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primepaginequotidiani · 1 month ago
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PRIMA PAGINA Corriere Della Sera di Oggi mercoledì, 27 novembre 2024
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diceriadelluntore · 4 months ago
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Motto di Jones
Gli amici vanno e vengono, i nemici si accumulano
Codicillo di McClaughry al Motto di Jones
Per farvi un nemico, fategli un favore.
Arthur Bloch, La legge di Murphy, 1977
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m2024a · 5 months ago
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«Khelif è un uomo, basta un'ecografia». Ancora accuse, ma il test usato è vecchio di 25 anni Il match, la finale, l’evento più atteso dei Giochi, secondo solo (forse) alla finale dei 100 metri del 4 agosto scorso, è in programma stasera al Philippe Chatrier, il centrale del Roland Garros. Alle 22 e 51 Imane Khelif sfiderà la forte cinese Yan Liu per l’oro olimpico del pugilato della categoria 66 chili. Tutto esaurito nel tempio del tennis, attesa frenetica nelle case e nelle strade di Algeri dove Imane è eroina nazionale. Ad accendere il clima già tesissimo attorno a lei ci ha pensato ieri il medico dell’ex (nel senso di radiata dal Cio per gravi violazioni etiche e finanziarie) International Boxing Federation (Iba), il ginecologo greco Ioannis Filippatos che ha ripetuto per l’ennesima volta la tesi federale: «Imane è un uomo, noi dell’Iba l’abbiamo scoperto tramite dei test genetici chiesti anche dalla federazione italiana. Basterebbe una banale ecografia della zona genitale per capirlo. Facendola gareggiare tra le donne a Parigi, il Cio prende una cantonata e commette un’ingiustizia». Il discorso di Filippatos contiene due gravi mistificazioni, una regolamentare e una etica. Partiamo dalle regole e dalla narrativa sulla scoperta dell’identità sessuale dell’algerina e dell’atleta di Taipei Lin Yu Ting espulse in coppia dai Mondiali 2023 dove stavano per conquistare due medaglie. Nel documento di sette righe che il 24 marzo 2023 l’Iba recapitò a Khalif a Nuova Delhi il provvedimento venne motivato con l’articolo 4.2.1 del Regolamento Tecnico Iba. Una norma dettagliata sull’identità sessuale come quelle di atletica o nuoto? No, un codicillo che sancisce «il potere assoluto dell’Iba di escludere o meno un atleta dalle gare». La federazione mondiale adottò solo mesi dopo alcune vaghe norme sulle a-tlete Dsd, Intersex o Transex, Khelif venne invece espulsa su ordine diretto del presidente federale russo Kremlev controfirmato dal suo vice Chunhavajira, la cui pupilla (sono entrambi tailandesi) Suwannapheng andò in finale al posto dell’algerina. Nel merito, Filippatos poi ha portato il discorso su un argomento delicato, quello delle atlete con differenze dello sviluppo sessuale (Dsd), completamente fuori strada. Sono passati 24 anni da quando il Cio e le federazioni sportive hanno abbandonato o vietato i test genetici sulla determinazione del sesso per motivi etici ma soprattutto perché considerati ininfluenti per valutare i presunti vantaggi in ambito sportivo. In ritardo di un quarto di secolo, i russi della boxe hanno utilizzato un metodo nato (e subito morto) per scoprire le atlete che baravano della Germania dell’Est e dell’ex Unione Sovietica. La determinazione cromosomica del sesso non corrisponde infatti al sesso fenotipico, quello che può provocare un vantaggio sportivo con un’iperproduzione di testosterone. Da anni anche le federazioni con norme restrittive (come World Athletics, comunque condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) prevede una valutazione di parametri complessi che vanno dai dosaggi del testosterone alle analisi sui vantaggi o meno nelle prestazione rispetto ad ogni singola disciplina. Quella della Iba di confronti di Khelif fu un’esecuzione avvenuta senza processo e soprattutto senza una legge che stabilisse cos’era vietato e cosa no.
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turuin · 3 years ago
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siamo agli ultimi morsi, amata mantide:
un pio dessert, ça va sans dire, ti aspetta,
su questa nostra antica e mensa e tana, in questa massiccia ammucchiata di lenzuola
ragnate, marmorizzate dalle macchie organiche: con due pendenti di marasche,
e con un pezzo duro, un boccone da prete e un osso sacro:
ma se però ti perdi già i canini,
saranno guai: (finirai che sarai quale fui io, quando, durante la seduta (in sede
legislativa) delle commissioni congiunte II (Interni) e IV, nel baretto contiguo
lì all’auletta, tutto alle prese con un arancino (supplì di riso con rigaglie,
oblungo), tiravo con le dita, a scatti e a strappi, le tenaci, le inesauribili
gomme elastiche di una mozzarella sfilacciata): mastica adagio, e leccati
le cinque dita (e il pollice):
(testo composto il 10, per prudenza, nel caso che,
da te, non si sa mai, io sia fatto fuori prima del 30, giorno anniversario):
(E. Sanguineti, Codicillo (1982-1984), 1, in Id., Il gatto lupesco. Poesie (1982-2001), Milano, Feltrinelli, 2002, p. 11)
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vadaviaaiciap · 5 years ago
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Vi lascio screenshot del codicillo finale dell'accordo di Malta sui migranti, traetene voi le conseguenze, compresi gli insulti diretti ad un governo di incapaci.
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abr · 5 years ago
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Che cosa ha fatto la sinistra dopo la legnata umbra? Ha ricompattato, almeno per un attimo, le sue anime presunte, riformista, barricadera, “vera”, finta, light o dalle mani callose (che a sinistra non ha più nessuno, ammesso che un suo qualsiasi leader le avesse avute mai) ed è scattata nel ringhio fatidico: elettori stronzi, non ci hanno capiti, ignoranti, involuti, ingrati, ci han voltato le spalle. Esemplare il fondo di Michele Serra su la Repubblica: per forza siamo impopolari, siamo troppo sottili, le nostre idee sono difficili, scomode, solo una volta rieducato il popolaccio diventeremo popolari (…). E così, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, si sono scatenati nella libidine che più li avvampa: il controllo, il regolamento, la regolazione, la verifica questurina, lo stato sopra tutto e che sia stato di polizia. (...) Capolinea di una sfrenata corsa nel ridicolo: controllare con ferocia maniacale per garantire la libertà. Rincarare bibite gassate, sigarette rollate, alimenti per tenere la gente in forma. Ammazzare di tasse chi già non riesce a pagarle per insegnargli a non evadere. Hanno scovato un codicillo agghiacciante nel decreto fiscale: le sanzioni ai commercianti devono essere aumentate perché “l’aumento di pena funge da monito e deterrente ad un comportamento illecito, diffuso in alcune categorie del settore del commercio”. Voilà il caro vecchio pregiudizio contro i bottegai e, in senso lato, gli autonomi, le partite iva, i piccoli imprenditori, chiunque griffato Cgil: tutti ladri, evasori, farabutti da mazzolare a prescindere.
http://www.atlanticoquotidiano.it/quotidiano/elettori-e-lettori-le-voltano-le-spalle-i-totem-vacillano-e-la-sinistra-mostra-la-sua-vera-anima/
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imperium-romanum · 6 years ago
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Pliny the Younger | Mount Vesuvius Eruption, Part One
C. Plinius Tacito suo s.
Petis ut tibi avunculi mei exitum scribam, quo verius tradere posteris possis. Gratias ago; nam video morti eius si celebretur a te immortalem gloriam esse propositam. Quamvis enim pulcherrimarum clade terrarum, ut populi ut urbes memorabili casu, quasi semper victurus occiderit, quamvis ipse plurima opera et mansura condiderit, multum tamen perpetuitati eius scriptorum tuorum aeternitas addet. Equidem beatos puto, quibus deorum munere datum est aut facere scribenda aut scribere legenda, beatissimos vero quibus utrumque. Horum in numero avunculus meus et suis libris et tuis erit. Quo libentius suscipio, deposco etiam quod iniungis.
Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum Kal. Septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. Usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes - incertum procul intuentibus ex quo monte; Vesuvium fuisse postea cognitum est - oriebatur, cuius similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elata in altum quibusdam ramis diffundebatur, credo quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa prout terram cineremve sustulerat. Magnum propiusque noscendum ut eruditissimo viro visum. Iubet liburnicam aptari; mihi si venire una vellem facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse quod scriberem dederat. Egrediebatur domo; accipit codicillos Rectinae Tasci imminenti periculo exterritae - nam villa eius subiacebat, nec ulla nisi navibus fuga -: ut se tanto discrimini eriperet orabat. Vertit ille consilium et quod studioso animo incohaverat obit maximo. Deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo sed multis - erat enim frequens amoenitas orae - laturus auxilium. Properat illuc unde alii fugiunt, rectumque cursum recta gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnes illius mali motus omnes figuras ut deprenderat oculis dictaret enotaretque.
Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior; iam pumices etiam nigrique et ambusti et fracti igne lapides; iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia. Cunctatus paulum an retro flecteret, mox gubernatori ut ita faceret monenti 'Fortes' inquit 'fortuna iuvat: Pomponianum pete.' Stabiis erat diremptus sinu medio - nam sensim circumactis curvatisque litoribus mare infunditur -; ibi quamquam nondum periculo appropinquante, conspicuo tamen et cum cresceret proximo, sarcinas contulerat in naves, certus fugae si contrarius ventus resedisset. Quo tunc avunculus meus secundissimo invectus, complectitur trepidantem consolatur hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in balineum iubet; lotus accubat cenat, aut hilaris aut - quod aeque magnum - similis hilari. Interim e Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur. Ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque villas per solitudinem ardere in remedium formidinis dictitabat. Tum se quieti dedit et quievit verissimo quidem somno; nam meatus animae, qui illi propter amplitudinem corporis gravior et sonantior erat, ab iis qui limini obversabantur audiebatur. Sed area ex qua diaeta adibatur ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo mora, exitus negaretur. Excitatus procedit, seque Pomponiano ceterisque qui pervigilaverant reddit. In commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. Nam crebris vastisque tremoribus tecta nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri videbantur. Sub dio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod tamen periculorum collatio elegit; et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor vicit. Cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id munimentum adversus incidentia fuit. Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque; quam tamen faces multae variaque lumina solvebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod adhuc vastum et adversum permanebat. Ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque. Deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant illum. Innitens servolis duobus assurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo, clausoque stomacho qui illi natura invalidus et angustus et frequenter aestuans erat. Ubi dies redditus - is ab eo quem novissime viderat tertius -, corpus inventum integrum illaesum opertumque ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior.
Interim Miseni ego et mater - sed nihil ad historiam, nec tu aliud quam de exitu eius scire voluisti. Finem ergo faciam. Unum adiciam, omnia me quibus interfueram quaeque statim, cum maxime vera memorantur, audieram, persecutum. Tu potissima excerpes; aliud est enim epistulam aliud historiam, aliud amico aliud omnibus scribere. Vale.
From Pliny to Tacitus.
You ask me to send you an account of my uncle's death, so that you may be able to give posterity an accurate description of it. I am much obliged to you, for I can see that the immortality of his fame is well assured, if you take in hand to write of it. For although he perished in a disaster which devastated some of the fairest regions of the land, and though he is sure of eternal remembrance like the peoples and cities that fell with him in that memorable calamity, though too he had written a large number of works of lasting value, yet the undying fame of which your writings are assured will secure for his a still further lease of life. For my own part, I think that those people are highly favoured by Providence who are capable either of performing deeds worthy of the historian's pen or of writing histories worthy of being read, but that they are peculiarly favoured who can do both. Among the latter I may class my uncle, thanks to his own writings and to yours. So I am all the more ready to fulfil your injunctions, nay, I am even prepared to beg to be allowed to undertake them.
My uncle was stationed at Misenum, where he was in active command of the fleet, with full powers. On the 24th of August, about the seventh hour, my mother drew his attention to the fact that a cloud of unusual size and shape had made its appearance. He had been out in the sun, followed by a cold bath, and after a light meal he was lying down and reading. Yet he called for his sandals, and climbed up to a spot from which he could command a good view of the curious phenomenon. Those who were looking at the cloud from some distance could not make out from which mountain it was rising - it was afterwards discovered to have been Mount Vesuvius - but in likeness and form it more closely resembled a pine-tree than anything else, for what corresponded to the trunk was of great length and height, and then spread out into a number of branches, the reason being, I imagine, that while the vapour was fresh, the cloud was borne upwards, but when the vapour became wasted, it lost its motion, or even became dissipated by its own weight, and spread out laterally. At times it looked white, and at other times dirty and spotted, according to the quantity of earth and cinders that were shot up.
To a man of my uncle's learning, the phenomenon appeared one of great importance, which deserved a closer study. He ordered a Liburnian galley to be got ready, and offered to take me with him, if I desired to accompany him, but I replied that I preferred to go on with my studies, and it so happened that he had assigned me some writing to do. He was just leaving the house when he received a written message from Rectina, the wife of Tascus, who was terrified at the peril threatening her - for her villa lay just beneath the mountain, and there were no means of escape save by shipboard - begging him to save her from her perilous position. So he changed his plans, and carried out with the greatest fortitude the task, which he had started as a scholarly inquiry.
He had the galleys launched and went on board himself, in the hope of succouring, not only Rcctina, but many others, for there were a number of people living along the shore owing to its delightful situation. He hastened, therefore, towards the place whence others were fleeing, and steering a direct course, kept the helm straight for the point of danger, so utterly devoid of fear that every movement of the looming portent and every change in its appearance he described and had noted down by his secretary, as soon as his eyes detected it. Already ashes were beginning to fall upon the ships, hotter and in thicker showers as they approached more nearly, with pumice-stones and black flints, charred and cracked by the heat of the flames, while their way was barred by the sudden shoaling of the sea bottom and the litter of the mountain on the shore. He hesitated for a moment whether to turn back, and then, when the helmsman warned him to do so, he exclaimed, "Fortune favours the bold ; try to reach Pomponianus." The latter was at Stabiae, separated by the whole width of the bay, for the sea there pours in upon a gently rounded and curving shore. Although the danger was not yet close upon him, it was none the less clearly seen, and it travelled quickly as it came nearer, so Pomponianus had got his baggage together on shipboard, and had determined upon flight, and was waiting for the wind which was blowing on shore to fall. My uncle sailed in with the wind fair behind him, and embraced Pomponianus, who was in a state of fright, comforting and cheering him at the same time. Then in order to calm his friend's fears by showing how composed he was himself, he ordered the servants to carry him to the bath, and, after his ablutions, he sat down and had dinner in the best of spirits, or with that assumption of good spirits which is quite as remarkable as the reality.
