#ci sono delle volte in cui mi manca terribilmente
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che brave le farfalle🥹🥹🥹
#ci sono delle volte in cui mi manca terribilmente#🥹🥹🥹#chissá cosa sarebbe potuto succedere se avessi potuto continuare#forse niente ma mi rendeva davvero davvero felice#ora vedo mia nipote che lo fa e quando vado ai suoi saggi il mio cervello vuole andare in pista😅#probabilmente ne uscirei con 50 fratture ma che pace che mi dava#uno dei miei posti felici
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Oggi sono in vena di test😂 (mi annoio)
TEST n. 1 (specificare il numero del TEST) preso da Tumblr.
1. C’è un ragazzo o una ragazza nella tua vita? Ehm no
2. Pensa all’ultima persona che ti ferito. La perdoneresti? Per niente
3. Hai mai fatto l’amore? Yep
4. Cosa vorresti in questo momento? Che qualcuno studiasse al posto mio
5. Hai paura di innamorarti? Dopo l’ultima decisione terribilmente
6. Ti piace il mare? Lo adoro, soprattutto i pontili sul mare!
7. Hai mai dormito con qualcuno? Si
8. Che immagine hai come sfondo del telefono? Il mio gattino che dorme🥰
9. Hai qualche rimorso? Aver forzato delle situazioni da più piccola
10. Ti piace il tuo telefono? Lo adoro
11. Onestamente, le cose stanno andando come avevi previsto? Te lo potrò dire a breve 😂😂
12. Chi è stata l’ultima persona che hai aggiunto nella rubrica? Boh
13. Preferiresti avere un Carlino o un Rottweiler? Carlino
14. Fa più male il dolore fisico o quello causato dalle emozioni? Dolore delle emozioni, ti pervade e non ti lascia più.
15. Preferiresti visitare un museo d’arte o uno zoo? Museo
16. Sei stanco/a? Da morire😂
17. Da quanto tempo conosci la prima persona nella tua rubrica? 3 anni, era la mia vicina di casa al primo anno
18. Com’è il rapporto con i tuoi genitori? Li adoro però spesso non capiscono
19. Hai mai pensato di tornare insieme ad un/a tuo/a ex? Eh si ma non recentemente
20. Quando è stata l’ultima volta che hai parlato con un/a tuo/a ex? L’anno scorso
21. Racconta un tuo ricordo felice. Mi vengono in mente i concerti.. soprattutto l’ultimo di Ligabue a Roma, tutto di nascosto ed improvvisato!
22. Vorresti baciare di nuovo l’ultima persona che hai baciato? Decisamente no
23. Quanti braccialetti indossi ora? 2
24. C’è una citazione che ti ispira? “Corruptissima re publica plurimae leges. —> Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto (Tacito)
25. Che progetti hai per il futuro? Laurea e poi lavoro
26. Hai qualche tatuaggio? Non ancora
27. Qual è il tuo colore preferito? Rosso
28. Quando sarà la prossima volta che bacerai qualcuno? Chi lo sa
29. A chi mandi messaggi? Alle persone a cui voglio bene principalmente
30. Pensa all’ultima persona che hai baciato, ti manca? No
31. Hai mai avuto quella sensazione quando sai che sta per succedere qualcosa di brutto e avevi ragione? SEMPRE. Mi faccio paura da sola ahaha
32. Hai una persona del sesso opposto con cui confidarti? Gianmichele, un grande amico! Il più sincero fino ad ora. (Conosciuto personalmente)
33. Pensi che qualcuno sia innamorato di te? Qualche pazzo lo farebbe?
34. Qualcuno ti ha mai detto che hai dei bellissimi occhi? No ahahah
35. Cosa faresti se l’ultima persona che hai baciato, stesse baciando un’altra persona davanti i tuoi occhi? Inizierei a ridere
36. Eri single quest’anno a San Valentino? L’anno scorso mi ha lasciata quel giorno😂😂😂
37. Sei amico/a dell’ultima persona che hai baciato? NO CRISTODDIO
38. I tuoi amici ti chiamano per confidarsi con te? Le mie amiche si
39. Qualcuno ti ha deluso/fatto del male nell’ultima settimana? Ah si, psicologicamente
40. Hai mai pianto per un messaggio? Se sì, cosa c’era scritto? “Mi piace la mia ex”. Un mix tra pianto, ti ammazzo e vienimelo a dire in faccia se hai il coraggio.
41. Come ti sei fatto/a male l’ultima volta? Ieri con la ceretta 😒
42. Dove abiti? Abruzzo
43. Quando è stata l’ultima volta che hai desiderato di andare via? Oggi, voglio un panino dall’antico vinaio ahaha
44. Chi è stata l’ultima persona che hai chiamato? La mia amica Laura
45. Hai un paio di scarpe preferito? Le creepers, comprate 4 volte ormai ahah
46. Indossi i cappelli in inverno? Sono riccia
47. Ti piace andare in discoteca? Mi fa cagare
48. Dai una mano in casa? Ci sono solo io
49. Hai uno specchio nella tua stanza? Si
50. Elenca i tuoi 3 siti preferiti: non mi vengono in mente ora
51. Ti piace fare shopping? Adoro.
52. Il tuo gusto di gelato preferito? Crema e cioccolato fondente con panna
53. E’ difficile dire addio per te? Sono parecchio melodrammatica
54. Ti sei mai ubriacata/o? Non seriamente, io capisco ma faccio finta di non capire 😉
55. Come sono i tuoi capelli? Ricci
56. Cosa fai di solito la mattina appena ti alzi? Bestemmio
57. Pensi che una relazione possa durare in eterno? Da eterna sognatrice si
58. Pensa al 2007, eri felice? Spensierata e felice perché c’era con me una persona importante che è venuta poi a mancare ☀️
59. Il tuo libro preferito? 1984
60. Quando è stata l’ultima volta che qualcuno ti ha abbracciato forte? Non mi piacciono gli abbracci
61. Desideri essere da qualche altra parte in questo momento? NEL LETTO
62. Ricevi molti messaggi? Su whatsapp dalle mie amiche si🥴
63. Dove sarai fra 5 ore? A studiare spero
64. Cosa facevi alle 8 di stamattina? dormivo
65. Ricordi chi ti piaceva/amavi un’anno fa? Il mio ex
66. C’è una persona nella tua vita che riesce sempre a farti sorridere? Alessia
67. Hai baciato o abbracciato qualcuno oggi? No
68. Qual è il tuo ultimo pensiero la notte? “Domani riuscirò a svegliarmi?”
69. Hai mai fatto tutto il possibile e poi non è bastato? Sempre
70. Quante finestre tieni aperte sul tuo computer? Troppe 😆
71. Ti masturbi? 🤷🏻♀️
72. Qual è la tua suoneria? Good riddance- green day
73. Quanti anni hai? 22, quasi 23
74. Hai un’animale domestico? Si un 🐱
75. Parli ancora con la prima persona di cui eri innamorata/o? Solo per gli auguri e gli eventi della vita
76. Hai tenuto per mano qualcuno negli ultimi 3 giorni? Il mio gatto?🤷🏻♀️
77. Sei ancora amico/a delle persone che consideravi amici due anni fa? Ho cambiato radicalmente molte cose
78. Racconta un tuo ricordo di quando eri piccola — quando mia nonna mi metteva accanto a lei seduta sul tavolo mentre faceva la crema ❤️
79. Conosci qualche persona famosa? No🤷🏻♀️
80. Ti sei mai addormentato/a nelle braccia di qualcuno? Magari🥰
81. Quante persone hai conosciuto negli ultimi tre mesi? Troppe ma poche buone, in amicizia
82. Qualcuno ti ha mai visto in intimo? Yes
83. Parlerai con la persona che ti piace stanotte? Adoro le chiacchierate di notte!
84. Sei ubriaco/a e stai urlando cose orribili ad una persona. Chi è questa persona? Il mio ex😂😂
85. Se il tuo/a ragazzo/a si drogasse, cosa faresti? Cercherei di aiutarlo per far capire che sta sbagliando
86. Il tuo film preferito? Coco🥰
87. Chi è stata l’ultima persona che ti ha chiamato? La nonna!
88. Se qualcuno ti desse 1.000 euro per bruciare una farfalla viva, lo faresti? No, poverina
89. Hai qualche rimpianto? Come ho già risposto, si!
90. Ti sei mai fidato/a troppo di qualcuno? SEMPRE!
91. Dormi con la finestra aperta? No, fa un cazzo di freddo
92. Vai d’accordo con le ragazze? Si ma non con chi penso sia falsa e manipolatrice
93. Hai un segreto? Chi non ne ha
94. Hai mai fatto sesso? Yep
95. Sei chiuso a chiave in una stanza con l’ultima persona che hai baciato. E’ un problema? Cosa potrebbe succedere? La prenderei a schiaffi
96. Hai mai baciato qualcuno con un piercing? No
97. Condividi la tua stanza o dormi da sola/o? Con il gatto ahaha
98. Sei felice? Discretamente
99. Credi nell’amore a prima vista? Yes
100. Mantieni le tue promesse? Sempre!
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Persino la prof. mi ha scritto in privato.
Non so cosa dirle, come spiegarle...
Mica posso sbottarle cose come:
“Mi scusi professoressa, ma sto avendo molti problemi. A volte mi sveglio la mattina con il senso di vomito, sono apatica 16 h su 24. Ho continue crisi perché non riesco a studiare visto che i miei genitori si incazzano per tutto, i miei fratelli litigano o giocano, mia sorella di sfoga su di me perché io sono un idiota e glielo permetto la maggior parte delle volte. Sto ricandendo in cose che ero riuscita a superare, più o meno. Mi sto costringendo a pensare di voler andare da uno psicologo perché non posso continuare a ferire le persone a cui tengo visto che non riescono ad aiutarmi. Non riesco a seguire le lezioni, ho continui pensieri nella mente, pensieri pesanti presi con troppa leggerezza, a volte. Non riesco a parlare con nessuno se non con due persone, ma ho problemi anche con loro a volte. Seriamente, vorrei tornare a seguire le lezioni, amo imparare. L’italiano mi manca, mi mancano le sue spiegazioni di latino anche se non sono molto brava. Mi manca terribilmente la psicologia, ma appena provo a leggere qualcosa provo un senso di rifiuto assurdo e tanto vuoto. Continuo a svuotarmi, stare male, riempirmi, fare cavolate, stare male, svuotarmi. È un ciclo infinito, ed io sto impazzendo. Mi scusi professoressa, io sto cercando di stare al passo, ma semplicemente non ci riesco. E mi sento in colpa, sa? Mi sento in colpa al pensiero che ci sono persone messe peggio di me che invece comunque qualcosa la fanno, mi sento in colpa pensando a quanto si stia impegnando lei, e con lei tutti gli altri professori. Cercherò di migliorare, di sistemare la situazione, adesso sono solo stremata ed a pezzi. Non voglio lei mi compatisca, non voglio avere trattamenti speciali o altro. Non voglio essere privilegiata. Io ce la devo fare... ce la devo fare da sola con i miei sforzi. Devo prendermi la responsabilità di questo mio comportamento. Però, se le ho scritto tutto questo, è perché lei comunque capisse... ma non lo pretendo, professoressa. Buona giornata, e scusi il disturbo.
Glielo scriverei... se solo ne avessi il coraggio...
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Avremmo potuto mirare a qualsiasi cosa, ma quando si è giovani forse è solo un’illusione. Mi manca sentir la pelle, mi manca sentire l’odore delle cose buone, mi manca il tuo sapore. Il tempo, l’ho sempre pensato, è un gran bastardo, ma solo quando si è terribilmente umani. Mi sarebbe piaciuto spogliarmi stasera e liberarmi da questi inutili e variopinti modi di dire. Da queste facce spente. E quando hai la mano sulla mia gamba il mondo fa meno paura, perché a volte mi ricordo di esser fatta di carne ed è pieno di avvoltoi, è pieno di tante cose che fanno pensare che valga di più la pena stare chiusi in casa. Ma poi un tocco leggero, una mano, un sospiro e sento il tuo sangue e il tuo calore, allora penso “è proprio come me”. A quel punto siamo entrambi carne e sangue, disastri e paure. E va bene. Finché siamo vivi va bene. Finché poggi la mano sulla mia gamba e mi ricordi che ci sei, che ci sono, e che siamo identici e autentici. Che lo sono tutti. Ma in quel momento noi lo siamo insieme e diventiamo nudi più di quando ci togliamo i vestiti veri e allora mi basta. E voglio spogliarmi altre infinte volte. E voglio amarti altrettante. Nonostante i mille errori che ancora dobbiamo fare. I mille errori da cui dovremo imparare.
