#cognome esposti
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I trovatelli in Italia sono stati per secoli nominati assegnando loro solamente il nome di battesimo a cui si aggiungeva un cognome eguale per tutti indicante la loro comune esperienza di brefotrofio. Ad esempio a Firenze ed in Toscana, dove l’istituzione per l’infanzia abbandonata fu per secoli lo Spedale di Santa Maria degli Innocenti, gli esposti ebbero tutti il cognome di Innocenti nelle sue varianti di Innocente, Degli Innocenti o Nocenti da cui i derivati Nocentini, Nocentino. A Milano, invece, l’istituto che si occupava dell’infanzia abbandonata era l’ospizio di Santa Caterina della Ruota, annesso all’antico complesso dell’ospedale sforzesco, che aveva come simbolo una colomba, perciò qui i trovatelli vennero cognominati molto frequentemente come Colombo e Colombini. Per lo stesso motivo a Pavia, ad esempio, gli esposti vennero chiamati spesso Giorgi, mentre a Siena Della Scala: si rafforzava così il legame filiale che legava il bambino abbandonato all’istituto che l’aveva accolto. Ancor più spesso, però, gli abbandonati venivano chiamati con cognomi che riportavano chiaramente alla mente la loro condizione di abbandono: Esposto, Esposti, Orfano, Proietti, Sposito, Spositi, Trovatelli, Trovato, Ventura, Venturelli, Venturini.
Dall'articolo "Figli di N.N. - I cognomi dei trovatelli nell'800" su inCultura
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Possiamo considerare Tumblr una forma di escapismo della società o riflette effettivamente il nostro carattere che abbiamo difficoltà a mostrare nella vita di tutti i giorni?
finalmente una domanda che non riguarda tette e sborra in faccia, grazie, ti meriti un abbraccino🫂
secondo me si può considerare come entrambe, per la mia esperienza personale eh
io sto tantissimo su tumblr, sia quando sono triste, nervosa, incazzata oppure semplicemente tranquilla e non ho voglia di troppo contatto con il mondo esterno ma ho solo voglia di starmene nel mio
per la questione di espressione di s�� stessi sicuramente tumblr è un posto dove mediamente puoi esprimere lati della personalità che non faresti vedere a chi ti conosce e a chi ti sta intorno, che siano amici, colleghi, professori, genitori ecc
io qui sono la stessa persona che sono fuori, non mi nascondo, ma sicuramente il fatto di essere praticamente anonima (aka: non faccio vedere il mio viso e non pubblico il mio cognome o altre informazioni personali più sensibili) aiuta molto nell’ esprimere la parte più intima di me, qui nessuno mi conosce, nonostante io abbia già incontrato qualcuno di tumbrl, e nonostante io parli quotidianamente con molte persone, nessuno fa effettivamente parte della mia quotidianità, nessuno lavora o studia con me, ma anche se fosse 90 su 100 la conoscenza sarebbe già partita da qui, quindi non me ne vergognerei perché già conoscerebbe questo lato della mia persona
le mie amiche sanno che ho tumblr ma 1. non sanno minimamente che cosa sia, 2. non hanno idea dei contenuti che posto qui, non perché per me o per loro sia un problema, ma perché è una parte della mia personalità che mi permetto di esprimere soltanto qui, non mi sognerei mai di postare le stesse cose anche su instagram per esempio
quindi per farla breve è sia un modo per scappare da ciò che ci sta intorno e starcene nel nostro, sia un modo per far uscire lati più nascosti di noi, ma allo stesso tempo anche quelli più esposti
non saprei che altro aggiungere, la mia risposta è molto frettolosa perché in questo momento ho un po’ di cose da fare, ma penso di essere stata abbastanza esaustiva
tu invece che ne pensi?
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Mary Blair
Mary Blair, artista, designer e illustratrice di libri per l’infanzia, è nota soprattutto per il suo lavoro con la Walt Disney per cui ha disegnato capolavori come Dumbo, Lilli e il Vagabondo, Alice nel paese delle meraviglie, Peter Pan, Cenerentola e molti altri.
Per prima ha portato l’arte moderna all’interno dell’animazione.
Eclettica e talentuosa, ha anche disegnato pubblicità, packaging, biglietti di auguri e scenografie teatrali.
La sua impronta stilistica è ancora oggi inconfondibile, i colori elettrici, esagerati, spesso dissonanti fra loro, che rappresentano il suo marchio di fabbrica, venivano utilizzati in aree di tinte piatte e forme eccezionalmente innovative per i suoi tempi.
Nata col nome di Mary Browne Robinson a McAlester, Oklahoma, il 21 ottobre 1911, aveva vissuto con la famiglia in Texas e poi in California.
Si era laureata al Chouinard Art Institute di Los Angeles nel 1933, facendosi��apprezzare come pittrice di acquerelli.
Negli anni ’30 ha fatto parte dell’innovativa California Water-Color Society.
Nel 1934 ha sposato Lee Everett Blair, artista da cui ha preso il cognome. Insieme sognavano di aprire una galleria d’arte, ma sfumato il progetto a causa della Depressione, ha ripiegato sul lavoro di colorista nell’industria dell’animazione per la Metro-Goldwyn-Mayer.
Nel 1940 ha iniziato a lavorare nei Walt Disney Animation Studios, il suo compito principale era quello di creare i tableaux delle produzioni già in corso, che all’epoca venivano eseguiti a mano. Ma invece di eseguire le istruzioni, cambiava la produzione secondo il suo stile.
Le tensioni con i colleghi, dovute al suo carattere ribelle e i ritardi nelle consegne, sfociarono, nel 1941, nella decisione di lasciare il lavoro.
Walt Disney in persona, però, che ne apprezzava il grande talento, volle riammetterla nel team e le chiese di accompagnarlo, insieme a pochi altri artisti, in un tour di ricerca in Sud America.
Durante questo viaggio le si pararono davanti i colori abbaglianti dell’America Latina che hanno influenzato la sua produzione, diventando il suo marchio di fabbrica.
Era partita da colori leggeri, eseguiti soprattutto all’acquarello, per poi evolversi in una direzione molto più plastica, con l’utilizzo di pastelli e acrilico.
Nonostante continuasse a non essere molto amata a causa del suo carattere tempestoso e i suoi alti standard di esecuzione, Walt Disney le diede carta bianca mettendola a capo della produzione di capolavori come Cenerentola, Alice nel paese delle meraviglie e Peter Pan e a supervisionare i lungometraggi animati Saludos Amigos e The Three Caballeros.
Intorno agli anni ‘50 ha lasciato gli Studios per concentrarsi su progetti di grafica e illustrazione di libri per l’infanzia, collaborando come libera professionista a importanti campagne pubblicitarie.
Nonostante non fosse più interna, Disney ha continuato a commissionarle lavori come i murales dipinti o realizzati con piastrelle che sono stati esposti nei parchi divertimenti, negli hotel e in altre attrazioni del brand, dalla California alla Florida. Ha anche progettato il murale per la sala d’attesa della chirurgia pediatrica dell’Eye Institute presso l’Università della California e per la Tomorrowland Promenade e realizzato i biglietti di auguri per Hallmark.
Ha avviato la progettazione di base per Disneyland e il padiglione dedicato al Messico nel parco divertimenti di Epcot, in Florida. È stata responsabile artistica dell’attrazione It’s a Small World alla Walt Disney Imagineering, società di ricerca e sviluppo del gruppo.
Nel 1968 è stata color designer nel film How To Succeed In Business Without Really Trying.
Nel 1991 è stata inserita tra le Disney Legends.
È morta a Soquel, California, il 26 Luglio 1978, a causa di un’emorragia cerebrale.
Mentre la sua arte al di fuori della Disney è poco conosciuta, il suo utilizzo audace e innovativo del colore è ancora fonte di ispirazione nel mondo del design e dell’animazione.
Ancora oggi si effettuano lavori ispirandosi alla sua tecnica e al suo talento, come la sigla di Monsters en Co., omaggio alle sue tecniche plastiche e colorative.
Nel 2017 la casa editrice con cui ha tanto collaborato, la Simon&Schuster, le ha dedicato una biografia illustrata.
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PROGETTO DI MAIL ART :’’STOP BORDER VIOLENCE-ART. 4: STOP ALLA TORTURA E AI TRATTAMENTI DEGRADANTI ALLE FRONTIERE D’EUROPA’’
L’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea afferma: “Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Negli ultimi anni si assiste nei confronti dei migranti a un’escalation di violenza intollerabile per le coscienze europee, in aperto contrasto con i principi fondamentali della UE. I rapporti delle organizzazioni quali UNHCR, Amnesty International e Human Rights Watch, le inchieste giornalistiche, le numerose testimonianze delle vittime raccontano di torture, stupri e minacce nei centri di detenzione della Libia, paese con il quale l’Italia ha stretto accordi per controllo delle partenze; di condizioni di estremo degrado nei campi in Grecia e in Bosnia, dove sovraffollamento, assenza di sevizi igienici e di assistenza mettono a rischio la vita dei soggetti più vulnerabili; dell’uso spropositato della forza e di episodi ripetuti di vera e propria tortura da parte della polizia croata nei confronti di richiedenti asilo alla frontiera con la Serbia e la Bosnia; di situazioni di detenzione illegale di migranti in diversi paesi della UE o finanziati dalla UE, di respingimenti violenti lungo tutte le frontiere d’Europa, di sospensione di fatto del diritto a richiedere asilo.
Tema: ’’STOP BORDER VIOLENCE-ART. 4: STOP ALLA TORTURA E AI TRATTAMENTI DEGRADANTI ALLE FRONTIERE D’EUROPA’’
Tecnica :Libera(Grafica,Collage,Disegno,Fotografia,Pittura)
Dimensioni:A4(21cm x 30 cm)-A5(15cm x 21cm)su Carta e Cartoncino.
Poesia e Poesia Visiva o Brevi Testi(da poter essere stampati ed esposti)
Scadenza:24 APRILE 2024
Tutte le opere devono essere originali e firmate sul retro con Nome,Cognome,Paese dell’Artista.
APERTO A TUTTI GLI ARTISTI DI TUTTE LE ETA’ E DI TUTTO IL MONDO.
Nessuna giuria ,nessuna vendita,non si accettano opere pornografiche,razziste,sessiste,ecc.
I LAVORI NON SARANNO RESTITUITI E FARANNO PARTE DI UNA MOSTRA ITINERANTE IN CONCOMITANZA CON LA RACCOLTA FIRME PER L’ICE(INIZIATIVA DEI CITTADINI EUROPEI) A SOSTEGNO DELL’ART.4
Le opere devono essere spedite esclusivamente per posta ordinaria,senza valore commerciale,o come piego di libro.Le spese di spedizione sono a carico dell’artista.
Inviare a :SILVIA GALIANO-VIA FRANCESCO CRISPI 79-88100 CATANZARO
LA MOSTRA SI TERRA’ IL PRIMO MAGGIO A RIACE(RC)-ITALIA
DOCUMENTAZIONE DELLA MOSTRA E DI TUTTI I PARTECIPANTI SARA’ PUBBLICATA ONLINE
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MAIL ART PROJECT:’’ ’’STOP BORDER VIOLENCE-ART. 4: STOP TORTURE AND DEGRADING TREATMENT AT EUROPE’S BORDER’’
Article 4 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union states: ‘No one shall be subjected to torture or to inhuman or degrading treatment or punishment’. In recent years, there has been an escalation of violence against migrants that is intolerable to European consciences, in open contrast to the fundamental principles of the EU. Reports from organisations such as UNHCR, Amnesty International and Human Rights Watch, journalistic investigations, and numerous testimonies from the victims themselves tell of torture, rape and threats in the detention centres of Libya, a country with which Italy has made agreements to control departures; extremely degrading conditions in camps in Greece and Bosnia, where overcrowding, lack of medical care and assistance put the lives of the most vulnerable at risk; the disproportionate use of force and repeated incidents of actual torture by the Croatian police against asylum seekers at the borders with Serbia and Bosnia; situations of illegal detention of migrants in several EU or EU-funded countries, violent rejections along all borders of Europe, and de facto suspension of the right to seek asylum.