In the meantime broad sheets of flame, which rose high in the air, were breaking out in a number of places on Mount Vesuvius and lighting up the sky, and the glare and brightness seemed all the more striking owing to the darkness of the night. My uncle, in order to allay the fear of his companions, kept declaring that the country people in their terror had left their fires burning, and that the conflagration they saw arose from the blazing and empty villas. Then he betook himself to rest and enjoyed a very deep sleep, for his breathing, which, owing to his bulk, was rather heavy and loud, was heard by those who were waiting at the door of his chamber. But by this time the courtyard leading to the room he occupied was so full of ashes and pumice-stones mingled together, and covered to such a depth, that if he had delayed any longer in the bedchamber there would have been no means of escape. So my uncle was aroused, and came out and joined Pomponianus and the rest who had been keeping watch. They held a consultation whether they should remain indoors or wander forth in the open; for the buildings were beginning to shake with the repeated and intensely severe shocks of earthquake, and seemed to be rocking to and fro as though they had been torn from their foundations. Outside again there was danger to be apprehended from the pumice-stones, though these were light and nearly burnt through, and thus, after weighing the two perils, the latter course was determined upon. With my uncle it was a choice of reasons which prevailed, with the rest a choice of fears.
They placed pillows on their heads and secured them with cloths, as a precaution against the falling bodies. Elsewhere the day had dawned by this time, but there it was still night, and the darkness was blacker and thicker than any ordinary night. This, however, they relieved as best they could by a number of torches and other kinds of lights. They decided to make their way to the shore, and to see from the nearest point whether the sea would enable them to put out, but it was still running high and contrary. A sheet was spread on the ground, and on this my uncle lay, and twice he called for a draught of cold water, which he drank. Then the flames, and the smell of sulphur which gave warning of them, scattered the others in flight and roused him. Leaning on two slaves, he rose to his feet and immediately fell down again, owing, as I think, to his breathing being obstructed by the thickness of the fumes and congestion of the stomach, that organ being naturally weak and narrow, and subject to inflammation. When daylight returned - two days after the last day he had seen - his body was found untouched, uninjured, and covered, dressed just as he had been in life. The corpse suggested a person asleep rather than a dead man.
Meanwhile my mother and I were at Misenum. But that is of no consequence for the purposes of history, nor indeed did you express a wish to be told of anything except of my uncle's death. So I will say no more, except to add that I have given you a full account both of the incidents which I myself witnessed and of those narrated to me immediately afterwards, when, as a rule, one gets the truest account of what has happened. You will pick out what you think will answer your purpose best, for to write a letter is a different thing from writing a history, and to write to a friend is not like writing to all and sundry.   Farewell.
Pliny, Letters 6.16 (Translated by J Firth, 1900).
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3nding · 6 years ago
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giancarlonicoli · 4 years ago
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10 dic 2020 17:03
LA LEGGE AD SUOCERUM! NEL GOVERNO DEL FLOP (CASHBACK, 600 EURO, IMMUNI, BONUS BICI...) L'UNICA LEGGE CHE HA DAVVERO FUNZIONATO E' LA NORMA AD PERSONAM PER SALVARE CESARE PALADINO! IL PAPA' DI OLIVIA PALADINO LIBERO DALLA CONDANNA PER PECULATO GRAZIE A UN CODICILLO DEL DL RILANCIO, LA PENA DI UN ANNO E DUE MESI (PATTEGGIATA DOPO AVER EVASO 2 MILIONI DI EURO DI TASSA DI SOGGIORNO) E' STATA CANCELLATA. E IL "CORRIERE" CHE HA LA NOTIZIA BOMBA, DOVE LA METTE? IN UN TRAFILETTO. CONTE, TANTO CARO A LILLI GRUBER E A TUTTO IL GRUPPO CAIRO, RINGRAZIA...
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Franco Bechis per "Iltempo.it"
Grazie a una norma del decreto rilancio firmato da Giuseppe Conte è stato sottratto ai magistrati il "suocero" del premier, Cesare Paladino, papà della fidanzata Olivia Paladino. Un vero e proprio colpo di spugna che ha appena cancellato una condanna penale per peculato (ridicolizzando così la famosa spazzacorrotti finita in cenere e trasformata in salvacondotto per i famigli) patteggiata dal suocero di Conte per un anno e due mesi di condanna per non avere versato al comune di Roma di Virginia Raggi in cinque anni quasi 2 milioni di tassa di soggiorno dovuta.
Immaginatevi cosa sarebbe accaduto se al posto di Conte ci fosse stato un Matteo Renzi o un Silvio Berlusconi a fare leggi ad personam per i propri familiari! Titoloni, edizioni straordinarie, M5s sulle barricate, manifestazioni davanti a Montecitorio. Ma questa volta la legge ad familiam l'ha firmata un loro idolo, quindi tutti con la testa sotto la sabbia come degli struzzi. Si voltano dall'altra parte e nascondono la polvere sotto il tappeto. Però abbiamo capito ora perché il premier ha voluto chiamare "rilancio" quel decreto con il colpo di spugna che sbianchettava la fedina penale del papà della sua fidanzata: serviva a rilanciare il suocero di Conte...in società!
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Le storie si raccontano da quando esiste la parola, e priva di storie la razza umana sarebbe perita, come sarebbe perita priva d’acqua» dice un personaggio di questi Ultimi racconti, frase che possiamo leggere come un codicillo testamentario. Tutta l’opera della Blixen presuppone infatti che il narrare storie corrisponda a una nostra esigenza primordiale, a un desiderio che va costantemente nutrito, se non vogliamo che la vita stessa si inaridisca. Ed è un desiderio demoniaco, l’invito a un «gioco spietato e crudele». Quanto alle domande sulle cose ultime, per la Blixen non era opportuno, né adeguato, rispondervi con un qualche concetto o sentenza, ma con una storia. E nessuna vera storia pretenderà mai di essere in sé la risposta, ma rimanderà sempre a un’altra storia: fondamento della vocazione della letteratura a non avere mai fine. Su questo presupposto Karen Blixen concepì un «romanzo» che doveva essere composto di cento racconti intrecciati e sarebbe stato la corona della sua opera. Non giunse a compierlo, ma la prima, mirabile parte di questi Ultimi racconti – pagine in cui la Blixen si è avvicinata come mai prima a pronunciare il segreto della sua arte – contiene sette storie che sarebbero dovute appartenere a quel libro dallo strano titolo: Albondocani, nome di un principe italiano derivato da quello di un sultano delle Mille e una notte, personaggio che sarebbe apparso e scomparso più volte nel corso del libro. Se il grande progetto della Blixen non giunse a compiersi (e avrebbe mai potuto?), tutta la sua opera compiuta va però vista nella sua luce: come un’architettura aerea e sapientemente ponderata, dove alcune parti sono rimaste da costruire, ma altre sono cesellate in ogni dettaglio. Così anche gli altri racconti che compongono questo libro, pubblicato nel 1957, cinque anni prima della morte dell’autrice, si riallacciano alle «storie gotiche» e ai «racconti d’inverno», quali nuovi anelli di un’unica catena, quali nuovi intarsi di una cornice che avrebbe avuto al centro una piccola pezza di lino immacolato, quel silenzio che sta al di là di tutte le storie e tutte le vere storie evocano... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/B0-IT3MHpUI/?igshid=1e9zpwx2y8fad
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hellogiuseppemerolafan · 6 years ago
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Come un codicillo ha bloccato l’affare Fincantieri-Stx Un anno e mezzo fa, quando finalmente l’accordo tra Roma e Parigi era stato concluso e nessuno si sarebbe aspettato nuovi stop, l’operazione era stata definita finalizzata a creare “un campione mondiale nel settore navale, civile e militare, attraverso una partnership paritetica” tra i due versanti delle Alpi.
