#che alte riflessioni
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ieri a una cena di natale conosciuto bono di guadalajara che ovviamente fa arrampicata, è simpatico, alto, sorridente, tipo ben feldman ma più bono, programmatore freelance che ha vissuto anche a parigi, e finite le chiacchiere con lui sono tornato dalle mie amiche che nel frattempo stavano ballando con un pollo di plastica e un orsetto di peluche, e ho capito che al mondo ci sono due tipi di persone. e anche se di là l'erba è sicuramente più verde, redditizia e divento cretino quando un bono mi parla, io appartengo decisamente al secondo gruppo. w i boni ma anche w i cretini
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Sila al Faseeh e la linguistica.
Probabilmente complice il forte riverbero delle illuminazioni natalizie, il decesso per assideramento, di Sila al Faseeh (di tre settimane di vita), in quel di Khan Younis, tendopoli per disperati e reietti della striscia di Gaza, non fa più notizia.
Anzi, stupisce che i media diano informazioni, proprio nell'esatto momento nel quale, si scartano i doni, rovinando quella magica atmosfera di leggerezza.
Sorprende, invece, che, ad eccezione di sparute riflessioni (quasi sempre delle sole alte sfere ecclesiastiche) nessun parlamentare e esponente del governo italico, abbia trovato il tempo, impegnato tra viaggi in terra lappone, concerti al Senato, manovra economica et similia, ad esprimere un solo pensiero "maternodiradicicristiane", preferendo piuttosto disquisire finemente sulla differenza lessicale e linguistica, tra genocidio e diritto alla difesa.
Ebbene si, la linguistica è oggi, oggetto speculativo, necessario e utile persino per giustificare i nuovi Erodi.
Comprenderai, quindi, cara Sila al Faseeh, che oggi saresti ancora presente, se la dotta dissertazione avesse trovato un punto di convergenza, tra i sostenitori dell'una e dell'altra denominazione.
Ahinoi, l'ampia e particolareggiata esposizione sulla "quaestio" lessicale, è ancora lontana dall'essere risolta.
Con buona pace del pensiero maternodiradicicristiane.
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Carico le foto su vinted, sistemo il cv per partecipare a dei concorsi in uni, dipingo cose che madre mi porta (tipo damigiane vuote), faccio letture di tarocchi online, mi tengo impegnato insomma. Trasversalmente catalogo le mie relazioni sentimentali con frasi di canzoni.
"con me non devi essere niente" (Piromani - Le luci della centrale elettrica) - Primo amore, prime toccate, primi casini.
"dopo un'attenta analisi confronti e riflessioni, ho capito che io, no, non ho capito niente di te" (Mi vida - linea 77) - Mai capito nulla di quella persona, solo sofferenza.
"mi sono innamorato di te perché il mio pisello non aveva niente da fare ma adesso smetto" (Sono troppo stitico - Caparezza) - Durata poco, sono scappato come al codardo.
"verrà la morte e avrà i tuoi occhi" (poesia di Pavese) - Ci credevo molto, poi qualcosa si è rotto quando lei non credeva in me.
"quando a casa tornerai, vienimi a trovar, io ti posso offrire il pane" (La canzone del pane - I Camillas) - Quanto amore, inversamente proporzionale alla voglia di stare insieme.
"tu hai l'anima che, io vorrei avere" (En e Xanax - Samuele Bersani) - Poi ho capito che quello che nascondeva era più tremendo di quello che avevo dentro io.
"Tu fumavi ed ostentavi una malinconia che male si intonava coi tuoi leggings fluorescenti" (Hipsteria - I cani) - Qualche schiaffio in faccia per farmi capire chi avevo di fronte mi ci voleva.
"Vorrei stare sempre così, avere cose pratiche in testa" (FBYC - I cani) - In questo caso non c'ha capito nulla lei di me.
"Do not spray into eyes, i have sprayed you into my eyes" (Taro - Alt J) - i sentimenti sono belli, le relazioni sono brutte.
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Per l'Estate Fiorentina 2024 il “Glass Sound Festival” presenta mercoledì 10 luglio alle ore 21 Gregorio Nardi in concerto al Tepidarium del Roster, la splendida serra in stile liberty nel Giardino dell’Orticultura, Via Bolognese, 17A.
La valorizzazione della musica popolare ad opera dei Romantici ha portato alla realizzazione di molte fra le più alte realizzazioni artistiche – non solo dell’Ottocento ma anche di tutto il Novecento.
I più grandi compositori si sono interrogati sulle possibilità di includere nei propri capolavori alcuni temi, procedimenti, tipici della musica che oggi definiamo Folk.
Le scuole nazionali si sono così nutrite delle versatilità offerte dalla musica tradizionale polacca, ungherese, irlandese, russa, norvegese, boema, spagnola, rumena e così via.
Nel programma, Gregorio Nardi esplorerà un minuscolo frammento di un tale poliedrico universo musicale.
Dalle mazurche di Chopin ai ritmi complessi di Ligeti, dall’asprezza melancolica di Liszt agli slanci irrefrenabili di Bartok, dall’eclettismo di Busoni alle intense riflessioni di Kurtag:
lo spirito della musica popolare rivivrà in queste pagine (alcune assai rare), col gusto esuberante di un pianismo vigoroso e spettacolare.