Theme: ’’STOP BORDER VIOLENCE-ART. 4: STOP TORTURE AND DEGRADING TREATMENT AT EUROPE’S BORDER’’
Technique: Free (Graphics, Collage, Drawing, Photography, Painting)
Size:A4(21cm x 30 cm)-A5(15cm x 21cm)on Paper or Cardboard.
Poetry or Visual Poetry or Short Texts (can be printed and displayed).
Deadline: 24 APRIL 2024
All works must be original and signed on the back with the Artist's Name, Surname and Country.
OPEN TO ALL ARTISTS OF ALL AGES AND FROM ALL OVER THE WORLD.
No jury, no sales, pornographic, racist, sexist, etc. works are not accepted.
THE WORKS WILL NOT BE RETURNED AND WILL BE PART OF A TRAVELING EXHIBITION IN CONCOMITENCE WITH THE COLLECTION OF SIGNATURES FOR THE ICE (EUROPEAN CITIZENS' INITIATIVE) IN SUPPORT OF ART.4
The works must be sent exclusively by ordinary mail, without commercial value, or as a booklet. Shipping costs are the responsibility of the artist.
Send to:SILVIA GALIANO-VIA FRANCESCO CRISPI 79-88100 CATANZARO-ITALY
THE EXHIBITION WILL BE HELD ON MAY 1ST 2024 IN RIACE (RC)-ITALY
DOCUMENTATION OF THE EXHIBITION AND OF ALL PARTICIPANTS WILL BE PUBLISHED ONLINE
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Figli di un nome migliore
di Melania Mazzucco
Il cognome è un privilegio. Un’anomalia che non tutte le culture riconoscono, e pure relativamente recente. Per secoli il cognome (peraltro sostantivo dall’etimologia dubbia: viene da “cum nomen”, con il nome, o da “cognoscere nomen”, nel senso di dare un segno di riconoscimento?) ce l’avevano solo gli aristocratici, i borghesi, gli illustri: le famiglie di oscura stirpe senza storia si accontentavano del patronimico, o del mestiere del capostipite. La maggior parte di noi porta, senza saperlo, quel blasone di latta — che ci rivela discendenti di artigiani e lavoratori. Siamo fabbri, molinari, sartori, ferrari. Siamo figli di un borgo, un villaggio, una città. E anche figli di nessuno — esposti, proietti, benedetti. È una peculiarità nostra (anche se non unicamente italiana): pare che abbiamo più cognomi di ogni altra nazione. Nei paesi scandinavi non esistevano cognomi, ma solo i nomi (in Islanda vige tuttora l’onomastica del genitore, maschile e femminile e da poco anche neutra). Nella nostra lingua la parola “matronimico” suonava allogena: quel concetto non era neanche pensabile. Per secoli, in questo universo dove regnava unica la genealogia maschile, solo alle principesse o alle nobili di casate sull’orlo dell’estinzione per mancanza di altri eredi capitava di poter tramandare (previa concessione che riconosceva l’eccezionalità del caso, con ciò evitando che diventasse norma) il cognome della propria madre. Per ragioni economiche, ereditarie, dinastiche — certo non sentimentali (come ci insegna Teresa Uzeda ne I Viceré di De Roberto). Dare la vita e annullarsi in essa: la madre non aveva altro compito.
In italiano, il cognome è invariabile. L’immutabilità di questo attributo identitario (in alcune lingue, vive o morte, il latino, il russo, il cèco, si declina, ha il genere, in altre ancora il plurale) ha forse contribuito al ritardo con cui la Corte Costituzionale ha riconosciuto la rivoluzione sociale e culturale relativa alla donna che si è compiuta negli ultimi decenni del XX secolo. Non risarcisce un’ingiustizia — né potrebbe farlo — ma la termina. E soprattutto questa sentenza — giustamente festeggiata come storica — traghetta davvero le coppie e le famiglie italiane nel nuovo millennio. Questa legge — perché sarà legge, infine — ha un eccezionale significato pedagogico. In un paese come l’Italia nel quale quasi ogni giorno un uomo — marito, compagno, fidanzato, spesso padre — uccide la donna che dice di amare perché lei vuole lasciarlo, lo ha lasciato, o semplicemente non si considera sua proprietà, sancisce l’uguaglianza e la parità (morale, giuridica) nella coppia. Se un figlio ha due genitori — non è sempre così, ma è ancora il caso più comune — non sarà più un solo soggetto a veicolare il suo sangue e la sua storia — e in fondo il suo destino. Crescere col doppio cognome, sentirsi chiamare, a scuola e in palestra, anche col nome di lei, insegnerà al bambino o alla bambina che l’esistenza della madre non è subordinata, accessoria, ininfluente. Che ha lo stesso potere, gli stessi diritti, ma soprattutto lo stesso valore. Restituirà a lei — e a tutti i posteri — la centralità e la dignità fin qui negata. La mentalità cambia la legge, ma anche la legge cambia la mentalità. Mi piace pensare che fra vent’anni le ragazze e i ragazzi italiani cresciuti anche nel nome della madre saranno figli, e poi compagni, coniugi e cittadini, migliori.
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Di solito non faccio debunking (che parolona) su persone in carne e ossa - preferisco confrontarmi e parlare - ma il messaggio sottostante m’è arrivato 17 volte su whatsapp e il “giovane ricercatore” m’avrebbe anche un po’ sbrindellato il cazzo.
Da un giovane ricercatore che da Shenzhen era stato trasferito a Wuhan per collaborare con la task force che sta combattendo contro l’epidemia da coronavirus riceviamo e volentieri trasmettiamo a tutti queste informazioni chiare, semplici e accessibili a tutti, che descrivono esattamente che cos’è il virus, come si trasferisce da una persona all’altra e come puó essere neutralizzato nella vita di tutti i giorni.
L’infezione da corona virus non provoca raffreddore con naso sgocciolante o tosse catarrosa, ma tosse secca e asciutta : questa è la cosa piu’ semplice da sapere.
Il virus non resiste al calore e muore se esposto a temperature di 26-27 gradi : quindi consumate spesso durante il giorno bevande calde come the, tisane e brodo, o semplicemente acqua calda: i liquidi caldi neutralizzano il virus e non è difficile berli. Evitate di bere acqua ghiacciata o di mangiare cubetti di ghiaccio o la neve per chi si trova in montagna ( bambini)!
Per chi può farlo, esponetevi al sole!
1. Il corona virus è piuttosto grande (diametro circa 400-500 nanometri), quindi ogni tipo di mascherina può fermarlo: non servono, nella vita normale, mascherine speciali.
Diversa è invece la situazione dei medici e dei sanitari che sono esposti a forti cariche del virus e devono usare attrezzature speciali.
Se una persona infetta starnutisce davanti a voi, tre metri di distanza faranno cadere il virus a terra e gli impediranno di atterrare su di voi.
2. Quando il virus si trova su superfici metalliche, sopravvive per circa 12 ore. Quindi, quando toccate superfici metalliche come maniglie, porte, elettrodomestici, sostegni sui tram, ecc., lavatevi bene le mani e disinfettatele con cura.
3. Il virus può vivere annidato nei vestiti e sui tessuti per circa 6/12 ore: i normali detersivi lo possono uccidere. Per gli abiti che non possono essere lavati ogni giorno, se potete esponeteli al sole e il virus morirà.
Come si manifesta:
1. Il virus si installa prima di tutto nella gola, provocando infiammazione e sensazione di gola secca: questo sintomo può durare per 3 / 4 giorni.
2. il virus viaggia attraverso l’umidità presente nelle vie aeree, scende nella trachea e si installa nel polmone, causando polmonite. Questo passaggio richiede circa 5/6 giorni.
3. La polmonite si manifesta con febbre alta e difficoltà di respiro, non si accompagna al classico raffreddore. Ma potreste avere la sensazione di annegare. In questo caso rivolgetevi immediatamente al medico.
Come si può evitarlo:
1. La trasmissione del virus avviene per lo più per contatto diretto, toccando tessuti o materiali sui quali il virus è presente : lavarsi le mani frequentemente è fondamentale.
Il virus sopravvive sulle vostre mani solo per circa dieci minuti, ma in dieci minuti molte cose possono accadere : strofinarvi gli occhi o grattarvi il naso per esempio, e permettere al virus di entrare nella vostra gola …
Quindi, per il vostro bene e per il bene degli altri, lavatevi molto spesso le mani e disinfettatele!
2. Potete fare gargarismi con una soluzione disinfettante che elimina o minimizza la quota di virus che potrebbe entrare nella vostra gola: così facendo lo eliminate prima che scenda nella trachea e poi nei polmoni.
3. disinfettate la tastiera del pc e i cellulari
Il nuovo coronavirus NCP potrebbe non mostrare segni di infezione per molti giorni, prima dei quali non si può sapere se una persona è infetta. Ma nel momento in cui si manifesta la febbre e / o la tosse e si va in ospedale, i polmoni sono di solito già in fibrosi al 50% ed è troppo tardi!
Gli esperti di Taiwan suggeriscono di fare un semplice verifica che possiamo fare da soli ogni mattina:
Fai un respiro profondo e trattieni il respiro per più di 10 secondi. Se lo completi con successo senza tossire, senza disagio, senso di oppressione, ecc., ciò dimostra che non vi è fibrosi nei polmoni, indicando sostanzialmente nessuna infezione.
In tempi così critici, fai questo controllo ogni mattina in un ambiente con aria pulita!
Questi sono seri ed eccellenti consigli da parte di medici giapponesi che trattano casi COVID-19. Tutti dovrebbero assicurarsi che la propria bocca e la propria gola siano umide, mai ASCIUTTE.
Bevi qualche sorso d'acqua almeno ogni 15 minuti. PERCHÉ? Anche se il virus ti entra in bocca ... l'acqua o altri liquidi lo spazzeranno via attraverso l'esofago e nello stomaco. Una volta nella pancia ... L’acido gastrico dello stomaco ucciderà tutto il virus.
Se non bevi abbastanza acqua più regolarmente ... il virus può entrare nelle tue trombe e nei polmoni. È molto pericoloso.
Condividi queste informazioni con la famiglia, gli amici e tutti i conoscenti, per solidarietà e senso civico!!!!
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Da un giovane ricercatore che da Shenzhen era stato trasferito a Wuhan per collaborare con la task force che sta combattendo contro l’epidemia da coronavirus riceviamo e volentieri trasmettiamo a tutti queste informazioni chiare, semplici e accessibili a tutti, che descrivono esattamente che cos’è il virus, come si trasferisce da una persona all’altra e come puó essere neutralizzato nella vita di tutti i giorni.
In inglese il fenomeno si chiama FOAF, friend of a friend... in Italiano equivale a ‘Me l’ha detto mio cuggino che cià un amico che...’. Una cosa per essere seria non deve solo suonare seria... ci vuole nome, cognome, qualifica rintracciabile e, soprattutto, il link agli studi seri sulle indicazioni date. Sennò poi pulite il tappeto col bicarbonato e invece lo state solo imbiancando.