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big-lio · 8 years ago
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Un regalo prezioso questo post e spero lo apprezziate. Da "Il gatto lupesco" di Edoardo Sanguineti, una splendida lettura di Gianni Caputo della "Ballata delle donne", una interpretazione che conferma la maestria dell'interprete. Questa ballata è stata anche musicata e vi metto anche quella versione con voce e musica di Massimiliano D'Ambrosio, davvero bella! Ed anche una diversa interpretazione fatta da Sergio Carlacchiani
Una raccolta di raccolte comprendenti poesie scritte tra il 1982 e il 2001 tra cui : - BISBIDIS  Codicillo (1982-1984)  Rebus (1984-1987)  Lultima passeggiata, omaggio a Pascoli (1982)  Alfabeto apocalittico (1982) - SENZATITOLO   Glosse (1986-1991) - Novissimum Testamentum (ottobre-novembre 1982)   Ecfrasi (1982-1990)   Mauritshuis (agosto 1986) - Ballate (1982-1989) - Fanerografie (1982-1991)  Omaggio a Catullo (febbraio 1986) - Corollario (1992-1996)   Stravaganze (1992-1996) - Cose (1996 - 2001)   Poesie fuggitive (1996-2001)
Ogni raccolta davvero affascinante, sempre personali e brillanti, dedicategli un poco di attenzione :)
"quando ci penso, che il tempo è passato, le vecchie madri che ci hanno portato, poi le ragazze, che furono amore, e poi le mogli e le figlie e le nuore,[segue]"
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livioacerbo · 6 years ago
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ll codicillo che regala 18mila maxi assegni
ll codicillo che regala 18mila maxi assegni
Roma, 9 luglio 2018 – I sindacalisti più fortunati hanno addirittura una pensione tre volte più alta a parità di contributi versati all'Inps. Per molti altri … by Livio Acerbo #greengroundit
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real-walk-utopia-blog · 6 years ago
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SOGNI
Modena, 22 Giugno 2019
Da Modena a S. Prospero per 18 Km
Viaggiamo spediti in direzione Lombardia su una ciclabile nel mezzo dei campi di grano che manco in un film. Partiamo che la città ancora non si è svegliata, ed è sempre più facile così, oltre che bello. Verso occidente azzurro, passerotti e arcobaleni. A oriente, cielo piombo, avvoltoi e alberi morti. Fulmini e saette. In maniera sempre composta e senza allarmismi, i media strillano da un paio di giorni che sì, l'armageddon è vicino e che il giudizio universale avrà luogo a Modena e provincia. Hanno vinto la gara, pare. Fischiettiamo e giochiamo con Arno facendo nostro il vecchio adagio per il quale se è un problema lo ignori, quello si risolve da sé. E in effetti non abbiamo poi così torto sto giro. Mentre a Modena viene giù una grandine come palline da golf, a nemmeno quindici km la tempesta ci lambisce appena le terga obbligandoci comunque a trovar rifugio in un bar sulla statale. Credo sia ormai evidente ai più che i bar sulle statali debbano rispettare qualche tipo di normativa estetica o di tutela del paesaggio sub urbano. Pure questo è una discoteca residuato degli anni novanta, ricavato da un magazzino agricolo. Trionfo di geometri e arredatori da ingrosso realizzatisi in un bancone nero lucido, nei faretti sparati bianchi e in un po' di neon qua e là, lanciati a caso. La sala slot, a pieno regime. Da manuale. Aria condizionata e tabacco mal fumato. Pure per gli avventori, qualche normativa, codice o codicillo la devono rispettare, almeno per l'outfit. Bermuda e magliette troppo strette per pance nutrite a lager, Code di cavallo da villaggio turistico e infradito riciclate dalle due settimane a Ibiza l'anno prima. Per come si sono messe le cose, cerchiamo rifugio per la notte, va là, che la compagnia pare buona. Il nostro nuovo amico -armamentario suddetto a parte- ha le orecchie a sventola e i denti posti su più fila. Anche se con il sorriso da carcarodonte, è un bravo tipo ed è lui a indirizzarci da Marco, affittacamere amico suo. Poi -chissà come- si accorge di aver scordato il portafoglio a casa. E ci mancherebbe, madame una Moretti per il giovanotto! La barista dall'aria ottusa mi guarda con commiserazione, ma che ne vuol sapere lei. Alex, un altro avventore, ma senza coda di cavallo, ci offre un passaggio. Alla grande. Mentre citofoniamo a Marco studio il territorio e le possibili vie di fuga. Come approntare una difesa quando proveranno a farci a fette nel sonno per rivenderci sul mercato clandestino degli organi. E invece no. Continuo a stupirmi dei miei pregiudizi. Marco è un adorabile signore di ottant'anni da subito cordiale, sorridente e di grande spirito. Arrotonda la pensione affittando camere nella sua grossa casa di due piani. Di moglie non ne parla, forse vedovo, chissà. Al figlio invece non riserva lusinghe. Cinquantenne disoccupato, che gli mangia i pochi risparmi a colpi di tre pacchetti al giorno. Parcheggiato in cortile un furgone da impresa di giardinaggio e ti chiedi davvero come sia possibile che alla sua età ancora si debba rompere la schiena. È paradigmatico di quella provincia italiana iper ricca uscita alla fine dei conti malconcia dall'ubriacatura degli anni ottanta e che ha accusato come ferale l'ultima interminabile crisi. Un passato da artigiano, pellettiere. "Eh, se ne guadagnavano tanti, ma si spendevano di conseguenza" ammette. "Sono stufo" dice "Sono anni che provo a vendere la casa e tutto" con una stanza piena zeppa di materia prima appesa, scampoli immobili, impolverati. Nessuno vuole più pelle e pellicce, e allora ci si arrabatta, "ma mancano sempre mille euro per fare i duemila che servono".
È un uomo vivace e intelligente, si vede. Ci porta in mansarda a visitare l'acetaia. Produce aceto da sempre. "Ma non lo vendi?" chiediamo. "Perchè la spesa non vale l'impresa" Ma lui continua, perchè l'ha sempre fatto e perchè a uno come lui, in realta, a togliergli le sue duemila fatiche quotidiane, lo ammazzi. La vita come lavoro, la realizzazione attraverso la fatica di una provincia che ci ha sempre creduto ciecamente e alla quale lo si è fatto gustare il benessere. Insiste per cenare insieme in cucina, ci offre del bianco. Nel mentre guardiamo la tv. Noi non siamo abituati. La telecamera indugia sulle chiappe nude di sgallettate ventenni e scopro a imbarazzarmi. Ogni volta che il compare semiebete di Bonolis dice una freddura, un po' di cervello ci scivola via dal naso. Alla fine della cena Marco ci regala una boccetta d'aceto e una vecchia reflex che non usa più. Non sappiamo come sdebitarci, ma dice che il più bel regalo è sapere che la useremo."E quando avrai venduto, cosa farai?" gli chiede Ilaria. "Ah, credo andrò a Lanzarote a riposarmi" ma dalla voce si capisce che non ci crede neppure lui. Che alla fine la sua vita è quella ed è lì. Ma i sogni sono leciti e gratis per tutti e soprattutto tengono in vita, quanto la vita stessa.
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pangeanews · 6 years ago
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La storia scandalosa e violenta di Letitia Elizabeth Landon, il Byron in gonna, amata da Elizabeth Barrett Browning e trovata morta in Africa
Daisy Hay, che bel nome femminile, si è impuntata a scrivere su Times Literary Supplement cose ben note, ma da ribadire:
1. La letteratura romanzesca nasce per dare qualcosa in pasto alla noia alle signore inglesi che aspettavano il rientro dei mariti dalle campagne napoleoniche.
2. Questa letteratura era soprattutto di consumo ed era la vera storia di quel periodo, il mito di Byron essendo qualcosa di strano, anomalo, accolto dagli inglesi solo perché strambo.