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Tornare a casa
Fa freddo. Di quello che ti entra nelle ossa. Continua a camminare, gli piace, nonostante il clima e i brividi che lo scuotono fino alla punta dei piedi. Si stringe nel cappotto, tirando su il bavero almeno per provare a fermare quel vento gelido dietro la nuca. Manca ancora poco e poi sarà a casa, ad attenderlo un piacevole tepore e il sorriso di chi ha smesso finalmente di nascondersi. Labbra tutte per sé e per nessun altro. Labbra che ha salvato quando la neve era solo un ricordo, strappandolo da dita viola che si facevano via via più nere. Pochi passi ancora e dietro la curva lo attende casa, lo attende lui. È ancora presto per tornare fuori, lo sa, anche se ha provato a piccoli tratti, ogni giorno uno di più, ma il corpo è ancora debole e l’anima ancora a brandelli, come quei puzzle che tieni da così tanto tempo da esserti perso più di un pezzo, e puoi metterci tutta la volontà di cui disponi, ma rimarranno per sempre dei buchi, macchie nere sul tavolo che nessuno mai sarà in grado di chiudere. Lui è un po’ così, il suo grosso puzzle che con pazienza ha cercato di ricostruire, nel fisico e poi più dentro, ed ora lo aspetta a casa. È sicuro di trovarlo davanti al camino a leggere l’ennesimo libro – gli ha promesso di portargli alcuni volumi nascosti nella parte più profonda e vecchia del Ministero, alcuni tomi pesanti più del suo stesso corpo che, a detta sua, gli sono utili per una ricerca che gli frulla per la testa da parecchio come il più agitato dei Boccini –, probabilmente con una tazza di caffè in mano, nero e amaro come solo lui sa essere. La porta è a pochi passi, oltrepassa il piccolo cancello e si ferma per un attimo a guardarsi intorno, il giardino curato – dalle sue mani, ovvio, lui non sarebbe in grado neppure di badare alla più semplice delle piante – e il patio in ordine. La luce filtra dalle finestre e più in alto vede il comignolo fumare come il più incallito dei tabagisti. Sorride, per un attimo pensa al mago che è un po’ il suo segretario, quello che appena può corre da qualche parte ad accendersi una sigaretta, Nathan qualcosa, si dimentica sempre il suo cognome, forse perché all’uomo con cui divide la casa e la vita non è mai piaciuto. Non lo sa il motivo, si sono incontrati appena un paio di volte quando è venuto a portargli a casa alcuni documenti che doveva visionare con urgenza. Uno Stupido Vizio Babbano, lo chiama sempre, anche quando alla televisione vedono qualche programma, lui grugnisce e sputa quell’insulto, e il suo orgoglio tutto Grifondoro lo porta a voltarsi verso di lui, e a ricordargli tutto ciò che i maghi hanno compiuto di malvagio pur potendo far del bene con un solo colpo di bacchetta. Lui risponde sempre con un’alzata di spalle e torna poi al televisore. È sempre così tra di loro, quello strano rapporto costruito sui silenzi e piccoli gesti, emozioni da scoprire dietro agli sguardi, in quegli occhi che per anni si sono soltanto odiati, respinti e nulla più; e continuano ad essere silenzio e piccoli movimenti, strane crepe che non riescono a colmarsi. La maniglia è fredda, la temperatura è scesa così tanto in quelle ore che gli sembra di toccare un pezzo di ghiaccio, un piccolo iceberg tra le dita che gli squassa la pelle e la carne fin dentro all’animo stesso. Si è di nuovo dimenticato i guanti a casa, lo sa e sa che lo sgriderà di nuovo per la sua sbadataggine e per quanto poco si curi di se stesso, ma non lo fa apposta, anche se, inconsciamente, adora quella sua preoccupazione negli occhi, in quei frutti neri che scintillano quando corre arrabbiato verso di lui e gli afferra le mani per scaldargliele. Un gesto che ama, che sa di vita e di tenerezza. Basterebbe un incantesimo, ma non avrebbe lo stesso calore, la stessa dolcezza di dita che s’incastrano in altre dita. Stringe entrambe le mani alla maniglia gelida per renderle ancora più fredde e sorride sfacciatamente per quello stratagemma: quella sera lo cingerà ancora più a lungo e non potrà che esserne felice, tanto da fargli accelerare il cuore. «Sono tornato!» La porta si apre e il caldo lo colpisce in faccia come uno schiaffo, un colpo piacevole. Lo sente lamentarsi, ma sa che in fondo è contento di averlo tra i piedi, come dice lui, anche se è un po’ il contrario visto che la casa è la sua, ma quella correzione se la tiene per sé perché ama averlo tra i piedi. Tra le mani e tra il gelo dei suoi dolori. Avverte i suoi passi farsi più vicini, conta i secondi che lo separano da lui, come sempre quando entra a casa, il tempo che impiega a percorrere quel misero spazio che li divide, quel vuoto tra i loro corpi che vorrebbe non ci fosse mai. «Ti sei di nuovo dimenticato i guanti» alza un sopracciglio mentre lo fissa, spazientito e irritato, nemmeno fosse ancora un ragazzino nella sua aula, ma la risposta che da è solo un’alzata di spalle, come quella che spesso fa l’uomo che gli è davanti con quell’espressione che ama e che vorrebbe vedere ogni giorno, uno dopo l’altro fino alla fine della propria esistenza. «Non cambierai mai, vero?» «Perché dovrei cambiare?» «Perché io ad un certo punto non ci sarò più.» Sempre la stessa storia, le stesse parole che a lui non va di sentire, che non vuole ascoltare neppure per un tempo infinitesimale. Stanno bene insieme, lì, nella loro casa, perché devono lasciarsi? Perché buttare tutto all’aria per delle parole? Parole, vocaboli, sillabe, era tutto lì, il problema stava sempre nelle consonanti, i guai nelle vocali, erano loro a creare nient’altro che casini, perché dargli tutto quel potere? Silenzio e mani gelide da riscaldare, non poteva bastare quello? Non poteva essere sufficiente loro due e nessun altro? «So che non vuoi sentirle queste parole, non sei mai stato uno che ascolta, ma prima o poi dovrai conviverci con queste frasi, e sarà meglio per te che lo faccia prima di essere troppo tardi.» «Perché vuoi lasciarmi? Non stai bene con me?» «Lo sai che non è per questo.» «E allora cosa?» «Perché devo.» Se ne torna in cucina, lasciandolo solo, e per un attimo tutto il gelo che ha lasciato fuori dalla porta, lo colpisce in pieno, avvolgendolo come un abbraccio, come un amante frettoloso che pensa a null’altro che al proprio piacere. E quel gelo, nemmeno le fiamme calde e alte del camino potrebbero sconfiggerlo. La riunione col Primo Ministro Babbano lo aveva stancato più di quanto si sarebbe immaginato. Era un ometto fastidioso e arrogante con due occhietti che si vedevano a malapena, guizzanti in modo febbrile da una parte all’altra come se si aspettasse qualcosa da un momento all’altro, cosa, Harry non lo aveva mai compreso. Essere il Ministro della Magia si era rivelata un’immane seccatura, pile di scartoffie e nulla più, mentre lui voleva andare da una parte all’altra del mondo con la bacchetta in mano, sentire l’azione scorrergli nelle vene e quel senso di appagamento che si ha soltanto quando si compie qualcosa di buono. E voleva andarci con Severus. Sbuffò piuttosto sonoramente, senza provare a nascondere tutto il disagio che stava provando in quel momento. «Ti sto annoiando?» «No, scusa, sono solo stanco, è da questa mattina presto che tengo un incontro dopo l’altro,» mentì, si stava annoiando sul serio, ma non poteva confessarlo alla sua amica perché di sicuro lo avrebbe affatturato nonostante la carica che aveva, anzi, a maggior ragione, rifletté, soprattutto considerando da quanti anni la salvaguardia degli elfi domestici le stava a cuore. Hermione poggiò le pergamene sulla poltrona vuota accanto a lei, avvicinò un po’ la sua per guardarlo e parlargli meglio: «Quant’è che non dormi?» la sua voce tradiva un filo di preoccupazione. Aveva messo da parte per un attimo l’avvocato per essere di nuovo la sua amica di sempre, la compagna di tante avventure. La persona che più di tutti conosceva i suoi dolori e le sue paure. «Un po’, ma sono sempre così sommerso dal lavoro, non c’è un minuto che passa in cui non ricevo gufi, lettere, promemoria, reclami, denunce, avvistamenti, e Godric solo sa quanto vorrei stare in mezzo a qualche foresta a dare la caccia a qualche mago oscuro scampato alla guerra, ai criminali. E invece sono chiuso qui ad ammuffire, sento persino le ossa coprirsi di muffa giorno dopo giorno.» «Prenditi una pausa o esploderai.» Ma lui stava già esplodendo, e voleva soltanto andarsene a casa e stare tutto il giorno e tutta la notte con Severus a tenergli le mani, stringerle nelle sue, a scaldarlo e basta,fare l’amore senza mai stancarsi – come poteva dimenticare l’odore del suo corpo, di quella lieve traccia di sudore che lo copriva dopo l'amplesso, era un promemoria che si portava dietro per riscaldarsi, quando l’umore precipitava a livelli critici –, mentre altrove non faceva altro che sentirsi tutto l’inverno addosso, persino quand’era estate. «E poi perché in questo dannato ufficio si gela?» aggiunse veloce, guardandosi intorno, come se si fosse accorta soltanto in quel momento che non c’era nulla a riscaldare l’ambiente, il camino tristemente – per lei, per l’espressione che aveva in volto – spento mentre fuori la neve continuava a cadere e a formare mulinelli. Estrasse la bacchetta dal mantello che non si era neppure tolta e la puntò verso la pietra vuota che tempo prima aveva accolto legna e cenere, calore e pace, ma era stato tutto spazzato via, pulito come si pulisce un pavimento sporco, e il grido che gli proruppe dalla gola le gelò ulteriormente il sangue. Un no che veniva dallo stomaco e dal cuore. «Prenderai un malanno se non riscaldi un po’ qui dentro.» Voglio tornare a casa gelido, farmi avvolgere da nient’altro che il freddo, perché lui mi aspetta, il suo mantello pronto per le mie spalle, e il suo profumo a cullarmi i sogni. Questo, però, Harry non glielo disse, non poteva, non poteva svelare a nessuno il loro segreto. A nessuno. «Mi aiuta a concentrarmi,» mentì di nuovo. «Col caldo mi viene sonno e non posso permettermi di cedere alla stanchezza.» Era diventato terribilmente bravo a fingere, sarebbe stato fiero di lui se lo avesse visto. Quel pensiero lo fece sorridere, e il desiderio di tornare a casa crebbe ancora. «Torniamo alla tua proposta,» la esortò alla fine, cercando di riportare la conversazione su binari più accettabili, soprattutto dalla propria anima e dal proprio cuore. Hermione finì di spiegargli tutto, anzi, ricominciò da capo perché aveva capito perfettamente che lui non aveva ascoltato neppure una parola, ma non si era fatta scoraggiare, aveva ripreso con ancora con più foga e per un po’ contagiò persino lui. Prese le pergamene e le promise che avrebbe istituito una commissione specifica il cui unico scopo era controllare lo stato di salute di quelle piccole creaturine e il trattamento loro riservato. A quelle parole entrambi si rilassarono un po’. «Come sta Ron? Non ci vediamo da un sacco.» Ron era un Auror, uno di quelli che spesso erano fuori dal Regno Unito, e lui lo invidiava da morire. Si morse un labbro per non lasciar trasparire quel turbamento che improvvisamente lo aveva colto. «Sta bene, mi ha scritto proprio ieri che la missione in Portogallo si è conclusa nel migliore dei modi e presto sarà a casa.» «Bene, mi fa piacere.» «Che ne dici se quando torna, vieni a cena da noi? Tutti e tre, come ai vecchi tempi.» Già, i vecchi tempi… che ne era rimasto? Si era tutto sgretolato come un castello di sabbia costruito male, quelli che lui non aveva mai fatto – se mai avesse avuto un figlio, si ripromise di passare le estati a modellarne uno dopo l’altro, gli sarebbe piaciuto andarci con Severus, costruire una famiglia con lui, ma l’estate era ancora lontana e lo sarebbe stata a lungo. «Certo,» mentì ancora una volta: non aveva alcuna intenzione di andarci, per lui i vecchi tempi non c’erano più, c’era solamente casa, il tepore della sala in cui si accoccolavano a guardare la televisione mentre Severus si lamentava quando gli poggiava la testa sulla spalla come due vecchi sposi, il caldo della camera da letto con le lenzuola che per lui sarebbero potute rimanere perennemente sfatte. Hermione è andata via, sono andati via tutti e lui vuole solo andarsene, sparire da lì prima che si presenti qualcos’altro, un problema dell’ultimo minuto che non ha alcuna intenzione di sbrigare né di dargli la minima attenzione. Stavolta si mette a correre, un piede dopo l’altro anche se il corpo non è più abituato e lo avverte con il fiato corto e il sudore che gli fa appiccicare i capelli alla fronte e alla nuca, e il freddo fa il resto, trasformando quelle piccole gocce calde in cristalli che gli agitano la pelle e la carne più sotto, un brivido a seguirne un altro. Rallenta, casa è ancora lontana, ma gli piace camminare tra le strade affollate che cominciano a riempirsi dei colori e degli odori del Natale. Lui lo aspetta e questo gli basta a cancellare tutto il resto. Non è ancora riuscito a prendergli quei volumi che attende da giorni, se ne duole, ma vuole farlo di persona senza delegare qualcun altro, vuole toccarli e lasciare poi una parte di sé per farla afferrare solo e soltanto da Severus. Guarda la vetrina di un negozio e sorride, è un piccolo gesto, vuole fargli un regalo per ringraziarlo e per farsi perdonare di quella mancanza, soprattutto per quello, lo sa, e lo capirà anche il mago, lo ha sempre capito, gli ha sempre letto dentro, mentre lui per anni non ha voluto conoscere niente dietro quegli occhi neri, quello sguardo scolpito soltanto dal dolore. Gli piacerà, si dice, o almeno lo spera, è sempre imprevedibile e non è uno che ama i regali, questo lo ha capito tempo fa, suo malgrado; non li ama perché non pensa di meritarli, di non meritare niente in questa vita. Domani, costi quel che costi, andrò a prendere quei libri, lo giura a se stesso e poi apre la porta. Quando esce, è soddisfatto, del contenuto, del pacchetto e persino di ciò che ha scritto nel biglietto che gentilmente si è fatto dare. Casa, ora, è più vicina, la vede come sempre spuntare dietro la curva, il comignolo avvolto da nebbia bianca e grigia che a tratti si fa più scura, il prato curato e i fiori che cercano con forza di resistere al gelo che cala ogni notte come la scure di un boia, affilata e lucente. Mani di nuovo gelide abbassano la maniglia prima di entrare e venire ancora una volta colpiti dal calore dell’interno, quel leggero odore di fumo che se ne scappa verso il cielo. «Sono tornato!» Il suo è un po’ un mantra, gli piace pronunciare quelle due parole, non lo sa perché, non se l’è mai chiesto, aspetta soltanto i passi che vengono dopo. È una costante, quella, potrebbe regolarci un orologio, uno due tre, un secondo due e poi tre, e alla fine spunta dal corridoio e lo fissa mentre si toglie il cappotto e lo getta distratto su di una poltrona senza centrarla, facendolo puntualmente finire a terra. Severus lo guarda irritato e si avvicina per raccoglierlo: «Non sono la tua domestica. Impara un po’ di ordine, Harry Potter, perché io, ad un certo punto, non ci sarò più.» Ancora quelle parole a martellargli la testa, a pugnalarlo a ripetizione, una sillaba e la lama s’infila nella spalla, una consonante e giù nel braccio, una pausa e la gamba si squarcia, sfiorando appena l’arteria femorale. Il sangue, però, non fuoriesce, se ne va soltanto la vita. Ah, voler la morte, abbraccio di puttana, a farti soffocare da un corpo un piacere che non c’è, esce e basta, ma sei soltanto un cadavere che aspetta, involucro vuoto fino alla decomposizione. «Perché allora non te ne vai e basta?» sbotta all’improvviso, gettandosi a terra, appesantito da tutto quel dolore, da quella consapevolezza che non fa altro che procurargli sofferenza. «Perché sei tu a non lasciarmi andare.» Sparisce e basta, lasciando tutto in silenzio, anche il fuoco sembra muto e persino i suoi singhiozzi non hanno voce, lacrime e basta che gli confondono pure il legno a terra. Un ghirigoro, una macchia, c’è sempre stato?, si chiede. Anche quello? Lo sguardo convulso su ogni angolo della stanza, a terra, il soffitto, ogni lato, ogni fotografia appesa al muro, a quei quadri che nemmeno gli piacciono, ma glieli hanno regalati e non vuole far rimanere male nessuno. Si alza da terra, cercando di recuperare almeno un po’ della dignità caduta tra le assi, e se ne va per un attimo al bagno, non per reale bisogno, vuole solo guardarsi allo specchio, quel volto che non sa più a chi appartiene, se è il suo o quello di un altro a cui ha rubato il corpo. L’acqua scorre, gli piace il suono quando tocca la ceramica, è gelida, ma in quel momento niente è più freddo del proprio cuore, di quell’anima strappata a morsi che continua a portarsi dietro come un cancro ingombrante e velenoso. La tocca per un attimo e una scarica gli attraversa il corpo, la sfiora anche con l’altra mano mentre il volto è fisso allo specchio, alle occhiaie che lo fanno sembrare quell’animale di cui non ricorda il nome. Si chiama panda, ignorante, sei diventato Ministro per sbaglio? Se lo immagina dietro di sé a dirgli quelle parole, a sorridere, ma lui, quell’incarico, si sente davvero di averlo ottenuto per sbaglio, o meglio, solo per nome, pur non avendone alcuna capacità. «Panda, giusto…» Torna in salone, il fuoco ancora crepita, anzi, è più forte, segno che ha aggiunto legna di recente. Lo trova sul divano, ad aspettarlo, Severus lo guarda piegando appena la testa, con una strana espressione, forse anche lui si è accorto del panda. Sorride e si siede accanto a lui. «Hermione mi ha invitato a cena quando torna Ron. Verresti anche tu?» «Lo sai che non posso venire.» «Perché?» «Non chiederlo.» «Ma…» si alza dal divano e si allontana ancora una volta, forse va in cucina a prendersi dell’altro caffè, magari bollente, vorrebbe chiedergliene un po’ per togliersi quel nuovo gelo sceso sul proprio corpo, ma non ne ha il coraggio, aspetta solo che ritorni di fianco a lui ad occupare quel posto in cui il calore sta svanendo. E lui non vuole che nulla svanisca. È di nuovo lì, due tazze tra le dita, bollenti, un piccolo rivolo di fumo che si muove da una parte all’altra e che gli ricorda sempre l’intro di Aladdin, l’unica parte del cartone che ricorda, l’unica che ha visto prima di essere sbattuto nuovamente nel ripostiglio per aver riprodotto senza volerlo quelle volute. Un arabesco che gli carezzava il palmo della mano. «Vediamo un film?» parla prima che possa dire altro, che possa pronunciare quelle parole che odia con tutto se stesso. Non le vuole sentire e basta, ma sa che alla fine dovrà farci i conti, solo che non è ancora il momento perché lui non è pronto, non è pronto a non vederlo più per casa, il suo ordine maniacale e il profumo che ha ormai invaso le pareti. Severus annuisce e si siede nuovamente accanto a lui e quel vuoto comincia di nuovo a riempirsi e scaldarsi, sorride perché è la sensazione più bella del mondo. Gli passa la tazza di caffè e Appella la cena che aveva preparato. «Cosa vuoi vedere?» Non sa come chiedergli di guardare un cartone Disney, si sente tremendamente in imbarazzo, così lascia che gli entri nella mente come già gli era entrato nel cuore anni prima. Alza perplesso entrambe le sopracciglia, anzi, giurerebbe di vedere sconcerto sul suo volto e a fatica trattiene una risata, freddata sul nascere da quello sguardo sempre più cupo, poi, però, scorge i suoi muscoli rilassarsi e i nervi sciogliersi e, stranamente, annuire a quella richiesta, piuttosto bizzarra a proprio dire. Armeggia qualche minuto con la tv mentre Severus rimane fermo a sorseggiare il caffè, sempre piuttosto disinteressato verso tutta quella tecnologia moderna Babbana. Prima di far partire il film, si blocca, come colpito da qualcosa, poi si volta a fissarlo: «Mi dimenticavo di darti una cosa!» e si alza, eccitato come un bambino davanti ad un negozio di giocattoli, e recupera il cappotto, fruga in una tasca ed estrae un piccolo pacco, di quelli che stanno facilmente in una mano. «Prometto che domani, cascasse il mondo, vado a prendere quei libri, ma intanto, per farmi perdonare, ti ho preso questo» e gli porge il regalo. Severus sembra perplesso e piuttosto a disagio come spesso gli capita quando riceve qualcosa, ma lo prende e lo osserva con gli occhi attenti di Pozionista, caratteristica che non ha mai abbandonato e che continua a piacergli tremendamente. «Cos’è?» «Aprilo!» «D’accordo, ma non agitarti o rischi di cadere per terra.» Scioglie il fiocco argentato con estrema lentezza e cura, poi strappa la carta, con più impeto, perché così si usa, no? Sembra chiedergli e lui muove la testa, in attesa. Apre la confezione. «Non sono tipo da collane.» «Lo so, ma volevo che avessi qualcosa che ti ricordasse per sempre me.» «Harry, io mi ricorderò per sempre di te-» Ma non lo fa continuare: «Come me che ti ho sempre accanto.» «Harry…» Una lacrima fugge al suo controllo e scappa sulla pelle, scappa alla gravità che la trascina comunque in basso e a quel freddo che gliela appiccica in faccia come un fiocco di neve, uno di quelli che fa male e taglia. E poi un’altra e una ancora. «Harry…» ripete. «Prima o poi dovrai lasciarmi andare.» La Sezione Proibita della Biblioteca di Hogwarts in confronto a quella era un bicchiere d’acqua che galleggiava in mezzo all’oceano, non faceva altro che guardare a destra e sinistra e ad aprire e chiudere la bocca meravigliato. «Ministro!» un mago sottile come una bacchetta gli si avvicinò a passo svelto, allegro, gentile, con un sorriso sempre aperto sulla bocca e occhi grandi e azzurri che per un attimo gli fecero tornare alla mente il vecchio Dumbledore. «Cosa posso fare per lei?» Non avrebbe voluto chiedere, ma trovare quei libri lì dentro era come cercare un ago in un pagliaio e la pazienza non era mai stata il suo forte, soprattutto con gli anni che passavano e le incombenze che aumentavano. «Sto cercando questi volumi, può aiutarmi, signor?» non conosceva il suo nome, ma non poteva di certo conoscere ogni impiegato di ogni anfratto del Ministero. «James. James Anderson, molto piacere!» e gli strinse la mano con vigore, troppo a suo modesto parere, ma non protestò, per un po’ si lasciò contagiare da tutto quell’entusiasmo. E pensò a suo padre di cui non ricordava nulla. Gli passò un foglio che lesse avidamente. «Bene, molto bene, se vuole aspettare qui, glieli porto subito.» «No!» si accorse di aver gridato disperato solo dopo e cercò di correggere il tiro. «No, cioè… le basta solo indicarmi dove sono, e vorrei prenderli da me.» Il mago sembrava un po’ dispiaciuto, ma era pur sempre una richiesta del Ministro della Magia, così acconsentì e prese la bacchetta: «Questo piccoletto l’accompagnerà, sarà come se fossi io, Ministro.» Dal legno era scaturita una luce viola che si era prima ammassata in una forma indefinita e poi, pian piano, aveva iniziato ad assumere contorni sempre più nitidi finché non divenne un piccolo falco che si posizionò sul braccio del suo padrone. «Lo segua» lo esortò dopo che il piccolo animale aveva spiccato il volo verso un corridoio davanti a sé. «Spero ti siano utili per la tua ricerca» aveva parlato a voce alta senza essersene neppure reso conto, il falco si fermò davanti ad un lungo e alto scaffale in legno scuro, ed emise un suono strano che non gli sembrava per niente il verso dell’animale. «Scusa, parlavo da solo.» Sbatté un paio di volte le ali e poi iniziò a picchiettare un volume. «È questo?» Lo prese e poi gli altri due, lo seguivano levitando alle sue spalle, protetti da un incantesimo: non voleva che nessuno li sfiorasse, neppure per sbaglio, quel tocco sarebbe stato loro e loro soltanto. Quando tornò in ufficio, le pergamene erano aumentate e un paio di gufi aspettavano sui loro trespoli, ed Hermione era di nuovo lì. «Avevamo un appuntamento?» domandò, andando a sedersi alla sua poltrona mentre i libri erano ancora a mezz’aria vicino a lui. «No, passavo di qui» guardò stranita e curiosa i volumi; stavolta era lei a mentire, Hermione Granger non passava mai per caso, e quello sguardo significava solo che aveva un motivo ben preciso. «Il camino è ancora spento,» ma si limitò ad alzare le spalle in risposta. «Faccio portare qualcosa di caldo?» «No, grazie.» «D’accordo, allora dimmi il vero motivo per cui sei qui.» «Harry, sei sempre più pallido, hai sempre più occhiaie.» Harry non voleva dormire, se lo avesse fatto, Severus avrebbe potuto lasciarlo lì e gli sarebbero rimaste soltanto orme nella neve mentre non desiderava altro che gli fosse accanto per sempre, una presenza fissa nella sua esistenza, uno squarcio di sole nero nella sua routine grigia. Non voleva accontentarsi di sogni lontani, fasulli, voleva guardarlo e basta, sentirlo mentre gli stringeva le mani per scaldargliele. «E non dirmi che sei solo stanco, lo so benissimo che hai.» No, non lo sa nessuno, avrebbe voluto strillare, ma rimase in silenzio a scrutare gli occhi nocciola della sua amica, dell’unica che sapeva, che aveva sempre saputo. «Non puoi continuare a torturarti così, sai?» Sapeva tutto, tranne quella piccola parte che teneva solo per sé, per loro due e nessun altro perché quelli erano soltanto i loro momenti e nessuno glieli avrebbe portati via. «Sono due anni che è morto. Lascialo andare.» Come si fa a lasciar andare la persona che più si ama a questo mondo? Casa è dietro la curva, curata e pulita, la neve a coprire il prato e i fiori, persino il tetto, e il comignolo sbuffa più forte che mai. Casa è lì e lo attende. Ha i libri con sé. Apre la porta, la maniglia è sempre gelida, a terra c’è il biglietto che aveva scritto, deve essergli caduto dalla tasca quando ha preso il pacchetto, strano che Severus non lo abbia visto, si dice. «Sono tornato!» Un passo, due, tre.