Musiche di: F. Chopin. F. Liszt, F. Busoni, B. Bartok, G. Maglioni, L. C. Figueroa, G. Ligeti, G. Kurtag
#gregorionardi#estatefiorentina2024#glassoundfestival#chopin#liszt#busoni#ligeti#kurtag#amicidigregorionardi#culturafirenze#musicaperpiano#musicaperpianoforte#musicaclassica
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Verona, prevenzione dei tumori al seno: parte la nuova campagna di sensibilizzazione sull’importanza della diagnosi precoce e degli stili di vita sani
Verona, prevenzione dei tumori al seno: parte la nuova campagna di sensibilizzazione sull’importanza della diagnosi precoce e degli stili di vita sani. Ma quand'è il momento giusto per effettuare una certa tipologia di controlli? Quali sono i fattori a rischio e sintomi che ci preavvisano che qualcosa non va? Ci sono degli stili di vita sani da poter seguire? È importante conoscere il proprio stato di salute, mantenere alta l'attenzione. Per questo il Comune di Verona ha scelto di avviare, attraverso un'importante collaborazione tra l'Assessorato alla Salute, l'ULSS9 Scaligera - Screening mammografico e Fondazione Veronesi, una nuova campagna informativa e di sensibilizzazione sul tema della “Prevenzione dei tumori al seno” in occasione della Giornata mondiale contro il cancro, World Cancer Day, promossa dalla UICC - Union for International Cancer Control e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità - OMS. Per farlo ha realizzato uno specifico mini opuscolo sulla prevenzione dei tumori al seno, da oggi in distribuzione nelle farmacie e dai medici di base, che punta ad aumentare la consapevolezza delle cittadine, allertandole sull'importanza di un corretto piano di controlli, volti a diagnosticare la malattia in fase molto iniziale, con percentuali di guarigione molto alte e a ridurre l'incidenza adottando stili di vita corretti. Oltre ai 5mila mini opuscoli in distribuzione, delle specifiche locandine con un QR code dal quale poterli scaricare saranno esposte negli ambulatori dei medici e nelle farmacie. Nella miniguida sono raccolte le principali indicazioni per le donne di ogni età in merito a: quando e quali esami fare, fattori di rischio e sintomi, stili di vita, a chi rivolgersi. Domande e riflessioni a cui il Comune di Verona ha cercato nel corso del 2023 di dare risposta attraverso una serie di incontri realizzati in tutte le Circoscrizioni con il supporto di specialiste del settore. Un'occasione particolare di dialogo con la cittadinanza sull'importanza di adottare stili di vita corretti, per evitare i fattori di rischio più comuni e sulla diagnosi precoce attraverso lo screening mammografico, che consente di diagnosticare tumori piccoli, per i quali la guarigione supera il 90%, senza interventi chirurgici e terapie mediche pesanti. La campagna di sensibilizzazione è stata presentata oggi dall'assessora alla Salute Elisa La Paglia insieme alla consigliera comunale Annamaria Molino, delegata comunale per la Rete italiana Città Sane, a cui il Comune di Verona ha aderito ed è presente nel direttivo nazionale e alla vicepresidenza. Presenti le dottoresse Francesca Fornasa, direttrice Dipartimento interaziendale strutturale Diagnostica per immagini Aulss9 e Giovanna Romanucci, direttrice UOSD Breast Unit Aulss9 Scaligera, che hanno supportato nel corso del 2023 il Comune di Verona nella realizzazione degli incontri nelle Circoscrizioni. Sono inoltre intervenuti la referente FarmacieUnite Verona Arianna Capri, la presidente FederFarma Verona Elena Vecchioni, la direttrice sanitaria Azienda Ulss9 Scaligera Denise Signorelli e il direttore generale AOUI Verona Callisto Marco Bravi. «È nostra intenzione distribuire nei prossimi mesi questo opuscolo al maggior numero possibile di donne in città – spiega l'assessora alla Salute Elisa La Paglia –, e per questo abbiamo chiesto la collaborazione anche dei medici di medicina generale e delle farmacie, consapevoli dell'importante ruolo che svolgono anche a livello di prevenzione. Lo scorso anno è stato realizzato un importante lavoro di divulgazione sul territorio di informazioni specialistiche. Un dialogo diretto con la cittadinanza che ha fatto emergere la forte necessità di accrescere, in particolare per le donne, le conoscenze su come prendersi cura di sé. Ringrazio tutti i soggetti coinvolti per la preziosa collaborazione, essenziale per la buona riuscita di questo nuovo progetto». «Dalle informazioni raccolte nel corso di un anno di attività sul territorio – dichiara la consigliere Annamaria Molino – è nata l'esigenza di realizzare una specifica campagna sul tema, a cui sono state invitate a partecipare le farmacie. “Close the care gap”, dice il motto della Giornata mondiale contro il cancro, significa colmare le lacune nel prendersi cura del problema cancro. L'obiettivo di questa iniziativa è proprio questo, prenderci cura di tutte le donne e colmare le lacune, in modo che tutte siano informate e possano effettuare in modo consapevole i giusti controlli». «L’occasione del 4 febbraio, Giornata mondiale contro il cancro – precisa Francesca Fornasa – ci ricorda una cosa molto semplice, che la prevenzione dovrebbe diventare un atto ordinario di vita. Non dovrebbe essere un obbligo andare a fare una mammografia o una ecografia o altri tipi di screening messi a disposizione gratuitamente dal sistema sanitario nazionale. Perché attraverso questi esami riusciamo ad intercettare patologie così piccole che diventano curabili, senza l'avvio di terapie più pesanti ed invasive». Giornata mondiale contro il cancro, che si tiene ogni 4 febbraio, è l'iniziativa promossa dalla UICC e OMS, che ha lo scopo di aumentare la consapevolezza nei confronti del cancro, migliorando l'informazione e catalizzando l'azione personale, collettiva e governativa. L'obiettivo è lavorare insieme per reinventare un mondo in cui milioni di decessi per cancro possano essere prevenuti e l'accesso alle cure sia equo per tutti, indipendentemente da chi sei o dove vivi. Creata nel 2000, la Giornata mondiale contro il cancro è diventata un movimento positivo affinché tutti, ovunque, si uniscano sotto una sola voce per affrontare una delle più grandi sfide della storia. Il tema della Giornata mondiale contro il cancro di quest'anno, "Close the Care Gap", "Colma le lacune nella cura del cancro", è incentrato sulla la lotta per l'equità, in modo da far sì che un grande numero di persone possa ricevere le cure di cui ha bisogno. Il cancro è la seconda causa di morte nel mondo, con 10milioni di decessi all'anno. Oltre il 40% di questi potrebbero essere evitati perché legati a fattori di rischio modificabili, cioè a stili di vita scorretti. Tra questi, si evidenzia il fumo, l'uso di alcol, una dieta sbagliata e l'inattività fisica. Inoltre, quasi un terzo di tutti i decessi correlati al cancro potrebbe essere prevenuto attraverso gli screening, la diagnosi precoce e il trattamento. Milioni di vite potrebbero essere salvate ogni anno implementando strategie adeguate alle risorse per la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento. Il 70% dei decessi per cancro si verifica nei paesi a reddito medio-basso. Il costo economico totale annuo del cancro è stimato a 1,16 trilioni di dollari.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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CAMBIAMO "MUSICA" -di Leyla Tommasi-
Viviamo in una realta' multidimensionale, sta a noi scegliere su cosa concentrare la nostra attenzione. I media danno solo notizie tragiche. E infatti io non ho piu' il televisore da anni ormai. E vivo benissimo. Le belle notizie non le danno in tv. Eccone un po' Gioia e alte vibrazioni ❤️🙌: Per quanto possa sembrare strano, in questi giorni in cui i media parlano solo di orrori quotidiani, ci sarebbero anche eccellenti notizie da tutto il mondo. Peccato non le comunichino: ne beneficerebbe il sistema neurovegetativo di tutti. (E le energie del pianeta in generale ✨)
-Per la prima volta nella storia del Malawi, una donna è stata eletta speaker del Parlamento del Paese. Esther Challenge ha annullato più di 1.500 matrimoni di minorenni e li ha rimandati a scuola.