3. Ci sono delle vittime, in questa vicenda, e sono donne. Il nome più ribadito, lassù in Inghilterra, è Letitia Elizabeth Landon, figlia appunto di un venditore d’armi, John, caduto in disgrazia quando l’Inghilterra faceva guerra col suo mercato liberale, avendo vinto sul campo Napoleone.
Questo il panorama. Aggiungete un volumone biografico sulla Landon dal titolo La vita perduta e la morte scandalosa di Letitia Elizabeth Landon, la celebre Byron femminile e avete tutti gli ingredienti per un soporoso e sentimentale scorcio inglese.
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Cerchiamo di vederci chiaro. Intanto, il cognome Landon. Letitia nasce nel 1802, e il sogno della biografa ossessionata (per sua ammissione) dal sesso è che sia lei la musa ispiratrice di Cime tempestose. Io ho un’altra ipotesi: che sia una parente dello stampatore Charles Landon. A Londra i cognomi erano quelli, e se non erano parenti è comunque particolare eccitante.
Charles Landon compare nelle lettere private di Stendhal all’anno 1816. In quell’anno Stendhal è già uomo maturo ma preferisce giocare a fare l’immaturo in letteratura, si limita ad approntare libri di successo, storie di pittori e musicisti. (Già qui una differenza con UK, dove il Romanticismo miete successi strappando lacrime e bandiere nazionali). In sintesi: la rivista all’epoca più prestigiosa, Edinburgh Review, ospita le bagarre medievali di Scott, tuona contro Byron ma poi tutti si stimano a vicenda.
Sul continente, invece, Metternich tromba e fa politica, lo zar di Russia si copre d’oro e in Francia ci si lecca le ferite. In Spagna e Italia ci si addobba di stracci e si fa crepare d’invidia gli stranieri industriosi che scendono in Penisola per istruirsi.
Scrive insomma Stendhal all’amico Croizet per far stampare la Storia della pittura “proponi a Mr. Landon di fare incidere al tratto i quattro profili dei temperamenti in Lavater. Se hai qualcuno sull’isola, consulta anche i suoi prezzi che sono, mi sembra, un po’ alti” (leggo dal terzo volume edito da Aragno, Il laboratorio di sé).
La citazione non è peregrina, serve a capire che gli inglesi lanciano la letteratura a fini edonistici e, s’intende, per profitto. Ci si rubava i clienti a vicenda, tra riviste. La madre della Landon, abbandonata dal marito che fuggiva dai creditori, cerca di promuovere la figlia che sa scrivere con grazia e brio (“purple writing���) e a Brompton, dove si sono trasferiti perché Londra è troppo cara, hanno un vicino di casa interessante. Qui gioca il Caso: il vicino gestisce un giornale emergente, Literary gazette. L’uomo si chiama William Jerdan, è una cimice e nell’epistolario di Stendhal nemmeno compare, benché il francese tenesse mille nomi in tasca avendo viaggiato per far la guerra e la diplomazia.
Insomma questo Jerdan, già sposato, trova spazio sulla rivista per Letitia, le scova un posto per vivere in un sottotetto (che gli inglesi per pruderie chiamano “attico”) e se la tromba. Detto senza timore di offendere il buonsenso, ma i fatti riportati dall’articolessa di Daisy vogliono dire questo. Ora, questa gazzetta letteraria vendeva bene e si rivolgeva a un pubblico più giovane e meno compassato rispetto al foglio supremo che si stampava a Edimburgo, quello che leggeva e contro il quale inveiva Stendhal (ci torniamo tra un attimo).
Su Literary gazette Letitia sarà la signora suprema per le recensioni, un Burgess ante litteram, e pare che in meno di dieci anni si sia messa in tasca 2,500 sterline. Non male; il punto era la vita privata, che proprio non andava. La gente già allora malignava sul concubinaggio della scrittrice; solo la recente biografia di Miller ha appurato che i tre figli dei quali si sapeva erano di Letitia e del direttore della gazzetta.
Ecco un esempio di poesia che piaceva allora: “Ricordi quella notte autunnale, / stavamo presso il mare / e notammo un piccolo vascello che si scaldava / sulla schiuma della marea?”. I soggetti erano effimeri, piacevolmente romantici secondo la moda che Heine colse nell’aria e seppe propagare con forza tirannica e tedesca in quel giro d’anni.
Di qui la definizione della Miller “che l’ironia della Landon è romantica, più infelice per il vuoto che per sentimenti tragici, eretti solo per essere derisi e smontati” e così dà la stura ai paper neo-conservatori-e-femministi che sbancano nelle egemoni università USA).
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Tra una poesia e l’altra la gazzetta fece bancarotta; i letterati che giocavano facile erano gente danarosa della ruling class, gente come Disraeli alla cui moglie la Landon era legata. Ma non bastava. Quell’insetto di Jerdan manda tutto all’aria, non lancia una rivista nuova, abbandona la moglie e l’amante e si trova un’altra accompagnatrice. Uno pensa che i patemi finiscano qui, che Letitia si accasi. Sì, ma le cose erano più complicate, era il giugno del 1838, la regina Vittoria regnava da un anno e nemmeno lei era sposata, l’Inghilterra era l’impero e i suoi funzionari dovevano tenersi pronti a partire per il cuore di tenebra africano.
Letitia sposò George Maclean che la desiderava da almeno un paio d’anni; una volta che i due si unirono lui riprese il suo incarico in Africa occidentale, a Cape Coast, allora Costa d’oro, oggi Ghana. Lì aveva un castello, servitù (leggi “schiavi”) e una concubina. Destino infame.
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La schiavitù come istituzione era stata abolita solo nel 1833 con editto su carta pregiata ma già nel 1807 la civile Inghilterra aveva proibito il commercio di uomini (mossa di propaganda per reagire al “liberatore” Napoleone). Ora pensate cosa doveva essere il castello di Cape Coast: troppo forti gli interessi dei mercanti locali i quali si attaccavano al codicillo che permetteva loro “commerci legittimi” in loco. L’ipocrisia è sopportabile solo se si riesce a mentire a se stessi: la storia di Letitia Landon si avvia a copiare le stragi di Shakespeare. Anzi, sembra presa dal Rinascimento spagnoleggiante del nostro Meridione, dove una donna come Isabella di Morra veniva rinchiusa in un castello molisano perché amava il nobile sbagliato, leggeva Petrarca e poi il padre la faceva fuori.
Così anche la Landon: fu trovata sgozzata, non si seppe né si saprà mai per quali motivi, se per gelosie del marito (che già conviveva) o, più probabile, perché voleva far luce sulle vicende degli indigeni che lavoravano per loro. Magari voleva capire se l’ex concubina poteva avanzare pretese legali, suggerisce l’articolessa di Daisy.
L’inglese usa la parola “slander”, calunnioso, per definire la situazione di chi convive con l’illecito. Traducetela come preferite. Tenendo conto l’attenuante della nostra giornalista Daisy che si trattava di un periodo di transizione. (E quando mai? Intanto il colpo finale all’istituto della schiavitù lo diedero i Tory, nel 1841, sia lode ai conservatori inglesi).
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L’altro insetto nella vita di Letitia Landon, lo schiavista africano, sopravvisse alla moglie e liberò il suo estro con questa epigrafe apposta sul castello per la moglie: “Quel che vedi, viandante, è marmo / vano, purtroppo, un monumento al dolore / eretto dalla sua triste sposa”.
Conclusione salomonica dell’articolessa: “I silenzi e i cassetti ancora chiusi nella storia della Landon sono una necessità delle cose, ma sostennero e resero possibile il mondo che prima la celebrò e poi la gettò via. La nuova biografia della Landon si inserisce saldamente in una tradizione di resoconti ancora germinali sulla vita di donne complesse quali quelli di Claire Tomalin (La donna invisibile), Amanda Foreman (Georgiana) e Lucasta Miller (Il mito di Bronte): a portare testimonianza di quelle vite.”