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Contro Roma
Da inizio anno a Roma sono andati in fiamme diversi autobus, almeno una decina. Il fatto che ieri sia accaduto in centro, oltretutto nei pressi delle redazioni di alcuni quotidiani romani, ha reso questa notizia, normale per ogni cittadino della capitale, il dramma da prima pagina. Tra autisti eroi, esplosioni che non ci sono state, le migliori penne del paese si sono scatenate su Roma con brillanti articoli di opinione dalla vena comica.
Facciamo un passo indietro. Roma è una città amministrata malissimo. Non da ieri ma da anni. Manca qualsiasi forma di progetto pubblico per la città (del resto non è che l’Italia se la passi meglio eh) e l’ultimo che c’è stato è stato il “Modello Roma” di Veltroni basato su una crescita legata agli introiti immobiliari: quello che nel 2008 ha regalato ai palazzinari l’edificabilità di oltre 2mila ettari di terreno, non esattamente un modello encomiabile insomma. L’amministrazione di Roma sembra inseguire le emergenze: la pioggia, la neve, le buche, i rami che cadono, l’allerta terrorismo, la sicurezza, gli immigrati. Del resto è in default da quasi una decina d’anni, soffre la trasformazione in atto e sta letteralmente implodendo: la premiata ditta Tronca prima e Raggi poi, le stanno dando il colpo di grazia. Se prima eravamo in agonia ora siamo un cadavere che puzza. Ma più di tutte una cosa puzza, terribilmente, il racconto della città e la retorica che ci gira intorno.
Roma è una città senza una vera opposizione sociale. I tentativi di opposizione dal basso finiscono in sgomberi e arresti da un po’ di tempo a questa parte. C’è tutto un popolo di poveracci, lavoratori/trici precari, che vive ai margini della città che ha capito che è meglio nascondersi che provare a prendere parola. Come biasimarli? Accanto a tutto questo Roma viene descritta, da chi dovrebbe fare informazione oppure opinione con la stessa retorica di un blog anti-degrado. Tanto che anche Roma Fa Schifo, blog di riferimento della stampa romana, ormai ha perso quella visibilità che lo portò solo 2 anni fa a incontrare insieme ai candidati sindaci. Il perché è facile, le pagine delle cronache romane ne hanno sussunto la retorica e il linguaggio, basti pensare all’ossessione con cui nelle ultime settimane larepubblicaroma si è concentrata sulle erbe alte a Roma.
Il giorno dopo l’ennesimo incendio di un autobus (il decimo da inizio anno) su Repubblica in prima pagina si legge Mr AntiCasta Sergio Rizzo fare un minestrone politico che parte dall’assenteismo in Atac (che con la disastrosa condizione dei mezzi pubblici non c’entra niente) passando per i Casamonica, la Romanina, arrivando fino alle buche. Buche che oltretutto nonostante il lancio di 2 mesi fa di Virginia Raggi che prometteva di chiudere «50 mila buche in un mese» (sarebbe curioso capire come le han calcolate) sono ancora quasi tutte sulle nostre strade. Ma non se ne parla, l’indignazione oggi si sposta su altro.
Del M5S sul blog ne abbiamo già parlato. Il bluff su beni comuni e partito con istanze di sinistra è durato il tempo per crearsi un alibi per votarli. Loro del resto stanno al benecomune come facebook sta alla trasparenza: tutto deve essere messo a profitto, come dimostra la recente presa di posizione delle consigliere 5s sulla Casa internazionale delle donne. Fatto sta che Raggi non ha opposizione in città se non dal basso. Media e politica istituzionale, esclusa la faccenda olimpiadi a Roma, muovono le sue critiche da destra. La città che hanno in mente i 5S non è diversa da quella che hanno in mente i vari partiti. Una città divisa in 2 che tende a escludere chi non ha abbastanza reddito per viverci. E non parliamo del centro ormai, come in altre città d’Europa, regalato al business del turismo, come evidenziato pure di recente da Antonello Sotgia e Rossella Marchini in La conquista del West.
Ad esempio qualsiasi persona di buonsenso di fronte alla comunicazione di Raggi sul «regolamento sulla Città Storica» (le maiuscole sono nel comunicato) dovrebbe far accapponare la pelle: un provvedimento necessario, a tutela di residenti, esercenti e cittadini. Stop a minimarket, friggitorie, negozi-suk (ma loro non sono comunque esercenti? ndz) e merce di cattivo gusto nel centro di Roma. Restituiamo legalità e decoro al cuore di Roma, alle sue attività storiche, alle sue tradizioni e alle sue aree di pregio.
Merce di cattivo gusto sarebbe? Perché no i mini-market, visto che sono indispensabili per i turisti per acquistare merce a un prezzo sostenibile? Ma quali sarebbero le attività storiche? Nel frattempo l’assessore Meloni parlava di rilancio del “Made in Rome” che onestamente farebbe pensare più alla pajata o all’abbacchio allo scottadito che ad altro ma attendiamo delucidazioni.
Nel blog di Grillo, dove la Raggi fa anche comunicazione, spiega che «vogliamo riportare nelle vie centrali l’atmosfera unica dei laboratori artigiani, delle erboristerie, delle botteghe antiquarie […] fiore all’occhiello del Made in Italy. Un cambio di passo epocale che restituisce decoro alle zone più frequentate dai turisti».
Ovviamente nessuno è sbottato a ridere di fronte a una roba del genere. Nessuno ha chiesto, tra chi fa informazione, a chi dovrebbero vendere i propri prodotti un’erboristeria o le librerie antiche (ma in che senso antica? boh), come se negli ultimi 20 anni il centro non si fosse trasformato in un enorme turistificio, con affitti alle stelle che hanno cacciato i pochi artigiani rimasti in zona insieme alla mancanza di residenti a cui riferirsi. Non ci vuole un economista. Tanto quanto non bisogna essere urbanisti per porre domande del genere. Nel regolamento della Raggi ovviamente ci sta anche il divieto di apertura per i compro-oro. Del resto loro devono continuare ad aprire nelle periferie cittadine, insieme a decine di agenzie di scommesse (gli uni accanto alle altre), perché in qualche modo bisogna pur andare in contro alla disperazione delle persone, no? Oltre al fatto che ci sembra giusto dare opportunità alle varie mafie di riciclare soldi. È economia anch’essa.
Fatto sta che la narrazione su Roma è sempre quella del “centro degradato” e mai della periferia abbandonata. Ricordate che dopo gli assalti al Cara di Tor Sapienza l’allora sindaco Marino insieme al gotha del PD si prese il preciso impegno di «riportare la cultura in periferia»? Ecco, in periferia non sono mai arrivati, escluso qualche settimana fa per la campagna elettorale: e manco la cultura ci è arrivata, visto per dire i crescenti tagli a istituzioni come quelle delle biblioteche comunali. Giornalisti, scrittori, intellettuali, coloro che fino a 20-30 anni fa ci raccontavano gli esclusi, hanno smesso di farlo: al limite preferiscono addentrarsi in grottesche rappresentazioni di quella che considerano l’annosa contrapposizione Roma nord vs Roma sud. Del resto non è manco così comodo o semplice arrivare a Torre Maura da Monti. Ci mancherebbe. Ma soprattutto quando quelle poche volte lo fanno, usano la retorica di cui si parlava poc’anzi, quella del «signora mia degrado decoro immigrazione e Atac non funziona perché ci stanno gli scioperi». E infatti leggendo l’ultima operazione editoriale di autori vari Contro Roma, da poco uscito per Laterza, abbiamo la conferma di quel che abbiamo appena sostenuto.
L’operazione si rifà chiaramente all’omonimo volume del 1975, in cui a prendere parola erano intellettuali come Alberto Moravia e Dario Bellezza, di cui vengono riprese le riflessioni. Il bello è che la rappresentazione di Roma che ne esce è esattamente la stessa, come se non fossero cambiate tanto la società italiana quanto Roma stessa: quella della città in rovina che è inadatta al ruolo di capitale o che, dopo 150 anni, rimane una “capitale incompiuta”. Una «grande bruttezza» determinata da puzza, degrado e rumore contrapposta alla «grande bellezza» (il film sul Roma più citato da chi fa opinione, insieme a Jeeg Robot).
Del resto, scrivere «contro Roma» utilizzando tali paradigmi è un genere letterario più che un’analisi politica o sociale: si può scrivere Contro Roma, ma se qualcuno scrivesse un Contro Napoli con le stesse semplificazioni sarebbe giustamente accusato di pregiudizi e antimeridionalismo.
Invece viene ritenuto pienamente legittimo ingaggiare alcuni (in molti casi quasi autonominati) intellettuali di oggi per scrivere contro Roma: e contro i romani, al solito cinici e cazzari (che magari lo siamo pure eh, ma più o meno di altri chissà). Salvo un paio di eccezioni (Christian Raimo, per dire, che infatti scrive un buon pezzo), parliamo di persone che vivono tra il centro (un centro compreso tra il Ghetto e il Pantheon) e Monteverde, irritati da quella che in nome del politicamente corretto rifiutano di definire esplicitamente «Roma plebea»: una prospettiva deformata e deformante, che quindi non può che fare appello alla retorica antidegrado. Poi negli ultimi anni eccezioni ci sono state, sia chiaro: Walter Siti è uno che le periferie le sa raccontare e infatti fa dire a uno dei suoi personaggi che «so' tanti che vengono a fa ricerche sulle borgate, e io je dico sempre famo a cambio ... si volete capì qualcosa delle borgate, ce venite a sta' du' anni e io me trasferisco a casa vostra». In Contro Roma, invece, non va così.
Abbiamo Nicola Lagioia – che pure in Esquilino. Tre riconognizioni (edizioni dell’Asino) sembrava aver preso atto dei limiti del discorso pubblico, che «a chi è fuori dal sistema non interessa affatto» – che ci parla di una Roma «fogna a cielo aperto» e «Mumbai d’Occidente» (che gli ha fatto Mumbai? Boh, ma è esattamente lo stesso paragone e la stessa retorica usata da Romafaschifo), da cui «qualcuno mi ha visto allontanarmi su una scialuppa mentre la nave affondava». Lagioia descrive poi i romani (ma poi chi sono i romani? Quanti romani da più di una generazione ci sono a Roma?) come orgogliosi del proprio «cinismo» conquistato attraverso i vari secoli: i romani sono cinici, quindi, alla Montesquieu, in virtù del clima che determina il carattere dei popoli. Magari più di cinismo si dovrebbe parlare di resilenza, ma è meglio continuare con le antiche narrazioni che non necessitano di dimostrazioni. Oppure meglio continuare a descrivere la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma come se fosse la stessa decadente e appiccicaticcia di vent’anni fa, senza tener conto del suo nuovo allestimento (2016): tanto a Roma non cambia mai niente, no?
Abbiamo Teresa Ciabatti che ci parla dell’aristocrazia romana (??). C’è Valerio Magrelli che ci dice di quanto siano offesi i cinque sensi di chi vive a Roma (lui vive al Ghetto, deduciamo dalla targa sulla mondezza che cita), nell’ordine da: mancanza di strisce pedonali (vista); dehors che levano spazio ai pedoni (tatto); puzza/gestione Ama (olfatto); la «distruzione cui sono andati incontro negli anni antichi ristoranti, pasticcerie, caffè» (gusto!!!); le molestie acustiche dovute all’uso di altoparlanti in strada per gli artisti di strada (udito).
Ma visto che al grottesco non c’è limite, nel raccontino successivo Antonio Pascale ci racconta quanto lo irritino le continue manifestazioni nel centro di Roma (per fortuna che ormai sia sempre più difficile manifestare, eh!) e il traffico dovuto agli scioperi dei mezzi. Ma visto che lui è uno bravo bravo, è andato a visitare pure la periferia, lungo la Prenestina, dove quelli in motorino che «entravano nel proprio quartiere si toglievano il casco», e pure Tor Sapienza, dove «l’aria è mesta, lo si vede dai vestiti non di marca, dalle scarpe alla buona. […] E ci sono gli immigrati. Tanti, secondo alcuni, oltre ai campi rom. I cittadini se ne lamentano, spesso gli immigrati sono ubriachi e molesti, anche perché non sanno come passare la giornata, si buttano nei giardinetti».