-I donatori svedesi ricevono un messaggio di ringraziamento ogni volta che il loro sangue salva delle persone.
-Grazie all'Endangered Species Act, la popolazione di tartarughe marine quasi estinte è aumentata del 980%.
-I supermercati tailandesi hanno smesso di usare sacchetti di plastica e hanno iniziato ad avvolgere gli acquisti in foglie di banano.
-I Paesi Bassi sono diventati il primo Paese senza cani randagi.
-La Corea del Sud organizza feste da ballo per gli over 65 per combattere la demenza e la solitudine.
-A Roma è possibile pagare il biglietto della metropolitana utilizzando bottiglie di plastica. Il risultato è che sono già state raccolte 350.000 bottiglie.
-La California limita la vendita di cani, gatti e conigli nei negozi per consentire alle persone di prendere animali dai rifugi.
-I coltivatori di riso di tutto il mondo stanno iniziando a utilizzare i campi di anatre al posto dei pesticidi. Le anatre si nutrono di insetti e pizzicano le erbacce senza toccare il riso.
-Il Canada ha approvato una legge che vieta l'uso dei delfini nell'industria dell'intrattenimento.
-I Paesi Bassi piantano sui tetti di centinaia di fermate dell'autobus fiori e piante appositamente per nutrire le api.
-L'Islanda è il primo Paese al mondo a legalizzare la parità di retribuzione tra uomini e donne.
-I circhi tedeschi usano i loro ologrammi al posto degli animali per fermare lo sfruttamento degli animali nei circhi.
-Il robot subacqueo LarvalBot semina il fondo della Grande Barriera Corallina con coralli microscopici coltivati appositamente per il ripristino dell'ecosistema minacciato dall'inquinamento marino.
-Per ridurre il numero di suicidi, la Svezia ha creato la prima ambulanza psichiatrica al mondo.
-Un villaggio indiano celebra la nascita di ogni bambina piantando 111 alberi. Finora sono stati piantati 350.000 alberi.
-Grazie al divieto di caccia alle megattere, la loro popolazione è passata da alcune centinaia a più di 25.000 esemplari.
-I Paesi Bassi hanno costruito cinque isole artificiali appositamente per la conservazione di uccelli e piante. A distanza di due anni, vi vivono già 30.000 uccelli e 127 specie di piante sono in crescita.
-I satelliti della NASA hanno registrato che il mondo è diventato più verde rispetto a 20 anni fa.
-Dal 1994, si stima che il numero di suicidi nel mondo sia diminuito del 38%!
Grazie 🙏
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Continuano a fare leggi anti pirateria sempre con multe più alte perché pensano che uccida il calcio, non hanno capito che il calcio lo stanno uccidendo loro
Carino il nuovo slogan ad inizio di ogni partita, peccato che non capiscano un cazzo e con le multe non risolveranno un bel niente. A loro non interessa fare riflessioni sul perché la serie A stia morendo - significherebbe ammettere di aver sbagliato - pensano che il problema siano i siti 🏴☠️, non c'è da stupirsi quando hai 💩 nel cervello e al comando.
Anche il campionato saudita diventerà più interessante del nostro se si continua così
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I soliti ignari - L’eterno presente della generazione che non sa un cazzo
Ho finalmente ricevuto, da una trentenne, una risposta sensata all’unica domanda ch’io faccia ai giovani con cui m’accade di parlare: ma com’è che la tua generazione non ha letto niente, non ha visto niente, non sa un cazzo di niente di ciò che è accaduto prima che nascesse?
È un dettaglio che mi ossessiona molto oltre la normale convinzione di noi vegliarde che i giovani d’oggi, signora mia, siano proprio un disastro. Il fatto è che, da quando avevo vent’anni – o quindici, o trenta – io, è cambiato tutto.
Se volevo vedere un film vecchio, dovevo aspettare pazientemente che la tv lo trasmettesse (e la tv erano sette canali in tutto, se includiamo Telemontecarlo; e già che fossero sette era una botta di progresso: Rete 4 e Rai 3 arrivarono che già sapevo abbondantemente leggere e scrivere).
Se volevo vederlo in lingua originale, dovevo andare al cineclub. Sono stata una quindicenne fortunata: a Bologna c’era il Lumière; se fossi cresciuta altrove, avrei trascorso l’adolescenza senza Truffaut e senza Fassbinder, o al massimo in compagnia dei loro doppiatori se la sera tenevo Rai 3 accesa fino a tardi.