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La storia non finisce qui, naturalmente, serve il piglio salace dell’italiano, o comunque di chi osservi UK dalla terraferma per capire gli stati d’animo della poetessa infelice, del giornalista da strapazzo, dello schiavista-rigattiere africano.
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Lettera di Stendhal al direttore di Edinburgh Review, Siena 10 aprile 1818:
“Gli inglesi viaggiatori in Italia vedono solo qualche famiglia nobile, non scendono mai nel ceto di mezzo [in italiano nell’originale] o, quando ve li ho visti, ostentavano una freddezza e un’alterigia insolenti. Per fare dei viaggi, tali persone non possono che copiare i libri. Nel 1817, gli inglesi a Roma si incontravano solo tra di loro.  Se andavano a casa del banchiere Torlonia, era solo per far delle scenate sul suo giudaismo. Confesso che, vista la generale esecrazione, al viaggiatore inglese che volesse vedere altro dalle guide e dai banchieri servirebbe una buona dose di socievolezza che sarebbe l’antipode del carattere nazionale. […] La vita si è ritirata dall’Italia con Napoleone. D’altronde la vostra politica la si immagina nera e traditrice, e si ha paura del cupo. Sappiate che egli è così rimpianto a Milano come a Firenze. La sua più orrenda tirannide era meno nociva al popolo dell’attuale inerzia. Voi fremereste se vi parlassi del Piemonte. […] Ho spesso rotto qualche lancia a favore degli inglesi. Tuttavia persisto nel trovare in tutti gli inglesi che ho conosciuto un segreto principio d’infelicità. Da dove deriva ciò? è un gran problema. Forse dalla religione. Del resto, Signore, la vostra rivista è il miglior libro che io conosca, quello che mi dà più piacere da dieci anni a questa parte. Ma, perdio, non abbiate bisogno dei baffi per credere nel coraggio”.
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Ora a voi, giudicate cos’è meno triste, se i versi scritti in viaggio verso l’Africa dalla Landon; oppure la pagina di diario di uno Stendhal incongruamente innamorato di una che non se lo filava.
Anche Stendhal va bene: Stendhal che amava l’Italia e le sue passioni e che quando amava, lo faceva poco virilmente, senza imporsi, quasi lasciandosi baciare.
Bonne chance,
Andrea Bianchi
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Landon: “Ma tu sei affondata sotto l’onda, / il tuo posto è ignoto e luminoso; / sembro risiedere a fianco di una tomba, / e starvi da sola”.
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Stendhal nel suo diario, trentenne, verso il 1817:
“L’estrema familiarità può distruggere la cristallizzazione. Una bella fanciulla di sedici anni si stava innamorando d’un bel giovane della stessa età, il quale ogni sera al tramonto passava sotto le sue finestre. La madre lo invita a passare otto giorni in campagna. Rimedio ardito, ne convengo, ma la fanciulla aveva un’anima romantica, e il bel giovinetto era un po’ terra terra: dopo tre giorni ella lo disprezzava.
Ave Maria (twylight), in Italia, ora della tenerezza, dei piaceri dell’animo e della malinconia: sentimenti aumentati dal suono di quelle belle campane. Ore di quei piaceri che sono legati ai sensi solo dai ricordi.
Il primo amore d’un giovane che esordisce in società, è solitamente un amore ambizioso. Di rado si manifesta per una fanciulla dolce, simpatica, innocente. Come tremare, adorare, sentirsi alla presenza d’una divinità? Un adolescente ha bisogno di amare una creatura le cui qualità la innalzano ai suoi propri occhi. Ma al declinar della vita si torna tristemente ad amare il semplice e l’innocente, non potendo più sperare nel sublime. Tra i due estremi si pone il vero amore, che pensa solo a se stesso.
È difficile scorgere le grandi anime, esse si nascondono: di solito ne traspare soltanto un poco di originalità. Ma di grandi anime ce n’è più che non si creda”.
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purpleavenuecupcake · 6 years ago
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Sindacati Militari e tutela del segreto investigativo
Dalla legna alla consegna, 41 secoli di espedienti per controllare l’azione penale (di Cleto Iafrate - Segretario Generale Sindacato Italiano Militari Guardia di Finanza) Se il potere emergesse nella sua nuda realtà, difficilmente sarebbe tollerato dal popolo. Da sempre quindi la manipolazione e il controllo dell’azione penale è attività che appassiona chi detiene il potere, in quanto strettamente connessa all’immagine e al consenso. Non c’è stato periodo storico nel quale tale attività non sia stata praticata, con diversi espedienti, alcuni rozzi ed altri più sofisticati. E’ indubbio che i regimi totalitari ne garantiscano le migliori condizioni d’esercizio. Ad ogni modo, anche le giovani democrazie si “difendono” bene, nonostante le difficoltà dovute alla presenza dei contrappesi previsti dalle loro Costituzioni. In questa sede analizzeremo tre rimedio esperiti nel corso della storia: il più antico a memoria d’uomo e gli ultimi due, di cui uno fallito e l’altro al momento ancora in atto. La legna, come elemento di condizionamento del verdetto Il progenitore del nostro codice di procedura penale è il “Tractatus de maleficiis”, scritto nel 1286 da Alberto Gandino da Crema, nel quale uno spazio importante era occupato dall’ordalia. Si tratta di un’antichissima pratica utilizzata per dirimere le vertenze giuridiche che creavano imbarazzo al potere e che, pertanto, non potevano, o non si volevano, regolare con mezzi umani. Di “ordalia del dio fiume” si parla addirittura nel Codice sumero di Ur-Nammu (2112 - 2095 a.C.). Ordalia significa "giudizio di dio" ed è una procedura basata sulla premessa che dio aiuta l'innocente. L’accusato veniva sottoposto ad una prova il cui esito, apparentemente incerto, era ritenuto come diretta conseguenza dell’intervento di dio e determinava la sua innocenza o colpevolezza. In Europa una delle più utilizzate era "l’ordalia del fuoco". L’accusato doveva fare un certo numero di passi (solitamente nove) tenendo tra le mani una barra di ferro rovente. L'innocenza era dimostrata dall’assenza di ustioni, ovvero, dalla trascurabilità delle stesse. Il fuoco per arroventare il metallo, determinante per l’esito della prova, però, era preparato sotto il controllo e la supervisione del clero locale che era a stretto contatto con i potenti di Corte. Tante sono state le donne accusate d’infedeltà coniugale o di stregoneria sottoposte alla pratica dell’ordalia. E’ assai probabile che l'ordalia venisse in qualche modo “aggiustata”, agendo sulla quantità di legna, in modo che il verdetto fosse in linea con i desiderata del potente di turno. Pure essendo il processo formalmente regolamentato in tutte le sue fasi, nella sostanza la discrezionalità esercitata nel dosare la legna permetteva di alterare il verdetto. Appare evidente che l’ordalia, più che giudizio di dio, fosse un imbroglio ideato dagli uomini allo scopo di manipolare l’azione penale. Ciò è tanto più vero se solo si considera che i sacerdoti e i potenti di Corte non si sottoponevano al rischi dell'ordalia del fuoco, per loro era prevista “l'ordalia del boccone maledetto”. Il principio, formalmente, è lo stesso – ovverosia, dio aiuta l’innocente - nella sostanza, però, la prova è molto differente. Un pezzo di pane, chiamato appunto "boccone maledetto", era posto sull'altare della chiesa. Si portava l’accusato di fronte all’altare e gli si offriva il “boccone maledetto”; e in caso di colpevolezza il boccone gli si sarebbe dovuto bloccare in gola fino a farlo soffocare. Siamo evidentemente lontani anni luce dalla struttura processuale odierna che richiede tre protagonisti: accusa, difesa