Giuseppe Culicchia identifica il problema di Roma nei «romani che sono diventati quelli dei film di Verdone», accompagnando a ciò l’annoso dibattito sull’uso dell’espressione «sti cazzi». E poi, ci dice Igiaba Scego in un pezzo tra il feticismo e lo splatter, non ci dimentichiamo della puzza sull’autobus affollato (che infatti a Londra e a Parigi, invece, odorano di violetta): non solo di alito e di ascelle, ma persino di sangue mestruale! Perché a Roma le mestruazioni vengono con «scoppi» più improvvisi che altrove, si vede.
Ecco, la scelta di parlare «contro Roma» in questi termini e di far propria la retorica anti-degrado è una scelta politica: parlare della puzza sull’81 (linea tra l’altro in dismissione) o del traffico per lo sciopero dei mezzi ma non della dismissione dei contratti per la manutenzione dei mezzi Atac o degli stipendi non pagati degli autisti Tpl è una scelta politica. È una scelta politica parlare dei dehors in centro e non dei fenomeni di gentrificazione e speculazione come quelli di cui è pioniera l’ex Dogana a San Lorenzo. È una scelta politica quella di parlare di chi abita in periferia e si toglie il casco appena entrato nel quartiere e non del fatto che Roma è una città in cui si contano 7mila persone in povertà estrema, 15mila persone senza fissa dimora, 50mila famiglie in emergenza abitativa (a fronte di 150mila case ufficialmente sfitte), uno sfratto per morosità ogni 279 abitanti (la media nazionale è di uno ogni 419) e 3.215 famiglie sfrattate dalla polizia nel 2016, un tasso di disoccupazione giovanile che supera il 40% e uno di disoccupazione generale che sfiora il 10%. Altro che le «scarpe alla buona» notate da Pascale a Tor Sapienza.
Del resto, dietro la «lotta al degrado» c’è in realtà la «guerra ai poveri». Non alla povertà, proprio ai poveri, quelli dall’aria mesta che sono gli oggetti delle uniche politiche che sembrano funzionare in città: quelle dell’esclusione, delle barriere a Termini (non contro il terrorismo, ma contro chi ci dorme), dello sgombero quotidiano del mercatino delle carabattole dei poveri a Porta Maggiore, delle retate contro i venditori di borse contraffatte. I neo-“intellettuali”, i giornalisti, gli opinionisti rafforzano proprio la retorica che dà corpo a tali politiche di esclusione e “invisibilizzazione” del disagio economico: in effetti parlare del supposto cinismo dei romani recuperando qualche vecchio luogo comune, della puzza e dei dehors richiede meno impegno e meno fatica che dare voce a chi – magari – il degrado, la scarsezza dei mezzi pubblici e il traffico li vive davvero, abitando a 5-10-15-20 km dal centro vetrina di Roma.
Quindi amici e amiche che avete deciso di lasciare Roma, la fogna a cielo aperto, fate pure, non saremo noi a fermarvi né a venirvi a cercare in centro città. Come recita un murales nel quartiere di Rebibbia: Qui ci manca tutto, non ci serve niente. Soprattutto quello che avete da offrirci. [Scritto a 4 mani con autrice che vuol rimanere anonima]
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Da poco mi sono ritrovato single con un messaggio pieno di belle parole e senza spiegazioni del perché stesse succedendo tutto questo. Ad oggi non so bene perché mi abbia lasciato e qualsiasi tipo di confronto è sempre stato evitato. Non ci siamo più visti e oggi è passato un mese. Fatto sta che è successo così, su due piedi. Inutile raccontare quanto sia stato male per questo, ma sto provando ad andare avanti anche se a volte mi capita di scoppiare a piangere dal nulla. Mentre lavoro mi capita di ascoltare della musica che passano alla radio e, su determinate frasi, comincio a sentirmi male, quasi ad avere crisi di panico. Mi viene da piangere e devo trattenermi per evitare che la gente mi veda e, puntualmente, cerco scuse per andare in bagno per piangere e sciacquare la faccia.
A parte queste cose, non so più cosa fa né ho idea di dove sia. Mi manca terribilmente, ma qualsiasi cosa io faccia è irraggiungibile. Ha messo un muro tra di noi ed ho smesso totalmente di esistere. Se il giorno prima diceva di amarmi follemente, quello seguente è stato un "ti devo lasciare". C'erano tanti progetti, tra cui quello di prender casa e andare a stare insieme.
Vorrei sapere se anche a te è mai successa una cosa del genere e soprattutto se hai avuto a che fare con gente con disturbi di personalità.
A quanto pare lei ne soffre e vorrei capire come potermi comportare, se questo suo allontanamento è dovuto a questo suo "problema" o meno.
Il guaio è che quando si è innamorati la risposte ci sono già ma non le vediamo. Indipendentemente dal motivo, lei ha fatto la sua scelta e, cosa peggiore, non ti ha nemmeno concesso il diritto umano di sapere. So che fa male ma devi farcela per te stesso e per concederti di essere di nuovo felice un giorno. Vedrai che ti servirà per riconoscere alcuni segnali in futuro, che ora non vedi. E ricorda che non si può aiutare chi non vuol essere aiutato... a volte dare spiegazioni implica avere un confronto con l'altro, talvolta anche doloroso. Sapere di Dare dolore all'altro è impegnativo. È comunque doveroso dare delle spiegazioni, la maturità sta in questo. Non dandole è più semplice. È più semplice mettere la testa sotto la sabbia ma, a mio avviso, anche sinonimo di egoismo verso una persona con cui si hanno condiviso cose e che si sentirà profondamente spiazzata e incredula dal non aver ricevuto alcuna motivazione. Dai coraggio ..
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TRE ORE PRIMA DELLA FELICITA’ (quello che gli uomini non sanno dire)
11:40 – Sul tabellone c’è scritto che l’aereo ritarda di mezz’ora. Ma guardando sul sito dell’aeroporto di partenza ho visto che l’aereo parte tra due ore, quindi avrà tre ore di ritardo! Dovevo guardare il sito prima di venire in aeroporto, ma ero troppo preso dal tuo arrivo, dalla voglia di vederti tanto che sono uscito di casa in anticipo, ed ora chissà quanto dovrò aspettare qui in aeroporto.
11:50 – Un vecchietto con coppola e bastone mi è venuto a chiedere se sapevo quando arrivava l’aereo. Gli ho spiegato che c’era scritto mezzora ma che probabilmente sarebbe stato di più. Lui mi ha guardato senza mostrare emozione da sotto la coppola e mi ha chiesto con un forte accento catanese “Lei che aspetta a zita?” gli ho risposto di si e lui ha commentato “Jo aspettu a me mugghieri, l’aereu arrivirai pi mia troppu biatu, pi lei troppu taddi…” e se ne è andato dicendo brutte cose sulla compagnia aerea. Mi sono messo a ridere. Ma il vecchietto ha ragione. Io ti volevo già qui. Non me lo ero detto, o forse non me ne rendevo conto ma il ritardo mi ha dato molto fastidio. E’ stato come levare il piatto ad un bambino che aveva fame e che non aspettava altro che mangiare. Prima non ci pensavo, era solo il piacere di rivederti, ora invece il piacere si è rivelato un bisogno. Devo vederti. E’ come se in tutti questi giorni senza di te la parte più importante della mia anima abbia solo dormito mentre tutto il resto di me continuava con finta regolarità la vita di sempre. Non è così. Mi sei mancata, come agli alberi in inverno manca la primavera. Vivevo ma come vivono le lancette di un orologio in modo meccanico senza provare niente; senza alcuna gioia, desiderio e voglia. Girano perché qualcuno gli dà la carica, non perché hanno vita. Anch'io ho fatto lo stesso. Vivevo perché fino a prima di conoscerti questa era stata la mia vita meccanica. Ora mi rendo conto che era solo qualcosa di apparente, che facevo perché l’avevo sempre fatto, ma non era vita. Era l’attesa di te, perché senza rendermene conto non stavo vivendo, ma solo aspettandoti, pensandoti tra un minuto e l’altro, desiderandoti tra un silenzio e l’altro, cercandoti tra la gente, nei luoghi dove avrei voluto trovarti ed amarti. Scopro così sempre di più che al di la di tutte le parole, gli atteggiamenti e la grigia quotidianità, mi sei sempre mancata. E come nei giorni passati grigi e anonimi in cui non c’eri ma in cui inconsciamente ti cercavo; ancor di più ti cerco ora, dopo tutti i nostri giorni insieme, i desideri in cui siamo bruciati, i nostri sorrisi primaverili, i nostri baci infiniti; ora che ti aspetto dopo averti incontrato, dopo averti scoperto come un naufrago scopre un isola salvifica, ora che scrivo quasi per ritrovarti e desiderati, scopro sempre di più che alla fine, semplicemente e completamente, terribilmente mi manchi.
12:30 – Il vecchietto è tornato e mi ha chiesto se avevo qualche notizia. Ho cercato sul sito, ma non c’era nessuna novità. Gli ho detto che il ritardo non era cambiato. Nel tabellone la mezzora è diventata un’ora. Lui mi ha chiesto comi ti chiamavi. Gli ho risposto Selene e lui guardandomi stupito mi ha chiesto “Comu….?” “Selene, - gli ho risposto - come la luna” “Comu a luna – obiettò – ma jo non ma ricoddu a Santa Luna nto calinnario….” Gli ho sorriso. Lui ha inarcato le folte sopracciglia “comunque mi pari a mia chi cu stu ritaddu, piddavero Selene arrivirà ca Luna! Ma è bedda veru?…- e senza darmi tempo di rispondere commentò quasi a se stesso - A sentila me mugghieri quannu scinni ill’aereu, faravi nu casinu….” e scuotendo la testa se ne è andato ad attaccare bottone con il barista, nel bar degli arrivi. Volevo dirgli che sei bella, bellissima, che sei come l’acqua del mare ad Agosto quando il cielo è di un azzurro elettrico e le acque sono trasparenti come cristallo e sul fondo vedi i pesci e le stelle marine. Sei bella come le nuvole al tramonto quando da color panna diventano di un color confetto prima di sciogliersi nella notte. Questo sei tu per me. Quando penso a te penso sempre anche al mare, all'aria cristallina che c’è al mattino, alla luce che ha la schiuma del mare quando un onda s’infrange contro gli scogli scuri e la schiuma si disperde nel cielo con gocce che hanno luce propria, come quella che hai tu ogni volta che ti vedo, ogni volta che di sera ti stringo, ogni volta che ora ti penso. Ricordo il giardino di mia madre e la prima rosa che spuntava a maggio; io correvo al mattino a vedere quel fuoco rosso vegetale ricoperto di perfette perle di rugiada purissima in cui il sole si rifrangeva brillando nel primo cielo azzurro, e rendendo quelle gocce tanti piccoli luminosissimi diamanti. Era la cosa più bella che avessi mai visto cosi perfetta, cosi pura e semplicemente bellissima. Anche questo sei per me. Bellissima. Nessuno può capire quanto. Quando parli, ti muovi, sorridi, riempi tutto il mondo che ti circonda; ne diventi la luce. E’ come se il tempo scorresse solo quando sei con me, mentre quando manchi tutto si ferma; come in quella fiaba quando il mondo si era gelato perché la principessa si era addormentata e fino al suo risveglio tutto restava bloccato per com'era prima che lei chiudesse gli occhi. Ora mi accorgo che mi è successa la stessa cosa. Non ricordo nulla di questi giorni in cui sei mancata se non le nostre telefonate, i nostri messaggi, ed il senso di vuoto che avevo quando mi accorgevo che la mia mano non stringeva la tua, o il tuo sorriso non rispondeva alle mie parole e nella luce del giorno mancava quella dei tuoi occhi. Io pensavo che si amasse moltissimo la prima volta che si conosce l’amore, la seconda un po’ di meno, e così via: più volte ami e sempre più debole diventa quello che senti perché credi di meno a quanto provi. Ma con te non è stato così. Ogni giorno più ti amavo, più volevo amarti. Più ti desideravo, più ti volevo. Desideravo il tuo corpo, sognavo i tuoi occhi, ricordavo le tue parole; eri l’ombra dei miei pensieri, il senso del mio presente, il vento dei miei silenzi, il fuoco sotto la cenere nei nostri temporanei addii.
13:10 – Ho fatto un giro per non cedere troppo alla malinconia romantica in cui stavo cadendo. Mi sentivo una mosca finita in un barattolo di miele. Stavo soffocando e volevo cancellare tutto quello che ho scritto sul telefonino. Ma tutto quello che ho scritto è vero. E’ quello che provo; se lo cancello, mi do del bugiardo, rendo banale quello che provo. Ma per me tu non sei banale. Quello che mi fai provare non è banale. In fondo l’amore è desiderare ed io ti desidero, è essere presenti l’uno nell’altro e tu lo sei di persona o nei miei ricordi, nella malinconia della tua assenza, nel vuoto dei tuoi silenzi. L’amore è parlarsi comunicare, condividere ed ora è questo che faccio, ti parlo e tu rispondi facendo crescere in me il bisogno di te. Tutto questo è amore, non posso cancellarlo perché ti appartiene. Ci appartiene, vive per noi, malgrado noi. Lo so che quando arriverai il tuo sorriso cancellerà tutte queste parole e rinascerò tra le tue braccia, nel tuo muoverti, nel dare corpo a quanto adesso è solo un ricordo sempre ripetuto, un bisogno mai saziato, una necessità dominante e gelosa. Ma se adesso non te lo ripetessi, se adesso non gli dessi voce, mi sentirei perso, un orfano che improvvisamente scopre di esserlo. Devo parlarti, devo ricordati per credere nel tuo ritorno, per essere sicuro che sarai sempre quella che è partita ma che adesso torna cosi com’era, e per esserne certo disegno nel mio desiderio il tuo corpo, le costellazioni dei tuoi nei, le forme delle tue mani, il sensuale curvarsi dei capelli sul collo. Recito ogni tua forma come una preghiera profana con un rosario carnale. Perso come sono in questo deserto sempre più grande in cui mi trovo, cerco oasi erotiche in cui viverti per un attimo, prima che la tua assenza mi soffochi.
13:50 – Ora è ufficiale. L’aereo partirà tra 10 minuti e arriverà per le 15:00. Solo tre ore di ritardo! Il vecchietto quando l’ha saputo è andato dall’ hostess delle informazioni e le ha chiesto se già che c’erano potevano farlo partire domani, perchè lui se ne voleva andare a casa. Non so se l’hostess ha capito che stava prendendola in giro, ma gli ha risposto che non si poteva. Lui se ne è tornato sui sedili e dopo un po’ si è appisolato. Ho il telefono che si sta scaricando, non scrivo più. Non vorrei che al tuo arrivo tu mi mandassi un messaggio che non potrei leggere perché la batteria se ne è andata. Sapere che stai per partire mi ha dato un po’ di gioia, mi sento euforico. Un’ora mi sembra poca cosa di fronte alla settimana in cui non ci sei stata. Mi chiedo come ho resistito, come ho potuto esistere senza averti accanto per così tanto tempo. Forse non dovrei prendere la cosa così seriamente, ma in verità non riesco a prenderla senza darle importanza. Mi assale l’ansia che magari sarai diversa o che per una settimana, preso dall'astinenza dei tuoi baci, ho ricordato qualcuno che forse non esisteva e che la mia testa o il mio cuore, si sono inventati. Ti aspetto con la stessa ansia e voglia del nostro primo appuntamento. Sarà così per tutta la vita? ogni volta sarà la prima volta? non lo so, So che mi sento come allora quando ti avevo lasciato e volevo tornare indietro per continuare a parlati ad averti accanto a me.
14: 10 – Se non scrivo vado avanti e indietro senza posa, come un animale in gabbia, un ergastolano che ha appena iniziato la prigionia. Mi dicevo che volevo avere la tranquillità del vecchietto che sonnecchia senza nessuna preoccupazione; solo ogni tanto ha un sussulto ed apre gli occhi assonnati, cercandomi tra la folla e chiedendomi con lo sguardo se l’aereo era arrivato. Gli sorrido e scuoto il capo, no, non è arrivato. Allora lui si accomoda meglio e riprende il sonno. Anche lui è in ansia per la moglie. Se non lo fosse non si sveglierebbe ogni cinque minuti per sapere se è arrivata. Allora sarà così tutta la vita? Io spero di si, che anche da vecchio io provi questo bisogno di vederti qui in ogni minuto e per sempre.
14:25 – c’è stato un momento di panico perché il tabellone ha indicato un ritardo altre due ore. Sono andato a chiedere alle informazioni ma l’hostess mi ha detto che è un errore e mi ha chiesto di tranquillizzare il vecchio. Lui dormiva e non si è reso conto di quanto succedeva. Cosa avrei fatto se ci fosse stato ancora ritardo? avrei aspettato, mi sarei incatenato qui a fissare la porta degli arrivi in attesa della felicità. Ormai non posso fare altro. Ti ho comprato dei cannoli perché penso che avrai fame. Volevo prenderti dei fiori ma qui non ce ne sono. Mi sono dato dello stupido perchè non ti ho preso i fiori, ma mi sono perso nella tua assenza. Ho preso i cannoli per poterti dare qualcosa, perché vorrei dirti tante cose, ma non ne sono capace e riassumo tutto il mio dire silenzioso nel regalare oggetti, come fanno un po’ tutti gli uomini incapaci di dare indietro quella tenerezza che ricevono con quelle parole che le donne meritano. Ho solo una tacca, devo chiudere.