Questi hanno tutto in tasca. Hanno un telefono nel quale ci sono piattaforme pigiando un dito sulle quali possono guardare l’intera storia del cinema, o quasi (il «quasi» è per i film i cui diritti non si capisce più di chi siano e che quindi non stanno sulle piattaforme: invece della biblioteca dell’inedito, ministro Franceschini, non è che potrebbe occuparsi di farci vedere i film di Germi? Grazie, obbligatissima).
Se avessero provato a vederli e avessero sbuffato di noia, capirei di più. Un paio d’anni fa ho rivisto Rocky, che quando uscì (quarantacinque anni fa) era un filmone popolare: adesso, coi ritmi cui siamo abituati negli audiovisivi, sembra Bergman. Non mi aspetto che un ventenne cresciuto con frammenti di audio, frammenti di video, frammenti di scrittura, s’appassioni alle descrizioni della balena scritte da Melville. Tempo fa ho detto alla figlia diciottenne di amici che l’io narrante di Proust si rigira nel letto per decine di pagine. Ha giurato che non avrebbe letto neanche morta Alla ricerca del tempo perduto, ma era al corrente della sua esistenza. Il solo sapere che sia esistito un certo Marcel Proust la rende una diciottenne anomala. (Escono da scuola senza sapere che i mammiferi appartengono a uno dei due generi sessuali, non si può pretendere che sappiano che nella storia della Francia sono esistiti romanzieri).
L’altro giorno un utente Twitter ha chiesto chi fosse l’attore o l’attrice d’ogni epoca che univa in sé le più alte dosi di talento recitativo, qualità da star, e bellezza. Tra le migliaia di risposte, centinaia dicono «Paul Newman». E altre centinaia dicono: vedo che in molti rispondono Paul Newman, ma io non l’ho mai sentito. I Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco.
Il venti-trentenne di oggi è la me quindicenne. Quella che, non sapendo ancora un cazzo, se la prof d’italiano declamava «amor, ch’a nullo amato», rispondeva: «ma è Venditti!». Se non sai niente, non sai riconoscere una citazione. Le rare volte in cui la riconosci, credi che ti vogliano truffare: oggi, l’internet darebbe del ladro a Venditti (o a Jovanotti, che nel decennio successivo usò lo stesso verso della Divina commedia) per non aver specificato «cit.».
Il contagio si estende anche agli adulti, ormai sempre più membri onorari della generazione che non sa un cazzo. Ieri il sito dell’Hollywood Reporter ha pubblicato il trailer dell’imminente programma di Jon Stewart su Apple Tv. La giornalista adulta che ha scritto il pezzettino d’accompagnamento ha ritenuto di dirci che il programma sembra somigliare a Last Week Tonight, il programma con John Oliver (va in onda su Hbo, ha appena vinto l’Emmy) ricalcato sul Daily Show, il programma che Jon Stewart conduceva venti e più anni fa.
La settimana scorsa è morto Norm Macdonald, comico sessantunenne che una trentina d’anni fa era nel cast del Saturday Night Live. Raccontando quanto l’aveva influenzato, Seth Meyers – comico quarantasettenne che conduce il programma di terza serata sulla Nbc – ha detto una cosa che chiunque li avesse visti entrambi sapeva già: di avere preso da Macdonald la cadenza nel dire le battute, il ritmo comico. Aggiungendo un dettaglio meraviglioso. Macdonald gli aveva raccontato che il figlio ventenne, guardando Meyers in tv, gli aveva detto: papà, ma tu parli come Seth Meyers. Santo cielo, aveva concluso Macdonald, mio figlio non sa come funziona il tempo.
Se il tempo prima di te è vuoto, non saprai mai chi cita chi e chi copia chi. Non sospetterai d’esserti perso qualcosa. Vivrai in un eterno presente nel quale ogni valutazione avviene sottovuoto. (In genere a quel punto diventi fanatico di David Foster Wallace, un tratto che accomuna tutti coloro che conosco e che non hanno letto o visto nient’altro, non lasciandogli probabilmente la lettura della Scopa del sistema tempo per qualsivoglia altro consumo culturale).
Insomma ero in uno studio televisivo, e mentre non eravamo in onda tutti erano spariti verso il buffet. La prima a rientrare è stata – mica ve la sarete già dimenticata – la trentenne di cui parlavo qualche decina di righe fa. Ho detto: m’hanno rimasto solo, ’sti quattro cornuti. Mi ha guardato con smarrimento. Ho detto: I soliti ignoti. Ha trent’anni, quindi non mi ha risposto che sono un’ignorante che sbaglia i dettagli, e che la battuta di Gassman sta nell’Audace colpo dei soliti ignoti, e che è quasi più grave che confondere Sapore di mare con Sapore di mare 2.
Ha trent’anni, quindi non sapeva che fosse esistito qualcosa intitolato I soliti ignoti. Non sapeva che fosse un film e non una serie, non sapeva che fosse un pezzo di storia del cinema italiano, non sapeva niente. (Non poteva neanche rivolgersi a san Google, protettore di chi sa cosa cerca: le avrebbe detto che è un quiz televisivo).
Le ho chiesto, come faccio sempre con la gente giovane, come sia possibile che la sua generazione ignori tutto ciò che precede la sua nascita, e lei mi ha detto una piccola cosa cui non avevo mai pensato: oggi c’è molta più roba nuova.
Se ogni mese hai decine di nuovi teleromanzi nel telefono, non t’avanzano il tempo e la voglia di conoscere il cinema tedesco degli anni Settanta o quello italiano degli anni Cinquanta. (Ministro Franceschini, preserviamo il livello culturale dei nostri ragazzi, vietiamo l’uscita di più di due sceneggiati nuovi ogni anno).
Il guaio, come sempre, siamo noi. Mentre la diligente trentenne annotava su apposita app che deve recuperare questo misterioso Soliti ignoti di cui le ha parlato un’anziana signora, pensavo alle mie coetanee che non sanno nulla e neanche hanno la scusa d’esser trentenni.