e organo giudicante. Il penultimo tentativo posto in atto dal governo e censurato dalla Consulta Il Codice di procedura penale vigente è stato introdotto con DPR 447 del 22 settembre 1988 ed entrato in vigore il 24 ottobre dell’anno successivo. La sua fase di approvazione è stata preceduta da una serie di cautele: il progetto di legge è stato esaminato prima da una Commissione interparlamentare, poi sottoposto alle osservazioni del Consiglio dei ministri e infine all’esame del CSM, dei più alti magistrati, delle associazioni forensi e del mondo universitario In esso il segreto istruttorio si trasforma in segreto investigativo, che permane in tutta la fase delle indagini preliminari. La previsione di compiere in segreto determinati atti d’indagine, nella fase delle indagini preliminari, risponde alla logica di evitarne la compromissione. La violazione del segreto provocherebbe un’alterazione dell’equilibrio dei poteri. Il vocabolo “segreto” deriva dal verbo “seiungo” ossia, “secerno”, “separo”. Rispetto a un dato fatto, il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono sapere. E’ di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto diminuiscano all'aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza. Stante tutte le cautele sopra esposte, mi è sembrato quanto meno incauto, a tacer d’altro, il fatto che nell’agosto del 2016, quando tutti gli italiani erano al mare, il Governo abbia approvato un decreto legislativo che nasconde tra le “Disposizioni transitorie e finali” una deroga al codice di procedura penale. Il codicillo dispone che “i responsabili di ciascun presidio di polizia, trasmettano alla propria scala gerarchica le notizie relative all'inoltro delle informative di reato all'autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale.” Fortunatamente la manovra ordita in agosto dall'Esecutivo è stata subito sventata dal Procuratore della Repubblica di Bari e successivamente dichiarata incostituzionale dalla Consulta, in quanto lesiva delle prerogative di rango costituzionale pertinenti all'Autorità Giudiziaria. Si pensi a tutte quelle indagini che la politica ha interesse a conoscere (corruzione, frode fiscale, appalti, ecc.). Oggi l’obbligo di riferire sulle indagini in corso è rimasto solo per l’Arma dei Carabinieri -lo prevede l’art. 237 del DPR 90/2010. Ritengo che ciò sia dovuto ad una mera svista del legislatore e che prima o poi anche questa “regia disposizione” sarà ritenuta incostituzionale al pari dell’altra. Di seguito uno dei passaggi fondamentali del ricorso del Procuratore di Bari: «(…) Gli organi di polizia giudiziaria, nelle loro diverse articolazioni, integrano strutture gerarchicamente dipendenti dal Governo, ragion per cui essi stessi non sono assistiti dalle garanzie di autonomia e indipendenza che caratterizzano, invece, gli uffici del pubblico ministero».    Un’affermazione così categorica è figlia di una profonda conoscenza dello status militis della polizia giudiziaria ad ordinamento militare: Carabinieri e Guardia di Finanza. La specificità militare, infatti, fa dell’organizzazione militare una specie di micro-Stato annidato in seno allo Stato democratico. A tal proposito, assai significative sono alcune dichiarazioni rese nel corso del precedente mandato  dalla Rappresentanza militare della Guardia di Finanza: «Tra le maglie di una disciplina militare svincolata dal principio di legalità, ben si potrebbero insinuare dei pericolosi comportamenti discriminatori nei confronti dei sottoposti per motivi ideologici o politici. Questo organismo ritiene che i rimedi offerti dal legislatore, solo sulla carta, per contrastare eventuali vessazioni e ordini criminosi, siano inadeguati e scarsamente attuabili. L’inadeguatezza di tali rimedi potrebbe compromettere o quantomeno influenzare il libero articolarsi della dialettica democratica, attraverso cui si stabiliscono i fini dello Stato. E per di più, ci si chiede se, per assurdo, l’ordine promanasse dall’autorità politica di governo, l’ordinamento militare avrebbe gli anticorpi per contrastarne l’esecuzione? Questo organismo ritiene che quegli anticorpi - previsti da norme di rango superiore - siano stati sterilizzati da norme di rango regolamentare, che ne hanno anestetizzati gli effetti. Ciò in quanto con l’attuale panorama normativo di riferimento, l’eventuale cattiva abitudine di impartire ordini illegittimi è difficile da estirpare, proprio perché l’autorità nei cui confronti andrebbe rivolta la censura è, per così dire, parte e controparte. Le conseguenze di tali vulnera costituzionali si ripercuotono negativamente sul principio d’imparzialità e buon andamento di così delicati apparati dello Stato, la cui attività operativa condiziona la distribuzione del reddito - quella della Guardia di Finanza - e il funzionamento della giustizia - quella dei Carabinieri e della G.di F.; quindi, possono avere effetti non solo sui cittadini-militari ma anche e soprattutto su gli altri cittadini, che militari non sono. Ma v’è di più. Si consideri che gli appartenenti alle forze di polizia ad ordinamento militare, oltre ad essere inseriti in una catena rigidamente gerarchizzata che si aggancia all’autorità politica, non sono posti nella condizione effettiva di dire “signornò” ai loro superiori. L’organizzazione attuale dell’ordinamento militare relega il militare in una condizione di tale subordinazione e vulnerabilità da rendere il principio dell’obbedienza leale e consapevole nulla più che un mito». Quali sono le norme anestetizzanti gli anticorpi necessari a contrastare gli ordini che non andrebbero eseguiti? Più che di norme, si tratta di un laccio invisibile che lega i militari alla catena gerarchica, composto da quattro fili strettamente intrecciati tra di loro: sanzioni disciplinati; trasferimenti d’autorità; giudizi annuali caratteristici; note premiali. Ciascun filo è completamente svincolato –è il caso di dire slegato- dal principio di legalità. Il principio di legalità Il principio di legalità costituisce l’argine del potere, cioè stabilisce la subordinazione di qualsiasi potere alla legge, che ne fissa limiti e contenuto. Esso presuppone che a presidio di ogni potere -governativo o amministrativa- vi sia sempre una norma di legge. Il principio, conquistato con il sangue versato durante la rivoluzione francese, trasformò i sudditi in cittadini. E qualora dovesse venir meno, i cittadini tornerebbero a vivere in una condizione di sudditanza! Si consideri che agli inizi del secolo scorso Giuseppe Maggiore, illustre esponente della letteratura giuridica dell’epoca, propose di introdurre anche “la volontà  del duce” nel nostro principio di legalità, ad imitazione di quello hitleriano.   