14:50 – Sei atterrata! Mi hai mandato un messaggio “Ci sono….finalmente” con tanti cuoricini. Volevo scriverti tante cose , ma ti ho scritto solo “ti amo”. Non ti ho saputo dire di più. Incapace di farti capire quanto mi sei mancata, di mostrarti il sudario dei miei silenzi che ora il tuo arrivo distrugge. Non so se ti farò leggere quanto ho scritto. Con te accanto, questa lamentosa solitudine che ho provato, mi sembra un inutile ricordo, qualcosa che non meriti. No no te la farò leggere, non la leggerò più neanch'io. È il passato, e il passato se fa male bisogna metterlo da parte
14:55 – Ho svegliato il vecchietto che al sentire che l’aereo era atterrato ha commentato “O solitu i me mugghieri, quannu sugnu nto megghiu sonnu m’avi rusbigghiari rumpennumi i santissimii ….”
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20 lug 2020 15:11
CRESPI SÌ - STELLA IN LODE DI GIULIA MARIA, TRA ARTE (FAI) E AMBIENTE (AGRICOLTURA BIODINAMICA) - LA ZARINA DEL CORRIERE SILURO' IL LIBERALE SPADOLINI ("OSSEQUIOSO DEL POTERE") E PRESE PIERO OTTONE CHE VIRO' IL GIORNALE VERSO I SALOTTI RADICAL-CHIC MILANESI E MONTANELLI S'INCAZZO' - LA TRAUMATICA CACCIATA DI INDRO LA SPINSE A CEDERE NEL 1974 IL GIORNALE AD AGNELLI E POI A RIZZOLI - L’''AMANTE'' DI MARIO CAPANNA...
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Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”
«A te non è mai mancata la coda?», chiese un giorno a bruciapelo Giulia Maria Crespi a Marco Magnifico che sarebbe diventato uno dei suoi primi collaboratori e amici. E quello, scoppiando a ridere: «Perché? A te manca?» «Certe volte sì. Ogni tanto vorrei poter scodinzolare per mostrare che sono contenta».
Raramente, si capisce. Perché nei suoi novantasette anni di vita intensissima finiti la scorsa notte tra le lacrime dei sette nipoti, la fondatrice del Fai tutto ha fatto meno che scodinzolare. Tanto più davanti agli uomini di potere.
Nata a Merate, a sud di Lecco, nella primavera del 1923, destinata ad esser l'unica erede di una ricchissima famiglia di cotonieri proprietaria del Corriere della Sera , fu tirata su dal padre Aldo come una regina d'altri tempi. Solo tate, maestri, precettori privati. Di francese, tedesco, inglese. «Non andavo a scuola, agli inizi dovevo soltanto andarci a fine anno per gli esami e dopo le elementari non più...», avrebbe raccontato nel libro «Il mio filo rosso: Il "Corriere" e altre storie della mia vita», edito nel 2015 da Einaudi.
La prima volta entrò col batticuore nella scuola di via Spiga «con un vestitino di seta rosa in netto contrasto con tutta la classe dal rituale grembiulino bianco! Ero morta di vergogna e venivo guardata come una bestia rara».
Legatissima alla storica dell'arte Fernanda Wittgens («bionda, possente e bella come una Brunilde wagneriana») scelta come istitutrice dai genitori e destinata a diventare la prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera, appassionata lettrice e frequentatrice di musei, weekend indimenticabili nella tenuta sul Ticino della Zelata che via via negli anni farà diventare tra le prime aziende agricole biodinamiche d'Europa, estati a Forte dei Marmi e inverni sciistici sulle piste del Sestriere in compagnia dei rampolli di casa Agnelli, quella che dai nemici (parecchi) sarà soprannominata la Zarina del Corriere, ricorderà gli anni del fascismo e della rimozione di Luigi Albertini solo attraverso i racconti del padre:
«A un certo punto ci arrivò un ultimatum di Farinacci che ci ingiungeva di allontanare Albertini dalla direzione del giornale entro otto giorni. Se ciò non fosse avvenuto Farinacci minacciava di intervenire con le sue milizie per lanciare due bombe su via Solferino e distruggere il Corriere».
Impugnate le redini del quotidiano come accomandataria a metà degli anni Sessanta dopo la morte degli zii Mario e Vittorio e la malattia del padre, Giulia Maria aveva allora una quarantina di anni, era stata segnata dal dolore della morte in un incidente del primo marito Marco Paravicini dal quale ancora non sapeva di attendere due gemelli, Luca e Aldo (il quale morirà in un altro incidente stradale a metà maggio del 2020) e probabilmente non aveva l'esperienza necessaria per reggere un ruolo così difficile.
Sostituito nel '68 Alfio Russo con Giovanni Spadolini («Colto, facondo, pieno di vita, svolazzava, malgrado il peso, come una libellula tra i pensieri e le cose», dirà ad Antonio Gnoli) cambiò presto opinione: «Scoprii improvvisamente il suo lato vanitoso, prolisso, ossequioso al potere».
E fu così che nel 1972 decise di affidare la direzione a Pietro Ottone dando al Corriere, tra mille polemiche che avrebbe pagato carissime, una svolta culturale e politica che Indro Montanelli liquiderà come un episodio «autoritario, prepotente e guatemalteco».
L'episodio scatenante fu un'intervista del Gran Toscano a Cesare Lanza: «Non esiste un contrasto personale fra Piero Ottone e me e siamo anzi in ottimi rapporti. C'è piuttosto un'impostazione del Corriere del tutto diversa da quella che è la tradizione del giornale...Non discuto la linea politica del Corriere attuale (anche perché non capisco di che linea si tratti: nella stessa pagina c'è tutto e il contrario di tutto). Non discuto la fattura, il giornale è tecnicamente buono, più sveglio di prima. Quello che discuto è lo stile. Disordinato, tumultuoso, terribilmente demagogico...»
Seguiva una sorta di preavviso: avrebbe fondato un suo giornale. Troppo. Giulia Maria era allora in vacanza nel suo stupendo e poverissimo stazzo in Sardegna dove per scelta di vita (e per spirito d'adattamento del secondo marito, l'architetto Guglielmo Mozzoni) non aveva elettricità, caloriferi, telefono: «Una mattina dal centro telefonico di Palau venni avvertita di telefonare con estrema urgenza a Piero Ottone. Con estrema velocità mi recai al telefono pubblico di Palau. Ottone mi comunicò la sua decisione di licenziare Montanelli dopo aver letto quelle frasi secondo lui ingiustificabili. Io presi subito la nave e tornai a Milano. Personalmente ero dubitosa su questo provvedimento».
Anni dopo avrebbe confidato che certo, era stato un peccato perdere uno come Montanelli. Quando diceva «nella mia vita ho commesso un sacco di sbagli» si riferiva anche a questo. Continuava tuttavia a ripetere di non aver mai capito bene perché fosse andata così. Certo i rapporti non si ricucirono mai più. Lo stesso Montanelli però, due mesi prima di morire, nel maggio 2001, ribadendo nella sua Stanza le accuse alla Crespi di aver voluto gestire la linea del giornale di persona orientandola «secondo i suoi gusti politici, che non erano precisamente quelli tradizionali, cioè d'ispirazione liberale.
Essa s' ispirava invece al "nuovo corso" della contestazione sessantottina che incontrava larghe simpatie nei salotti della borghesia radical-chic milanese di cui ella stessa era esponente, anzi una bandiera», spiegava però a una lettrice, Alice Zanuso: «Questa, ti ripeto, è la vicenda vista dalla mia angolatura, di cui hai non il diritto, ma il dovere di diffidare»
Certo è che quella rottura fu fatta pesare su Giulia Maria Crespi fino in fondo. Al punto di spingerla nel 1974 a cedere il Corriere («il "mio" Corriere ») prima a Gianni Agnelli e Angelo Moratti, poi ad Andrea e Angelo Rizzoli.
Una vicenda vissuta come un tradimento del vecchio amico di Forte dei Marmi e del Sestriere: «In nome di questi ricordi gli chiedo di scrivermi una lettera autografa in cui mi promette di rimanere al Corriere , lui personalmente, per cinque anni e di versare subito i cinque miliardi di lire come nell'accordo pattuito. Vedo ancora Gianni sedersi senza battere ciglio a quella mia scrivania stile Luigi XVI, prendere un foglio e scrivere questa lettera: «Cara Giulia Maria ti do la mia parola di uomo d'onore...»
Eppure, quell'uscita per lei così traumatica da un mondo che amava («La verità è che mi consideravano una pazza, una irresponsabile, una comunista. Misero in giro la falsa voce che fossi diventata l'amante di Mario Capanna!») fu per lei l'occasione di dare il meglio di sé stessa.
Fondando nel 1975 con Renato Bazzoni quel Fondo Ambiente Italiano nel quale avrebbe riversato per oltre quarant' anni tutto l'entusiasmo e la forza di volontà dedicati alla salvaguardia del paesaggio, dell'ambiente, del patrimonio culturale dell'Italia.
Un amore totale. Appreso «in particolare da Antonio Cederna». E portato avanti, scrive oggi il presidente Andrea Carandini, con «una creatività inesauribile, una riluttanza per i compromessi, una passione per il dialogo, una singolare unità di ideali e concretezza». «Per lei niente era impossibile», ricorda Magnifico, «Quando si metteva in testa una cosa non c'era ostacolo capace di intimidirla».
Tra gli innumerevoli aneddoti che ha lasciato (divertente l'incontro nel salotto di casa col leader sessantottino Mario Capanna che sbottò: «Oooh! Finalmente conosco la più celebre delle mie amanti!») almeno un paio resteranno indimenticabili. Come quando, non riuscendo a trovare uno spunto per la sua annuale commediola natalizia coi nipotini in costume, chiese un'idea a Pier Paolo Pasolini.
E quello le rispose che era occupatissimo perché sommerso da mille impegni e che doveva partire per l'Africa e fare questo e quest' altro ma via via che si scansava buttò lì il canovaccio di una bellissima favola natalizia coi re Magi
Per non dire di quando, ospitati nel suo stazzo sardo di Cala di Trana una quarantina di ragazzi spartanamente ammucchiati su letti a castello, fece togliere i rubinetti ai due lavandini piazzando un cartello: «I limoni hanno bisogno di acqua più di voi. Se volete lavarvi lavatevi in mare».
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🔮 ― 𝒏𝒆𝒘 𝒓𝒐𝒍𝒆! ‧ #ravenfirerpg
↷ 𝒉𝒚𝒐 𝒋𝒂𝒆 𝒂𝒏𝒅 𝒆𝒍𝒆𝒂𝒏𝒐𝒓. ↷ 𝒔𝒐𝒎𝒆𝒘𝒉𝒆𝒓𝒆 𝒊𝒏 𝑹𝒂𝒗𝒆𝒏𝒇𝒊𝒓𝒆. ↷ 𝟏𝟐𝟎𝟏𝟐𝟎 ; 𝒎𝒐𝒓𝒏𝒊𝒏𝒈. ↷ ❝ 🌬️ ― il mio personaggio si lamenta con il tuo del vento freddo. ❞ Il Veggente si era recato nel centro città con l’intento di fare quattro passi, prendere una boccata d’aria e liberare la mente da tutti i pensieri accumulati in una settimana di lavoro. Si trattava di una giornata piuttosto fredda e Hyo Jae si era vestito a dovere, per combattere le temperature basse, a cui era molto sensibile. Sciarpa, cuffia, guanti e un cappotto abbastanza grande da poterci scomparire dentro. Con le mani affondate nelle tasche del cappotto, egli passeggiava in realtà senza una meta precisa. Gli capitava, spesso e volentieri, di non avere nulla da fare al di fuori del lavoro, e dunque l’unica alternativa era quella di uscire a fare un giro, poiché l’idea di stare a casa l’annoiava terribilmente. Sul suo cammino incontrò, per puro caso, una donna che era certo di non aver ma visto prima. In un primo momento era rimasto in silenzio, limitandosi a estrarre una mano dalla tasca del cappotto, per poi alzarla e agitarla appena nella sua direzione e salutarla con cortesia. Subito dopo, sentendola borbottare qualcosa, tentò di fare conversazione con lei; si trovava d’accordo con ciò che l’altra aveva detto.
« Questo freddo non è il massimo, lo penso anche io. Mi manca davvero molto la primavera. »
Esordì in quel modo, spostando la sciarpa affinché non gli coprisse la bocca. Per un istante, si fermò a contemplare l'orizzonte e il paesaggio circostante. Malgrado il freddo, non poteva fare a meno di apprezzare la vista che Ravenfire aveva da offrire, anche in una giornata come quella.