L’infezione da corona virus non provoca raffreddore con naso sgocciolante o tosse catarrosa, ma tosse secca e asciutta : questa è la cosa piu’ semplice da sapere.
Una sintesi che può non sempre può corrispondere al quadro infettivo da Covid-19. Di sicuro questo virus non colonizza le vie respiratorie alte ma il raffreddore può essere preesistente e comunque nessuna tosse da patogeno delle vie respiratorie basse entra subito nella fase essudativa (catarro); quello arriva dopo e solo se c’è bronchite (non polmonite).
Il virus non resiste al calore e muore se esposto a temperature di 26-27 gradi
Non è così semplice e se in genere la degradazione del rivestimento capsidico del virus è proporzionale all’aumento delle temperature, purtroppo non sappiamo ancora quanto lo sia questo coronavirus specifico. [X],[X],[X],[X].
quindi consumate spesso durante il giorno bevande calde come the, tisane e brodo, o semplicemente acqua calda: i liquidi caldi neutralizzano il virus e non è difficile berli. Evitate di bere acqua ghiacciata o di mangiare cubetti di ghiaccio o la neve per chi si trova in montagna ( bambini)!
I virus respiratori non si raccolgono uno a uno come tifosi dell’Arsenal che quando poi diventano tanti spaccano tutto lo stadio. Quando una singola gocciolina di saliva infetta entra vaporizzata a contatto delle vostre mucose respiratoria è questione di pochi minuti perché cominci la replicazione. Se mastichi cubetti di ghiaccio sei uno stronzo sadico e irrispettoso dell’ipersensibilità altrui e se mangi la neve spero che tu finisca con lo sgranocchiare uno stronzetto congelato di capriolo o di lepre. Capito bambini mai sufficientemente picchiati dai genitori?!
Per chi può farlo, esponetevi al sole!
Mi paghi tu le vacanze ai tropici? Cosa sei, giovane ricercatore di Wuhan, il conduttore di Uno Mattina cinese? E i tumori alla pelle? Ma non si doveva evitare di uscire nelle ore calde? E bere tanto? Acqua calda o fredda? Con cacche di capriolo incastonate in cubetti di ghiaccio?
1. Il corona virus è piuttosto grande (diametro circa 400-500 nanometri), quindi ogni tipo di mascherina può fermarlo: non servono, nella vita normale, mascherine speciali.
Il coronavirus è piuttosto piccolo (diametro circa 60–140 nanometri... CAZZO! C’E’ SCRITTO PURE SU WIKIPEDIA!) quindi QUASI NULLA tecnicamente lo filtrerebbe. Ma infatti le dimensioni del virione non ci azzeccano nulla, visto che sono le GOCCE DI FLUGGE della saliva e le DROPLET RESPIRATORIE a trasportarlo e dal momento che esse hanno un diametro tra i 20 e i 5 micrometri [1 micrometro=1000 nanometri] possono essere filtrate solo con mascherine FFP3 (EU) o N95/N99 (USA); nella vita normale se indossi una mascherina di classe inferiore o semplicemente chirurgica hai buone probabilità di contrarlo... anche se magari non lo spargi in giro se ce l’hai già.
Diversa è invece la situazione dei medici e dei sanitari che sono esposti a forti cariche del virus e devono usare attrezzature speciali.
Che in realtà, essendo speciali, usano solo loro e voi no. Pappapero e non cercatele sul darkweb ché poi vi spediscono roba farlocca con lo Swiffer panno magico al posto dei filtri oppure di seconda mano e usata negli anni ‘80 a Chernobyl.
Se una persona infetta starnutisce davanti a voi, tre metri di distanza faranno cadere il virus a terra e gli impediranno di atterrare su di voi.
Se non è italiano e non agita le mani spingendolo verso di voi. No, scherzo... questa è l’unica cosa vera scritta finora.
2. Quando il virus si trova su superfici metalliche, sopravvive per circa 12 ore. Quindi, quando toccate superfici metalliche come maniglie, porte, elettrodomestici, sostegni sui tram, ecc., lavatevi bene le mani e disinfettatele con cura.
Sì e no. Non lo sappiamo perché nessuno ha avuto il tempo di sperimentare le variabili ambientali di sopravvivenza per questo SARS-CoV-2 e possiamo fare solo paragoni pieni di immaginazione con i suoi fratellastri SARS (2003) e MERS (2012). A fare cherrypicking, allora, la SARS sopravvive 36 ore sull’acciaio inossidabile ma se leggete lo studio, intuirete che ci sono decine e decine di variabili (temperatura, umidità ambientale, distribuzione su superficie, diametro del vettore, umidità del vettore, essiccazione, pH, tonicità etc) e quindi non ha senso dare un limite di tempo. LAVATEVI QUELLE CAZZO DI MANI E BASTA, SPORCACCIONI!
3. Il virus può vivere annidato nei vestiti e sui tessuti per circa 6/12 ore: i normali detersivi lo possono uccidere. Per gli abiti che non possono essere lavati ogni giorno, se potete esponeteli al sole e il virus morirà.
Come sopra. Ma non fate dieci lavatrici al giorno, a meno che il vostro vicino novantenne non vi scatarri addosso tutte le volte che mettete il naso fuori di casa.
Come si manifesta:
1. Il virus si installa prima di tutto nella gola, provocando infiammazione e sensazione di gola secca: questo sintomo può durare per 3 / 4 giorni.
Come gli altri cento virus respiratori che possono dare febbre alta pure loro. Lo avete sperimentato mille volte sulla vostra pelle prima che arrivasse il coronavirus e siete ancora qua, vivi e vegetali, a leggere le mie mirabolanti avventure digitali .
(P.S. ’vegeti’ me l’ha cambiato l’autocorrettore... fate che sia un errore)
2. il virus viaggia attraverso l’umidità presente nelle vie aeree, scende nella trachea e si installa nel polmone, causando polmonite. Questo passaggio richiede circa 5/6 giorni.
Come molte altre decine di virus respiratori, che comunque non ‘usano’ l’umidità ma si replicano sulle cilia bronchiali e si spostano verso il basso con l’inspirazione. E comunque la polmonite è UN QUADRO, non una malattia specifica data esclusivamente solo da certi virus. Il Covid-19 dà più frequentemente polmonite interstiziale rispetto ad altri virus respiratori.
3. La polmonite si manifesta con febbre alta e difficoltà di respiro, non si accompagna al classico raffreddore. Ma potreste avere la sensazione di annegare. In questo caso rivolgetevi immediatamente al medico.
Al medico ci si rivolge se si ha tosse ostinata e profonda e febbre sopra i 37,5° C. Non è detto che lui arrivi in 5 minuti ma vedrete che se provate reale difficoltà a respirare (si chiama DISPNEA e più che sensazione di affogare e la sensazione di non riuscire a far arrivare l’aria fin dentro i polmoni, percepiti come ‘gonfi e schiacciati’) qualcuno arriverà. Sempre che qualcun’altro col raffreddore e 36,7 di ‘febbre’ non gli sta rompendo il cazzo perché AIUTOOOOO MUOIOOOO!
Come si può evitarlo:
1. La trasmissione del virus avviene per lo più per contatto diretto, toccando tessuti o materiali sui quali il virus è presente : lavarsi le mani frequentemente è fondamentale.
No, CAZZO, avviene principalmente per via respiratoria. Il contagio da FOMITI (supefici contaminate) è molto più raro. VOI LAVATEVI QUELLE CAZZO DI MANI COMUNQUE, SPORCACCIONI!
Il virus sopravvive sulle vostre mani solo per circa dieci minuti, ma in dieci minuti molte cose possono accadere : strofinarvi gli occhi o grattarvi il naso per esempio, e permettere al virus di entrare nella vostra gola …
Come già detto, non si sa quanto sopravviva. VOI TENETE LE MANI A POSTO E BASTA, SPORCACCIONI GESTICOLANTI!
Quindi, per il vostro bene e per il bene degli altri, lavatevi molto spesso le mani e disinfettatele!
Sì, vabbe’... sei ripetitivo, ricercatore di Wuhan. Mai in cosa lo stai prendendo il master, in GRAZIARCAZZO?
2. Potete fare gargarismi con una soluzione disinfettante che elimina o minimizza la quota di virus che potrebbe entrare nella vostra gola: così facendo lo eliminate prima che scenda nella trachea e poi nei polmoni.
Il virus non scende tipo sullo scivolo dell’Aquapark di Riccione... il virus si replica all’interno delle mucose e con vostro colluttorio ci si fa un aperitivo e poi un bidet propiziatorio prima di trombare e riprodursi (sì lo so, biologi saccentini... si tratta di solo RNA senza etc...)
3. disinfettate la tastiera del pc e i cellulari
Quello è sempre cosa buona, sporcaccioni usufruitori di youporn.
Il nuovo coronavirus NCP potrebbe non mostrare segni di infezione per molti giorni, prima dei quali non si può sapere se una persona è infetta. Ma nel momento in cui si manifesta la febbre e / o la tosse e si va in ospedale, i polmoni sono di solito già in fibrosi al 50% ed è troppo tardi!
In... fibrosi... ma il ricercatore di Wuhan su cosa fa ricerca esattamente? No, perché affinché un quadro di fibrosi polmonare si instauri ci vogliono settimane, se non mesi (a volte anni) dall’evento infiammatorio, che si deve cronicizzare e dare esiti di tessuto cicatriziale. Semmai ‘i polmoni sono già di solito’ in edema da polmonite interstiziale dei setti alveolari, con infiltrazione di cellule infiammatorie, ispessimento delle pareti e collasso degli spazi aerei.
Gli esperti di Taiwan suggeriscono di fare un semplice verifica che possiamo fare da soli ogni mattina:
Fai un respiro profondo e trattieni il respiro per più di 10 secondi. Se lo completi con successo senza tossire, senza disagio, senso di oppressione, ecc., ciò dimostra che non vi è fibrosi nei polmoni, indicando sostanzialmente nessuna infezione.
Dimostra solo che fai sport, non sei obeso, non fumi e non hai in atto una delle decine di infezioni delle vie respiratorie basse. Che comunque forse si devono ancora manifestare... peraltro senza che il Covid-19 sia per forza scomodato.
In tempi così critici, fai questo controllo ogni mattina in un ambiente con aria pulita!
E quindi che nessuno scorreggi mentre lo faccio, eh!
Questi sono seri ed eccellenti consigli da parte di medici giapponesi che trattano casi COVID-19. Tutti dovrebbero assicurarsi che la propria bocca e la propria gola siano umide, mai ASCIUTTE.
Bevi qualche sorso d'acqua almeno ogni 15 minuti. PERCHÉ? Anche se il virus ti entra in bocca ... l'acqua o altri liquidi lo spazzeranno via attraverso l'esofago e nello stomaco. Una volta nella pancia ... L’acido gastrico dello stomaco ucciderà tutto il virus.
Se non bevi abbastanza acqua più regolarmente ... il virus può entrare nelle tue trombe e nei polmoni. È molto pericoloso.
Mosconi aiutami tu di lassù... Intanto ce lo vedo proprio il giovane ricercatore GIAPPONESE a cui i cinesi stendono il tappeto rosso perché ha gli occhi a mandorla come i loro (plot twist: cinesi e giapponesi si amano un sacco... un po’ come pisani e livornesi). Poi ‘sta fissa di bere l’acqua mi fa pensare che il tizio giovane faccia ricerche sul kink di gente che si piscia addosso... non me lo spiego in altro modo. Le trombe le lascio a voi, che vi piace la musica jazz o che avete in testa sempre quell’attività lì scomoda e faticosa.
