facile ha reso l’artista un burocrate”. Alla scoperta di Ugo Leonzio, il genio nel miraggio
Riuscì a sparire, che mistica meta, insabbiando perfino la propria morte, nonostante la coincidenza, limpida come una campana – muore 500 anni dopo Leonardo da Vinci, il 2 maggio del 2019. Di Ugo Leonzio non ha scritto quasi nessuno, lo scritto di Franco Cordelli sul “Corsera”, quasi un anno dopo, lo ammette, da subito, “Il 2 maggio dello scorso anno morì un grande scrittore, Ugo Leonzio: allora nessuno lo comunico né poi lo ricordò”. In questo paese di vili, Leonzio si camuffò dietro un’insondabile severità – riuscì a schivare la fama, la fanfara, i fanfaroni.
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Scoprii Leonzio, anni fa, leggendo l’edizione Guanda di Bagatelle per un massacro. Era il 1981, il libro fu ritirato dal mercato l’anno dopo per ordine del tribunale di Milano. Tradotto da Giancarlo Pontiggia, il pamphlet di Céline è anticipato da un testo di Leonzio. Il testo s’intitola Dolore e corruzione, inizia così: “Per molto tempo ho cercato di spiegarmi perché Bagatelles pour un massacre fosse l’unico libro veramente infernale prodotto dalla letteratura francese dopo Choderlos de Laclos. Ogni metodo usato per situare o circoscrivere questo disumano atto d’accusa e di autoaccusa rischia di apparire funesto o ridicolo: ridicole le motivazioni patologiche («un momento di follia») e quelle estetiche («L’antisemitismo è solo una metafora dell’odio per il mondo»); funeste quelle psicologistiche («Céline vuole fare scandalo perché in una fase di impotenza creativa») e quelle enigmatiche («Bagatelles è un pamphlet antisemita ma noi non sappiamo cosa siano gli ebrei per Céline»). Per quanto queste sciocchezze contengano sempre un riverbero di verità, la realtà è che la materia di questo libro, più che ributtante è intrattabile, impermeabile a qualsiasi giudizio che non pretenda di usarla”. L’ultima frase dell’intro – “L’odio è la forma più profonda e incomunicabile dell’amore” – è corrusca e autentica. Di Ugo Leonzio, d’altronde, non si trova nulla: non ha una nota Treccani, è ignorato da Wikipedia, arde nell’eremo.
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Nato a Milano nel 1941, studi all’Accademia del Piccolo Teatro, Ugo Leonzio va scoperto nella scomparsa. È come se seguissi tracce che sfociano su un baratro. Tracce di tigre che si perdono sulla pietra biblica, in bilico. La seconda volta scopro Leonzio negli archivi del Premio Riccione, nei recessi della Biblioteca civica. È sempre il 1981, l’anno delle Bagatelles. Leonzio vince il Premio Riccione con Il testamento dell’orso schermitore. “Il relatore non ha difficoltà a riconoscere in questo testo, per quanto lo riguarda, l’opera più interessante fra quelle che gli è capitato fino a questo momento di leggere”, scrive, nelle conclusioni Fausto Curi. A Leonzio, in quella edizione, affiancano Dacia Maraini, più nota ed edificante, forse, per Lezioni d’amore, nonostante le recise critiche espresse proprio da Curi, che accusa la scrittrice di «brillante frivolezza» di «una futile scioltezza linguistica» che rendono «il lavoro gradevole e inutile». Ergo: «da escludere». Invece, vinse.
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Leonzio fa tutto in una manciata di decenni. Pubblica La norma (1972) e Tre sogni (1977) per Einaudi e Il cielo e la terra (1980) per Guanda. I tre romanzi non vengono più ristampati, scompaiono, appunto. Leonzio è scrittore inattuale, inattingibile, impubblicabile. “La letteratura è sperimentalismo. Manzoniera uno sperimentalista, come Gadda e Landolfi. Nessuno di loro è mai stato avanguardista.  Questo perché mentre l’avanguardia nega ogni rapporto con la tradizione, lo sperimentalismo mantiene invece un rapporto produttivo con ciò che lo precede. È inevitabile parlare con i maestri defunti. Perché scrivere è un’evocazione, non una profezia. Un artista non parla del mondo, parla di sé e in questo modo dà vita ad un mondo che vuole sostituirsi a quello che c’è. Non mira a cambiare il mondo bensì a distruggerlo, sostituendogli la propria verità, privata e ingiustificabile”, scrive Leonzio.
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Antonio Porta, recensendo Tre sogni sul “Corriere della sera”: “Si respira l’aria altamente elettrizzata di uno dei filoni portanti della narrativa contemporanea: quello che parte da Kafka e attraversa il surrealismo”. Verrebbe da chiedersi che aria si respira oggi.
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Di Ugo Leonzio, in giro, restano due cose soltanto. Intanto, la “Storia generale delle droghe”, Il volo magico, pubblicato da Sugar nel 1969 – quando Leonzio aveva 28 anni – poi riedito da Mondadori (1971), da Einaudi (1997) e ora da il Saggiatore (con una prefazione di Agnese Codignola). Dalla cannabis all’oppio, dal peyotl alla coca e la mandragora, il libro è una specie di matematica onirica, di enciclopedia dell’eccentrico e dell’eccitante. Nell’introduzione, Il tramonto dell’invisibile, scritta con estroso talento sotto la tutela, in epigrafe, di William Blake (“È stato nel Pleistocene? Nel buio delle caverne, osservando le ombre dei falò così simili ai fuochi danzanti che esplodevano nel cielo? C’è stato un mese, un giorno, un’ora in cui qualcuno scoprì il segreto che legava le piante al cosmo e i ritmi clorofilliani alla Via Lattea?”), è detto tutto. Il passaggio della droga da assunzione sacra a moda, da impegno sciamanico a impeto di mercato, da estasi a estenuazione, da regno della visione a tempio del denaro. “Nessuna intuizione, nessuna scoperta, nessuna poesia, nessuna meditazione ha più eguagliato l’attimo in cui le porte della percezione si sono spalancate su questo strano mondo”. Insomma, “il visibile e l’invisibile non erano separati”: d’altronde si vive per sondare gli spiragli dell’ombra, per sconfiggere l’illusione della forma nell’implacabile.
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La Radiotelevisione svizzera ha in archivio diverse trasmissioni di Leonzio, da alcune biografia – Simone Weil, Virginia Woolf, Hölderlin – a interventi sul mito greco e sulla sapienza orientale. Ricalco, piuttosto, una antologia di pensieri di Ugo Leonzio (qui trovate altro, in forma più estesa):
“Abbiamo oggi una richiesta massiccia di libri facili, cioè di libri che debbono parlare di cose note a tutti e che non debbono usare una lingua ignota. Tutto deve entrare nelle esperienze del lettore il quale deve leggere non per capire ma per sentirsi sicuro. Lo stesso uso che si fa dei classici risponde a questo principio. Un classico non è mai qualcosa da scoprire, ma qualcosa che rassicura. Poco importa che un autore classico sia perennemente nuovo. Un classico deve essere un libro importante, appunto perché classico, un totem. Oggi la gente legge L’idiota non perché è L’idiota ma perché sa che è un capolavoro. È davvero tremendo: attribuisce un valore ad un’opera e nel momento in cui glielo attribuisce, glielo toglie: è un valore che non ti commuove più”.
“Quando penso alla letteratura di regime penso a questo. Il fenomeno oggi è gravissimo e, quel che è peggio, contagioso. Un giovane che oggi scrive un romanzo di 700 pagine non troverà un editore disposto a stamparglielo. Siamo circondati da operine brevi e facili perché il Gusto, dunque il regime, impone una letteratura in cui tutti debbono farsi capire… L’ideologia del facile, in fondo, disinnesca i meccanismi che possono portare a capire meglio. Il contagio di questo tipo di gusto ha portato alla burocratizzazione degli artisti”.
“La letteratura è qualcosa che fa dell’artista uno che non ama i propri simili e che privilegia il sorgere di emozioni che difficilmente nascono da supine acquiescenze. Non facciamoci illusioni: lo scrittore è uno che scrive nella solitudine e che si rivolge a qualcuno e che a sua volta è solo”.
“Tutti i grandi artisti sono di gran lunga inferiori alle loro opere. Esse nascono da urgenze che misteriosamente si concentrano in un individuo, il quale ha dentro di sé il pharmakos, l’uomo bendato ed espulso dalla polis, dalla comunità e che nell’essere espulso, cacciato, concede alla città di salvarsi. Il letterato è il suo inverso: è uno che nella città ingrassa”.