Conosco due signore della mia età che hanno lacune da ventenni, e fanno entrambe lavori intellettuali. Non hanno visto niente, non sanno niente, rispondono senza un briciolo d’imbarazzo di non aver visto Via col vento o Il padrino. Diamo per già svolte le riflessioni sul fatto che in Italia si possa far carriera nei settori dell’editoria e della comunicazione mancando delle basi culturali, e occupiamoci di: com’è possibile?
Quando io e loro avevamo dodici anni – o dieci, o otto – ed eravamo troppo piccole per uscire la sera, non c’era altro da fare che guardare la tv. E la tv generalista la sera mandava quasi sempre film. Come diavolo hai fatto a essere piccola negli anni Settanta o Ottanta e a non aver visto Via col vento? Mica basta, come scusa, essere andate a letto presto per molti anni. (Che, a seconda di quanto vivi sottovuoto, può essere una battuta di Proust o di DeNiro).
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20 anni
Tra meno di 24 ore avrò 20 anni. Non riesco a capacitarmene. Quando ho vissuto tutto ciò? Due decenni. Due interi decenni che abito questo pianeta. Non nego che non mi abbiano portato qualche crisi esistenziale, ma sinceramente, io, di aver vissuto vent’anni non me ne capacito. Sarà stata la pandemia, sarà stato il mio modo di vivere, saranno state le mie scelte, ma io vent’anni non me li sento. Non mi sento pronto a entrare ufficialmente nel mondo degli adulti. Gli anni da “teenager” sono finiti. Eppure non mi sembra di averli mai vissuti. Saranno le aspettative troppo alte dateci dalla società? Non so, potrebbe essere.
Ma facciamo un sunto. Ci sono cose che rimpiango di non aver fatto? Ovviamente sì, non sarebbe umano il contrario. Ci sono cose che farei in maniera diversa? Situazioni che vedrei in modo differente? Certamente. Scelte che riconsidererei? Probabilmente no. Fortunatamente sono sempre andato d’accordo con la mia capacità di scelta.
I Maneskin in “Vent’anni” cantano “E andare un passo più avanti, essere sempre vero Spiegare cos'è il colore a chi vede bianco e nero E andare un passo più avanti, essere sempre vero E prometti domani a tutti parlerai di me E anche se ho solo vent'anni dovrò correre “ e mi rappresenta totalmente. Ho sempre avuto quest’ansia vitale del cosa ne rimarrà di me in questo mondo, in questo universo. L’empatia che dimostro agli altri servirà a qualcosa? L’emozionarsi per le piccole cose? Il volere sempre cose che la società magari giudica “troppo”. Mi è sempre stato stretto il sistema, e non perché sono un anticonformista alternativo anarchico, ma perché non mi sono mai stati a genio gli schemi che mi venivano cuciti addosso. Non sono uno schema, sono un “casino”, in scienza diremmo “caos”.
Il classico “studia, lavora e poi muori” mi ha sempre e solo dato ansia, mai conforto. Non sono mai riuscito ad accontentarmi di qualcosa, e sono quasi sicuro che non ci riuscirò mai. Non fa per me.
E le riflessioni sul senso della vita? Sulla morte? Ne vogliamo parlare? Nell’antichità erano domande che gli uomini si ponevano solo ad una certa età, e se se le ponevano da “giovani” la risposta veniva data dagli anziani: nelle divinità.
Ecco. Cos’è la morte? La morte non esiste. Dal punto di vista chimico-fisico noi siamo sistemi isolati che ricevono energia e ne producono. Ma l’universo stesso è un sistema chiuso. Quindi la nostra energia è energia dell’universo. Noi siamo universo. Cosa succede quando moriamo? La nostra energia torna al sistema universo. Ma come sappiamo, l’energia non si crea, né si distrugge, ma si modifica. Quindi la nostra energia è energia che in passato è stata modificata da altri, e da altri ancora verrà modificata quando noi non ci saremo più. La morte non esiste perché l’energia è immortale. L’energia che sto usando adesso per battere sulla tastiera del mio laptop è la stessa energia che Gaio Giulio Cesare ha utilizzato per tirare le redini del suo cavallo e per attraversare il Reno. E sarà l’energia che in un futuro utilizzerà uno scienziato per riuscire a viaggiare tra le varie dimensioni spazio-temporali. La morte non esiste, e la vita dell’uno è la vita di tutti. Qualcuno avrebbe detto che questo è il grande cerchio della vita, io dico che è solo una grande pippa mentale.
Grazie per aver ascoltato i deliri di un quasi 20enne in cerca di pace col mondo. Ciao.
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Riflessioni alla finestra✈️ #4
Quando qualcuno pretende tanto da te, quando le aspettative sono alte ed irraggiungibili, può essere frustrante e doloroso a tratti.
Allo stesso modo, quando le aspettative su di te sono pari a zero e nessuno crede tu possa raggiungere grandi traguardi, non se lo aspetta e non ci crede minimamente,
la paura, i dubbi, la voglia di mollare tutto e lasciar perdere diventa sempre più martellante e non è raro che qualcuno decida di darle ascolto.
Quindi non sono solo le parole a ferire, anche i silenzi e l'indifferenza possono condizionare la vita della gente.
Si può decidere di dare ascolto anche alle cose che non vengono dette,
al supporto che manca,
alla poca considerazione e fiducia.
Anche non dire niente significa dire qualcosa, anche una parola in meno può pesare tanto sul cuore di chi avrebbe così tanto bisogno di quella parola in più.
Anche il silenzio può essere ascoltato
e per questo dovremmo imparare ad usarlo bene
mettendoci nei panni di chi lo riceve.
Zoe. 23/01/2021
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ELENA PULCINI,
LA FILOSOFIA CHE SALVA
Che cos’è la passione?