Condividi queste informazioni con la famiglia, gli amici e tutti i conoscenti, per solidarietà e senso civico!!!!
E anche perché in fondo sei un po’ un’ignorante testa di cazzo boccalona a cui non va mai in cancrena il dito con cui premi ‘condividi’ con così tanta facilità!
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E’ scappato ancora. L’ha fatto di nuovo. Come sempre. Come lui è. Ma stavolta, nel farlo, ha perso. Clamorosamente. Contro tre donne. Che hanno vinto. Che hanno ferito la Bestia. Che muta ha retratto gli artigli e davanti alla loro forza è fuggita, con le orecchie basse e la coda fra le gambe. La prima donna, forse la ricorderete, è una delle vittime del solito “metodo della gogna” dell'ex Ministro (ieri è toccato a un ragazzo dislessico). Si chiama Silvia Benaglia, giovane assessora del piccolo Comune di Pianoro. Silvia ha dovuto oscurare i propri profili social per la montagna di indicibili insulti e minacce contro di lei che sgorgarono dalla fogna dopo che Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni (con giornali al guinzaglio), il 18 novembre scorso, la diedero in pasto ai propri fan (cui è affidato il lavoro sporco) mettendo la sua foto sulle rispettive pagine Facebook. La sua colpa? Aver partecipato alla manifestazione delle Sardine. “Gratta la sardina trovi la Piddina” scrissero il “Capitano” e la sua senatrice. Accanto: il suo nome e cognome, parole dal senso stravolto e il simbolo del PD. E’ il solito segnale: ecco la preda del giorno. La gogna può partire. Sbranatela voi. Silvia Benaglia non è però del PD, né in quella piazza stava facendo nulla di male. Però tanto bastò perché partisse la solita lapidazione. La seconda donna si chiama Cathy La Torre. Cathy è l’avvocata di Silvia Benaglia. E davanti a quell’orrore ha deciso di agire per le vie legali, chiedendo al Tribunale civile di Bologna la rimozione d’urgenza di quei post che stavano devastando la vita privata della sua assistita e della sua famiglia. La terza donna si chiama Giustizia. Giustizia è per Salvini quel che il crocefisso è per i vampiri. Quando la vede lui scappa. Dichiara sempre di voler affrontarla, salvo poi fuggire quando lei si presenta. Lo ha fatto con il caso Diciotti. Sta cercando di farlo con il caso Gregoretti. E lo ha fatto anche questa volta. A pochi giorni dall’udienza (fissata per martedì) i post incriminati sono magicamente spariti. Così che il giudice non possa più esprimersi sulla rimozione di qualcosa che è stato già rimosso. E non crei un precedente. Però sono stati lì, esposti, lasciati a far danno sulla ragazza, per essere rimossi solo nelle ultime ore. Ma almeno stavolta la Bestia è stata colpita. Ha dovuto retrocedere. Forse ringhiando. Ma ha dovuto farlo. Davanti a tre donne che tengono alto lo sguardo e la dignità del Paese: Silvia, Cathy, Giustizia. Emilio Mola
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Della pietà, l'esposta Tecla Smalti da Venezia
Della pietà, l’esposta Tecla Smalti da Venezia
La trovatella Tecla Smalti Piccin “della Pietà” di Venezia, da figlia rifiutata a madre di eroi, caduti nella Grande Guerra. Migrazioni e pubblica carità nel Veneto di metà Ottocento. Tecla Smalti col marito Antonio Piccin Iniziando dalla fine, Tecla Smalti “dea Pietà” muore ottantenne a Borgo Piccin (Nove di Vittorio Veneto) il 20 gennaio 1939, dieci esatti mesi prima del marito ottantatreenne…
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Livorno, "Inspired by Mascagni" in Fortezza Vecchia
Livorno, "Inspired by Mascagni" in Fortezza Vecchia Mercoledì 24 agosto ore 21 in Fortezza Vecchia "Inspired by Mascagni", improvvisazioni e trasformazioni dalle arie del grande operista con lo straordinario duo di Lorenzo Simoni al saxofono e Danilo Tarso al pianoforte. Le opere del compositore Livornese incontrano il mondo dell’improvvisazione, i temi più celebri di Mascagni vengono esposti nella loro naturale bellezza e poi rielaborati in maniera estemporanea, un processo di composizione inaspettato, che avviene sul momento. Info e biglietteria per i concerti Gli spettacoli si svolgeranno nel rispetto delle vigenti disposizioni Covid-19. I concerti in Fortezza Vecchia si svolgeranno all’aperto, in caso di maltempo si svolgeranno nei locali all’interno della Fortezza. I concerti al Museo di Storia Naturale si svolgeranno in Sala del Mare. Invitiamo a visitare il sito del Livorno Music Festival (VAI AL SITO) per mantenersi informati su programmi e informazioni. Ingresso unico fino ad esaurimento fino ad esaurimento posti; saranno disponibili posti a sedere non numerati. LA PRENOTAZIONE È CONSIGLIATA e si può effettuare tutti i giorni dalle ore 9 alle 17 via e-mail a [email protected] oppure tramite messaggio Whatsapp o SMS al numero 3279344731 scrivendo nome, cognome, recapito telefonico ed e-mail dei partecipanti. In caso di rinuncia dei posti prenotati, si raccomanda di comunicarlo. Costo dei biglietti per i concerti € 10: posto unico non assegnato € 0,50: ridotto artisti e studenti del LMF Ingresso gratuito: under 12 Biglietti con convenzione per gli eventi in Fortezza Vecchia: € 10: concerto ore 21:00 con possibilità di apericena a € 9 al bar della Fortezza € 10: concerto all’Alba ore 6:30 con possibilità di colazione a € 2 al bar della Fortezza I biglietti si possono acquistare il giorno stesso nel luogo dell’evento: dalle ore 19:30 per i concerti in Fortezza Vecchia dalle ore 06.00 per il Concerti all’Alba in Fortezza Vecchia dalle ore 20:15 per i concerti in tutti gli altri luoghi Location concerti Fortezza Vecchia Piazzale dei Marmi, 57126 Livorno Museo di Storia Naturale del Mediterraneo Via Roma 234, 57127 Livorno Bottini dell’Olio Piazza del Luogo Pio 19, 57123 Livorno Chiesa di San Ferdinando “Crocetta” Piazza Anita Garibaldi 1, 57123 Livorno Museo Piaggio di Pontedera Via Rinaldo Piaggio 7, 56025 Pontedera (PI) ... Read the full article
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In questa estate a dir poco tribolata per il nostro calcio, non c’è pace neanche in campo europeo. Alzino infatti la mano quelli che, a dieci giorni dall’esordio delle italiane in Europa, avevano una minima idea su chi dovesse disputare i preliminari.
Il caso Milan ha tenuto sulle spine ben tre società, con la Fiorentina che fino all’ultimo ha sperato di prender parte all’Europa League, vedendo sfumare il sogno proprio al fotofinish, quando il TAS ha riammesso i meneghini alla seconda competizione continentale, annullando – di fatto – gli iniziali due anni di esclusione.
È stato a questo punto che l’Atalanta ha materializzato il proprio futuro prossimo. Un nome e un cognome da tener ben presenti: FK Sarajevo. Una città che in noi occidentali nati alla fine del ‘900 evoca – purtroppo – le prime scene di guerra viste alla tv, con annessa distruzione e povertà. Una città che, invece, ha saputo riprendersi alla grande, tornando ad essere quel grande centro culturale e multietnico che da sempre l’ha contraddistinta.
Per chi vive di pane, pallone e curva, inoltre, Sarajevo non può essere una trasferta come un’altra. C’è tutto il fascino dei Balcani, delle loro tifoserie e della sicura difficoltà che aspetta chiunque valicherà le Alpi per raggiungere la capitale bosniaca.
Per gli atalantini l’Europa League continua a voler dire doppia trasferta. Quella bellezza vetusta e aspra che il Comunale saprebbe offrire, anche quest’anno resterà infatti celata dalla burocrazia Made in Uefa. La Brumana non è a norma e i nerazzurri dovranno ancora usufruire dello stadio Città del Tricolore, in quel di Reggio Emilia. Circa 400km tra andata e ritorno. Tutt’altro che agevole insomma. E se da un punto di vista emotivo, la voglia d’Europa è tanta su fronte orobico, dall’altro non può essere mai e poi mai accettabile dover traslocare – seppur temporaneamente – da casa propria per quelle che sono le gare più attese della stagione.
Tuttavia i supporter lombardi, manco a dirlo, rispondono presenti. I tagliandi venduti superano la soglia dei 7.000, un ottimo numero se si considera la distanza, il periodo vacanziero e soprattutto la tardività con cui è arrivata la decisione del TAS sulla posizione del Milan. Volendo fare una battuta gratuita: ha fatto più spettatori l’Atalanta in cinque partite di Europa League che il Sassuolo in tutte le gare di Serie A disputate sinora.
È una battuta che di gratuito non ha poi molto, a voler essere sinceri. Entrando al baretto di fianco ai botteghino non posso far a meno di osservare tutti i vessilli della Reggiana esposti. Un alone granata che in questo momento storico trasmette tanta tristezza e riporta bruscamente alla realtà dei fatti. Ai fallimenti, alle rovinose cadute di marchi blasonati e alle lacrime amare di migliaia di tifosi. Si può tranquillamente dire che il Giglio, il Città del Tricolore o il Mapei (chiamatelo come meglio credete) è il perfetto proscenio del calcio dei nostri tempi.
Per tornare sui consoni binari della sfida odierna, è necessario spostare l’attenzione sulla tifoseria ospite. Ho già avuto modo – qualche anno fa – di trovarmi di fronte alla Horde Zla (letteralmente Orda del Male), il gruppo organizzato che segue le gare del Sarajevo. Una bella realtà, che nel finale della scorsa stagione aveva dato vita a un fermo boicottaggio delle gare dei Bordo-Bijeli (bordeaux-bianchi) per alcuni dissidi con la dirigenza, accusata di corruzione. Uno scenario non atipico per chi conosce un minimo l’universo balcanico.
Il Sarajevo è inoltre il club più importante di Bosnia e vanta, nel suo palmares, due titoli vinti nel vecchio campionato jugoslavo. Un fatto non da sottovalutare se si pensa che i sarajevesi dovevano fronteggiare compagini del calibro di Dinamo Zagabria, Hajduk Spalato, Stella Rossa e Partizan Belgrado.
I tagliandi staccati in Bosnia sono 305. Una cifra di tutto rispetto, che fotografa alla perfezione i numeri dell’Horde Zla. Che del resto non discostano molto da quelli di tutte le altre squadre balcaniche, fatta eccezione per i quattro grandi sodalizi sopracitati.
Si tratta chiaramente di una delle partite più importanti della loro storia. Poter seguire il Sarajevo in Italia, in quel Paese così vicino ma per anni così lontano, laddove gli ultras sono nati e il calcio rappresenta un mantra vitale, dev’essere un orgoglio e un’adrenalina impareggiabile.
Un’eccitazione che li mostra subito battaglieri. Uno dei primi cori effettuati dopo l’ingresso nella Tribuna Nord è infatti proprio contro i bergamaschi. Gli ospiti mostrano di conoscere bene l’italiano da stadio e ne fanno sfoggio ripetute volte. Non so se la presenza dei gemellati di Dresda e la conoscenza del gemellaggio tra Bergamo e Francoforte abbia influito in questa scelta, di certo quello che si evince è la sfrenata voglia di andare a “pizzicare” uno dei mostri sacri del movimento ultras europeo e confrontarsi finalmente anche al di fuori di un campionato che – diciamocela tutta – offre tanta monotonia: poche squadre vantano un seguito organizzato e cospicuo e le stesse vengono affrontate più volte durante lo stesso campionato.