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L’altro è il Bardo Thödol, il “Libro dei morti tibetano”, curato nel 1996 per Einaudi, ora in catalogo Feltrinelli. L’introduzione – 50 pagine nell’edizione Einaudi – è un libro a sé. “Se mai doveste risolvervi a traversare, in un attimo o in un tempo infinito, i Regni Oltremondani, potreste trovare in questo Grande Thödol la più imprevedibile confessione che la vostra mente abbia mai potuto farvi. Quella di non esistere. Seduti o in piedi davanti allo specchio del vostro comodo bagno osservatevi come un miraggio. Siete assai meno consistenti del riflesso che vi sta osservando e state per intraprendere l’ennesimo viaggio nell’invisibile. Si muore. Sontuose e abissali si aprono le porte del bardo, leggere come l’ordito dei sogni o gravi come albe infuocate”. Ecco: Ugo Leonzio ha insistito nell’inesistente, fino a esserne inghiottito. Tra prato e dita, rabbia e mimica, denti e abeti, a quel punto, non è presa né misura. Che i libri di Leonzio restino lì, sulla soglia dell’invisibile, come bagliori, verdetti improvvisi, pugnali. (d.b.)
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purpleavenuecupcake · 4 years
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Sortilegi e rituali: Il Sabba, Parte II
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(di Massimo Montinari) La caccia alle streghe si aprì ufficialmente nel 1327, con la Bolla “Super illius specula” di Papa Giovanni XXII - che conferì validità universale alla lotta alla stregoneriatramite l’inquisizione - ma divenne piùcruenta nel 1484, con Papa Innocenzo VIII, che fece redigere il Malleus maleficarum, il più autorevole manuale contro le streghe ad uso degli inquisitori. Che la stregoneria, o parte di essa, corrispondesse alla religione di Diana pare confermato da uno dei primi processi storici alle streghe in Italia, quello contro Sibillia Zanni, condannata al rogo il 26 maggio 1390, seguita due mesi dopo da Pierina de’ Bugatis, che confessò di aver partecipato al “gioco di Diana”. La stessa descriveva un corteo di streghe, stregoni e spiriti infernali, meglio conosciuto come “sabba”, in cui si celebravano riti orgiastici. La condanna venne eseguita a Milano, nel Broletto Nuovo. Entrambe le donne parlarono di adunate notturne (sabba) il giovedì, dirette da una “Signora del Gioco”, conosciuta come Dama d’Oriente (Diana o Erodiade), una sacerdotessa che mostrava piedi di capra, il busto e il volto di donna che vedeva il futuro e iniziava all’arte magica. La “Signora del Gioco” avrebbe avuto anche il potere di fare ritornare in vita gli animali. In pratica si sarebbe trattato di una “Diana-sciamana”. Nel “sabba” le riunioni si trasformavano in banchetti e qualche volta si faceva sesso collettivo. Ma Milano vide la prima vittima della caccia alle streghe il 16 settembre del 1385 davanti a una grande folla con uno “stregone”, Gaspare Grassi da Valenza, che venne accusato di essere un “pubblico negromante,incantatore di demoni, uomo di eretica pravità e relapso nella abiurata eresia”. Il sabba sarebbe stato un convegno di streghe in presenza del demonio durante il quale venivano compiute pratiche magiche, orge diaboliche e riti blasfemi. Oggi con il termine di sabba le moderne religioni della neostregoneria e del neopaganesimo indicano un giorno nel quale i loro credenti si riuniscono per celebrare i riti tradizionali in onore delle antiche divinità. Il nome deriva dal termine ebraico Shabbat e denota i pregiudizi diffusi in Europa fin dall’Alto Medioevo nei confronti della religione mosaica (religione di Mosè), la quale veniva spesso accusata di consumare riti occulti e violenti. Il sabba era chiamato anche "sinagoga" e "vauderie". Il sabba si svolgerebbe principalmente nel giorno di sabato e, più precisamente, durante la notte tra sabato e domenica, ma non tutti i ricercatori si trovano concordi sui giorni tanto che oggi si può distinguere tra sabba "ordinari" (settimanali) e sabba "ecumenici" (trimestrali o quadrimestrali). Discusso è anche il numero dei partecipanti, cha varierebbe da una decina di streghe partecipanti ad alcune migliaia. Martin Delrio, scrisse : …“Le streghe giungono al luogo prestabilito volando a cavallo di un animale, sopra un bastone, una panca, una pentola o una scopa; talvolta, come scrisse addirittura per mezzo di una forca. Prima del volo, le streghe sono solite ungersi con del grasso di bambino o con altri unguenti magici che consentono loro di librarsi in aria e di trasformarsi, all’occasione, in creature mostruose o animali”. Il teologo fiammingo riteneva inoltre che esistessero quattro maniere diverse per recarsi alla tregenda, ossia la pura e semplice immaginazione, il viaggio a piedi, il volo demoniaco e un quarto modo sconosciuto alle stesse streghe. …“Giunte sul luogo della riunione, le streghe trovano il demonio ad attenderle, che loro salutano con l’osculum infame (bacio vergognoso) e a volte anche con un bacio sul piede sinistro o sui genitali, offrendogli candele nere e ombelichi di bambini. Il sabba si tiene di solito a un crocicchio, in un cimitero, sotto una forca, ma più frequentemente in posti assai remoti come la vetta di una montagna (il Tonale, il Blocksberg) o una radura (il Noce di Benevento); qualche volta le streghe si sono date raduno anche in un precipizio. Il diavolo è presente seduto su un trono di ebano ed ha quasi sempre fattezze mostruose, metà uomo metà capro, provvisto di corna, talora anche di artigli come quelli degli uccelli”. …“Prima di iniziare la festa, satana accoglie le nuove adepte e fa loro praticare l’apostasia. Il rito comporta il rinnegamento della religione cristiana e il compimento di atti nefandi quali la parodia della messa, le bestemmie o il calpestamento di croci, ostie o altri oggetti sacri. Per dileggiare l’eucaristia alle streghe vengono dati dei pezzi di cuoio e bevande nauseabonde che vorrebbero imitare la comunione sotto le due specie. La cerimonia dell’apostasia prevede in qualche caso un giuramento di fedeltà al Demonio compiuto ponendo la mano su un misterioso libro pieno di ‘occulte scritture’. Segue poi il rito dell’adorazione: le streghe si mettono in ginocchio davanti a satana tenendo le mani tese dietro la schiena con le palme rivolte verso il basso. Un altro rito del sabba consta nell’apposizione di un marchio da parte di satana in persona sul corpo dei suoi adepti, una sorta di nuovo battesimo nella fede diabolica. Durante i processi per stregoneria tale marchio veniva pazientemente cercato dagli inquisitori e, in genere, veniva da loro individuato in una parte insensibile alle punture effettuate con degli spilloni sul corpo degli accusati…. …In seguito il Demonio dà il via all’orgia e i convitati si accoppiano tra di loro, senza distinzione di sesso e di parentela. Sempre secondo le fonti principali, nel corso di questi rapporti non si prova alcun piacere sessuale, il coito satanico sarebbe particolarmente cruento e devastante e il seme del demonio freddo come il ghiaccio”. Però ci sono altre descrizioni dell’orgia satanica, ben diverse da quelle descritte nella prima versione; quella riportata dall’inquisitore francese Pierre de Lancre nel trattato Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons (1612) potrebbe essere quella più valida e corrispondente alla realtà. Il De Lancre fu un cacciatore di streghe nel Labourd, sui Pirenei francesi, e nel suo libro presentò due giovani streghe, Jeanne Dibasson e Marie de la Ralde, che descrissero il sabba come luogo di straordinari piaceri carnali. Nel libro si riporta:..“Dopo l’orgia comincia il banchetto, caratterizzato dalla presenza di carne di bambini non battezzati, di carne d’impiccati oppure di vivande succulente, che però non sempre hanno sapore; i cibi ingeriti, tra l’altro, vengono magicamente rigenerati alla conclusione del pasto. Al banchetto fanno seguito la danza ed il canto accompagnati da una musica stridente e dal ritmo ossessivo. Il ballo procede descrivendo un cerchio e i partecipanti danzano schiena contro schiena, così da non potersi guardare in viso. Al termine del sabba (che avviene alla mezzanotte, o in ogni caso al canto del gallo) il diavolo distribuisce pozioni e polveri magiche e conferisce poteri soprannaturali ai partecipanti, in modo da consentire loro di compiere malefici quando torneranno alle loro dimore”. Un’altra versione è quella di Jean Bodin (Angers, 1529 – Laon, 1596 filosofo e giurista francese) secondo il quale nel sabba, dopo un ultimo bacio blasfemo dato al demonio reggendo una candela accesa, questi prenderebbe fuoco e le sue ceneri verrebbero raccolte dalle streghe per utilizzarle nei loro malefici. Ma nei secoli seguenti, in virtù del ruolo più o meno imperante della Chiesa Cattolica e dei vari movimenti liberisti, furono pubblicati diversi trattati con orientamenti differenti, come nel 1749 Girolamo Tartarotti pubblicò il trattato Del Congresso notturno delle Lammie, relegando al sabba la partecipazione delle classi sociali più povere e maggiormente suggestionabili. Nel 1862 lo storico Jules