La passione è l’energia affettiva che ci motiva all’azione, è la sorgente profonda delle nostre scelte, preferenze, credenze. Non ha niente a che fare con l’ “irrazionale”, cioè con l’altro dalla ragione, a cui ha per lo più cercato di ridurla il pensiero occidentale e moderno. Attraverso le passioni (preferisco parlarne al plurale) noi conosciamo, comunichiamo, entriamo in relazione con il mondo, ci mettiamo in gioco. Certo, si tratta di energie intense, durature che pervadono l’intera personalità del soggetto; non vanno infatti confuse con le emozioni o gli stati d’animo, come la paura che insorge se un’auto sfreccia veloce mentre attraverso la strada, o come la gioia che mi investe se incontro inaspettatamente un amico che credevo perduto per sempre. Le passioni sono quelle che ci infondono una particolare tonalità emotiva e che presiedono di volta in volta alla relazione con l’altro, attraverso una dinamica aperta di reciproca trasformazione. Ovviamente questo non vuol dire che non ci siano passioni negative, persino capaci di distruggerci. Il punto è proprio questo: la qualità prismatica, ambivalente, imprevedibile delle passioni; che non solo ci impone di distinguere tra negative e positive, ma anche di capire che ci sono passioni positive, come l’amore, le quali possono annientarci e passioni negative, come la vergogna, che ci inducono a preoccuparci del giudizio dell’altro e a riaccedere a una dimensione etica. Etica è infatti la proprietà di tutte le passioni che ci spingono a tener conto dell’altro, a mettersi nei suoi panni, ad esercitare la nostra capacità di empatia. Ed è proprio l’empatia -attualmente oggetto di una importante riscoperta scientifica, ma già valorizzata dalla filosofia di Hume, Smith, o Scheler- la radice comune di quelle che propongo appunto di chiamare passioni empatiche, in quanto sono ispirate dalla capacità di mettersi nei panni dell’altro e di partecipare al suo vissuto. Una qualità emotiva che il pensiero moderno ha prevalentemente ignorato, finendo per identificare le passioni unicamente con quelle egoistiche.
Perché l’invidia è una passione triste?
Passioni tristi, che non vuol dire malinconiche, è una definizione che possiamo trarre da Spinoza, che le associa ad una condizione di depotenziamento del Sé e le oppone alle passioni “gioiose”: nelle quali al contrario egli vede l’espressione della “vis existendi”, della potenza di esistere. L’invidia è a mio avviso l’esempio più significativo delle passioni tristi, in quanto scaturisce da un senso di inferiorità che rende il soggetto incapace di tollerare il bene dell’altro (il suo talento, successo, bellezza) che viene vissuto come una sconfitta, una ferita narcisistica del Sé. Perché lei/lui sì e io no? È la domanda silenziosa e inconfessata che avvelena l’anima, e corrode la relazione, fino a pervertirsi nella nietzscheana Schadenfreude, cioè nel piacere che si prova di fronte al male e alle disgrazie dell’altro. L’invidia è una passione universale, persino i greci la conoscevano bene, ma prospera paradossalmente nelle società democratiche, in quanto è alimentata da quella che Tocqueville chiamava “l’uguaglianza delle condizioni”. È qui che essa mostra tutta la sua peculiare ambivalenza: si manifesta infatti allo stesso tempo come volontà di eccellere e intolleranza verso la sia pur minima differenza, desiderio di autoaffermazione e tendenza al conformismo, onnipotenza dell’Io e trionfo del desiderio mimetico di essere come l’altro. Non è difficile riconoscere in questi fenomeni le patologie più evidenti della nostra società narcisistica: patologie difficili da combattere perché l’invidia non si confessa mai come tale, lasciando tutt’al più trapelare quello “evil eye”, quello sguardo maligno che ci colpisce senza che ce ne accorgiamo…
Che cosa ha determinato la perdita del legame sociale?
L’assoluta egemonia di una prospettiva economicistica. Il soggetto moderno trova la sua raffigurazione nell’homo oeconomicus: motivato, come accennavo sopra, da quella che già Thomas Hobbes chiamava la “passione dell’utile”, vale a dire da passioni egoistiche, dalla realizzazione dei propri interessi, da quella brama di guadagno e di profitto che ha prodotto la progressiva atrofizzazione, o comunque rimozione, delle passioni empatiche. L’abbaglio della ricchezza e del benessere, la fantasmagoria della merce, come la chiamava Walter Benjamin, è così potente da oscurare altri moventi e obiettivi. Ed è la miccia che fa esplodere la logica seduttiva e incontrastata del capitalismo, di cui si è vista ancora troppo poco la molla emotiva: che non è solo il desiderio di beni materiali e di una vita prospera, ma anche quel desiderio di prestigio e di status che, a partire dalla modernità, viene conferito dalla ricchezza. Un desiderio che è poi a sua volta figlio dell’invidia: in una sorta di corto circuito tra passioni dell’utile e passioni dell’Io del quale, nella nostra effimera società dello spettacolo, siamo sempre più prigionieri, e al quale abbiamo sacrificato la relazione, il legame sociale, il bene comune.
“La cura del mondo” è uno dei suoi libri più significativi. La ritiene ancora possibile?
Penso che sia più che mai necessaria e urgente. Sembra incredibile ma dal 2009, l’anno in cui il mio libro è stato pubblicato, il mondo ha subito trasformazioni radicali, per non dire sconvolgenti, sintomo del fatto che velocizzazione e accelerazione non sono più parole che individuano una tendenza, ma una realtà che constatiamo ad un ritmo quasi quotidiano. E’ come se una serie di fenomeni finora ipotizzati, ma rimasti ancora in nuce, stessero esplodendo. Penso al fenomeno migratorio, certo, che assume proporzioni sempre più estese e preoccupanti, ma soprattutto al cambiamento climatico dei cui effetti siamo ormai ogni giorno testimoni. Ne è esempio inquietante questa torrida estate del 2019: il mondo sta bruciando, non solo per incendi devastanti in Siberia, Canarie, foresta amazzonica, ma per temperature così alte da sciogliere i ghiacciai della Groenlandia e mettere a repentaglio l’equilibrio ecologico del pianeta. Impossibile ovviamente fare previsioni precise, ma è certo che siamo entrati nell’era dell’Anthropocene: quella in cui tutto è prodotto dall’azione umana, e la natura, come realtà a noi esterna e autonoma, rischia di scomparire insieme alle risorse indispensabili alla vita. Abbiamo creato le condizioni per la nostra autodistruzione. Eppure non c’è ancora sufficiente consapevolezza di questo. Il genere umano è di fronte ad una sfida epocale che non sembra in grado di affrontare anche perché mette in atto meccanismi di diniego e illusorie strategie di indifferenza. La responsabilità e la cura non sono più un’opzione né solo un dovere etico, ma un meta-imperativo, un impegno concreto e ineludibile se vogliamo salvare il pianeta, le generazioni future, il mondo vivente.