E gli atalantini? Chiaramente non la prendono bene, finendo per rispondere con la stessa “musica” nella ripresa.
È vero che la stessa gara giocata a Bergamo avrebbe avuto un fascino maggiore, ma è altrettanto vero che la “battaglia” del tifo merita comunque di essere evidenziata. Il settore nerazzurro sfodera un’ottima performance, che cala soltanto nella seconda parte della ripresa, quando agli ospiti riesce l’incredibile impresa di rimontare i due gol di svantaggio. I lombardi mostrano subito di esserci e come sempre ho apprezzato il loro modo di organizzare il tifo, con due lanciacori disposti nei punti nevralgici del settore e diversi ragazzi in balaustra a spronare i presenti.
Buono anche l’apporto della pirotecnica, che in più di un’occasione sarà stigmatizzata dallo speaker, ricevendo fischia da ambo i lati.
Quello che la Uefa vorrebbe uccidere è invece presentissimo a Reggio Emilia. Sì, perché non ci sono le tifoserie imbrillantinate della Champions League e non c’è nessun Messi da fotografare con gli smartphone. Se la rudezza bergamasca è celebre in Italia, non si può certo ignorare quella degli ospiti, che manco a dirlo rispondono appieno a tutti i canoni delle tifoserie d’oltre Adriatico: compattezza, manate perfette, diverse sciarpate, voce alta e parecchie torce usate “selvaggiamente” per festeggiare i gol.
In campo, come detto, finisce 2-2. Ci sarà da sudare per gli orobici al ritorno, quando l’Asim Ferhatović Hase si farà trovare pronto e ribollente. Ora a Sarajevo credono nell’impresa e sanno che davvero possono fare la differenza. Gli ultras dell’Atalanta hanno acquistato circa 400 biglietti, e già questo è sufficiente per dar lustro alla propria fama.
Senza scomodare la famosa trasferta di Zagabria nel 1990, la sfida che andrà in scena domani può comunque entrare di diritto nell’albo d’oro delle trasferte nerazzurre. In ogni caso una certezza c’è già: le partite più belle delle competizioni europee sono quelle disputate in estate. Senza alcun dubbio.
Simone Meloni
Atalanta-FK Sarajevo, Europa League: e se la Dea si trova contro l’Orda del Male? In questa estate a dir poco tribolata per il nostro calcio, non c'è pace neanche in campo europeo.
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Käthe Kollwitz. Arte e politica
https://www.unadonnalgiorno.it/larte-a-servizio-degli-ultimi/
Non ho difficoltà a ammettere che la mia arte si pone degli obiettivi. Io voglio agire nella mia epoca. La mia formazione d’artista ha coinciso con la nascita del socialismo.
Certo, a quel tempo non svolgevo un’attività militante vera e propria, ma di sicuro capivo che l‘idea della bellezza per me era il proletariato, nelle sue tipiche espressioni di lotta e di sofferenza, che mi spronavano a dipingere.
Più tardi, quando ho conosciuto gli operai più da vicino, al primo sentimento che avevo provato per loro s’aggiunse quello di dover mettere la mia arte al loro servizio.
Käthe Kollwitz, pittrice, scultrice, stampatrice, litografa e xilografa espressionista, impegnata soprattutto nella rappresentazione degli ultimi e le ultime.
Socialista e pacifista, seppe dare espressione e dignità alle persone vittime di povertà, fame e guerra.
Nata a Königsberg, nella vecchia Prussia, l’8 luglio 1867, con il cognome Schmidts, i suoi primi disegni, risalgono a quando aveva 16 anni, ritraeva operai, marinai e contadini che vedeva nell’ufficio di suo padre. Studiò in una scuola femminile d’arte a Berlino e poi a Monaco. Nel 1891 sposò Karl Kollwitzs, da cui ebbe due figli.
Tra i suoi lavori più apprezzati c’è un ciclo di litografie (Povertà, Morte, Cospirazione) e dipinti (Marcia dei tessitori, Rivolta, La fine) esposti pubblicamente nel 1896.
Un’altra serie di litografie, create tra il 1902 e il 1908, raffigura la guerra dei contadini tedeschi. In quegli anni ebbe modo di frequentare l’Académie Julian di Parigi, dove imparò a scolpire e, una delle litografie del ciclo, dal titolo Scoppio, vinse il premio Villa Romana che le garantì per un anno, il 1907, la permanenza in uno studio di Firenze.
Nel 1914, durante la prima guerra mondiale perse il figlio Peter sul campo, avvenimento che le causò una lunga depressione. Successivamente progettò per lui e i suoi compagni morti un memoriale scultoreo, I genitori addolorati, distrutto e poi rifatto, venne terminato solo nel 1932.
Nel 1917, al suo cinquantesimo compleanno, la galleria di Paul Cassirer espose 150 suoi dipinti.
Nel 1924, Käthe Kollwitz, disegnò il manifesto dal titolo Mai più guerra! che esprime la sua protesta contro il militarismo.
Attiva nel partito socialista, fece parte del movimento artistico Secessione di Berlino.
Con l’ascesa del nazismo, nel 1933, a causa delle sue manifeste idee politiche, venne costretta a dimettersi dall’Accademia delle Arti e le fu vietata qualunque attività artistica.
Riuscì a sfuggire alla deportazione in un campo di concentramento, restando a Berlino, fino a quando fu sfollata dai bombardamenti, nel 1943.
Non si fece scoraggiare dalla dittatura e rimase fedele ai suoi ideali progressisti. Malgrado malattia, età e persecuzioni, continuò a lavorare e a portare avanti i propri ideali nelle sue opere.
È morta a Moritzburg, vicino Dresda, il 22 aprile 1945.
In Germania viene ricordata in tanti modi, le sono state dedicate strade, piazze, monumenti, un francobollo e un museo.
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Anna Maria cerca suo fratello ❣️❣️❣️
Anna Maria cerca suo fratello ❣️❣️❣️
Anna Maria Ginny (cognome fittizio) mi ha scritto,
sono nata a Napoli il 26/08/1956, cerco mio fratello Paolo Farfalla (cognome fittizio) nato pure lui il 16/08/1956, tutti e due il 30/08/1956 fummo lasciati nella sacra ruota degli Esposti, successivamente portati alla Real Casa Santa dell’Annunziata.
Ho saputo che nostra madre biologica all’epoca aveva 19 anni, nata nel 1937.
Vi chiedo…
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Il viaggio di un fotografo americano in Valle Grana
Quando nel 1963 il fotografo americano Clemens Kalischer, nel corso del suo viaggio in Piemonte, immortalò in bianco e nero paesaggi, edifici e persone della Valle Grana (in provincia di Cuneo), quest’ultima – così come quelle confinanti – stava attraversando da qualche anno una stagione di lento e inesorabile spopolamento da parte della porzione più giovane e attiva dei suoi abitanti, indotta a lasciare quei luoghi alla ricerca di un’occupazione in pianura più stabile e possibilmente meno esposta alle enormi fatiche e incertezze che avevano fino a quel momento caratterizzato la vita di chi in montagna ci era nato e aveva vissuto.
Da quel viaggio e da quell’esperienza vissuti ormai più di cinquant’anni fa, Kalischer trasse un reportage corposo e molto significativo sia dal punto di vista strettamente documentaristico (in primo luogo sul piano sociale e su quello storico), sia dal punto di vista della qualità estetica degli scatti, per mezzo dei quali panorami, edifici e volti di giovani e anziani dei luoghi visitati venivano così fissati per sempre sulla pellicola riuscendo a sottrarsi – almeno in parte – alla patina di oblio che si sarebbe depositata sulla storia e sulle tradizioni di molte località alpine nel corso dei decenni successivi.
Una parte di quelle immagini venne raccolta e pubblicata molti anni dopo, nel 1996, in un piccolo volume realizzato dal Museo Nazionale della Montagna di Torino. La montagna dell’esodo (questo il suo titolo) costituisce ancora oggi un elemento di preziosa testimonianza visiva di un’epoca ormai lontana di quell’area delle Alpi, al punto che sfogliandone le pagine diventa difficile non domandarsi che cosa sia rimasto di quei luoghi, di quei panorami ampi e di quelle borgate, o che cosa la vita abbia riservato a quelle persone il cui sguardo venne catturato dall’obbiettivo di un fotografo americano incuriosito e fortemente affascinato da questo angolo di Piemonte.
Finalità del contest fotografico e modalità di partecipazione
Proprio per tentare di dare risposta alle domande legate al che cosa sia rimasto immutato e al che cosa sia invece cambiato per sempre rispetto agli anni sessanta del Novecento nei luoghi della Valle Grana oggetto del reportage, si è deciso di organizzare un contest fotografico il cui obiettivo vuole essere, appunto, quello di dar vita a una raccolta di immagini contemporanee che – attraverso il personale punto di vista degli autori selezionati – sia in grado di illustrare l’attuale situazione della valle a mezzo secolo di distanza dal lavoro portato a termine da Kalischer.
Possono inviare la propria candidatura per la partecipazione al contest i fotografi maggiorenni nati in Italia (o qui attualmente residenti) che non abbiano ancora compiuto, alla scadenza del termine di presentazione della domanda, il 35° anno di età. Saranno privilegiati i candidati con al loro attivo una certa esperienza fotografica, comprovata dalla realizzazione di progetti (editi o inediti) riferibili agli ambiti della fotografia di paesaggio, della fotografia di architettura e della fotografia di ambito sociale.
Tutte le candidature devono pervenire agli organizzatori entro e non oltre domenica 7 maggio 2017 (eventuali proroghe della scadenza verranno comunicate attraverso il sito web e i social network). Non verranno in alcun modo accettate le candidature pervenute oltre il termine di scadenza indicato.
I fotografi interessati a presentare la propria candidatura – e in possesso dei requisiti anagrafici sopra enunciati – dovranno inviare all’indirizzo di posta elettronica [email protected] i seguenti materiali:
- un documento in formato word che riporti il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, la residenza, la nazionalità, il recapito telefonico, l’indirizzo mail, l’eventuale link al proprio sito web. Inoltre, un breve curriculum vitae (max 1500 battute spazi inclusi) che illustri la propria attività fotografica (mostre, pubblicazioni, partecipazione a workshop ecc.);
- la scansione di un documento di identità;
- una selezione di 10-15 immagini che facciano parte di un corpus di lavoro caratterizzato da una coerenza e un’organicità ben riconoscibili, e riferibile nel suo sviluppo ad almeno uno dei tre ambiti fotografici sopra menzionati. Le immagini dovranno essere in formato jpg (300 dpi, 1200 pixel sul lato lungo), e dovranno essere nominate in modo sequenziale come nell’esempio che segue: Antonio_Rossi_1, Antonio_Rossi_2 ecc. (il suddetto corpus non deve essere necessariamente relativo alla Valle Grana);
- un documento in formato word che riporti un testo esplicativo di accompagnamento della selezione di immagini proposta per la candidatura (max 2000 battute spazi inclusi) e l’anno della sua realizzazione.
Considerato il peso dei file, si consiglia di utilizzare la piattaforma wetransfer (https://wetransfer.com) per inviare il materiale suddetto all’indirizzo di posta elettronica indicato.