Michelet pubblicò La strega, un libro che ebbe una discreta diffusione e che consentì, anche se indirettamente alla riscoperta neopagana della stregoneria nel XX secolo. Nei sabba di Michelet il popolo ritrovava quel senso di fratellanza che le ansie e le fatiche del giorno facevano dimenticare; coloro che vi prendevano parte mangiavano, danzavano, maledicevano gli ecclesiastici e i nobili, ripudiando Dio e rendendo omaggio al diavolo, presente alla cerimonia sotto forma di una statua di legno alla quale si consacrava una giovane donna. Nel primo novecento, l’egittologa e antropologa Margaret Murray espose nel suo libro Le streghe nell’Europa occidentale una propria ipotesi, secondo la quale la stregoneria sarebbe stata l’antica religione pagana del continente europeo professata accanto al Cristianesimo almeno fino al XVII secolo. Ma la tesi di Margaret Murray, non essendo supportata da un metodo di ricerca storiografica accettabile, è stata respinta negli ultimi decenni dalla maggior parte degli studiosi dopo un esame più approfondito delle sue fonti. Questa tesi però venne supportata dallo storico Carlo Ginzburg (Torino, 15 aprile 1939 storico, saggista e accademico italiano). Secondo Ginzburg, le streghe che furono processate certamente non praticavano i riti di un’antica religione; tuttavia, nelle loro deposizioni sarebbe rintracciabile, oltre al nucleo di idee magico-diaboliche suggerite loro dagli inquisitori, un residuo di conoscenze mitologiche risalente a epoche lontane entro cui il sabba si configurerebbe come un rituale sciamanico. Le radici della stregoneria si ritrovano nelle religioni pagane. Questo legame è stato evidenziato da Carlo Ginzburg nella sua indagine sui “benandanti” del Friuli XVI secolo che descrisse come guaritori accusati di stregoneria. Le credenze popolari locali attribuivano ai benandanti, nati “con la camicia”, cioè ancora avvolti nel sacco amniotico (considerato segno benaugurante) il potere di combattere le streghe. Si riteneva che la “camicia” amniotica avesse il potere di proteggere dalle ferite, e la capacità di uscire dal corpo come spiriti per affrontare le streghe e le altre creature diaboliche che minacciavano la fertilità dei campi. I benandanti combattevano armati di rami di finocchio contro streghe e stregoni armati, invece, di canne di sorgo. Se i benandanti vincevano, il raccolto sarebbe stato propizio, altrimenti sarebbe stato misero. Le credenze nei benandanti si suddividevano in un filone “agrario” (battaglie estatiche per la fertilità dei campi, in genere riservate ai benandanti uomini), in un filone “funebre” (benandanti che svolgevano processioni notturne e parlavano con i morti; in quest’attività erano coinvolte perlopiù benandanti donne) ed un filone “terapeutico” (benandanti che curavano malattie e ferite, praticando una magia positiva e benefica in opposizione alla magia diabolica distruttiva delle streghe). Erano membri di congreghe che proteggevano villaggi e campi dalle streghe. Ma furono comunque perseguitati dall’Inquisizione, per i loro riti che richiamavano le pratiche degli sciamani: andavano in trance e raccontavano di lasciare il loro corpo per trasformarsi in animali e partecipare a una battaglia contro streghe e stregoni, intesi come forze del male. Molti dei loro riferimenti erano cristiani: un esempio di sincretismo religioso, cioè di mescolanza fra le pratiche pagane e il cristianesimo. Read the full article
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grimoriodelleombre · 4 years
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Rune delle streghe
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Le 13 Rune delle Streghe, non vengono dalla tradizione nordica e non hanno punti in comune con i vari Futhark. Queste tredici Rune fanno la loro prima comparsa grazie alla scrittrice Susan Sheppard che pubblicò un libro non tradotto in italiano dal titolo “ Witches’ Runes: how to make and use your own magick stones” , alcuni praticanti di stregoneria e religioni esoteriche sostengono che le Rune delle Streghe siano un sistema antico di divinazione, ma in realtà sembrerebbe che sia stata la Sheppard ad inventarle in tempi moderni.
Le Rune delle Streghe sono quindi un sistema eclettico di divinazione usato dalle streghe che cercano sempre nuovi modi di sondare il futuro e anche il loro numero richiama la tradizione esoterica pagana infatti sono 13 come i membri tradizionali di una coven di streghe, 13 come le lune in un anno, 13 perché è un numero di potere e le streghe ne sono consapevoli nonostante i “babbani” lo credano un numero sfortunato, e 13 perché richiamano anche i segni astrologici, che sono 12 ma una delle Rune, quella dell’occhio “The Eye”, richiama la visione generale e quindi non ha associazioni coi segni
SIGNIFICATI
Il Sole: porta chiarimenti, dissipazione di dubbi e delucidazioni verso situazioni incomprensibili. È anche un simbolo di vitalità e salute, può indicare anche il padre del/della consultante.
La Luna: rappresenta l’inconscio personale (intuizioni, sogni, istinti) arricchito dalle esperienze individuali, indica anche protezione, buoni esiti di un progetto e può rappresentare la madre del/della consultante.
Gli Anelli: rappresenta i legami, l’unione, la relazione, la condivisione sia sentimentale che con amici o parenti e si riferisce anche i legami con la comunità in maniera più estesa. A seconda delle rune che le stanno vicino può avere sia un significato solo personale (quindi relazioni di coppia o con parenti e amici stretti) o un significato esteso (come rapporti di comunità o lavorativi).
Il Crocevia: indica bivi, scelte da prendere, incertezze, insidie, cambi radicali di vita. Le insidie della Runa, a seconda delle altre Rune con cui viene estratta possono manifestarsi o sul piano fisico o sul piano spirituale. Potrebbe anche indicare incontri o scambi (fisici o spirituali) che portino maggiore consapevolezza al/alla consultante.
Le Onde: indica instabilità, visione distorta delle cose, insicurezza. Può indicare cambiamenti sia fisici che spirituali che portano instabilità se non si riesce ad essere flessibili. Può indicare anche cambiamenti sociali del mondo che ci circonda.
Il Raccolto: questa Runa indica obiettivi che sono stati raggiunti e di cui si stanno per raccogliere i frutti. Può anche indicare che l’obiettivo non è ancora stato raggiunto ma che si sta per raggiungere.
Gli Uccelli: indica il mondo astrale, l’introspezione, la ricerca spirituale e l’iniziazione. Rappresenta il viaggio (fisico, mentale, spirituale, astrale, sciamanico, introspettivo) sta a chi legge capire di che tipo di viaggio si tratti. Può anche indicare che stanno per arrivare notizie da chi non si sente da molto tempo.
La Sacerdotessa: indica il femminile in tutti i suoi aspetti: femmina, mamma, compagna, figlia, sorella, collega, amica quindi può indicare una consultante donna o può fare riferimento a una donna in una lettura. Se non indica una donna può indicare rinascita dopo un periodo difficile.
Il Guerriero: indica il maschile in tutti i suoi aspetti: maschio, padre, compagno, figlio, fratello, amico e quindi può indicare il consultante se è uomo, o può fare riferimento a un uomo nella lettura. Se non indica un uomo può indicare passioni forti che non si riescono a controllare.
Il Romanticismo: indica l’amore sia inteso come una relazione benefica, sia inteso come relazione tossica (a seconda delle altre Rune della stesa) e indica relazioni basate sia sull’erotismo che sul sentimento.
La Stella: rappresenta le aspirazioni più elevate e astratte del consultante, ma anche accettazione delle proprie responsabilità, capacità di guidare una comunità ( sia spirituale che sociale) e sicurezza in sé stessi.
L’Occhio: indica visione, veggenza, premonizioni, collegamento con il divino ed è la Runa di riferimento di tutte le altre in quanto comanda la stesa divinatoria ( lo vedremo dopo)
La Falce: Indica buoni esiti delle proprie azioni, rinnovamento ma anche fine di un ciclo.
COME SI LEGGONO
Per divinare con le Rune delle Streghe si usa un metodo di lettura particolare: si inizia con l’estrazione della Runa dell’Occhio che diventa il punto di riferimento su cui ruota l’intera divinazione e questo viene fatto perché l’Occhio rappresenta la visione, quindi è una sorta di auspicio per aprire i canali e collegarsi al divino.
Posizionata la Runa al centro di un telo, si estraggono casualmente dal sacchetto 4, 6 o 8 Rune (la quantità sceglila tua, meglio iniziare con 4 se non le conosci ancora bene, così eviti di confonderti), e si lanciano sul telo. Quelle che cadono più vicine alla Runa dell’Occhio sono quelle che si verificheranno nell’immediato, e man mano che si allontanano ci daranno informazioni sui tempi, più sono lontane e più si verificheranno a lungo termine.
A parte questo metodo specifico può essere utilizzata qualunque stesa che si usa per i tarocchi o per altri strumenti di divinazione.
Se capitano Rune rovesciate indicano, come ogni altro strumento, i blocchi su ciò che la Runa rappresenta e sui cui devi lavorare.