Qual è la trasformazione più eclatante che ha modificato il soggetto occidentale?
È quella che ho appena evocato e che stiamo attualmente vivendo, il mistero della tendenza dell’umanità all’autodistruzione. Tendenza paradossale che sfida i paradigmi fin qui conosciuti: da quello, peculiare della modernità, di un soggetto prometeico, di un homo oeconomicus razionale e progettuale capace di foresight e proiettato nel futuro, a quello, esaltato dal pensiero postmoderno, di un soggetto edonista che si oppone all’etica del sacrificio per godere della felicità del presente. Oggi assistiamo, come direbbe Günther Anders, alla perversione di entrambi, a causa della scissione tra fare e immaginare, tra conoscere e sentire. Abbiamo un Prometeo senza foresight e un Narciso senza piacere: il primo sembra aver perso il senso e lo scopo dell’agire e procede ciecamente senza più chiedersi le conseguenze future del suo agire. Il secondo appare schiacciato sulla futilità della ricerca di un illusorio e autarchico benessere, ormai incapace di anelare alla felicità. Le sfide epocali della contemporaneità esigono perciò un nuovo tipo di soggettività, che deve ancora nascere, che si assuma la responsabilità del futuro e del destino del mondo e metta in atto strategie di cura per la ricostruzione di un mondo comune e per la difesa del mondo vivente. Ne cogliamo tracce nelle forme di solidarietà col diverso, nella lotta per la giustizia e per i diritti delle minoranze, e soprattutto nelle lotte per la difesa del pianeta che testimoniano auspicabilmente il farsi strada di una nuova consapevolezza dei rischi a cui siamo esposti e della necessità di nuove strategie.
La filosofia può limitarsi soltanto alla riflessione o può incidere in un contesto così complicato?
Oggi non abbiamo più bisogno di quella che chiamo una filosofia senza mondo, arroccata nella cittadella delle sue sofisticate riflessioni astratte, ma di una filosofia per il mondo; che in primo luogo recuperi l’originaria alleanza con la politica, intesa come preoccupazione per il destino della polis, come nella Repubblica di Platone; e che in secondo luogo sia disposta a riflettere in presa diretta con l’attualità. Insomma una “filosofia d’occasione”, per riprendere l’espressione di Anders, che sappia non solo continuare tenacemente a porre domande in un mondo che sembra annegare in una oppiacea indifferenza e nella banalità dell’ovvio, ma anche porre le domande giuste: quelle cioè che sanno opporsi alla manipolazione della verità, sempre più diffusa, per cogliere le trasformazioni in atto, individuare di volta in volta i veri pericoli, interpretare e dare la priorità agli eventi simbolicamente rappresentativi.
Che cos’è l’identità?
Non mi è mai piaciuta molto questa parola, perché contiene in sé il rischio di una fissità, compattezza, definitività, egemonia, che limita se non addirittura preclude, l’apertura, l’inclusione, il cambiamento; che non contempla in altre parole, l’idea di differenza. Basti pensare all’identità maschile che ha imposto il suo modello a livello universale relegando, nel migliore dei casi, l’identità femminile nel ruolo di un “altro” inevitabilmente subalterno. Una dicotomia che possiamo ulteriormente declinare in etero/omosessuale, bianco/nero, nord/sud ecc. L’identità è insomma facilmente esposta alla sua assolutizzazione, con effetti di dominio e di violenza. Lo vediamo oggi in particolare nello scontro, anche planetario, tra identità collettive, soprattutto quelle fondate su radici etniche e/o religiose, tese alla difesa di un Noi totalitario ed endogamico che si (ri)costituisce attraverso l’esclusione violenta dell’altro, del diverso; e sulla costruzione di capri espiatori su cui proiettare l’immagine stessa del male, sia che si tratti della contrapposizione planetaria occidente/islam, sia che si tratti di conflitti locali (come gli innumerevoli conflitti dei paesi dell’Africa, dal Ruanda al Mali ecc.). Indubbiamente i conflitti identitari sono oggi acuiti dai processi di globalizzazione, come ritorno regressivo del “locale” dentro il “globale”; fenomeno nel quale emerge comunque un bisogno di riconfinamento che fin qui è stato sottovalutato dalle forze progressiste e a cui è invece necessario - se non si vuole cadere nella trappola mortifera dei razzismi e dei populismi- dare una risposta, ripartendo da una diversa idea di comunità, compatibile con la libertà.
Di cosa è figlia la paura che attanaglia l’umano?