Eleanor Dahlia H. Janssen
L'inverno era una cosa seria per chi era vissuto a New York, nonostante negli ultimi anni le temperature, anno dopo anno, si fossero innalzate fino a provocare inverni piuttosto miti. La neve e il freddo pungente erano ormai uno standard per la giovane Janssen che, nonostante si fosse trasferita a Ravenfire alcuni anni prima, sapeva come difendersi. Sciarpa, guanti e pelliccia erano ormai il must nell'armadio della newyorchese, tuttavia quella mattina sembrava che fosse giunta un'aria polare che faceva venire letteralmente la pelle d'oca. Stare in giro sembrava un'impresa da eroi, e mentre ella si dirigeva verso la caffetteria del college, non poté fare a meno di lamentarsi di tale rigida temperatura. Borbottava tra sé e sé, e fu perfino sorpresa che qualcuno le rispondesse. Volse il capo in direzione di colui che ora le era accanto, e si ritrovò a mostrare un mezzo sorriso. « Credo che dovremo aspettare a lungo prima di sentire il calore della primavera giungere qui a Ravenfire. » Replicò Eleanor focalizzandosi poi sul volto del giovane dai tratti orientali. Aveva i capelli scuri, gli occhi a mandorla, ma qualcosa dentro di sé fece sì che fermasse per osservarlo meglio. « Adoro il freddo, sono dell'idea che ritempri perfino le ossa, ma non quando non riesco a fare un passo senza sentire i pantaloni diventare due tavole di ghiaccio che sbattono contro le mie cosce. »
Hyo Jae Jang
« Quest'anno l’inverno sta certamente dando il meglio di sé, il che potrebbe essere presagio di un’estate insopportabile. » Una smorfia comparve sul suo viso dopo quell’affermazione, quasi avrebbe potuto far pensare che fosse spaventato all’idea, ma in verità ne era più preoccupato, per lui e quelli come lui, che non era in grado di sopportare gli eccessi nel clima. Basandosi su ciò che lei aveva detto, gli veniva spontaneo supporre che amasse l’inverno in tutte le sue sfaccettature, anche quelle meno gradevoli ― proprio quelle che il Veggente non tollerava. Anche al momento, vestito pesante com’era, si sentiva goffo e quel tempo si faceva apprezzare soltanto perché aiutava a prendere una boccata d’aria. Le riflessioni lo portarono a voler domandare qualcosa alla donna. « Posso sapere che cosa abbia di bello da offrire il freddo? Non che il caldo sia tanto meglio, ma non mi sembra così terribile a confronto. Oh-- io sono Hyo Jae, comunque, scusa se non l’ho detto prima. » Ancora una volta, egli aveva dimenticato di presentarsi, e cominciava a pensare che ciò lo facesse apparire come un tipo strano agli occhi degli altri. Era certo che fosse così, ma preferiva il dubbio e credere che potesse trattarsi di un “forse”. Lei sembrava di non aver l’aria di una persona pronta a giudicare, ma non poteva mai essere sicuro, non conoscendola. Ora, inevitabilmente, aveva cominciato a pensare troppo e senza che fosse necessario. Si concentrò su tutt’altro, per evitare che quel silenzio improvviso che aveva adottato poco prima potesse provocare disagio fra lui e la sua interlocutrice. Fu una ventata d’aria gelida a risvegliarlo, per così dire; in fin dei conti, per quanto non apprezzasse il freddo, quest’ultimo gli aveva voluto fare una cortesia.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Più osservava quel giovane dai tratti orientali, più si lasciava andare nell'osservarlo più attentamente come se avesse potuto dire o fare qualcosa di strano. Spesso Eleanor si ritrovava ad osservare la gente, il più delle volte chiedendosi che cosa spingesse loro a porre in essere determinate azioni, ma rimanendo quasi sempre affascinata da come la loro mente avesse il predominio su tutto. Dovette tuttavia scuotere per un momento il capo, e mise a fuoco il giovane senza però tendergli la mano quando si presentò. « Mi chiamo Eleanor. » Si presentò prima di stringersi nelle spalle con fare incurante. Era una domanda più che legittima quella che aveva posto il giovane, ma come avrebbe potuto dire ciò che le passava realmente per la mente? Inspirò sonoramente, si strinse maggiormente la pelliccia che indossava fino a nascondere anche parzialmente il viso e godette di quel calore che solamente quel tipo indumento poteva dare. « Dal freddo ci si può sempre difendere, dal caldo invece... Guarda adesso, basta coprirsi maggiormente, nonostante io abbia decisamente scelto pantaloni non adatti... Tuttavia per bella apparire un poco bisogna soffrire. Non è forse così il detto? Anche tu stavi andando alla caffetteria? »
Hyo Jae Jang
« Eleanor? Bel nome, elegante soprattutto ― penso si addica alla persona, in un certo senso. Però non mi domandare perché.. talvolta ho queste impressioni, nascono dal nulla. » Si strinse nelle spalle, perché a tutti gli effetti non aveva idea di come spiegare quelle sue impressioni, che si manifestavano di tanto in tanto e lo lasciavano perplesso tanto quanto lo erano le persone a cui ne parlava. Hyo Jae era un osservatore per natura, i suoi occhi sottili si posavano con attenzione su tutto e tutti, e si domandava spesso se le persone e le cose avessero un motivo preciso per essere chiamate in un certo modo. Domande utili, che spesso gli venivano in mente poiché non aveva di meglio a cui pensare; eppure, per quanto bizzarre, avevano un barlume di senso secondo lui. Spiegarlo a parole, però, era complesso e sotto questo punto di vista preferiva non spiegare oltre. Sperava che quella risposta potesse spiegare abbastanza e che lei non si aspettasse nessun altro tipo di motivazione, perché allora lui avrebbe avuto un incentivo per parlare a dismisura, e non era mai un bene lasciargli tutto quello spazio d’espressione. In quell’occasione avrebbe però preferito ascoltare la sua interlocutrice, trovando interessante quello scambio di opinioni che stavano avendo, seppur fosse lineare, il “parlare del più e del meno” come si suol dire. Il suo genere preferito di chiacchierate, tra l’altro, perché si poteva scoprire molto da esse. « Il detto è proprio quello, non ti sbagli, e tutto sommato ti devo dare ragione sulla questione del caldo e del freddo, anche se non amo davvero nessuna delle due opzioni. E comunque, sì, anche io stavo andando alla caffetteria; oggi ho del tempo libero e volevo prendere un caffè, dato che quello fatto in casa comincia ad avere un sapore banale. Offro io, ti va? Almeno ho qualcuno con cui chiacchierare. »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Trascorrere qualche ora spensierata non avrebbe fatto di certo male alla newyorchese che ultimamente sembrava essersi presa una pausa dalla propria vita. Quel discorso che poteva sembrare apparentemente futile ad occhi sconosciuti, era per Eleanor una boccata d'aria fresca. Il giovane dai tratti orientali sembrava gentile e cortese, ma quella sua affermazione tradiva qualcosa in più sulla sua persona. La giovane dai capelli biondo fragola si limitò ad un leggero sorriso, perfetto sui quei lineamenti eleganti prima di essere la prima ad incamminarsi verso la caffetteria. « Perché no... A volte si parla meglio con una persona appena conosciuta rispetto ad una persona che ci conosce perfettamente. » Eleanor si strinse leggermente nelle spalle, sentì il calore di quel capo così pesante e sperò in cuor suo di aver fatto la scelta giusta, almeno per una volta.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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. ╱ 𝒕𝒓𝒂𝒄𝒌 𝒕𝒉𝒓𝒆𝒆 — ' if these sheets were states ' ( "𝐝𝐨𝐧'𝐭 𝐩𝐚𝐧𝐢𝐜", 𝐚𝐥𝐥 𝐭𝐢𝐦𝐞 𝐥𝐨𝐰, 𝟐𝟎𝟏𝟐 ) december 1st, 2009 “ https://bit.ly/2GvrLgh „
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Charlie non sapeva se fosse il freddo, il lenzuolo ruvido o la solitudine a tenerla sveglia a quell’ora di notte. Prendere sonno non le era mai stato facile, doveva ammetterlo, ma da quando aveva smesso di condividere la camera con sua sorella Maia l’insonnia era aumentata a livelli esponenziali. I lunghi capelli castani, sciolti sul cuscino, le facevano pizzicare il collo in modo terribilmente fastidioso, e fu per questo che la ragazza balzò a sedere di scatto e si alzò dal letto. Da un paio di mesi a quella parte aveva stabilito una routine di emergenza che – garantito scientificamente – era in grado di procurarle il sonno, e benchè la frustrasse molto ammetterlo, nelle ultime settimane aveva dovuto applicarla ogni sera per fare almeno quattro ore di sonno filate. Era provata? Sì. Era meglio di niente? Nuovamente sì. Charlene Wallace uscì dunque dalla propria camera e, con passo il più leggero possibile, scese le scale dell’appartamento per entrare nella luminosa sala che si affacciava sullo skyline di New York. Rimanendo, come ogni sera, ipnotizzata dalle luci dei palazzi e delle auto – che anche alle quattro di mattina illuminavano la stanza in modo stupefacente – la giovane perse qualche attimo ad osservare il panorama, proseguendo poi il suo percorso ed entrando nella cucina. Raddrizzando la schiena e stirando le braccia, aprì il frigorifero, da cui estrasse una bottiglia di latte; una volta portato a termine il primo step della routine, fece retromarcia e tornò nel salone, dove si sedette per terra, dinanzi all’enorme vetrata. Furono lunghi secondi di silenzio quelli che passarono dal momento in cui Charlie si mise seduta a quando portò alla bocca la bottiglia di latte – e fu un silenzio in cui la giovane si immerse con tutta se stessa, come alla ricerca della pace. Tamburellava ritmicamente le dita sul ginocchio e osservava il cellulare, in attesa che le quattro e quindici minuti scoccassero. - - Perché sapeva che la chiamata non avrebbe tardato. [ . . . ]
“ Quattro e sedici. Hai qualcosa da dirmi? ” “ Che sei noiosa, ad esempio? ” Il solo sentire la voce di Maia fece sorridere Charlene, che portò una mano alla bocca per soffocare una risata. “Oggi papà è impazzito perché Scott si è preso un giorno di malattia. Avresti dovuto esserci. – iniziò a dire la più piccola, abbassando la voce per timore di svegliare i genitori. – Inoltre credo che abbia una fidanzata. Scott, dico, non papà. Ride sempre, anche quando deve fare turni infiniti in ospedale. Non so come la penseresti tu, ma sono piuttosto sicuro che il sorriso sul suo volto sia quello di qualcuno che scopa regolarm - - " “ / Taci /, Charlie! – sibilò interrompendola Maia, aggiungendo un verso disgustato. – Che schifo. Scott non fa sesso. ” “ E’ quello che ti dici per stare tranquilla? ” “ Ugh. ” “ Secondo me abbiamo nipoti disseminati per tutti gli USA. ” “ / Ugh /! Sto per riattaccarti il telefono in faccia. ” Entrambe le sorelle risero, e Charlie strinse la presa sul telefono. Chiuse gli occhi, ascoltando la risata delicata di Maia, e si lasciò sfuggire un sospiro triste. Il silenzio che calò tra Maia e Charlie fu sereno ma nostalgico, per niente imbarazzante: le due, infatti, riuscivano a comunicare anche senza dire nulla, come se connesse mentalmente. Quello delle 4:15 era il loro appuntamento da mesi, più precisamente da quando Maia si era trasferita per via dell’università: entrambe avevano dormito insieme per tutta la loro vita, e la sindrome dell’abbandono di cui stavano soffrendo era indice del loro fortissimo legame - - Persino più stretto di quello che le legava a Scott. “ Mi manca dire le cazzate con te ”, commentò infine la maggiore, con un filo di voce. Charlie tacque per qualche attimo, prima di schiarirsi la voce. “ A me manca tutto del vivere con te. ”, ammise poi, con tono mesto e lievemente imbarazzato. “ Torno tra meno di due settimane – disse con voce morbida Maia, arrivando come una carezza alle orecchie della sorella. – E poi hey - - quasi Natale .” “ Due settimane sono tante. ”, commentò Charlene. “ Non tante quanto immagini. ” L’ennesimo silenzio aleggiò tra le due ragazze, prima che uno sbadiglio da parte di Maia si insinuasse tra di loro. Charlene sapeva che la sorella era stanca, ma in quel caso specifico non riusciva proprio ad essere altruista e a dirle che non serviva sentirsi tutte le notti. Perché a lei serviva. Senza di Maia, in quella casa, a Charlie pareva di impazzire, e l’assenza della sua migliore amica rendeva il tutto ancora più drastico e intollerabile. Mantenere quella relazione a distanza era difficile, e la più piccola aveva dolorosamente dovuto ammetterlo a se stessa: lei, bloccata a New York nella solita vita, e Maia, circondata da gente nuova e finalmente libera dalla morsa del padre. Charlie aveva pensato più volte di tagliare gradualmente quel legame così profondo che le univa, in favore soprattutto della vita sociale della sorella, ma non era sicura di volerlo fare, men che mai dopo così poco che Maia era partita. “ Hai lezione presto, domattina? ”, domandò dunque, con un filo di voce. “ Alle otto. Tu? ” “ Io sono al liceo, quindi / certo /. ” “ Scusami, viperetta. ” “ Vuoi andare a dormire? ” “ No, possiamo parlare ancora un po’. ” Charlene, però, non era stupida. Sentendo la voce impastata della sorella, capì che la poveretta era esausta, e che non aveva la forza di stare ulteriormente al telefono. Fece dunque uno sforzo, e simulando uno sbadiglio, fece intendere a Maia di essere stanca. “ Dovremmo dormire, sai? Lo studio ci esaurirà, altrimenti. ” Una risata sollevata arrivò alle orecchie di Charlie, che sorrise nel sentire sua sorella così a suo agio a parlarle anche nel cuore della notte. “ Hai ragione. Torna a letto, baby Wallace. ” “ E anche tu, mega Wallace ” Prima di chiudere la conversazione, entrambe rimasero in silenzio. Gli occhi di Charlene erano ancora fissi sul panorama, e si chiese se la sorella stava facendo lo stesso, dalla finestra della sua stanza chissà dove. “ To the moon and back, mostriciattola. ”, sussurrò Maia. Charlie sorrise e annuì, consapevole che la sorella non potesse vederla. “ To the moon and back, rospa. ”
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Teresa, gli amici russi e la lettura di poesie
Mi sveglio al mattino presto ormai. Ci provo, non riesco a star fermo. Per anni sono stato convinto che non lavorare, essere ricchi voglio dire, senza lavorare appunto, fosse meglio. Una cosa grandiosa. Viaggiare, conoscere il mondo, aver tutto il tempo da dedicare alle cose che ti piacciono, non so, uno sport, l’arte, scrivere o leggere, cantare, dipingere, danzare. Tagliare cancri o zinne, come diceva un amico chirurgo. Cose così. Per un sacco di anni ci ho creduto. Poi ho cominciato a capire. Lavoravo tanto e arrivavo alle ferie di agosto, come ogni lavoratore che si rispetti. La voglia di dimenticare tutto, spassarmela. Fare wash out, dimenticare. Dimenticare il mondo. E mi lasciavo andare, molto. Bevevo da prima di mezzogiorno, che il vecchio Frenk diceva Mai prima delle 7 p.m.! E così facevo un sacco di casini. Umani, soprattutto, non incidenti, a guidare sto attento e resto a distanza di passo dal mio dominio di lotta, direbbe Houellebecq. Però m’ingarbugliavo. Giravo tipo lupo affamato. Per un periodo ho pensato che fosse la frustrazione accumulata dal troppo lavoro. Ma poi udite, udite – e lo dico per i giovani, che sia d’esempio – il problema non era il mondo. Il lavoro. La fatica. L’insulso ripetersi dei giorni – oh!, com’è romantico, com’è maledetto ripeterlo! – per farla breve, il problema ero io.
Così. Questo corpo. Questo cervello. Cosa ci avevano messo dentro?
Cosa ci avevo messo dentro?
Non ho più speranza. Questo il fatto. Ti ho perso un giorno come un altro. Hai detto, Sono stanca, non voglio l’impegno. Che potevo risponderti? Va bene piccola, ti ho detto, mi dispiace tanto ma capisco come va il mondo.
Ora cerco di ritrovarti nelle ragazze a cui compro qualche mezz’ora di compagnia. Dico, ho perso una ragazza che adoravo, l’amore mi è stato strappato dal petto e sono vuoto come una crisalide vuota. Vorrei soltanto ricordare il suo odore e lo cerco nel mondo come una lupa i cuccioli che ha perso. Devo dire che se pure a pagamento queste ragazze sono comprensive, poi in realtà non le impegno molto. Le guardo. Annuso il loro esserci al mondo. Qualche bacio sulla schiena. Insomma cose piccole, niente sesso selvaggio per capirci, ma discreto. Cose leggere.
Solo per sentirmi vivo.
Il vecchio Buk scrisse che se avesse scritto d’amore e stelle avrebbero dovuto abbatterlo. Ma non siamo già abbattuti vecchio mio? Cosa ci resta da raccontare se non la passione di un sogno? Se non il languore del ricordo? Certo, il mondo è quello che è, bisognerebbe arrabbiarsi, lottare, combattere, schifarlo. Ma non ne ho la forza, scusami caro maestro. Sei troppo irraggiungibile per noi piccoli deboli umani. Sbattici fuori a calci dalla porta della tua poesia. In fondo le porte non sono tutte uguali? Ognuno resta fuori e se il nome sul campanello è Rabbia Ribellione o Angelica cosa cambia? Per me non molto. Ma capisco di non poter far testo.
Sono uno in una moltitudine.
Domenica delle palme. Gesù entra a Gerusalemme per essere torturato e ucciso. Lo sa. Sorride. Sventolano rami di ulivo. E tutto passa.
Elì, Elì, lemà sabactàni?
Passerà anche questa stazione senza far male./Passerà questa pioggia sottile come passa il dolore./ Ma dove, dov'è il tuo cuore./ Ma dove è finito il tuo cuore. ... (Hotel Supramonte - F. De André).
E’ domenica delle palme e io sono qui ad aspettarti sapendo che non verrai. Aspetto
una telefonata che non squillerà e il sole farà il suo arco nel cielo e passerà un altro giorno. Allo specchio mi dico che non è una tragedia, non è la prima volta che succede e forse succederà ancora. L’amore va e viene, come la vita e tutte le cose. Quindi alzati vecchio ‘sarà la prima che incontri per strada che coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo’ (La canzone dell'amore perduto – F. De Andrè).
Che noia però. Rivivere sempre le stesse cose.
‘Ma senza che gli altri non ne sappiano niente/dimmi senza un programma dimmi come ci si sente/continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito/farai l'amore per amore/o per avercelo garantito ...’ (Verranno a chiederti del nostro amore - F. De André).
Insomma nella testa s’incrociano un sacco di cose, ricordi, canzoni, la luce del sole così limpida effimera e pulita. Accendo il sigaro, stappo la bottiglia, guardo fuori dalla finestra il tempo che passa e mi sento così terribilmente immortale e quella che un tempo, da giovane, era la paura di morire, ora con mezzo secolo alle spalle è la speranza di morire. Dimenticare tutto. Buio e pace. Non avere più sensi o peggio il ricordo dei sensi. L’olfatto. Visioni. La sensazione della pelle ancora sotto le dita. Come se fosse stata tatuata. Una maledizione. Decido che anche oggi ti cercherò altrove. O non ti cercherò affatto. Ti dimenticherò in un bar. Purtroppo la vita mi annusa tipo lupo affamato e ogni giorno si ripresenta e bussa alla mia porta. No grazie. Ho già dato. Faccio. Manca il fiato, manca il cuore, manca un bacio.
Teresa non sono riuscito ad evitarla.
Non devi far altro che dirmi di sì, dice. Non devi far altro che questo e eleggermi le poesie che hai scritto per lei. Ho amici russi che impazziscono per questo genere di cose. Si ubriacano, carezzano le loro giovani amiche e ascoltano un piccolo poeta ubriaco e disperato che legge le sue poesie per la donna che ha perso, insomma sta cosa li eccita da pazzi. Si sentono poeti. Che hanno una storia da raccontare. Questa gente non sa cosa raccontare se non fumi di vodka e imprese poco pulite. Insomma affari. Business. Mi serve la tua disperazione. Diamogliene un po’ e vedrai che saranno felici e ci sganciano bei soldi te lo assicuro.
Ma come fai ad essere così cinica? Dico.
Tu come fai ad essere così coglione, dice lei.
Ho conosciuto per caso Teresa in una libreria dove leggevo le mie cose per i soliti pochi sfigati. Lei non so come si è innamorata dei miei testi e forse pure di me, questo non l’ho capito. Sta di fatto che la sera stessa mi ha portato di peso a casa e ha provato a scoparmi brutalmente. Teresa è una donna bionda verso la quarantina, credo, pesa centoventichili mangia e beve come un orco e a parte questo traduce il russo in italiano (e viceversa) a servizio di una combriccola di personaggi a dir poco equivoci. Io pensavo di esagerare con il vino ma non avevo mai visto un russo. Quello che consumo in nettare d’uva loro se lo tracannano in vodka e credetemi, non è la stessa storia. Insomma, Teresa impazzisce per quelle cazzate che scrivo, mi prende di peso dalla libreria Ammazzaparole dove gracchio le mie cose un paio di volte al mese e mi porta da lei. Ero mezzo ubriaco e assolutamente incapace di resisterle. E poi in fondo la mia anima perversa era curiosa di capire che sarebbe successo. Avete presente una tipa di 120 chili? Ecco. Mi ha praticamente caricato di peso in un mercedes verde che sembrava sgraffignato a uno zingaro e arriviamo al centro di Roma. Tranquillo, ho tutti i permessi, dice. Amici importanti. Mi tracanna al terzo piano di un palazzetto dietro piazza Navona. La casa sembra un magazzino, ci sono quadri poggiati alle pareti, tende e roba di ogni genere. Colleziono antiquariato, dice. E lo rivendo all’estero. Hai da bere? Ancora?