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alemicheli76 · 7 years
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    Introduzione
Oggi la nostra andiamo a scoprire una talentuosa autrice, Silvia Casini. Il suo è uno stile particolare sospeso tra impegno e fantasia, riconfermando ancora una volta (semmai ce ne fosse bisogno) il potere di trasformazione del reale che hanno i sogni. Come diceva la splendida Morgana di Marion Zimmer Bradley
  siamo noi a trasformare giorno per giorno la realtà che ci circonda”
Diveniamo quindi totalmente responsabili, nei libri o nella creazione delle idee di una peculiare concezione dell’umanità e della società in cui essa si muove. È la definizione di essa che può educare, plasmare le menti, le generazioni e persino la storia. Se diamo credito e sostegno a opinioni fuorvianti e infondate su ogni cosa che ci circonda e soprattutto sull’altro (che sia uomo o donna) sarà inevitabilmente spunto a mettere in atto comportamenti patologici.
Ecco perché trovo che autrici del calibro della Casini siano dotate, oltre che del sacro dono, anche di una forte e energica concezione etica del loro lavoro, rendendosi conto che, con le parole, con la diffusione dei testi, resa più facile da internet, possono agire su ogni sistema vivente compreso l’uomo.
Fa parte della nostra più profonda natura apprendere dettagli e filosofie inconsce e diventare cosa si legge o cosa si finge di essere. E sta agli autori, alla CE persino a noi blogger imporsi sulla cultura e rendere miti, costruzioni sociali, storie e filosofie sociali più credibili e più armoniche. Poiché sono queste che forgeranno il nostro futuro. E Silvia Casini lo comprende.
Buon viaggio!
L’autrice
Silvia Casini dopo aver conseguito una laurea breve in Interpretariato e Traduzione, si laurea in Lingue e Letterature Straniere per poi ricoprire il ruolo di project manager dell’Istituto Internazionale per il Cinema e l’Audiovisivo dei Paesi Latini di Gillo Pontecorvo e Sandro Silvestri.
Si è occupata di relazioni internazionali e della promozione dei film italiani all’estero e in seguito, si è specializzata in marketing strategico e ha iniziato a collaborare con diverse case di produzione e distribuzione cinematografica nel settore del product placement, sia a livello nazionale, che internazionale.
Attualmente gestisce il blog I dermatoglifi di Bottondoro, si occupa di critica cinematografica e collabora con diversi siti e testate giornalistiche.
Ha pubblicato Magia e altri amori. Pensieri e micro-racconti strampalati alla fermata del treno (Edda Edizioni), L’appendifiabe (Nadia Camandona editore) e Tutto in una notte (Libro/mania).
Su Upside Down Magazine si occupa della rubrica Moonlight dedicata alle recensioni filmiche e alle interviste cinematografiche e letterarie.
Ciao silvia Grazie innanzitutto per aver accettato l’intervista
Grazie a voi!
A. Per prima cosa una domanda facile facile. Cosa significa per te scrivere?
S. Significa lasciarsi attraversare dalla memoria, dal tempo, dalla vita dalle emozioni. È uno sconfinamento continuo verso questo e altri mondi. Nel silenzio, con la penna in mano, riesco a sentire le mie tante voci, i miei mille destini e tutte quelle parole che fanno leva sul cuore. È il mio modo per migrare altrove, in un’altra terra, in un altro impasto di anima. Da che ho memoria, scrivo da sempre. Con il passare degli anni, poi, la scrittura non è diventata solo un semplice passatempo, ma un vero e proprio lavoro. Dopo aver lavorato con diverse realtà filmiche, sono approdata in svariate redazioni editoriali occupandomi di critica cinematografica. Attualmente sono il caporedattore di Youmovies.it; gestisco Upside Down Magazine e collaboro con Pink Italia Magazine. In pratica, sono un’appassionata di cinema, una divoratrice di libri e ho un enorme vizio: scrivo dappertutto!
  A. Cosa può dare ancora la scrittura a questo mondo un po’ caotico?
S. Scrivere e leggere sono un sortilegio, nel senso buono, ovviamente, perché ti consentono di calarti in altri contesti, di immedesimarti in altri panni e di fuggire dalla routine quotidiana. A mio avviso, sono un modo per adempiere all’obliquo che c’è in noi, riconoscere il dolore, la gioia, i bivi non presi, il sottosuolo di certe ferite. Per quel che vale, quando prendo la penna e il mio taccuino rosso, mi godo il momento: il tonfo organico delle parole liquide.
  A. Quale genere è oggi penalizzato secondo te?
S. Purtroppo in Italia, la categoria letteraria di gran lunga più rappresentata in classifica è quella dei romance, mentre la poesia, la science fiction e il fantasy sono generi “non trainanti”. E poi a dirla tutta, ultimamente vendono di più i fashion blogger o i cosiddetti media influencer che gli scrittori… ahimè. 
  A. Cosa pensi del mercato editoriale odierno?
S. Parto subito col dire che sono contraria agli editori a pagamento. Detto ciò, oggigiorno i piccoli editori, dato che non possono competere con i big, dovrebbero specializzarsi in due o tre generi. Non ha senso rincorrere i trend del momento, perché le grandi CE hanno mezzi potenti. Se una piccola CE si addentra in un genere di nicchia ha maggiore possibilità di penetrare il mercato e di fare breccia su target ben specifico di lettori. Purtroppo, però, molto spesso sorgono CE on-line che promettono mari e monti, ma che di fatto, sono impossibilitate ad intraprendere una reale promozione letteraria. Molti aspiranti scrittori, infatti, preferiscono affidarsi ad Amazon e provare a fare il grande salto da soli, ma è difficile. Si tratta principalmente di un problema culturale, perché da noi il mercato editoriale è in mano ai grandi gruppi (è un dato assodato). Pochi casi di self publishing hanno realmente sfondato nel nostro Bel Paese (ad esempio Anna Premoli). Diciamo la verità, i grandi editori spesso fanno libri per il mercato e basta, così spesso e volentieri nelle librerie si trovano delle belle ciofeche. 
  A. È meglio scrive self o affidarsi a una CE?
S. Non ho mai pubblicato in self publishing. I miei libri sono stati tutti editi da case editrici. Quindi, non ti so dire bene la differenza. Ho pubblicato Magia e altri amori. Pensieri e micro-racconti strampalati alla fermata del treno con Edda Edizioni, L’appendifiabe con Nadia Camandona editore, Tutto in una notte con Libromania e Di magia e di vento con Antonio Tombolini Editore.
  A. Cosa serve oggi per poter scrivere un buon romanzo?
S. Occorre leggere. Tanto. Sempre.
  A. Tutto in una notte racconta una storia a tratti angosciante, come mai questa scelta?
S. A dire il vero, quando ho iniziato a scrivere Tutto in una notte, non facevo altro che macinare storie thriller, dark (alla Edgar Allan Poe) e paranormal. Ero rimasta incantata da Saundra Mitchell (L’estate dei fantasmi), Carlos RuizZafón (Il palazzo della mezzanotte), Michelle Hodkin (la trilogia su Mara Dyer), Kresley Cole (Il richiamo dell’ombra), Becca Fitzpatrick (Bugie pericolose) e da Jennifer Armentrout (Shadows). Così, quando ho buttato giù la trama del libro, ho unito le suggestioni avute dai romanzi letti con alcune atmosfere misteriose e visionarie. Di fatto, l’intera narrazione si snoda attraverso un mondo pervaso da distonie percettive e da ambiguità sensoriali. Per giunta, mi sono lasciata ispirare da alcuni film di genere, come Predestination dei fratelli Michael e Peter Spierig, Premonition di Mennan Yapo e Le verità nascoste di Robert Zemeckis. Per giunta avevo letto alcuni articoli scientifici sulle inesplorate capacità umane che mi avevano colpito molto. Così, ho amalgamato tutte queste evocazioni ed è nato Tutto in una notte, un fantasy in stile paranormal thriller. Nello specifico, la protagonista di Tutto in una notte è Maya, una ragazza attratta fortemente dal mito irlandese della regina Maeve. Per tratteggiarla fisicamente e caratterialmente, ho letto parecchie leggende appartenenti alla cultura dell’Isola Smeralda. Una volta acquisite tutte queste informazioni, sono andata in giro per trarre spunto dalla gente comune. Così, ho aggiunto particolari qua e là. Di Maya mi piace la forza, il coraggio, la sua voglia di andare oltre, sempre e comunque, perfino oltre la paura. Diciamo che da questo punto di vista, siamo simili. Invece, per quanto concerne la parte più cruenta del libro, purtroppo, mi sono ispirata a fatti di cronaca realmente accaduti. Ovviamente, ci ho ricamato sopra, epurandoli di parecchio.
  A. Di magia e di vento è un libro dalle multi sfumature, che abbraccia diversi generi letterari come mai questa scelta artistica?