Selezione delle candidature
Le candidature pervenute agli organizzatori saranno esaminate da una giuria composta dai membri ideatori del progetto (un operatore culturale, un membro dell’associazione capofila del progetto, un fotografo professionista, un regista e un editore). La selezione, i cui risultati saranno comunicati via posta elettronica entro mercoledì 25 maggio 2017 (eventuali ritardi nell’uscita degli stessi saranno resi noti sul sito e sui canali social), porterà all’individuazione finale di 5 fotografi che prenderanno parte al contest. La selezione sarà fatta a insindacabile giudizio della giuria.
Svolgimento del contest e risultati attesi
Lo scopo principale del contest è chiedere ai 5 fotografi selezionati di realizzare un reportage fotografico in Valle Grana: traendo ispirazione dalle pagine del volume La montagna dell’esodo, ai 5 autori sarà infatti domandato di ripercorrere – secondo il proprio stile e la propria sensibilità – almeno una parte del viaggio compiuto da Kalischer in questa valle del cuneese. Ogni fotografo potrà così liberamente scegliere quale località (e/o i suoi abitanti) della Valle Grana porre al centro della propria ricerca.
Come si è detto, il fine è quello di dare vita a cinque progetti fotografici che siano in grado di restituire l’attualità di alcuni dei luoghi, degli abitati e delle comunità umane che ancora oggi li animano e che vennero immortalati dal reporter statunitense negli anni sessanta del Novecento.
Il significato ultimo del contest è in definitiva provare a far emergere attraverso il mezzo fotografico non solo le inevitabili mutazioni occorse nel paesaggio (naturale, abitativo o umano che sia) della Valle Grana rispetto ad allora, ma anche ciò che, per molteplici ragioni, può essere rimasto intatto nonostante lo scorrere del tempo.
Dal punto di vista operativo, resta inteso che tutte le spese di trasporto, di vitto e di alloggio – così come quelle riferibili all’acquisto di attrezzature e all’eventuale sviluppo e stampa dei negativi o dei file digitali – sostenute durante la realizzazione del reportage sono totalmente a carico dei fotografi selezionati, che avranno la possibilità di portare a termine il proprio progetto nell’arco di tempo compreso tra l’avvenuta comunicazione della selezione e giovedì 31 agosto 2017. Nel rispetto di tali limiti temporali, ogni autore è in ogni caso libero di decidere quanto tempo trascorrere in valle al fine di realizzare il reportage nel modo che ritiene più idoneo.
Ciascun autore può utilizzare il tipo di attrezzatura fotografica che giudica più adatto allo scopo prefissato: tuttavia, qualora decidesse di scattare le immagini in pellicola, sarà sua cura far pervenire alla giuria i singoli scatti digitalizzati.
Ogni reportage dovrà essere composto da 30 immagini, accompagnate da un breve testo descrittivo del lavoro svolto (max 1500 battute spazi inclusi). Le immagini, in formato TIFF, devono essere della massima risoluzione possibile consentita dallo strumento utilizzato e nominate, anche in questo caso, in maniera sequenziale (si veda l’esempio riportato sopra).
Una volta realizzati, i singoli reportage (in possesso delle specifiche tecniche sopra indicate) dovranno quindi essere inviati per mail alla giuria giudicatrice – all’indirizzo [email protected] – entro e non oltre domenica 10 settembre 2017 (eventuali, minime proroghe di consegna dovranno essere discusse e concordate con gli organizzatori). A causa del peso dei file, la spedizione dovrà essere fatta servendosi tassativamente della piattaforma wetransfer.
Utilizzo del materiale fotografico prodotto
Una volta pervenuti alla giuria, i 5 reportage verranno esaminati. Entro una data ancora da definire, e che verrà comunicata in seguito, sarà annunciato il reportage vincitore del contest (anche in questo caso la scelta è a insindacabile giudizio della giuria).
Tutte le immagini che fanno parte del reportage dichiarato vincitore saranno pubblicate in un apposito volume fotografico, che conterrà anche una selezione degli scatti che compongono i restanti 4 reportage pervenuti alla giuria. Il catalogo, stampato e distribuito a spese degli organizzatori, darà quindi la possibilità ai 5 fotografi di far conoscere il proprio lavoro a un pubblico ampio grazie alla distribuzione del volume stesso, che ospiterà al suo interno anche uno o più testi introduttivi.
Inoltre, alcuni scatti del reportage vincitore saranno stampati ed esposti in occasione di una mostra di immagini realizzate da Kalischer nel 1963, che verrà organizzata sul territorio cuneese in un luogo e in una data ancora da stabilire.
Infine, tutte le immagini che compongono i 5 reportage costituiranno un’importante banca dati fotografica relativa alla Valle Grana, diventando così una preziosa testimonianza – fruibile da studiosi e appassionati – utile per conoscere in modo articolato e approfondito un territorio montano ricco di storia e di tradizioni.
La valle ritrovata è anche il titolo di un documentario realizzato nel 2015 dalla regista cuneese Erica Liffredo. Il contest fotografico e il più ampio progetto di cui fa parte prendono le mosse da quel documentario, grazie al quale la storia di Clemens Kalischer e del suo viaggio fotografico nelle vallate cuneesi ha potuto così tornare alla luce ed essere raccontata | guarda il trailer
Per restare informato sugli sviluppi del contest fotografico segui anche la nostra pagina Facebook
Tutte le foto © Clemens Kalischer
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Le vergini violate (di Marco Travaglio)
I politici non dovrebbero mai parlare dei giornalisti, perché nelle democrazie sono i giornalisti che parlano dei politici. Quindi, come abbiamo scritto fin da quando Beppe Grillo scacciava i giornalisti da sotto il suo palco nel 2013, i 5Stelle sbagliano di grosso a scatenare campagne contro stampa e tv. Quanto all’esposto di Luigi Di Maio all’Ordine dei Giornalisti contro alcuni cronisti accusati di scrivere il falso, non abbiamo nulla da aggiungere a quanto scrive a pag. 5 Antonio Padellaro, salvo una cosa: è bizzarro che un esponente dei 5Stelle si rivolga a un Ordine professionale che il suo movimento chiede dal 2008 di abolire. Il che non vuol dire che le migliaia di articoli di questi mesi sulla giunta Raggi e dintorni siano purissima acqua di fonte: alcuni svelavano verità che il M5S non voleva vedere, altri anticipavano o riferivano indagini giudiziarie, ma parecchi inventavano notizie diffamatorie. Per queste ultime, più che gli esposti a un ente inutile come l’Ordine, ogni cittadino –politici compresi – ha due armi di difesa più che legittime: la querela per diffamazione e la causa civile per danni.
Quando un politico molto noto, con un largo seguito popolare, poco importa se di maggioranza o di opposizione, addita al pubblico ludibrio un giornalista con nome e cognome, mette a repentaglio la sua sicurezza: salvo rare eccezioni, i cronisti non hanno scorte né tutele. Se qualche testa calda li incontra e li riconosce, le cose possono finire male. Nel 2008 ebbi un durissimo contenzioso con un collega, Giuseppe D’Avanzo, che su Repubblica aveva riportato voci false e calunniose su un imprenditore arrestato per mafia (mai visto né sentito in vita mia) che avrebbe pagato le mie vacanze in Sicilia del 2001 e del 2002. Per fortuna riuscii a rintracciare gli assegni e i tabulati del bancomat con cui avevo pagato le mie ferie di 6 e 7 anni prima: li pubblicai e riuscii quasi subito a difendere la mia reputazione, anche se poi per anni, appena parlavo di legalità in tv, c’era sempre qualche figuro che riprendeva la calunnia, come se non fosse stata smentita. Nel dicembre 2009, quando B. fu ferito da un folle con una statuetta, Alessandro Sallusti su Rai1 e il forzista Fabrizio Cicchitto alla Camera mi additarono come “mandante morale” dell’attentato e l’ex piduista mi diede pure del “terrorista mediatico”. Roberto Saviano mi chiamò per dirmi che dovevo chiedere la scorta: lo ringraziai, ma preferii evitare. Giuseppe D’Avanzo mi difese su Repubblica: lo ringraziai via email, pur ribadendogli il mio sconcerto per l’attacco a freddo che ancora mi bruciava.
Mi rispose così: “Caro Marco, spero che un giorno, senza pregiudizi, riusciremo anche a discutere di quel che oggi ti appare ingiusto e incomprensibile. L’urgenza oggi è un’altra: porti al riparo dalle rappresaglie cui qualche irresponsabile o tuo lucidissimo nemico vuole esporti. Guardati le spalle, sii imprevedibile e, se senti intorno a te un’aria peggiore di quella di oggi, mandami un segnale: a volte anche un pezzullo può essere utile. Peppe”. Per fortuna la cosa non ebbe seguito (nemmeno i berlusconiani più fanatici prendevano sul serio Sallusti e Cicchitto) e la cosa finì lì. Fu persino una mezza fortuna, perché mi aveva dato l’occasione di far pace con un collega che stimavo e che purtroppo sarebbe morto all’improvviso pochi mesi dopo.
Ora però, a proposito dei rapporti sempre più incandescenti fra giornalisti e politici, sarebbe utile evitare le ipocrisie da vergini violate. Quando i direttori del Corriere e di Repubblica accusano i 5Stelle di minacciare la libertà d’informazione (o quel che ne resta) con “liste di proscrizione” e “attacchi feroci a chi critica”, fanno il loro mestiere: difendono i rispettivi cronisti. Ma i politici di destra e del Pd folgorati da improvviso amore per la stampa “scomoda” non ci facciano ridere. Alle ultime due Leopolde non un politico di opposizione, ma il presidente del Consiglio Renzi mise alla gogna alcuni titoli di giornali (soprattutto del Fatto) e il sottoscritto, e nessuno disse nulla. Aggredì per mesi Giannini e Floris, rei di invitare anche i 5Stelle (rei a loro volta di fare discrete figure), poi li affidò alle cure dei suoi dobermann, infine riuscì a far cacciare Giannini e chiudere Ballarò dal vertice Rai da lui nominato. E tutti zitti.Le sue Alessie, Rotta & Morani, attaccarono la direttrice del Tg3 Bianca Berlinguer, colpevole di non aver celebrato a dovere la finta inaugurazione della Salerno-Reggio, e subito dopo il Tg3 cambiò direttore. E nessuno fiatò, come sulla renzizzazione delle tre reti e dei tre tg Rai, mai vista nemmeno ai tempi della più feroce berlusconizzazione.
Il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore mi ha trascinato davanti all’Ordine per aver osato criticare la sua proposta di addolcire il 41-bis ai mafiosi. E, ancora una volta, bocche cucite. Se poi gli italiani sanno tutto delle nomine della Raggi e nulla della più grande tangente della storia (quella da 1 miliardo dell’Eni in Nigeria) e del più grande appalto truccato d’Europa (quello da 2,7 miliardi assegnato ad Alfredo Romeo da Consip, i cui vertici dicono di essere stati avvisati su indagini e microspie da Lotti e Del Sette), la nostra luminosa categoria dovrebbe porsi qualche domanda. Secondo voi oggi avrà più spazio sui media l’interrogatorio di Salvatore Romeo, ex-segretario della Raggi indagato per la sua nomina già revocata, o le perquisizioni ad Alfredo Romeo, indagato per corruzione sul più grande appalto d’Europa e amico del Giglio Magico? “La guerra – diceva Clemenceau – è cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali”. Anche la libertà d’informazione è cosa troppo seria per lasciarla in mano ai politici. E pure ai giornalisti.