Dicevo acqua. Ah, certo, il bagno è dietro quella porta e la cucina è questa. Senti, voglio che mi rileggi quella cosa bellissima sulle ossa e poi stiamo un po’ insieme e ti propongo una cosa che non potrai rifiutare. Un’idea geniale credimi. Tu lasciati guidare e ti rendo famoso.
Non voglio diventare famoso, faccio, non me ne frega un cazzo, davvero, voglio solo i soldi per campare e fregarmene di quasi tutto ciò che è ‘sociale’.
Va bene, bello mio, sarà fatto. Ora però non rompere il cazzo, piscia, bevi e raggiungimi lì in fondo, in camera. Voglio sentire quella cazzo di poesia e poi ti dico cosa faremo. E sbrigati che ho voglia.
Voglia di che, faccio. Solo allora mi son chiesto che ci facevo in quel posto e con quella pazza. Tu non preoccuparti, dice Teresa, e sbrigati.
Ecco, così è cominciata.
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msette - ogni riferimento a persone e cose è puramente casuale
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lei.
lei era l'unica in grado di capire tutti i giochetti che lui faceva, capire le cazzate che lui diceva, le bugie, le prese per il culo. Lo aveva ammesso molte volte anche lui.
"sei l'unica con la quale non posso mentire, mi fai sentire stupido, non posso fotterti, la mia voglia di libertà mi induce a dirti cazzate pur di fare ciò che voglio, ma tu non me lo permetti, non sono riuscito nemmeno una volta ad ingannarti eppure ci provai ma non perché non ti amassi, anzi! ma perché si sa tutti amiamo la libertà.. Ma tu capisci tutto, o vieni a sapere tutto e allora succede il finimondo, tu odi essere presa in giro, piangi ed urli allo stesso tempo, e tra i singhiozzi mi dici di averti persa per sempre, perché tu sei così, cuore da bambina e cervello da stronza, orgogliosa e testarda, ami quando sbaglio, per sottolineare quanto tu sia migliore di me e per poter fare la stronza, ma allo stesso tempo mi odi, perché tu sei buona, dai sempre anima e cuore e poi vieni pugnalata. Però lo sai, non ho mai sfiorato nessuna donna all'infuori di te, ho sempre amato te, il tuo carattere, il tuo corpo, la tua risata e anche le tue lacrime. Tu non eri di certo stupida, anche se avresti tanto voluto esserlo, perché a volte ad essere intelligenti si soffre il doppio, perché capisci il doppio delle cose, e ci stai male. Un'ingenua quando qualcuno la sta imbrogliando o la sta usando mica lo capisce, io ero abituato così, non mi hanno mai capito, tutte quelle prima di te riuscivo a prenderle per il culo benissimo, non capivano mai, non sapevano tenermi testa, cazzo tu non me la dai mai vinta, hai sempre ragione, tu mi rendi una persona migliore, tu mi metti in riga. Ed io non posso fare a meno di te! No non posso! Se mai un giorno tra di noi dovesse finire non dimenticherò mai nulla della nostra pazza, strana, complicata, bellissima storia, un po' come te, complicata ma pur sempre bellissima. Ricorderò per sempre le volte in cui litigavamo pesante, e tu come al tuo solito piangevi, perché tu quando succede qualcosa di spiacevole piangi sempre contro la tua voglia, e allora non importava chi avesse torto e chi ragione, io dovevo asciugarti le lacrime. Mi sentivo una cazzo di nullità a vedere la mia bimba piangere per colpa mia, perché si, sei più piccola di me di un solo anno, ma sei la mia bimba, posso dire di averti cresciuta io tra le mie mani grandi, le mie spalle larghe e le mie parole abbastanza taglienti da spezzarti in due a volte. Non dimenticherò mai le interminabili giornate insieme, i baci sotto la pioggia, i baci dento l'acqua, con la sabbia fra le labbra, i baci tra le lenzuola, gli abbracci stretti, le volte in cui appoggiavi la testa sul mio petto e dicevi "amore sento il battito", le corse tenendoci per mano per non perdere l'autobus, e nonostante fosse stato più comodo ed efficace lasciarci la mano in modo da correre più veloce, preferivamo perderlo insieme mano nella mano. Non dimenticherò mai la nostra intimità, i momenti nostri, tutto ciò che siamo stati, tu c'eri sempre per me anche se a volte ero davvero un pezzo di merda, mi scrivevi messaggi lunghissimi straboccanti di sentimenti ad ogni riga, al quale io restavo a bocca aperta, perché hai davvero un modo di scrivere stupendo ed io vorrei riuscire a scriverti le stesse cose ma ho questo "cervello chiuso" che non me lo permette. Avrei voluto dirti tante cose ma non ho trovato modo. Adesso è finito tutto, e mi manca terribilmente tutto il bordello che mi creavi dentro quando litigavamo. Mi manca tutto quello che ho scritto sopra. Mi manchi e mi sono pentito di averti lasciata andare così facilmente. Mi sono pentito di tutti i miei errori. Ti amo ancora e nonostante capiterà che starò con altre ragazze, ricordati che mi hai insegnato ad amare, le altre mi toccheranno il petto il cuore l'hai toccato solo tu e batte solo per te. Ti amerò sempre piccola."
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Lettera a mamma e papà
Cari mamma e papà, io non vi parlo spesso, e se lo faccio, vi dico cose futili. Quello che avete saputo dallo psicologo, di quello che io provo e sento, non è tutto. Partiamo da quello che già sapete, tipo il fatto della socializzazione: il problema è che dopo tre anni passati in “schiavitù” di una che non so se si può definire “migliore amica”, che mi sfruttava, minacciava, mi rinfacciava tutti i giorni i miei difetti, mi malleava a suo piacimento, facendo leva sul fatto che io fossi più debole, più sola, più timida di lei, non sono più in grado di fare amicizie. Lei aveva un sacco di amici e se ne vantava sempre, mentre io avevo solo lei: questo lei lo sapeva, e per questo, mi trattava male, sapendo che non l’avrei mai allontanata. Io ero rimasta accanto a lei, non solo perché le volevo bene nonostante tutto, ma anche perché speravo che un giorno sarebbe migliorato tutto, purtroppo mi illudevo soltanto e l’ho capito a mie spese. Quando qualche mese fa, io e lei litigammo per l’ennesima volta, lei si stufò di tutti questi litigi e decise di allontanarsi, di lasciarmi. Io mi spaventai perché ormai, dopo i tanti litigi che avevamo fatto, ero sempre convinta che non erano mai seri, visto che dopo facevamo sempre pace. Ma quando capii che faceva sul serio, soffrii un sacco, ci stetti molto male. A causa di questo, ho capito di essere facilmente sostituibile, e di non esser molto importante per la gente. Inoltre sapete che a scuola, alle medie, mi sfottevano, prendevano in giro, deridevano ogni giorno, ogni santissimo giorno della mia vita. Questa cosa, dopo tre anni passati così, mi ha lasciato profondamente turbata, perché capivo che mi prendevano in giro per qualcosa, ma non capivo per cosa. Questo cominciò a farmi sentire sbagliata. Mi vedevo piena di difetti e la mia autostima si abbassò notevolmente. In aggiunta a tutto questo, si aggiunsero anche parecchie delusioni: perlopiù d’amore. Io mi “innamoravo” spesso. Io di “innamoramenti” veri e propri ne ho avuti solo due in tutta la mia vita, gli altri erano solo cotte. Il primo nell’anno scolastico della seconda media, e il secondo nell’anno scolastico di adesso. Il primo ragazzo di cui mi innamorai, era un mio amico, ci vedevamo quasi tutti i giorni fuori scuola, era l’unico allora che mi diceva di lasciar stare gli insulti che mi rivolgevano a scuola, per questo diventammo migliori amici. Dovetti lottare contro la mia coscienza per due/tre mesi prima di capire che mi piaceva un sacco, che lo amavo. Non ebbi mai il coraggio di dirglielo. Comunque con questo amico mi trovavo molto bene, ero contenta, ecc… Ero convinta che lui mi volesse davvero bene, mi resi conto del contrario quando dopo l’estate ci ritrovammo a vederci sempre di meno, a parlare sempre di meno, fino ad arrivare al punto che quando raramente ci incrociavamo, non ci salutavamo neanche. E io mi chiedo, come si può diventare estranei dopo che si ha condiviso così tanto con una persona? Dopo che si ha passato un sacco di tempo con essa? Sono domande a cui forse non troverò mai riposta. Insomma, dopo questa importante perdita, cominciai a non sentirmi abbastanza, a sentirmi uno schifo, a sentirmi un errore.
Poi, il secondo innamoramento: cominciò tutto nello scorso settembre quando conobbi su Facebook un ragazzo, che sembrava molto gentile e dolce. Lo aiutai a conquistare una ragazza che gli piaceva che era mia amica. Fallimmo, ma ebbi comunque l’occasione di conoscerlo meglio: mi raccontò di essere un ragazzo emarginato addirittura dai suoi fratelli e dalla famiglia, mi disse di avere i genitori separati, che a scuola lo prendevano sempre in giro, che non era mai compreso dagli altri, io mi ci affezionai subito a lui, essendo un ragazzo abbastanza simile a me. Cominciammo a parlare tutti i giorni, la mattina appena svegli, oppure quando eravamo appena tornati da scuola, parlavamo anche al pomeriggio e alla sera, e sonno permettendo, parlavamo anche la notte. Di giorno parlavamo tutto di più, ma di sera, quando si cominciava ad avere sonno, lui diventava più dolce e diceva tipo che ero bellissima, dolcissima, gentilissima e che ero una perfetta migliore amica. Avvolte mi chiamava “orsetta” o “cucciola” e mi piaceva un sacco, mi sentivo finalmente amata. E così mi illusi, di nuovo. Mi innamorai di lui come un’idiota. Visto che era l’unico ragazzo che cercava sempre di farmi felice quando ero triste, cercava sempre di farmi ridere, e ci riusciva alla perfezione, lo amavo alla follia. Era sempre disponibile quando ne avevo bisogno, riusciva a farmi sorridere davanti ad un semplicissimo schermo e a volte per questo, la gente mi prendeva per scema, ma a me non importava, mi importava solo di lui. Lui mi promise che sarebbe rimasto al mio fianco, e io che l’avrei sempre fatto felice. Propositi entrambi falliti, con mio grande dolore, poiché io ci credevo un sacco. A ottobre ebbi grazie a un’amica, il coraggio di dirgli tutto, il coraggio di dirgli che mi piaceva. Ma quando glielo dissi, fu peggio di uno schiaffo in piena faccia, perché lui mi disse di vedermi solo come un’amica. Lui rimase dispiaciuto dal fatto che io sarei stata un po’ triste per questo. Sì, ci stetti male, ma io intestardita, non persi la speranza e continuammo a parlarci come se niente fosse successo, io nel frattempo, lo amavo ancora. Dopo un mese, glielo ridissi, gli confessai di nuovo che l’amavo, lui mi disse ancora una volta di vedermi come un’amica e io cominciai a soffrirci. Lui nel frattempo mi raccontò della sua cotta e mi chiese anche di aiutarlo a fare in modo che questa ragazza che gli piaceva, gli dicesse di sì. Io accettai, pur di non perderlo (era la mia più grande paura) però questa ragazza gli diceva sempre di no. Come lui si distruggeva per questa ragazza, io mi distruggevo per lui. Ci stavo sempre più male. Poi a dicembre gli dissi per la terza volta che mi piaceva, e ricevetti sempre un no. Soffrivo sempre di più. Poi nell’arco dei tre mesi seguenti, glielo dissi per la quarta e quinta volta, e come risposta che ho ricevuto? Sempre uno schifosissimo “No”. Più esattamente mi disse “Isa, al momento non mi piace nessuna, ma tu no, non mi piaci. Ti vedo solo come un’amica su cui contare sempre, quando se ne ha bisogno.“. Io non so da dove ho tirato fuori la forza di amarlo per sette, quasi otto mesi, ricevendo sempre da lui, delle porte in faccia. Dopo quest’esperienza, mi sentii completamente distrutta, io avevo lottato per il suo amore, ma non è servito a nulla. Io ero rimasta nonostante il dolore che mi opprimeva, ho voluto mollare diverse volte, ma mi sono sempre fatta forza da sola, e sono andata avanti. Attualmente, è un po’ di tempo che non ci sentiamo più, poiché abbiamo litigato. Io per questo litigio, ci ho sofferto come non mai, e ora mi manca terribilmente, avevo anche pensato di chiedergli di ritornare nella mia vita, ma non l’ho fatto perché me ne sarei sicuramente pentita. Ora, a causa di quello che ho passato, è come se avessi paura della gente, paura che appena mi conosca meglio, cominci a giudicarmi, perché la gente mi ha convinta che io sono un casino, che io sono sbagliata, cretina, stupida e quant’altro. Io non vorrei essere giudicata diversa, ma purtroppo è questo che fa la gente. Mi dicono che sono troppo diversa per essere come gli altri. Per il dolore che ho dovuto subire in questi ultimi anni, un dolore che non avevo mai provato, un dolore che mi ha colpito così all’improvviso che io non ho saputo come affrontarlo, e ne sono rimasta “ferita”. Per questo dolore, ammetto di aver pensato più volte al suicidio, fino a qualche tempo fa, quando nessuno ancora sapeva niente di ciò che provavo, pensavo ogni giorno di essere un disastro e di meritar di morire. Ho anche pensato all’autolesionismo, ma non l’ho mai preso veramente in considerazione. Io con tutto questo, vi volevo dire che non ce la faccio più a subire tutto questo dolore, perché sì, io ci soffro ancora per quello che è successo. Non è facile lasciarmi tutto alle spalle. Questi sono ricordi che rimarranno per sempre nella mia mente. Vorrei trovare un modo per non soffrire più… Però mi sa che non esiste.
Con affetto, una ragazza distrutta.
(First posted on 09 May 2014)
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Diario veneziano: Jude Law papa scostumato (con paradiso di belle fanciulle) in “The New Pope” di Sorrentino; tutti (ipocriti) contro Polanski; voglio parlare con il figlio di Tarkovskij, autore di un documentario commovente. In appendice, Thomas Mann e un carro di m***a
Nella sua abbacinante semplicità, il primo sketch di The New Pope, divulgato ieri, seduce. Paolo Sorrentino non ha fumi felliniani, né fughe nella bruma del simbolo. È essenziale, essenzialmente cinico, come un pubblicitario di genio. Anche in questo caso, la ‘trovata’ è ottima. Jude Law, in costume smilzo, sguardo che annienta e fisico augusteo, sfila in passarella, in spiaggia, tra turbe di belle fanciulle – il paradiso coranico? –, l’ultima delle quali, inequivocabilmente in calzamaglia da Madonna, sviene, stordita da cotanta divinità. In alternativa, John Malkovich, addobbato da ‘nuovo papa’, dribbla un tripudio di cardinali in estasi. Se Jude ha la faccia spavalda, John la china in ardua concentrazione: chi dei due è figura di Dio? The New Pope è la caramella cinematografica che andrà in onda, prossimamente, su Sky: nel frattempo, alla Mostra del Cinema di Venezia, il primo e il 2 settembre, vanno in anteprima un paio di puntate. Fiction batte cinema. In ogni caso, sarà un successo perché il potere papale, la sottana di Dio, è la sola cosa di cui è merito parlare.
*
Una scena da “Andrej Tarkovsky. A cinema prayer”, in scena alla Mostra del Cinema di Venezia
In UK si domandano, Is the political novel dead? Il romanzo “politico”, che indaga l’arte del governo, è morto. Restano i dilettanti del diletto, i borghesi dell’indignazioni, quelli del romanzo ‘sociale’: temi astratti, ben distesi, che fanno felici tutti (es. aiutare il prossimo, proteggere l’ambiente, che brutto il precariato). Al contrario, spopola la fiction “politica”. Di recente è stato pubblicato il trailer di 1994, ultimo capitolo della serie, produzione Sky, in onda, su Sky Atlantic, il 4 ottobre. Le immagini sono bellissime – Stefano Accorsi è sfizioso, malizioso, convincente. La fiction “politica” – si racconta l’alba di Berlusconi, l’impero della Seconda Repubblica – resta, però, “spettacolo”. Gli occhi ammirano, la mente si eccita, tutto resta lì. Il potere del ‘verbo’, che fa accadere le cose, che ordina il caos dando caos all’intelletto, si sta esaurendo.