S. Lo ammetto: amo mischiare i generi. Quando ho iniziato a scrivere la storia di Luna Ferri, una fotografa freelance che vive in Friuli, mi sono imbattuta in un fatto di cronaca accaduto a Cormòns. Da lì, dopo estenuanti ricerche, ho cominciato a tessere una trama che si dipana attraverso i secoli e che arriva fino ai giorni nostri. Ho cercato di riportare in vita un arcaico culto popolare, quello dei Benandanti, depositario di un sapere arcano, ormai dimenticato. La narrazione, infatti, è corposa e si muove tra magia, romanticismo e mistero per regalare al lettore fatti storici e pura fiction.
    A. Nel testo racconti una lontana leggenda, quasi dimenticata, come è nato questo tuo interesse per i Benandanti?
S. Nelle note finali spiego un po’ tutto, tant’è che ho anche corredato il testo con una ricca bibliografia in caso di approfondimento. Comunque, dopo aver letto di un fatto di stregoneria avvenuto a Cormòns, sono rimasta colpita da un Friuli popolato da pura magia. I Benandanti vissero realmente nell’Italia del Nord intorno al XVI-XVII. Appartenevano a un culto pagano-sciamanico contadino basato sulla fertilità della terra; offrivano servizi in favore del Bene, che andavano dalla semplice divinazione, alla guarigione di diverse malattie. Si trattava di solito di persone umili, la cui reputazione era ritenuta piuttosto sospetta, tant’è che vennero giustiziate dall’Inquisizione. All’atto pratico, i Benandanti erano coloro che nascevano avvolti nel sacco amniotico, ovvero i “nati con la camicia”. La levatrice (o la madre stessa), dopo il parto, conservava una piccola parte del sacco amniotico, fatta appositamente benedire e riposta in un sacchettino da appendere al collo del neonato a mo’ di amuleto protettore. Al raggiungimento della maggiore età, i Benandante erano in grado di uscire dal proprio corpo sotto forma di spirito durante la fase onirica e di combattere contro le streghe e le tenebre. Questo mito ammantato di mistero mi ha colpito molto, così ho deciso di scartabellare fatti reali e di amalgamarli alla fiction.
  A. Quanto è importante la tradizione e il folclore per poter scrivere un fantasy?
S. Scrivere un genere letterario come il fantasy richiede una fervida immaginazione, ma anche una certa preparazione culturale e soprattutto tanta organizzazione pratica per strutturare al meglio la narrazione, per mantenere coerenza e ritmo. Talvolta, poi, le ambientazioni sono complesse e affascinanti. Quindi occorre rispettare dettagli e sfumature in modo da offrire al lettore la possibilità di fare il pieno di mille mondi possibili e impossibili.
  A. Cosa c’è di affascinante nell’ipotesi dei viaggi temporali?
S. Nelle opere fantasy e di science fiction sono “quasi” un must e devo dire che gli universi paralleli sono rassicuranti, ovvero infondono la speranza di mondi migliori. In un certo senso, rappresentano una prospettiva elettrizzante. Eticamente ci suggeriscono un grande messaggio: possiamo migliorare… sempre.
  A. Qual è la visione della stregoneria che speri di veicolare nel tuo libro? A cosa davvero serve conoscere quel passato oggi?
S. Col romanzo Di magia e di vento non mi propongo di educare il lettore sulla stregoneria. In realtà, quando ho scoperto i Benandanti, ero a digiuno sulle loro vicissitudini. Sono rimasta molto colpita dal fatto che furono ampiamente repressi dall’Inquisizione in Friuli Venezia Giulia. Per saperne di più mi sono letta il saggio di Carlo Ginzburg (I benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino, 1966), ma anche tante altre fonti storiografiche interessanti. Così, andando a fondo sulla loro cultura sciamanica, ho scoperto che furono proprio le caratteristiche tipiche dei Benandanti a metterli in cattiva luce agli occhi degli Inquisitori, perché attuavano dei riti equinoziali, vedevano i morti e interagivano con loro, sapevano riconoscere le fatture delle streghe, curavano dai malefici e si proclamavano difensori della fede. Avevano insomma una funzione ben precisa. Dai documenti sui loro processi, i Benandanti affermavano di recarsi in battaglia contro il Male “in spirito” e dato che questo concetto era molto diffuso anche nelle deposizioni per stregoneria, leggendo gli atti si comprende a fondo il motivo dell’accusa di accumularli agli stregoni. Di fatto, erano degli sciamani buoni, ma l’Inquisizione riuscì nel suo intento di assimilare le loro mansioni a quelle degli eretici. Credo sia importante conoscere lati della nostra Italia semi sconosciuti. Ecco perché ho deciso di far riaffiorare la loro travagliata storia in Di magia e di vento.
  A. Definiresti i tuoi libri femministi?
S. A dire il vero, odio le etichette, però è vero che sia Tutto in una notte che Di magia e di vento hanno due protagoniste ben definite. Sono forti e fragili al tempo stesso. Ho cercato di tratteggiare a fondo le emozioni che guidano le loro azioni. D’altro canto, però, le loro controparti maschili non sono da meno. Sono enigmatici e pieni di segreti. L’idea di base di entrambi i romanzi è che tutto è possibile. 
    A. Gatti è donne, binomio vincente?
S. L’elemento felino l’ho inserito soltanto in Di magia e di vento. La protagonista è Luna Ferri. Ha lunghi capelli neri e gira spesso assieme al suo fidato gatto Capitan Harlock. È cieco da un occhio. Ecco perché porta una benda. L’idea mi è venuta osservando un gattino nero che passeggia spesso e volentieri nel cortile del condominio dove abito. Non ci vede benissimo, ma è scaltro. Capitan Harlock è proprio così e  rappresenta un dato oggettivo della nostra società dedita al materialismo e alla noncuranza. Volevo vero far passare il concetto che le disabilità esistono solo se non si sa andare oltre le apparenze.
    A. La letteratura ha ancora la responsabilità etica di formare la società?
S. Credo che la letteratura di qualità e i grandi classici oltre a intrattenerci, siano anche ottimi insegnanti. Essere lettori coscienti significa saper scegliere con criterio, discernere e di conseguenza sapersi orientare nel mondo. In ogni romanzo il lettore può trarre un messaggio di vita, nuove prospettive e nuovi orizzonti. Di fatto, i libri sono un’enorme fonte di ricchezza morale e pratica. Ci inducono a riflettere. Ci emozionano. Ci allietano. In definitiva, sono strumenti che possono illuminarci sulla complessità della società contemporanea e della nostra stessa esistenza. Le parole di un libro hanno un peso specifico: fanno leva sul cuore.
Lasciaci con una frase dei tuoi libri
Questo è un estratto del diario di Maya (Tutto in una notte):
  Stringo segreti che fanno paura in questa notte alta e nera come una torre di catrame. Tra tetti di ardesia e muri di granito, mi sento colma, come una giara di silenzio.
  Questo, invece è un estratto del diario di una delle componenti della famiglia di Luna (Di magia e di vento):
  L’unica magia che conta in questa e nell’altra vita è l’amore.
  E ricordatevi il potere della fantasia:
  La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto. Albert Einstein
Incontro con l’autore. Silvia Casini e l’etica della letteratura. A cura di Alessandra Micheli Introduzione Oggi la nostra andiamo a scoprire una talentuosa autrice, Silvia Casini. Il suo è uno stile particolare sospeso tra impegno e fantasia, riconfermando ancora una volta (semmai ce ne fosse bisogno) il potere di trasformazione del reale che hanno i sogni.
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ilpellegrino · 5 years
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In un tempo in cui il bisogno di riscoprire la nostra spiritualità sta velocemente prendendo il sopravvento, ci troviamo simultaneamente a contatto con una quantità enorme di tecniche, correnti, fedi e credo, provenienti da ogni parte del mondo. Se ci soffermiamo però sull'origine di tutte le tecniche e gli stili di vita, ovunque in giro per il mondo e il tempo, la tecnica sciamanica sembra essere la più antica, radicata, e la sola che porta i medesimi risultati e mantiene le medesime pratiche, lievemente adattate alle zone ma mai stravolte o evolute. Il mantenimento delle tecniche originali è sorprendentemente attuale, e rende la pratica sciamanica avvicinabile da chiunque lo desideri e sia disposto a mettersi in gioco a un livello ben più profondo di quello semplicemente mentale. Questa traccia vi aiuterà a effettuare un viaggio sciamanico attraverso l'accompagnamento del tamburo sciamanico e del flauto. Lasciate che il vostro spirito prenda parte nel mondo degli spiriti, perchè possiate trarne benefici nel mondo delle cose. #ViaggioSciamanico #TamburoSciamanico #ShamanicJourney #ShamanicDrum
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ilpellegrino · 5 years
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I primi viaggi sono solitamente svolti in un mondo non ordinario conosciuto come Mondo di Sotto, caratterizzato da sensazioni forti e vivide che aiutano l'esploratore a rendersi realmente conto di essere in una realtà altra ma reale tanto quanto quella ordinaria.