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Questa domenica il nostro autore ci racconta di un delitto che fu all’origine della Cappella della Pietatella
di Lucio Sandon
Ne reminiscaris Domine delicta nostra
In quella che al tempo dei greci era l’antica agorà napoletana, verso la metà del 1500 Giovan Francesco Paolo de Sangro, primo principe di Sansevero, diede all’architetto Giovanni Merliano da Nola l’incarico di costruire un palazzo signorile: il principe voleva sfruttare un vasto giardino di sua proprietà in piazza San Domenico Maggiore e, come fondazione volle riutilizzare quanto rimaneva del tempio di Iside di memoria ellenica. Macerie che deturpavano la piazza più antica di Napoli. Poiché poi lo spazio non mancava, a fianco della costruzione principale, venne eretto un altro edificio, detto Palazzo Piccolo, con lo scopo di darlo in affitto a persone di un certo rango.
Al termine dei lavori della lussuosa costruzione, nella parte residua del giardino era rimasto ancora dello spazio, e per utilizzarlo venne edificata una semplice una cappella votiva, che fu consacrata dal figlio Alessandro, vescovo di Benevento.
Mentre i Sansevero abitavano nella costruzione principale, nella seconda dimora venne presto ad abitare una giovane coppia famosa per la bellezza della sposa, la principessa Maria dell’illustre famiglia d’Avalos, proveniente dalla Castiglia e trasferita a Napoli al seguito di re Alfonso I d’Aragona, e per la fama dello sposo, Carlo Gesualdo principe di Venosa, il più importante compositore di canzoni e madrigali del suo tempo, amico intimo del poeta Torquato Tasso.
Diciamo, due piccoli Fedez e Chiara Ferragni ante litteram.
La vita dei due nobili coniugi era serena, anche se Maria a volte non trovava gradevole il marito anche perché egli pensava solo alla sua musica, che lei invece non apprezzava per nulla. Gesualdo era piuttosto brutto, basso e perennemente accigliato e aveva modi rudi, ma in ogni caso ben presto gli sposi misero al mondo un bel bimbo, il principino Emanuele.
Un amore improvviso fu invece quello che durante un ballo, colse la bella Maria quando conobbe il giovane Fabrizio Carafa duca d’Andria e conte di Ruvo, considerato il cavaliere più bello di tutta Napoli. Quasi subito tra i due nacque una forte attrazione: tra incontri fortuiti e passeggiate romantiche, l’amore sbocciò sempre più potentemente.
Purtroppo però anche Don Giulio Gesualdo, zio di Carlo, si era da tempo invaghito di Maria, ma a nulla erano servite le sue lusinghe e i regali: il cuore della bella Maria apparteneva solo a Fabrizio. Don Giulio però, venne a sapere della tresca tra la giovane e il conte, e per gelosia ne informò subdolamente suo nipote Carlo, il quale iniziò ad indagare.
I due amanti erano però molto astuti e accorti, e il principe di Gesualdo non riusciva a raccogliere nessuna prova. Carlo decise allora di organizzare una trappola: il 16 ottobre del 1590, organizzò una finta battuta di caccia al bosco degli Astroni, e annunciò alla moglie che non sarebbe tornato a casa a dormire. Quella sera, la cameriera di donna Maria si accomodò su una seggiola fuori dell’appartamento dove i fedifraghi si erano incontrati. La sua signora le aveva raccomandato di non addormentarsi, ma la fatica colse la giovane servetta, che cadde in un sonno profondo, interrotto poco dopo da un improvviso frastuono.
Donna Maria invece non dormiva di certo tra le braccia del duca Fabrizio, quando la povera serva si ritrovò innanzi alcuni uomini armati, che si introdussero nella stanza della contessa, seguiti dal principe di Gesualdo.
«Avvicinandosi a Donna Maria D’Avalos che era rimasta fino ad allora sulla sponda del letto, la spinse con la punta della spada fino all’angolo dove si trovava il baule nuziale e tenendola lì inchiodata le disse: “Puttana!” Poiché si vergognava di trovarsi nuda, ella cercò di tirare a sé la coperta che pendeva dal letto. Il Principe glielo impedì con un colpo che le ferì il fianco. Lei allora si coprì con le braccia e attese, e poiché non la uccideva, la Principessa ebbe paura. Per allontanare da sé il terrore, cercò nella sua memoria il motivo di un canto che aveva spesso cantato da bambina e prese a sibilarlo tra i denti. Il Principe, furioso nel vedere che lei lo sfidava, la colpì al ventre gridando: «Ah, sporca puttana!» Lei smise di cantare e disse: «Signore, sono due anni che non mi confesso». A tali parole, il Principe di Venosa pensò che se lei fosse morta dannata, sarebbe tornata di notte a trascinarlo all’inferno con lei, poi le attraversò il corpo con la lama della spada e la colpì più volte al ventre e al petto.»
Così Anatole France descrisse la scena dell’omicidio, anche se è da dubitare che ne sapesse più di molti altri. Quel che è certo è che i due amanti vennero straziati da colpi di spada e archibugio, ed esposti nudi appesi al balcone dell’appartamento, in modo da rendere pubblica l’offesa subita dal principe.
Il sangue dei due giovani scorreva via dai loro corpi, e le cronache dell’epoca dissero che veniva leccato dai cani randagi. A segnare ancor di più l’orrore di quella notte, sembra che il cadavere della bella Maria sia stato violato da un sacrestano gobbo, nella chiesa dove le salme erano state trasportate dopo il delitto.
L’omicidio non venne mai punito: a parte la potente parentela del principe, le circostanze lo giustificavano dal punto di vista della legge e del costume del tempo, tanto che il viceré Miranda, dal quale Carlo si recò personalmente a dare notizia dell’accaduto, lo esortò ad allontanarsi da Napoli non per sfuggire alla legge, ma per non esasperare il risentimento delle famiglie degli uccisi.
Carlo fuggì da Napoli e si rifugiò nell’inaccessibile e inespugnabile fortezza di Gesualdo, facendo disboscare ettari di bosco tutto intorno al castello, onde evitare agguati, e dopo qualche anno fece uccidere anche il figlioletto Emanuele, forse impressionato dalla sua bellezza che gli ricordava quella di Fabrizio Carafa.
Il processo per omicidio a Carlo Gesualdo venne archiviato il giorno dopo la sua apertura: «Per ordine del Viceré, stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo Principe di Venosa ad ammazzare sua moglie e il duca d’Andria.»
Oltre che dal Vicerè di Spagna, Gesualdo era protetto anche dalla parentela: suo zio era il cardinale di Milano Carlo Borromeo, che diventò santo poco dopo la sua morte.
Anche il povero Fabrizio però, aveva dei parenti importanti. Sua madre, Adriana Carafa Della Spina era la moglie di Giovan Francesco di Sangro principe di Sansevero. Donna Adriana si recò a supplicare Orsola Benincasa, la suora eremita che viveva non lontano da lì, che le assicurò l’indulgenza divina per l’anima di suo figlio.
Così la nobildonna fece trasformare la cappella votiva del suo palazzo in una vera chiesa, dedicata alla pietà materna: la Pietatella.
Sopra l’altare maggiore della Cappella Sansevero, vi è un sole raggiante, sul quale vi è la scritta Mater Pietatis.
Il 22 settembre del 1771, nella stessa dimora maledetta morì, probabilmente avvelenato dalle sostanze che usava per i suoi esperimenti, il principe mago e sapiente, don Raimondo di Sangro principe di Sansevero.
Maria D’Avalos è sepolta nella basilica di San Domenico Maggiore, ma il suo fantasma viene sentito vagare urlante e insanguinato lungo i vicoli della Napoli più antica alla ricerca del suo bambino e forse del suo giovane amante.
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Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio.
Notevole è il suo penultimo romanzo, “La Macchina Anatomica”, Graus Editore, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario veterinario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal suo ultimo romanzo “Cuore di ragno”, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019.
Sempre nel 2019, il racconto “Nome e Cognome: Ponzio Pilato” ha meritatola Segnalazione Speciale della Giuria nella sezione Racconti storici al Premio Letterario Nazionale Città di Ascoli Piceno, mentre il racconto “Cuore di ragno” ha ricevuto la Menzione di Merito nella sezione Racconto breve al Premio Letterario Internazionale Voci – Città di Roma. Inoltre, il racconto “Interrogazione di Storia” è risultato vincitore per la Sezione Narrativa/Autori al Premio Letizia Isaia 2109. Nel 2020 il libro “Cuore di Ragno” è stato premiato come Miglior romanzo storico al prestigioso XI Concorso Letterario Grottammare
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Un delitto quasi perfetto Questa domenica il nostro autore ci racconta di un delitto che fu all’origine della Cappella della Pietatella
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Massimo Gramellini? Un jukebox di aforismi buoni per tutti, sufficientemente superficiali. Sull’opera (chiamiamola così) dell’epigono di Paolo Coelho
«Si sa che a Roma il sole fa il suo mestiere tutto l’anno, senza ridursi a un biscotto giallo immerso in un cielo di caffelatte» (Massimo Gramellini).
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Massimo Gramellini resta uno dei casi più emblematici – qualcuno direbbe “da manuale” – di attività giornalistica iniziata nello sport, proseguita nella cronaca politica e nella corrispondenza di guerra per il quotidiano La Stampa, poi nella rubrica di posta Cuori allo Specchio del suo supplemento settimanale di cui era direttore, per approdare a quello che sarebbe divenuto l’appuntamento principe del quotidiano torinese, il celebre Buongiorno, corsivo in prima pagina di circa ventotto righe a commento moralistico di un fatto della giornata precedente.
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Sorvoliamo sugli incarichi direttivi assunti nell’ambito del quotidiano torinese, se non per ricordare che fecero da trampolino per la sua regolare partecipazione al noto programma della Rai Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio, dove in mezzo ai vari pretesti di segno culturale si influenzava in modo palese e interessato la politica commerciale delle librerie di catena, indicando quali prodotti editoriali andavano sovra-approvvigionati e sovra-esposti per indurre i lettori all’acquisto, e – di conseguenza – quali titoli andavano resi ai magazzini per farli uscire dal mercato.
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Benché nel 2017 sia passato alla concorrenza milanese con una rubrica chiamata Il Caffè, una derivazione sbiadita in cui l’autore non fa che peggiorare le sue performance, il Massimo Gramellini memorabile resta quello dei Buongiorno su La Stampa, un’epopea elzeviristica durata diciotto anni e rimasta impressa in quell’ampia platea di lettori che è abituata a giudicare i fatti con gli strumenti semplici del metro, della squadra e del compasso. I Buongiorno di Massimo Gramellini, infatti, sono svolti in una forma canonica rigorosa: un riquadro rettangolare in taglio basso contenente un testo diviso in due colonne, composto di due paragrafi che si proporzionano in lunghezze diverse, ma possono anche essere uguali. Più spesso, il primo paragrafo supera il secondo nella proporzione di tre quarti/un quarto. Talvolta, il secondo paragrafo si riduce a due o tre righe, e in qualche raro caso sparisce in favore di un testo indiviso. Naturalmente, il rigore formale dei Buongiorno si estende anche alla resa concettuale dei contenuti, che s’impronta a una generalizzazione semplificante delle situazioni raccontate, le quali vengono prima riconfigurate, poi “rimontate” e rappresentate in una chiave moralistica ben orientata, con parole e punteggiatura studiate e calibrate, al fine di spacciarne un’interpretazione autentica. Un’operazione in cui conoscere i reali dettagli di sostanza – che sarebbe il compito etico del giornalista – diventa del tutto superfluo, perché il suo unico scopo è ottenere un effetto seducente sul lettore.