*
Per questo, proprio come in una fiction, l’importante, politicamente, è stupire. Ridurre un decennio in un’ora e mezza di film, un dibattito parlamentare in un cinguettio. Dalla folla dei cinguettanti che si credono aquile, però, manca, terribilmente, un ruggito. La prima cosa che fa un politico è comprarsi uno sceneggiatore che lo faccia diventare un ‘personaggio’ – tutto è teatro fino al delirio (affascinante da osservare, invero) di credere davvero al proprio ruolo. L’uomo sta diventando bidimensionale, le spire del suo cervello sono un immane intestino.
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Roman Polanski è ancora un punto di contraddizione. Prima lo invitano a Venezia, con il film J’accuse, poi la presidente di giuria, Lucrecia Martel, sbotta: “Non lo applaudirò. Non sarebbe giusto nei confronti di tutte le donne che rappresento e delle donne argentine vittime di stupro”. Cosa c’entra Polanski con le “donne argentine vittime di stupro”? Niente. Su di lui grava l’accusa di violenza sessuale perpetrata nel 1977 ai danni di una tredicenne, a casa di Jack Nicholson. Per non sottostare a giudizio, Polanski è scappato in Francia. Ciò non gli ha impedito di esercitare, con lauto successo, la sua arte fino a vincere un Oscar, nel 2003, per la regia de Il pianista, che ovviamente non è andato a ritirare. In effetti, torna sempre a galla questa brutta storia, che si alimenta di ipocrisie. O condono o perdono, non c’è altra via.
*
Di padre in figlio. Il 30 e il 31 agosto a Venezia mostrano Andrey Tarkovsky. A Cinema Prayer. Ho avuto il privilegio di vedere il documentario in anteprima. Le immagini sono bellissime – la lingua non la capisco, il film è in russo. Tarkovskij ha il viso quadrato e gli occhi in grado di ospitare tutto il mondo: in alcune pellicole lo si vede che passeggia tra le spoglie del Rinascimento italiano, e si respira un’aria di eternità, come se l’avessimo avuto, il nostro Paradiso in terra, intriso di sangue e di azzurro, e non ne avremo un altro. Andrej Tarkovskij, autore di film necessari come Andrej Rublëv (1966), Stalker (quarant’anni fa), Nostalghia (1983), era figlio del poeta Arsenij Tarkovskij, sodale di Anna Achmatova e Osip Mandel’stam. Il documentario è realizzato dal figlio di Tarkovskij, che si chiama Andrej pure lui, nipote di Arsenij. Questo legame tra padri e figli, questi nomi che iniziano con la lettera A, mi affascina. Presto spero di poter chiacchierare con il figlio di Tarkovskij.
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Una amica mi ricorda chi sono ricalcando il pezzo di una cosa che ho scritto. Mi convince. Ma non ricordo da dove giunge, da quale libro? Di me sono dimentico.
“Oggi l’ho trovata nuda. Si è liberata delle coperte, si è tolta i vestiti. Nuda, nel letto con le sponde, sembra un passerotto in gabbia. A volte mi pare che la nonna si trasformi. Ora è un passero, domani un topo, dopo domani una iguana – fa paura perché la sua natura, ora, è più vicina al resto degli esseri che all’uomo. A volte, penso, può balzare dal letto e sbranarmi. Oltre a spogliarsi, la nonna si è tolta il pannolone. L’ho vista, di pomeriggio, con le mani sporche di merda: si leccava le dita. Mangiare la propria merda vuol dire che non si avverte più la differenza tra ciò che si ingurgita e ciò che si espelle, non si sente più la necessità di ricordare quello che si vede. La scena non mi sorprende. Quando parlo con la nonna assumo la voce rassicurante di un monaco o di un boia. Candida, tesa, indifferente. Tolgo lenzuola e coperte, le butto nella vasca da bagno. Faccio scorrere l’acqua – immagino torrenti artici, il sotterraneo sussurro dei ghiacci. Riempio una bacinella, spruzzo il sapone, piglio la spugna. Abbasso una sponda del letto. Ruoto mia nonna, in modo da avere il suo culo, floscio, magrissimo, davanti a me. Immagino di benedire un bambino. Non ci vuole un carisma particolare per occuparsi del prossimo, non occorre inspirare Dio, indossare l’estasi dei missionari o degli scout. Lo si fa e basta. Per convenienza sociale, per mero desiderio di pulizia. Con la spugna lavo il culo della nonna, lo pulisco dalle scaglie di merda che si sono indurite, sulle gambe. Faccio tutto a mani nude, sperando, forse, che un’infezione letale mi divori gli arti, la lingua, le mani. Cosa sarebbe di me se non riuscissi più a scrivere? L’importante è che funzionino i denti: scrivere, in fondo, è mordere. Non è la prima volta che maneggio la merda: prima della nonna pulivo quella del nonno. La merda, in fondo, infine, è l’essenza dell’essere umano. L’unica cosa di cui è naturale produttore. Ciò che hai sottratto alla terra, ritorna in forma di merda. Ora capisco la teoria puritana del denaro come ‘sterco del demonio’. Basta togliere la parola ‘demonio’ – che è l’analogo del senso di colpa – e il gioco funziona: tanto guadagni e tanto devi ridare al mondo che ti ha concesso quel guadagno. Se rompi l’equilibrio, vai in blocco intestinale, muori. La merda è il reliquiario di ciò che siamo: cosa sacra e intoccabile. Per questo, il water è simile a un trono e facciamo scomparire gli stronzi nell’acqua, l’elemento più puro e importante della terra. Sono il casto sacerdote della merda di mia nonna. Al contrario del cuore – volgare pompa che fa funzionare un meccanismo umano – è la merda la sintesi dei nostri sentimenti; siamo come caghiamo. Non è il cuore la sede dell’amore, ma il culo, da sempre”.
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Rileggo Thomas Mann, le Considerazioni di un impolitico. La sua lancinante autonomia. “Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”. (d.b.)
*In copertina: Jude Law in “The New Pope” di Paolo Sorrentino
L'articolo Diario veneziano: Jude Law papa scostumato (con paradiso di belle fanciulle) in “The New Pope” di Sorrentino; tutti (ipocriti) contro Polanski; voglio parlare con il figlio di Tarkovskij, autore di un documentario commovente. In appendice, Thomas Mann e un carro di m***a proviene da Pangea.
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⤹ 𝐝𝐞𝐚𝐫 𝐚𝐮𝐧𝐭. 📝 ; 𝖺𝗇𝖽𝗋𝖾𝖺'𝗌 𝖽𝗂𝖺𝗋𝗒.
‘ Cara zia, Ti scrivo per chiederti scusa. Spero tu possa riuscire a perdonarmi per come mi sono comportata, per la mia mancanza di rispetto nei tuoi confronti, per la mia assenza e per la mia indifferenza. La tua bontà è sempre stata così grande, ed io così piccola, incapace di apprezzarla di dovere. A volte l'ho fatto, a volte ho sbagliato e non c'è giorno in cui io non mi senta terribilmente in colpa per il mio menefreghismo ed egoismo. Tu, al contrario, sei sempre stata gentile, precisa, non hai mai dato nulla per scontato.
Ti ricordi di quando mi venivi a prendere a scuola, perché i miei genitori e i nonni non potevano? Mi portavi sempre un panino con il formaggio perché sapevi che il mio stomaco avrebbe brontolato e che io mi sarei lamentata per tutto il tragitto scuola - casa se non avessi mangiato qualcosa. Non credo di averti mai ringraziata sul serio per la pazienza che hai portato in quei momenti, non ti ho mai ringraziata per aver sempre riservato cinque minuti del tuo tempo per pensarmi e per prepararmi la merenda. Penso che cucinare sia il gesto d'amore più grande se fatto per qualcuno, immagino di averlo appreso da te questo concetto, perché ogni volta che venivo a casa tua mi facevi trovare qualcosa da sgranocchiare ed io mi sentivo coccolata e amata. Mangiavo anche i biscottini, nonostante a me i biscotti non sono mai piaciuti perché troppo secchi. Non ti dicevo mai che non li volevo perché mi guardavi con il sorriso dolce e gli occhi felici, temevo di darti un dispiacere, quindi mandavo giù il tutto con il succo di frutta e senza lamentele.
Io e Riley dormivamo da te e dallo zio quando mamma e papà avevano il turno di notte. Ricordo che ogni volta prima di spegnere le luci della stanzetta venivi a darci dei piccoli e teneri baci sulle guance per augurarci la buonanotte. A volte scherzavi e ci facevi il solletico e io mi divertivo a farlo a te sul collo. Tu ridevi, ma forse lo facevi quasi in maniera forzata perché ero piccola e non ero ancora capace di fare il solletico. Mi piaceva dormire a casa vostra, perché sembrava come se andassi in vacanza per una notte in un luogo magico e splendido. Crescendo non sembrava più come se andassi in vacanza, sembrava come se andassi nella 𝐦𝐢𝐚 𝐬𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐚 𝐜𝐚𝐬𝐚, nel mio secondo luogo sicuro. Tu e lo zio eravate i miei preferiti, lo zio per le lezioni di batteria, tu perché 𝘯𝘰𝘯 𝘮𝘪 𝘧𝘢𝘤𝘦𝘷𝘪 𝘮𝘢𝘪 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘪𝘳𝘦 𝘴𝘰𝘭𝘢.
Sono sempre stata certa del fatto che tu fossi nata per diventare madre, trattavi meravigliosamente le tue nipotine, figuriamoci cosa avresti fatto con un bambino proprio tuo. Ho scoperto la tua immensità quando è nata Margherita, la tua prima e unica bambina. E' nata con i capelli rossi anche lei, ma ha gli occhi verdi, non celesti come me e te. L'hanno sempre scambiata per la mia sorellina minore e immagino che questo abbia fatto soffrire particolarmente Riley. Non l'ha mai detto, ma la faceva sentire diversa ed esclusa, perché non ha i capelli rossi, tanto meno gli occhi chiari come i miei. La sua adozione non è mai stata un problema per nessuno, soprattutto per te. Non ti sei mai azzardata a farla sentire tagliata fuori dalla famiglia, perché era tua nipote e l'hai sempre sentita e definita tale. Riley ti ha sempre amata per questo, sai? Comunque, né io, né Riri abbiamo sofferto di gelosia quando è nata Margherita, eravamo già abbastanza grandi da capire che quella bambina fosse la tua felicità, la tua gioia più grande, finalmente qualcuno ti avrebbe chiamata «mamma» per tutto il resto della vita ed era tutto ciò che desideravi. Nonostante questo non hai smesso di esistere nella mia vita (o in quella di mia sorella). Non hai mai perso un mio saggio di danza classica, hai assistito ai miei miglioramenti come batterista, ti sei sempre interessata alla scuola e ai miei studi. Mi chiedevi se ci fossero materie troppo complesse per me ed io ti dicevo di no, perché era vero, non avevo mai problemi con lo studio e tu eri fiera di me. Mi hai sempre invitata a casa tua per le solite merende alle quali, tra l'altro, hai tolto i biscotti dopo aver scoperto tramite mamma che non mi piacessero. Li hai sostituiti con la torta di mele, l'ho assaggiata da te per la prima volta e non ha mai smesso di essere la mia torta preferita da quel momento. D'inverno accompagnavi il tutto con il tè caldo e ogni volta mi facevi provare un gusto diverso, d'estate, invece, con il solito succo di frutta all'ananas o ai mirtilli. Mi hai vista crescere e non ti sei mai offesa per i pomeriggi in cui declinavo i tuoi inviti perché avevo da studiare, non ti sei mai irritata quando nei periodi più stressanti non ti facevo neanche una telefonata.
Poi arrivava la mia, anzi, la nostra festività preferita. Ad ogni singolo Natale tu eri sempre lì, sorridente e felice esattamente come me. Mi facevi i complimenti per come apparecchiavo la tavola, perché ormai sapevi fosse quello il mio compito. Mi abbracciavi e mi ponevi mille domande, facevi battutine sui fidanzati senza risultare pressante come la nonna, mi chiedevi di scattare delle fotografie per avere dei ricordi e solo adesso mi rendo conto quanto siano importanti quegli scatti. Perché almeno lì sei presente, almeno in quelle immagini ferme tu ci sei ed è l'unico modo per poterti rendere tangibile e non solo un pensiero astratto. Non so per quale motivo il destino abbia deciso di farti peggiorare durante il periodo natalizio, portandoti poi via i primi di gennaio. Hai resistito fino all'ultimo, ma non ce l'hai fatta e non ce l'ho fatta neanche io, perché non riuscivo a mettere piede in ospedale.
Non ti ho detto addio e ti chiedo scusa per questo. Sapevo benissimo che da un momento all'altro saresti andata via, ma non mi sono presentata da te, non mi sono fatta vedere per un'ultima volta. Immagino avresti voluto vedermi, chiedermi di New York e dirmi di aver fatto bene a lasciare Dublino, perché viaggiare significa conoscere ed imparare, due verbi ai quali non va mai messo il punto finale di seguito. Non ti ho mai dato l'opportunità di farmi tutte le domande a cui avrai sicuramente pensato, non ti ho mai permesso di viaggiare con la mente fino a farti arrivare fin qui, negli Stati Uniti, perché per tutto il tempo in cui tu eri in ospedale, io ero nella mia camera di Dublino a fare finta di niente. Fingevo che tutto stesse andando bene, fingevo che il fratello di papà non stesse perdendo sua moglie, fingevo che Margherita non stesse perdendo la mamma, fingevo di stare bene. Fingevo alla grande, perché non ho mai pianto in quel periodo e non davo segni di cedimenti. Il Natale di quell'anno fu strano, tu non c'eri, ma eri viva e fingevo che tu stessi in vacanza, in qualche posto caldo e con il mare limpido. Ti immaginavo sdraiata sotto al sole con il corpo pieno di crema, perché come me avevi la carnagione molto, molto chiara e un'esposizione al sole implicava tornare a casa con un'ustione non indifferente.
Ma non eri in un posto caldo, non eri in vacanza e me ne sono resa conto solo il Natale seguente e quelli successivi. Non ti dimenticavo e non ti dimentico durante il resto dell'anno, ma da quando mi sono trasferita a New York, Dicembre e Natale rappresentano i momenti più importanti in quanto ritorno in famiglia. Tornare subito dopo la tua morte e non ritrovarti seduta davanti a me a tavola, durante la celebrazione della festività, mi ha fatto male. Sentivo un vuoto e un silenzio assoluto, nonostante le persone parlassero e avessero la forza di scherzare. Mi sono accorta in quel momento che eri andata via sul serio, che non saresti più tornata e sono scoppiata in lacrime come una disperata dopo essermi rifugiata in bagno. Mi mancavi come l'aria e continui a mancarmi anche oggi. Mi mancano i tuoi dolci, i tuoi sorrisi, i tuoi tè. Mi mancano i pomeriggi in cui guardavamo i cartoni animati della Disney insieme, mi mancano i pomeriggi in cui mi portavi a lezione di danza, mi mancano le nostre creazioni con i Lego. Mi mancano i tuoi regali di Natale accurati e ben pensati, mi manca comprarti un regalo ed impacchettarlo con estrema cura per impressionarti. Mi manchi così tanto che non riesco neanche a dirlo ad alta voce, perché poi il sentimento triste e la tua scomparsa sembrerebbero ancora più reali di quel che sono.
Lo so, sono passati anni da quando sei andata via, ma per me è come se fosse passata poco più di una settimana.
Ti chiedo scusa per non averti mai scritto una lettera prima d'ora, ti chiedo scusa per aver soffocato ogni pensiero su di te per evitare a tutti i costi di abbandonarmi alla tristezza, ti chiedo scusa per non essermi presentata in ospedale quando eri in fin di vita e avevi bisogno anche del mio supporto, ti chiedo scusa per non averti detto addio, ti chiedo scusa per non aver più parlato di te con la mia famiglia, ti chiedo scusa per non aver più onorato la tua memoria con le mie parole. Ho pensato che nascondere questo lutto potesse aiutarmi a stare meglio, ma nascondere significa finire per dimenticare, ed io non ti voglio dimenticare. Non voglio che tu sparisca dalla mia mente, voglio che tu ci sia sempre, perché non ho perso solo una zia. 𝐇𝐨 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨 𝐥𝐚 𝐦𝐢𝐚 𝐬𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐚 𝐦𝐚𝐦𝐦𝐚, uno dei miei punti di riferimento, la mia roccia, la mia sicurezza, la mia seconda casa. Sento la tua mancanza ogni giorno, sento la tua mancanza a Natale e anzi, durante le feste la sento il doppio, perché il posto a tavola davanti a me era sempre riservato a te e ora quando lo guardo, seppur la sedia viene occupata da Margherita, nel mio cuore rimane un vuoto incolmabile.
Ma con gli anni ho realizzato che tu sei ovunque. Sei nella torta di mele che ho imparato a cucinare. Sei nelle luci che appendo intorno all'albero di Natale. Sei nei miei maglioni gialli e allegri. Sei nei miei vestiti floreali. Sei nei miei panini con il formaggio che ogni tanto mangio per merenda. Sei nelle bustine di tè. Sei nei biscotti di ogni tipo e di ogni marca. Sei nelle locandine degli spettacoli di danza classica che incontro per strada. Sei nella batteria che ho comprato e posizionato nel mio studio. Sei nei miei sorrisi più gentili e dolci. Sei nei miei capelli rossi naturali. Sei nei miei occhi celesti. Sei nei miei ricordi. Per sempre. ’
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