Secondo gli insegnamenti più diffusi, raggiunto lo Stato Sciamanico di Coscienza, ci si dirige con lo spirito verso una zona conosciuta dove possiamo trovare un'apertura nel terreno, un pozzo, una grotta o un albero cavo. Una volta entrati si percorrerà un tunnel all'uscita del quale ci ritroveremo nel Mondo di Sotto. L'entrata, l'attraversamento del tunnel e l'uscita, sono tutte fasi da esplorare singolarmente e personalmente, non hanno una durata e un'immagine prestabilita, poiché sono luoghi che ci accingeremo a visitare e conoscere in prima persona.
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ilpellegrino · 5 years
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Questa traccia vi aiuterà a entrare nello stato sciamanico di coscienza. Da quel momento potrete dirigervi con lo spirito verso un posto conosciuto, trovare un'apertura nel terreno, seguire un torrente o avvicinarvi a un albero cavo, per discendere poi il percorso che vi accompagnerà nel mondo di sotto, alla scoperta e all'incontro con il vostro animale guida e i vostri spiriti alleati.
Potete acquistare tracce musicali personalizzate al seguente link:
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Buon viaggio.
Il Pellegrino
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ilpellegrino · 5 years
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Musica per VIAGGIO SCIAMANICO | Flauto di pan - 30min
Tamburo, sonagli e flauto di pan vi accompagneranno nella discesa verso il Mondo di sotto dove potrete incontrare il vostro spirito guida e creare con lui un rapporto stabile e duraturo, che porterà gli effetti del mondo non ordinario in quello ordinario. Siate fiduciosi, prudenti e risoluti, e insieme con lo spirito guida potrete espandere coscienza e conoscenza. Se lo desiderate, potete inviarmi i racconti dei vostri viaggi e delle vostre esperienze, che verranno pubblicati nei prossimi video. Per scoprire di più sull'animale guida e sul viaggio sciamanico puoi guardare i video ai seguenti link: 
 Animale guida https://youtu.be/-JKh-g_bZBo 
 Viaggio sciamanico https://youtu.be/uJAAcPt4lbA
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pangeanews · 6 years
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“L’antidoto è l’incanto della poesia, il pericolo è la politica”: dialogo con Massimo Maggiari, il poeta che è andato dove i ghiacci parlano
Del libro ‘di viaggio’, del tutto anomalo, è chiara una cosa. Che il viaggio, per lo più, soprattutto, è interiore: che il paesaggio, intendo, non è lì per il catodico, catastorifo selfie o per inviare la patetica cartolina; è lì perché lo ‘canti’, perché ne riannodi il senso – verbale e sostanziale – nel tuo corpo. In sintesi. Il viaggio è una ‘chiamata’, a cui il viaggiatore risponde con il passo, l’attenzione, il tintinnio della lingua. Insomma: quando un poeta, per sua natura attratto dai luoghi remoti, dagli inospitali dove la poesia è ospite, va in Artico il risultato è insolito, anomalo. Così, il libro di Massimo Maggiari, nato a Genova ma professore al College of Charleston, in Carolina del Sud – per questo, a un certo punto, devia l’intervista in inglese e io gli sto dietro con il mio affanno traduttivo, da demente che vaga nei linguaggi – poeta anzitutto (Aurora Borealis, 2001-2004), che s’intitola Al canto delle balene. Storie di esploratori e sciamani inuit, edito da Giunti (pp.238, euro 16,00), non è un libro di viaggio, ma il resoconto di un’esperienza spirituale. Eppure. In Artico, Maggiari ci è stato un tot di volte (“posso dire che il mio battesimo artico risale al 2011, quando arrivai con un piccolo aereo a Gjoa Haven. Era marzo ed ero stato avvisato da uno scrittore canadese che il freddo in quella stagione sarebbe stato severo. Ma pensavo alle mie Alpi…”) e sull’Artico ha scritto tanto (Passaggio a Nord-Ovest. Sulle tracce di Amundsen e L’avventura del Grande Nord, ad esempio). L’Artico, però, è letto da Maggiari come una sfida all’anima – come il luogo dove ascoltare meglio, nella vastità del bianco, se stessi, la propria storia, le storie. Così, il libro, abbecedario spirituale per mappare l’iceberg che abbiamo piantato nel torso, ci mostra Takanakapsaluk, la Signora degli Abissi, ci racconta la storia dell’“unicorno artico” e quella di Tulugaq, “il magico corvo”, delinea i legami tra il poeta e lo sciamano, ripercorre la biografia di Knud Rasmussen, il genio dei viaggiatori artici (di cui Adelphi, per altro, in piena new wave dell’editoria italiana ‘boreale’, ha da poco pubblicato Aua), parla di amuleti e di stelle, di maglioni imbottiti – Maggiari non si permette le volute del dandy in Groenlandia, non nega la fatica, ma è proprio lì, nel morso bianco, che si eleva il canto – in un detto che spesso si sforma in poesia. Di fronte alla meraviglia dell’ignoto e dello straordinario, d’altronde, l’uomo non può fare altro che cantare.
Partirei dalla poesia. Il tuo viaggio artico è costellato di poesie, di parole ed è anche un viaggio nel ‘valore magico’ della parola (penso alle leggende sciamaniche che ci racconta Knud Rasmussen e quelle che tu rifiati e rifili). Forse è proprio la poesia ad averti guidato verso l’estremo Nord?
Sì, certo. La poesia. Non può che essere lei la responsabile. Per anni mi sono illuso di leggere poesia e fare il critico di versi e cose del genere. Standomene a distanza di sicurezza dalle cose del mondo. Non sapevo ancora, che con la poesia viene a poco a poco l’innamoramento. Proprio così, il coinvolgimento personale con la Vita, e soprattutto, il linguaggio della Vita, che è quello che la Poesia veramente è. La Vita apprezzata due volte attraverso l’estasi delle parole. C’è qualcosa di magico in tutto questo? Certo che c’è. Innamorarsi trasforma il vivere quotidiano in una grande avventura. E questo forse sarebbe già abbastanza. Ma identificarsi con gesta e imprese di un esploratore artico aggiunge una marcia ulteriore. Almeno per me. Quella archetipica legata ai punti cardinali. Il Grande Nord è innanzitutto un eterno archetipo della nostra anima. Un luogo che abbiamo dentro e che volendo possiamo visitare prendendo l’aereo o il rompighiaccio. O tutti e due. Un luogo dove alla selvatichezza più estrema corrisponde alla nostra più profonda autenticità. La chiamata del Grande Nord è seria e impegnativa. L’ultima frontiera della mente razionale che fa domande scomode. Se vogliamo imbarcarci per una vera avventura alla scoperta di noi stessi, la bussola non può che puntare lassù. Da sempre. Dagli abissi dei millenni. È come una luce diafana di una lontana costellazione che attrae uno sparuto drappello di esseri umani: a ogni generazione. E non solo umani. Le parentele che noi scopriamo seguendo questo flusso cosmico vanno al di là dell’umano, del temporale, e della specie. In quel solco fisico e metafisico la balena ci è sorella. Guida agli stessi abissi dell’universo. Ci sono così tante cose che non sappiamo, luoghi e forme di coscienza che non conosciamo. Ma vedi, il linguaggio stesso fa brutti scherzi. Siamo già entrati in un altro ambito. Quello sciamanico. Un ambito dove il potere di co-creazione del linguaggio è infinito. Bruniano.
In forme diverse – recupero mitico, reportage, romanzo – torna, prepotente, anche dal punto di vista editoriale, il mito del Nord, la voglia del ‘grande bianco’. Come mai, a tuo avviso? Frustrazione occidentale, desiderio di nudità, di nuova vita al calore (e al gelo) del mito?
In un mondo complesso e artificioso come il nostro attuale, il Grande Nord senza dubbio può assumere un ruolo compensatorio. Di avvicinamento al reale del mondo naturale. Oppure rimanere una falsa chimera. Quella del viaggio trofeo. Espressione della cultura materialistica dei nostri giorni. Il Nord è chiaramente un trofeo per pochi, anche se i tempi stanno cambiando e presto avremo voli charter anche per la Groenlandia. Ma dentro cerchiamo altro. Vogliamo un risveglio profondo, autentico, estetico. Perché quello che abbiamo perso è un senso reale del Bello. Quando il mondo intorno è povero d’incanto a noi sfugge l’apprezzamento per la Vita (penso a “taci anima stanca”di Camillo Sbarbaro). Lo stress e i vari smog dell’anima ci rendono insensibili. Lontani dalle sorgenti del vivere. E la chiamata dei ghiacci può essere una via di purificazione o crescita. Lo è stato per me. Poeticamente, e anche umanamente. Come uno studente dell’Erasmus sono stato adottato da una famiglia di Ilulissat sulla costa ovest della Groenlandia. Ne sono sicuro. Vita e mito possono coesistere e diventare traccia profonda. Durata nel tempo. E ciò che dura ha inua. Un’anima. Come il ghiaccio nero/black ice che naviga nel cuore di un iceberg per decenni. La chiamata è di fronte e dentro di noi. Da sempre: di abitare poeticamente la terra.
In pratica. Raccontaci in che circostanze sei partito verso l’Artico, la prima volta, qual è stato l’incontro più affascinante, e come posso fare io, pio occidentale, se voglio avventurami lassù. 