Egli scrisse: “E’ reato ogni fatto espressamente previsto come reato dalla legge penale e represso con una pena da essa stabilita. E’ altresì reato ogni fatto che offende l’autorità dello Stato ed è meritevole di pena secondo la volontà del Duce unico interprete della volontà del popolo italiano”. In questa sede ci si occuperà solo del primo dei quattro fili: le sanzioni disciplinari. Per quanto attiene agli altri tre, si rimanda ad un precedente intervento. La consegna, come strumento di controllo dell’obbedienza della polizia giudiziaria. Segue: Il tentativo di sabotare il processo di sindacalizzazione militare. La consegna -semplice o di rigore- è la più grave sanzione disciplinare di Corpo, le altre sono il richiamo e il rimprovero (art. 1352, comma 1, D. Lgs 66/2010). La legge, nel prevedere la sanzione della consegna semplice, non ha tipizzato gli specifici comportamenti a causa dei quali la sanzione può essere inflitta. Il legislatore, cioè, ha tipizzato le sanzioni, ma ha omesso di tipizzare le violazioni che le stesse censurano. A tal proposito, si è limitato solamente a dire che la consegna punisce le violazioni dei doveri militari e le più gravi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio. Non v’è dubbio che tali locuzioni linguistiche, per la loro indeterminatezza, si prestano alle più disparate elusioni dei fondamentali diritti del militare. La norma che prevede la consegna parrebbe pensata per consentire al titolare del potere disciplinare di punire chiunque, quando vuole e come vuole. Ai fini sanzionatori, infatti, la volontà del Capo costituisce principio di legalità, proprio come ipotizzato dal prof. Giuseppe Maggiore. Allo scopo di palesare l’enorme discrezionalità detenuta dall’autorità militare, per tutti,  faccio due soli esempi: - un militare della Guardia di finanza, quando i regolamenti imponevano un limite d’età per contrarre matrimonio, è stato sanzionato con la consegna “per aver procreato senza autorizzazione dei suoi superiori”; - qualche anno fa un sottufficiale dell’esercito, al quale era stato prescritto di astenersi da attività traumatiche di qualsiasi genere, è stato sanzionato con la consegna “per aver consumato un rapporto sessuale con la propria fidanzata”. Come se tutto ciò non bastasse, si consideri che non v’è un obbligo di “retribuire” con la medesima sanzione le stesse mancanze disciplinari. L’autorità militare esercita un potere discrezionale che può portare a valutazioni che non conducono, necessariamente, alla stessa decisione (sanzione) se ritenuta inopportuna o sconveniente per quella circostanza o per quel manchevole, ciò in quanto la finalità “retributiva” delle sanzioni disciplinari, è solo tendenziale, cioè “un’idea guida per l’autorità titolare della potestà”. In altri termini, secondo le norme regolamentari interne, se due militari compiono entrambi una medesima azione censurabile, l’uno può venir legittimamente sanzionato, l’altro no, restando nell’ambito di liceità delle decisioni assunte.   Si consideri, inoltre, che la consegna viene annotata nella documentazione personale; pertanto ha devastanti effetti sulla carriera del militare ed incide negativamente sull’assegnazione degli incarichi, sui trasferimenti, sull’esito dei concorsi interni, sulla concessione delle ricompense, sull’autorizzazione al NOS (nulla osta di sicurezza). Infine, la recidiva nella consegna è valutata per la comminazione della consegna di rigore e tra le cause di cessazione dal servizio permanente, si annoverano “le gravi e reiterati mancanze disciplinari che siano state oggetto di consegna di rigore. Pertanto la consegna, nonostante sia in contrasto con il principio di legalità, può provocare la risoluzione del rapporto di lavoro, con le immaginabili conseguenze in termini patrimoniali. Ripetendo: prima che fosse affermato il principio di legalità, i cittadini vivevano in una condizione di sudditanza. Infatti, l’obbedienza militare avrebbe dovuto essere “leale e consapevole”, se l’ordinamento si fosse informato allo spirito democratico della Repubblica, in realtà essa è ancora “cieca e assoluta”. Una siffatta obbedienza della polizia giudiziaria, in assenza di contrappesi, lascia aperte le porte a rischiose ingerenze del potere sull’azione penale. Il tentativo di sabotare il processo di sindacalizzazione militare Il contrappeso è stato posto lo scorso anno dalla Corte costituzionale. La notizia è passata in sordina, ma nel 2018 la Corte costituzionale ha finalmente cancellato il divieto di sindacalizzazione dei militari. Abbiamo dunque vissuto per settant’anni in una grave condizione di incostituzionalità di fatto. Circostanza questa che ha pesato anche sull’attuazione dell’art. 109 della Costituzione: come si può disporre direttamente di qualcuno che dipende da un altro per tutto quanto attiene alla sua vita presente e futura? Dopo questa svolta epocale, però, le forze più retrive di questo Paese si sono coalizzate per sterilizzare la storica sentenza n. 120/2018 - e sabotare così la sindacalizzazione delle forze armate. Si sta tentando di fare approvare una normativa che limiti oltremisura i poteri dei sindacati e li ponga in qualche modo al guinzaglio dei vertici militari. Il progetto di legge, il cui iter prosegue spedito verso l’approvazione, al momento prevede, oltre ad una serie di limiti e restrizioni, addirittura che le associazioni sindacali siano assoggettate ad autorizzazione ministeriale preventiva, che può essere ritirata in qualsiasi momento, e che in caso di comportamento antisindacale da parte dell’amministrazione, sia essa stessa ad auto-sanzionarsi. Dietro tutte queste limitazioni c’è l’interesse del potere a mantenere il controllo sull’obbedienza dei militari; non solo del fante o dell’alpino, ma anche del Carabinieri e del Finanziere. In assenza di contrappesi, che solo la presenza un sindacato vero può garantire, la macchina giudiziaria, in astratto, rischia di essere etero-guidata. La Germania da diversi anni ha concesso i diritti sindacali ai suoi militari, perché ha imparato la lezione durante i processi di Norimberga, nel corso dei quali la difesa più ricorrente utilizzata dai collegi difensivi degli accusati era costituita da due sole parole: “ordini superiori”. Infatti, un Presidente di Corte di Cassazione tedesco mai si sognerebbe di scrivere un libro dal titolo: “La Repubblica delle stragi impunite”. Insomma, nel processo di sindacalizzazione dei militari in ballo non ci sono solo i diritti dei militari, come si vuole lasciare intendere. In gioco c’è il disincaglio della Costituzione arenatasi settant’anni fa sul terzo comma dell’art. 52! Conclusioni Alla luce di quanto fin qui esposto, ciò che mi stupisce non è tanto il punto di vista espresso dagli Stati Maggiori e dagli avvocati dello Stato nel corso delle loro audizioni in Commissione difesa, in materia di sindacati militari, in fondo era prevedibile. Mi scandalizza l’assoluto silenzio della stampa. Non so se non capisce, oppure obbedisce! Probabilmente la prima ipotesi. E non sarebbe la prima volta. Anche quando la Corte costituzionale sventò il penultimo tentativo ordito dal governo e descritto nel precedente paragrafo, i più importanti giornali nazionali confusero la norma che estendeva l’obbligo di riferire ai superiori sulle indagini in corso con quella che lo prevedeva. E ancora lo prevede! Infatti, dagli articoli pubblicati, all’indomani della sentenza della Consulta, da Il Fatto Quotidiano, La Verità, il Tempo e Il Sole 24 Ore sembrerebbe che il nostro paese sia rimasto esposto al rischio di compromissione delle indagini solo per poco più di un anno: dall’estate del 2016, quando fu inserito il “codicillo”, fino al 7 novembre 2018 quando la Consulta lo espunse. Il nostro paese è esposto a quel rischio almeno dal 1859 (cfr. nota n.4). Solamente il Giornale, Repubblica e il Corriere della Sera hanno pubblicato correttamente la notizia e spiegato ai loro lettori che “l’art. 237, primo comma, del D.P.R. 90/2010 rimane in piedi perché non è stato formalmente contestato da nessuno, e dunque resta l’obbligo per i soli carabinieri di riferire ai propri superiori”. Ci si chiede, ma è così difficile capire che un’obbedienza da stato di guerra mal si adatta, in tempo di pace, ad un corpo di polizia giudiziaria che dipende “direttamente” da un altro potere dello Stato? Ciò in quanto le patologie che affliggono l’obbedienza gerarchica di “strutture direttamente dipendenti dal governo” possono contagiare le indagini che la politica ha interesse a conoscere e allontanare così la verità processuale da quella storica.   Read the full article
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