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«Non è più il tempo degli esecutori, questo, ma dei creatori. Alla vita pubblica, forse anche a tante vite private, servirebbe un gesto di rottura, un cambio di abitudini, una mossa del cavallo in grado di restituire significato alla parola futuro».
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Come si vede, uno dei punti di forza del moralismo gramelliniano è l’uso di parole d’ordine. Se lo confrontiamo con quello del famoso omologo Michele Serra, che da tempo immemorabile dispensa giudizi nella rubrica L’amaca sul quotidiano La Repubblica, vediamo una differenza sostanziale fra i due tipi di esercizi. Quello di Michele Serra riproduce l’attitudine passiva di chi osserva – appunto – da un’amaca, che è strumento atto a riposarsi e a dormire, e giudica la situazione osservata senza impegnarsi, senza offrire esempi di rettitudine morale o formule salvifiche, ma limitandosi a valutazioni deprecative su ciò che non funziona o è contrario ai princìpi dell’essere equi, sobri, etici e politicamente corretti. Un atteggiamento tipico della “medietà di sinistra”, che usa spesso il distacco e l’ironia dolente di chi si ritiene in posizione più elevata rispetto al lettore.
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L’esercizio moralistico di Massimo Gramellini, invece, mostra una furba attitudine attiva, con un insieme di strumenti che vogliono suscitare identificazione e consenso nel comune sentire di chi legge: «Ma a me che, come tanti, comincio ogni giornata con pensieri di rabbia, rassegnazione e inadeguatezza, la sua storia continuerà a insegnare che con l’amore si può fare tutto e che tutto, nella vita, va fatto con amore». Ecco servito il moralismo su misura, che attrae il lettore grazie a un esercizio mimetico semplice ma sofisticato, svolto in due fasi: a) deprecare, o elogiare, le situazioni e le persone soggette a giudizio, attraverso un’ironia non sprezzante o distante, ma che al contrario suscita empatia; b) esprimere fiducia nella capacità dell’uomo di realizzare il bene, attraverso formule salvifiche rassicuranti, codificate e collaudate in anni di pratica.
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«Ma quanto coraggio ci vuole per fare il bene? Tantissimo, e non essere soli a farlo aiuta. Tantissimo». Ecco le parole d’ordine che vincono, con lo scandire della punteggiatura. Ciò che ne risulta è un abile moralismo di tipo onnicomprensivo, seducente, che parla in modo ecumenico alla diffusa medietà del sentire. Una medietà che viene rigorosamente calibrata e riprodotta senza sbavature. Un susseguirsi di formule semplici ma suggestive, comprensibili a tutti, che possono essere accolte dai lettori di diversa cultura e orientamento. Che vengano espressi sulla stampa o nel salotto televisivo, gli esercizi gramelliniani hanno la tipicità della buona predica edificante che sostiene cause e argomentazioni nobili e scontate, come un sacerdote pronuncia l’omelia.
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«Un insopportabile eccesso di moralismo sabaudo mi induce a deprecare che una rappresentante delle istituzioni abbia appena sfilato in costume da bagno sulle passerelle milanesi dell’alta moda».
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Posto che la famiglia dell’autore è romagnola (da cui il tipico cognome) e col sabaudismo ha poco da spartire, sappiamo che nel Buongiorno l’aderenza all’oggettività dei fatti non ha alcuna importanza, perché quel che conta è l’efficacia delle tecniche argomentative improntate alla “doppia azione”: deprecare severamente, da un lato, ma esprimere fiducia nell’inclinazione al bene e all’onestà, dall’altro; usare citazioni colte, ma annacquarle in un registro che sappia essere accattivante e popolare; postulare che il mondo è bello, ma a dispetto delle inevitabili brutture che possono martoriarlo. Naturalmente, accanto alla doppia azione restano fermi alcuni orientamenti univoci che permeano lo spettro argomentativo: ad esempio, il decantare l’amore come unico antidoto all’emergere del male, come unica medicina contro le avversità della vita, e l’idea che la sfera femminile sia solo portatrice di bellezza. Temi esemplari che possono definirsi portanti, come veicolo di un’amplissima base di gradimento da parte dei lettori.
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«Eros non visita l’amato, ma l’amante. È l’amante a essere posseduto dall’energia che trasforma le larve in uomini e gli uomini in dei. È l’amante che desidera, soffre, sublima. In una parola: ama. Ah, se avessi letto il Simposio con più attenzione al ginnasio. Ma forse non lo avrei capito. Ora invece so. So che la felicità non consiste nell’essere amati. Consiste nell’amare. Senza condizioni, nemmeno quella di essere ricambiati. Buon san Valentino».
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Qui lo schema operativo diventa paradigma. Al punto che, rivelatosi vincente nel giornalismo-opinionismo, viene riproposto da Gramellini in chiave narrativa nel suo primo romanzo, L’ultima riga delle favole (Longanesi 2010). Il protagonista è un uomo che crede poco in se stesso e subisce la vita, più che viverla. Un giorno, dopo un’aggressione sul molo, rischia di annegare e si risveglia in un’altra realtà, alle “Terme dell’anima”, dove inizia un percorso iniziatico-simbolico che lo condurrà a vincere le sue paure, a guardarsi dentro, a scoprire il proprio talento e a trovare l’amore, prima dentro sé e poi verso quella che si rivelerà la sua anima gemella. Una storia talmente canonica da risultare un’imitazione del famoso romanzo L’alchimista di Paulo Coelho (pubblicato in Italia nel 1995 da Bompiani), di cui Gramellini ha voluto ricalcare le orme, con l’intenzione di ripercorrere in chiave adulta il ruolo delle fiabe e offrire al lettore il modo di riflettere sull’essenza del vivere, di capirsi, di scindersi, analizzarsi e riunirsi.
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«Aveva imparato da qualche parte che quando un sogno ti resta incollato addosso per molto tempo significa che non è più un’illusione, ma un segnale che ti sta indicando la tua missione».
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Una prova narrativa che miscela idee e situazioni che possono adattarsi a tutti, analogamente alla tecnica dei famosi Buongiorno, quindi in grado di catturare molti tipi di lettore. Un romanzo che vorrebbe situarsi tra la filosofia e la spiritualità, pieno di aforismi incastonati ad arte nel tessuto narrativo, ma che fallisce nettamente nel tentativo di farsi “romanzo di formazione”, per scadere in una costruzione imitativa di luoghi comuni e buoni sentimenti, raccolti dalle fonti più disparate.
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«Le disse che l’amore muore per strangolamento, ogni volta che Io soffoca Noi. Le disse che l’amore muore di stenti, ogni volta che Io dirotta tutto il nutrimento su di sé e si dimentica di Noi. Le disse che l’amore muore di noia, ogni volta che Io si concentra soltanto sulle emozioni e non coltiva progetti per Noi».
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Ecco il moralismo ispirato e buonista, semplice e diretto, ricopiato da vecchie suggestioni di stampo new age, espresso da personaggi senza personalità che sembrano proferire oracoli. «La persona giusta è un premio, non un regalo. Quando le forze dell’universo sembrano cospirare contro di noi, non lo fanno per dissuaderci dall’obiettivo, ma per renderci consapevoli della sua importanza». Un Paulo Coelho in fotocopia, pieno di passaggi prevedibili e largamente sperimentati da oltre un ventennio.
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Naturalmente il ferro andava battuto, così la casuale conversazione di Gramellini in un ufficio editoriale ha dato lo sprone al romanzo successivo pubblicato da Longanesi, Fai bei sogni (2012), che andava prodotto senza esitazioni. Dunque, ecco il piccolo Massimo – ovvio alter ego dell’autore – alle prese con un’infanzia infelice perché privata della mamma, morta prematuramente. Per quarant’anni vengono taciute al protagonista le reali circostanze di quella morte, e l’autore le rivela a pagina 186, riportando un articolo giornalistico dell’epoca. Qui c’è poco da dire, se non che l’area di stampa delle pagine è stretta lasciando margini ampi, e la lettura è ovviamente rapida; che la narrazione, facilitata da uno stile fra il giornalistico e il colloquiale, è costellata da una quantità di aforismi sul senso della vita, sull’amore, sulla felicità, sulle illusioni, sulle sconfitte, sulla morte, sulla sofferenza, sulle infatuazioni, sulle canzoni dell’estate, sull’energia vitale, sulla disperazione, sulla fuga, sull’egoismo, sulle rinunce, sui sogni, sulla solitudine, sulle domande, sul viaggio, sulla finzione, sul desiderio, sull’anima.
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«In fondo la mia vita è la storia dei tentativi che ho fatto di tenere i piedi per terra senza smettere di alzare gli occhi al cielo».
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Il tema di partenza è trattato in modo prevedibile e scontato, con l’utilizzo dell’ampia gamma di metafore e riflessioni aforistiche perfezionate nella produzione “buongiornistica” dell’autore. «Mi sono preso una cotta formidabile. Fra fuochi e chitarre, in riva al mare e dentro un sacco a pelo. Perché tutti, una volta nella vita, abbiamo diritto di credere che le canzoni dell’estate siano state scritte apposta per noi». I temi vengono sempre serviti per sedurre, mai per esprimere qualcosa di urgente; l’andamento del racconto si mantiene in superficie, i personaggi restano privi di profondità e il dramma di fondo della storia – quarant’anni di mancanza della madre sublimati nel non conoscere la verità sulla sua morte – viene sveltamente risolto alla fine, in poche pagine. L’immagine della madre defunta rimane sfocata, e il ricordo di lei non prende sostanza.
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«Assunto in un giornale dopo appena un anno di gavetta. E innamorato, finalmente! Mamma, se devo proprio raggiungerti, fa’ che sia ora. Non esisterà mai un momento migliore per morire».
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Superfluo aggiungere che tutto viene restituito alla pagina senza sensibilità e accuratezza, con l’unica urgenza di confezionare un prodotto di grande appeal mediatico e commerciale, grazie al granitico presenzialismo dell’autore sulla stampa e in televisione, dove oggi svolge anche l’attività di conduttore. Per farsene un’idea, e concludere, può essere utile un florilegio di citazioni:
«La felicità non è figlia del mondo, ma del nostro modo di rapportarci a esso. Non dipende dalla ricchezza, dalla salute e neanche dall’affetto di un’altra persona. Dipende solo da noi»
«Ogni ragazzo ha una fuga dentro il cuore e il sistema più sicuro che conosce per scappare da se stesso è invaghirsi di chi non fa per lui»
«Non so se in amore vince chi fugge, ma di sicuro chi perde rimane dov’è: immobile»
«I mostri del cuore si alimentano con l’inazione. Non sono le sconfitte a ingrandirli, ma le rinunce»
«Ancora una volta mi ero illuso che la vita fosse una storia a lieto fine, mentre era soltanto un palloncino gonfiato dai miei sogni e destinato a esplodermi sempre fra le mani»
«Non siamo scimmie evolute ma divinità decadute»
«Non sfuggirà a nessuno che io avanzavo nella giungla dei massimi sistemi agitando dei blandi punti interrogativi, mentre lei impugnava gli esclamativi come daghe»
«Mi guardò in un certo modo. Come ti guarda una donna quando ha deciso di scommettere su di te»
«E la vita? Mi fa paura l’idea di sprecarla. Se la morte è un viaggio, immagino che la vita sia il prezzo del biglietto»
«Pur di non fare i conti con la realtà preferiamo convivere con la finzione, spacciando per autentiche le ricostruzioni taroccate o distorte su cui basiamo la nostra visione del mondo»
«Non difesi il mio sogno, per la semplice ragione che non lo ascoltavo più. I sogni sono radicati nell’anima e la mia era fuori servizio».
Paolo Ferrucci
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