Esplorare il mondo non è solo una questione di confini fisici. Dobbiamo sempre considerare come o dove il Mondo ci chiede di esplorarlo. Alcune persone andranno a Nord, altri si avventureranno a Sud o in altre diverse direzioni. Che cosa provoca il nostro interesse? La risposta è semplice: la Bellezza. Vogliamo andare dove la vediamo, la tocchiamo, la odoriamo. Deve essere reale. Tuttavia, se prima di partire facciamo una pausa, per un secondo, sulla soglia di casa, scopriremo che il nostro viaggio spesso comincia da un incontro casuale, a volte appena percepibile. Una immagine, una storia, la storia di un amico che abbiamo udito per caso. È la nostra percezione idealizzata che fa la differenza. Ogni volta che accade. Il luogo dove iniziano le avventure è qui, nei nostri cuori, in un giardino segreto chiamato immaginazione. La chiamata è chiara, attraversare un paese lontano non è abbastanza e non è tutto. Siamo chiamati, anche, ad abitare poeticamente il mondo. Cosa significa? Che il nostro scopo principale su questo pianeta è quello di apprezzare la nostra vita e che innamorarsi di un posto è il modo migliore di vivere pienamente, ancora e ancora, attraverso la gratitudine delle parole. Lanciando un ponte invisibile nella terra dell’Anima. Esploratori e sciamani sono entrambi su un sentiero comune. Un sentiero della Bellezza: la Bellezza dell’Anima. Un’Anima che guarisce mentre mappa un nuovo territorio. Un’Anima che si illumina così radiosamente mentre abbraccia la geografia del mondo intero. Anche nelle sue terre più desolate e distanti. Lì l’Anima è incorporata, o può essere presente alla luce dei suoi miti, canzoni, storie. Consentimi il conforto di una verità semplice. Noi abbiamo bisogno di storie, di buone storie, per stare eretti nella Vita.
La missione dello scrittore è quella di viaggiare dentro e fuori di sé, per riscoprire in ogni epoca e terra queste bellissime storie che devono essere rinarrate da migliaia di voci. La missione può essere difficile. Non è facile risvegliare il senso della presenza dell’anima. Soprattutto quando siamo in una destinazione gelida, avvolta nella natura selvaggia e nel silenzio. Nondimeno, la chiamata a viaggiare in zone artiche viene esaudita oggi da molte persone da ogni parte del mondo. Possono essere state sedotte da un volantino esotico o dalla proposta di una agenzia di viaggio, ma in fondo si tratta del richiamo della bellezza della natura selvaggia che stimola il cuore di qualcuno. Iceberg e balene sono marchiati da una lista di aspettative. Per questo motivo, avranno bisogno di buone storie su iceberg, narvali, beluga, balenottere, cacciatori inuit e balenieri.
Massimo Maggiari, poeta e viaggiatore artico, insegna al College of Charleston, negli Stati Uniti
Il mondo è vasto. La Groenlandia, da Sud a Nord, è un’immensa mappa dove spesso incontriamo la parola ‘inesplorato’. Di solito, durante un giro in barca possiamo vedere la calotta glaciale e i ghiacciai che possono essere raggiunti dal mare. In cima alla Groenlandia, il mare scompare la maggior parte dell’anno, sostituito dal ghiaccio fino alla fine di maggio. Incastonati nella spessa bianchezza emergono una moltitudine di iceberg, che galleggiano nel vasto altopiano. Sembrano monumenti in eterno pellegrinaggio. Ma questo ghiaccio è diverso: sembra flessibile e vivo, forgiato in un processo di perpetuo cambiamento. È bene non avvicinarsi agli iceberg. Possono improvvisamente esplodere, capovolgersi, scomparire. Si dice che il ghiaccio parli cigolando, e non è una coincidenza che nel Grande Nord è importante imparare ad ascoltare. Questo è il primo suggerimento al viaggiatore artico: imparare ad ascoltare. Imparare ad ascoltare le canzoni del vento, del ghiaccio, delle balene che passano. In tale contesto la natura parla a tutti. E tutto è relazione. Questa è la porta dell’Anima Artica. All’inizio, richiede un po’ di pazienza e di confidenza, ma una volta attraversata la soglia quello che troviamo dall’altra parte è un vago senso di essere guidati che ci dà sicurezza. Fidarsi di se stessi. Siamo appena entrati in un nuovo spazio, nel profondo del nostro io autentico, dove risuona la ‘natura selvaggia’. In quella camera segreta incontriamo Sedna, Tulugaq – il corvo, Qidlaq – il potente sciamano, lo Spirito Maschio della Luna, Moby Dick e molte altre storie. Se li ascolteremo con la nostra fiducia appena conquistata, cammineremo dentro e fuori di noi per la vita. Ballando su un Sentiero di Bellezza Artica e di Parole Potenti.
[Exploring the world is not only a matter of physical boundaries. We’ll always have to take into consideration how or where the World calls US to explore. Some people we’ll go North, some others we’ll venture South or even multiple directions. What is triggering our interest? The answer is simple: Beauty. We want to go where we see it, touch it and smell it. It has to be real. Still, if before leaving we’ll pause for a second on the door-step, we’ll discover that our journey often started round the corner with a casual encounter, sometimes barely noticeable. A picture, a story, a friend’s tale that we overheard by chance. It is our idealized perception that made the difference. Whenever it occurred. The place where adventures begin is right here in our hearts, in a secret garden called imagination. The call is clear, crossing a distant land is not enough or is not everything. We are also called TO INHABIT THE WORLD POETICALLY. What does it mean? That our main purpose on this planet is to cherish being alive, and that falling in love with a place is the best way to fully live, over and over, through the gratitude of words. Launching an invisible bridge into Soul territory. Explorers and Shamans are both on a common path. It is a path of Beauty: the Beauty of the Soul. A Soul that heals while mapping new territory. A Soul that shines so radiantly to embrace the geography of the whole world. Even in its most desolate and far-away lands. There the Soul is embedded, or can be present within the light of its myths, songs and stories. Allow me the comfort of a simple truth. We need stories, good stories, to stand tall in Life. The mission of the writer is to travel inside and outside of herself/himself in order to rediscover in every age and land those beautiful stories that need to be retold with a thousand voices. Its mission may be difficult. It is not easy to awaken a sense of the presence of the soul. Especially when we deal with a frozen destination wrapped in wilderness and silence. Nonetheless, the call to travel into arctic territory is answered today by more and more people from all over the world. They might be lured by an exotic brochure or the advice of a travel agent, but down deep is the call for the beauty of the wild that stirs up somebody’s heart. Iceberg and whales are marked first on their list of expectations. For this reason, they’ll need good stories about icebergs, narwhals, belugas, fin whales, inuit hunters and whalers. The world is vast. Greenland, from South to North, is an immense map where we often encounter the word “unexplored.” Usually, on a boat ride we can view the ice cap and the glaciers that can reach into the sea. On top of Greenland, sea waters disappear most of the year to be replaced with ice until the end of May. Set in the thick whiteness there are a multitude of icebergs floating on the vast plateau. They seem to be monuments in an eternal pilgrimage. But this ice is different: it seems flexible and alive, forged in a process of perpetual change. The icebergs are better not to be approached. Whole sides can suddenly explode, capsize, and disappear. Isolated in groups, they easily create disorienting mazes. It is said that the ice speaks creaking, and it is not a coincidence that in the Great North IS IMPORTANT TO LEARN TO LISTEN. This is the first tip to the arctic traveler: learn to listen. Learn to listen to the songs of the wind, of the ice, of the passing whales. In such a context nature speaks to all. And everything is related. That is the gateway to the Arctic Soul. At first, it requires some patience and tuning, but once crossed the thresold what we find on the other side is a vague sense of guidance that gives us confidence. Trust in ourselves. We have just entered a new space, down deep in our authentic selves, where “wildness” dwells. It is in that secret chamber that we meet Sedna, Tulugaq – the raven, Qidlaq – the powerful shaman, the Male Spirit of the Moon, Moby Dick, and many other stories. If we’ll listen to them with our newly conquered trust they we’ll walk inside/outside of us for a lifetime. Dancing on a Path of Arctic Beauty and Powerful Words].
Sotto quale minaccia vivono gli inuit? Intendo: ho la percezione, leggendoti, che si vada perdendo, nei recessi del Nord, un patrimonio di leggende, di sapienze, di virtù. È così? Che spettro grava sull’Artico?
La Perdita d’identità, il consumismo, il materialismo. Le nostre stesse desertificazioni dell’anima sono presenti lassù. L’antidoto è l’incanto della poesia. Sembra utopia ma è così. I pericoli vengono dalla politica. Dal suo linguaggio statistico, economico, burocratico. Anche in quell’ambito c’è bisogno di poesia e anima.
Che cos’è il ‘canto delle balene’?
La chiamata del daimon. La chiamata alla propria autenticità. Un viaggio che ci strappa dal nostro piccolo mondo per portarci in un ambito di parentele e prossimità che neanche potevamo immaginare. Come mi ha detto uno sciamano groenlandese “il mondo è vasto, da non poterlo nemmeno immaginare. Allo stesso tempo ogni giorno a un palmo della mano”.
Che cos’è, senza romanticismi, lo sciamano, quale il suo ruolo tra gli inuit?
Sciamano è chi va oltre il biografico in Vita, diventando interiormente come una crepaccia cava che si perde giù nel blu scuro. Solo così, ci si fa intermediari con il mondo dell’anima, dell’ispirazione e con la Musa della Vita. Portando aiuto e servizio agli altri. Di qualsiasi gruppo e credo.
Davanti a quel bianco che, scrivi, disorienta e stordisce, che cosa hai visto, che cosa capisci, da che prospettiva si guarda alle piccole beghe della politica nostrana?
Che c’è un orizzonte oltre il nostro. Dove il cosmo ci prende per mano. Le galassie, le aurore boreali, le anime degli antenati, quelle di tutte le altre creature, dei trichechi, degli alberi e dei mari. Portando quiete. L’Essere dimora nell’essere. Che si dona. Sempre nascente.
Ultima. Quando torni a Nord? Per andare dove? E… cosa vai scrivendo? 
La prossima estate. Al momento attendo messaggi dal Cosmo. Fuochi artici.
  L'articolo “L’antidoto è l’incanto della poesia, il pericolo è la politica”: dialogo con Massimo Maggiari, il poeta che è andato dove i ghiacci parlano proviene da Pangea.
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pangeanews · 7 years
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Marcovinicio: “In questo mondo che ha perso l’incanto, io esploro gli aldilà”
La cosa più difficile per un artista. Uccidere se stesso. Scotennarsi. Fare del pennello un coltello. Lui. Lui ce l’ha fatta. Marcovinicio è probabilmente l’artista più anomalo d’Italia. Non è mai appagato – è di una generosità impagabile. Ha lo studio a Domodossola. Cioè: alla provincia dell’impero. Dove le montagne imperano come tagliole. Dove si flirta coi briganti e la follia galleggia sul tedio di ogni giorno. Marcovinicio, irriducibilmente un solitario, ne ha masticato di mondo. È passato dai ferini ‘gialli&neri’, quadri clamorosi dove la montagna è una allucinazione urticante, alla quiete della Silenziosa disciplina, un ciclo di lavori – “sempre concettuali, che esprimono un pensiero, la mia visione dell’arte”, specifica lui – che hanno la nitidezza della pittura del Trecento, che risolvono i rapporti con alcuni maestri ideali del pittore, Giovanni Segantini e Carlo Fornara ad esempio (questo lavoro ha avuto come momento miliare la mostra Marcovinicio. Silenziosa disciplina al MAG di Arco, nel 2009). Ora. È tutta un’altra storia. Un’altra vita. Il pittore ha ucciso se stesso. La mostra inaugurata a metà settembre presso la Fondazione 107 di Torino, Malmaison, che viene rilanciata giovedì 26 ottobre, insieme ad altre tre piccole mostre, cambia tutto. Idealmente il cuore della mostra, alloggiata in uno spazio ‘platonico’, l’antro di una fabbrica dismessa nei dintorni dello stadio della Juventus, è una camera. La camera che Marcovinicio ha smontato dal suo studio e ha ricostruito a Torino. Una specie di navicella dei sogni. Pregna di miracoli. Zaini, piccozze, piccoli quadri naif, libri, bottiglie di birra, tappeti indiani, feticci africani, lame berbere. Intorno, i quadri. Possenti come un rito. Totem. Carcasse. L’esito della lotta dell’artista con se stesso. L’epica di un massacro.
Che cosa è successo? “Non lo so. Direi che tutto è cominciato da un segno. Da un paio di anni ho avvertito nella pittura un segno più nervoso, più fantastico. Ho cominciato a realizzare disegni aggressivi, elettrici. Ho continuato in quella direzione. Il resto è un miracolo”. Che cosa significa il tuo lavoro, questo nuovo lavoro, questa sterzata? “Penso che sia un atteggiamento sciamanico. Penso. Diciamo che non voglio partecipare a nulla che sia di questo mondo…”. Cerchiamo di fare ordine. Intanto. Quando cominci a dipingere, perché? “Io vengo da una famiglia semplice. Genitori intelligenti, ma non certo intellettuali. Da bambino mia sorella comperò ‘I maestri del colore’. Per me fu una scoperta. Avevo 8 anni. Mi avevano regalato una cassetta con dei colori a tempera. Cominciai a imitare Van Gogh e Gauguin. Tutto comincia così. Fin da subito, mi dicevano che disegnavo benissimo. Ricordo una scena. Mi piaceva l’immagine di due cervi che si scontravano. La replicai con la cera. La mostrai ai miei genitori. Cominciarono a guardarmi in maniera diversa”. Gli anni Settanta sono anni di fughe, di vita avventuriera… “Vero. A 15 anni vado via da Domodossola. Abito a Milano, con una donna più grande di me. Continuo la pittura. Scopro che non posso fare a meno della pittura”. Molto presto metti su uno studio a Domodossola. Pratichi la solitudine. Non sei in un luogo propenso all’arte. “Fin da ragazzo capisco che l’arte è la mia vita. Ma capisco anche che l’arte è solitudine. Devo riconoscere però di aver avuto tre incontri formativi. Il primo, a 17 anni, è con Franco Brusca, un pittore, un poeta, un avventuriero. Lui mi apre un mondo, mi fa conoscere Francis Bacon… Poi lavoro con Arrigo Parnisari, un ottimo pittore che per ragioni complicate finirà in manicomio. Infine, il terzo incontro è con Franco Rasma, un pittore che stimo moltissimo, con cui ancora oggi continuo uno scambio di pensieri per me fondamentale”. Veniamo al lavoro di questi anni. Sembra che tu abbia scientificamente sarchiato te stesso, fino ad arrivare a una pittura più pura, più violenta. “Il discorso è semplice. Questi quadri non li ho fatti per creare immagini accattivanti o ‘piacevoli’. Al contrario. Sai, quando dipingi da decenni acquisisci un mestiere che non ti permette di andare oltre, di dipingere male, ad esempio. Questo è un limite. Perché l’artista non può porsi dei limiti. Con questi nuovi lavori sono andato oltre me stesso, oltre la mia esperienza”.
Non è facile lavorare con una autorevolezza tale da rischiare tutto. Anche lo scherno, l’incomprensione. “Beh, oggi fare un quadro è difficilissimo. Intanto, è già stato fatto tutto e di tutto. Poi, il mondo ha perso l’incanto. Come puoi, oggi, penetrare l’incanto? Questa è la mia preoccupazione…”. …che risolvi, se non vedo male, creando dei quadri totemici, rituali. Ogni quadro si chiama ‘Kamlanye’, d’altronde, che è il rito con cui lo sciamano predispone il suo viaggio negli altri mondi, cantando e danzando. “Ho cercato di dipingere l’incanto dell’oltremondo. Credo nell’oltremondo. Credo in un mondo parallelo. A volte mi pare che i miei segni grafici siano il dialogo di un aldilà. Mi piace l’idea della ‘memoria eterna’, il fatto che resti nell’etere il frammento della nostra memoria. Come mai gli antichi arrivano a pensare al regno dei morti, per necessità o per indole? Da dove arriva quel concetto di un regno dei morti?”. Già da questi interrogativi radicali si capisce la ‘rivoluzione’ dei tuoi lavori. Una rivoluzione che ti investe prepotentemente. In mostra spiccano alcuni quadri che sono delle ‘riscritture’ su altri quadri che hai deciso di distruggere. “Ho distrutto una trentina di quadri vecchi. Non li riconoscevo più. Non bado più a nulla ormai. Proprio oggi ho in programma di raschiare altri 4 o 5 quadri antichi. Su cui dipingo, di nuovo. Certo, se quattro anni fa mi avessero detto che avrei fatto quadri di questo tipo, avrei pensato che era una follia…”. Insomma, pittura come gesto marziale… “Sono convinto che l’artista debba riappropriarsi del proprio ruolo. Tutto qui. Ormai si vede in giro tanta arte che è la ripetizione stantia di una vuota grammatica concettuale. Bisogna rispondere. Io sono sul piede di guerra e sto combattendo alla grande. Forse perché è l’ultimo atto, chissà”. Altro che ultimo atto. Intorno al catalogo della mostra, Marcovinicio ha allestito una edizione di Noa Noa di Gauguin. Una edizione illustrata degli anni Venti. Fuori catalogo, stampata con perizia artigiana (la moglie di Marcovinicio, Marisa, è la straordinaria Mme. Webb, editrice di raffinate ‘copertine’ poetiche, un culto per lirici e bibliomani). Riprodotta in giallo. Di inquieta bellezza. Ancora Gauguin. L’amore della giovinezza, di sempre. L’artista fa la rivoluzione con la meraviglia negli occhi, barbaro come un bimbo.
Giovanni Zimisce
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