La paura non deve essere identificata tout court con una dimensione negativa. E’ infatti la passione primordiale, quella che, come ci insegna Blumenberg, ci spinge a costruire una familiarità con il mondo che ci circonda, cominciando con l’evitare i pericoli e sfuggire alle insidie. E’ dunque figlia della nostra ontologica vulnerabilità, che è ciò che definisce l’umano. E riconoscere la vulnerabilità è oggi più che mai salutare per un genere umano caratterizzato dalla perdita del limite e da una hybris narcisistica accecante. La vulnerabilità è insomma una risorsa, anche in quanto ci spinge ad interrompere la spirale di illimitatezza della quale siamo diventati inconsapevolmente prigionieri. La paura è infatti la passione del limite, il semaforo rosso, il campanello d’allarme che ci apre gli occhi di fronte al pericolo. Bisogna però reimparare ad avere paura. Oggi ne siamo evidentemente pervasi, ma di quale paura si tratta? Da un lato l’angoscia paralizzante, di cui ci parla Freud e che ritroviamo in una edizione attuale nella “paura liquida” di Bauman, che ci corrode internamente ma non sa individuare un bersaglio, scivolando da un oggetto all’altro in una sorta di perenne indeterminatezza; dall’altro, la paura persecutoria di cui parlavo prima, che proiettiamo sull’altro come nemico e origine di tutti i mali: una paura che si traduce in sentimenti violenti e distruttivi -come odio, rabbia, risentimento-, terreno di coltura di razzismi, nazionalismi, guerre religiose, atroci rivalità etniche. Presi tra questa forbice tra angoscia e paura persecutoria, finiamo per non vedere i veri pericoli, come quello che pende sul futuro del pianeta e delle prossime generazioni e ci trinceriamo dietro meccanismi di difesa (come il diniego e l’autoinganno) che ci esonerano dall’obbligo di una risposta. Reimparare ad avere paura significa dunque ritrovare la capacità di distinguere tra ciò che dobbiamo o non dobbiamo temere, tra paure giuste e paure sbagliate.
L’Altro è fuori o dentro di noi?
C’è evidentemente un altro fuori di noi: il prossimo, il diverso, l’amato, l’amico, il collega, lo sconosciuto che incontriamo nella sua concreta e tangibile corporeità. A cui si aggiunge l’altro virtuale, l’ “amico” dei social con cui chattiamo condividendo pensieri (fb) o immagini (instagram). E poi ancora c’è l’altro distante: distante nello spazio (il migrante) o nel tempo (le generazioni future). La nostra epoca produce una proliferazione delle figure dell’alterità in quanto moltiplica i luoghi –reali, virtuali o immaginari- della relazione, dell’incontro. Ma la nostra capacità di rapportarci a questa molteplicità di figure dipende molto dalla relazione che abbiamo con la nostra alterità interna: quanto più mi lascio contestare dall’altro che mi abita, dalla differenza che mi impedisce di chiudermi nella mia identità, tanto più saprò confrontarmi con l’altro esterno. Se sono in grado di riconoscere che il Sé contiene sempre un altro o meglio molti altri, sarò in grado di accettare l’altro concreto nella sua differenza, provare empatia per lo sconosciuto e persino per chi vive in territori lontani, nonché distinguere tra un’esperienza reale di relazione con l’altro da una relazione puramente virtuale, incorporea: senza tuttavia a priori negare la possibilità che persino una relazione virtuale possa diventare fonte di coinvolgimento emotivo…
Quando espelliamo l’Altro, in realtà che cosa espelliamo?
Espelliamo quella parte di noi che ci contesta dall’interno e che ci impedisce, come dicevo, di rinchiuderci nei confini asfittici di un’identità compatta che non lascia spazio alla differenza. Essere in contatto con l’alterità vuol dire mantenere viva la consapevolezza del fatto che l’identità è una struttura contingente, dovuta all’intreccio casuale di fattori che potevano anche comporsi in modo diverso, e che sono sempre passibili di cambiamento, dato l’incessante divenire dell’umano nella precarietà e nella vulnerabilità. Ed è questa consapevolezza che ci permette di riconoscere l’altro concreto nella sua stessa differenza; perché il bagaglio che egli porta con sé (di storia, cultura, suoni, colori e sapori) può diventare oggetto di curiosità, e persino di arricchimento, piuttosto che di diffidenza e di paura, come purtroppo accade sempre più spesso nelle nostre società, che chiamiamo multiculturali, ma che sono ben lungi dall’esserlo davvero. Noi, cittadini del mondo globale, siamo tutti esposti, inevitabilmente, alla reciproca contaminazione: possiamo scegliere di accettarla governando la paura e disponendoci alla reciproca solidarietà, o possiamo trincerarci nell’illusione immunitaria di chi pensa ancora di poter erigere muri.
“Essere singolare plurale” è possibile o è solo il titolo di un libro di Jean-Luc Nancy?
Temo il giorno in cui non lo considereremo più possibile. Ma indubbiamente non è un obiettivo facile anche se, come ci suggerisce Nancy, possiamo appellarci alla verità ontologica dell’essere-in- comune. Perché se è vero che l’essere è essere-con, è vero anche che la storia ci mostra un’infinita serie di tradimenti di questa nostra condizione. E allora bisogna interrogarsi sul perché: sul perché almeno in Occidente, l’individualismo ha nettamente prevalso sulla comunità e l’identità sulla pluralità. Quali motivazioni, passioni, interessi abbiano fatto sì che l’essere si mostrasse in un’unica, o prevalente prospettiva assumendo una connotazione unilaterale, impoverita se non addirittura patologica. Insomma, come sostengo da tempo, l’ontologia non basta; bisogna mobilitare interrogativi antropologici ed etici per spiegare luci ed ombre della condizione umana e individuare strategie per correggerne le patologie (tra cui, la più paradossale come abbiamo visto è la tendenza all’autodistruzione). La formula di Nancy, che ha peraltro una chiara radice arendtiana, è concettualmente efficace in quanto ci invita a valorizzare il singolo senza cadere nell’individualismo e a ripensare la comunità al di fuori di ogni organicismo, cioè all’insegna della differenza e della pluralità. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo agire non solo “come se” fosse possibile, ma creare nuove congiunture, nuovi paradigmi che siano all’altezza di questo compito.
Come si passa dall’uomo economico all’uomo reciproco?
L’homo reciprocus, la figura in positivo che ho proposto nel mio L’individuo senza passioni, è appunto uno dei possibili, nuovi paradigmi sui quali possiamo scommettere per rispondere alle patologie del sociale e alle sfide del mondo globale. E’ la risposta alla prospettiva puramente utilitaristica e strumentale dell’homo oeconomicus, che ha privilegiato la logica dell’interesse, dell’acquisizione e del profitto sacrificando o marginalizzando tutto ciò che esula da questa logica -la relazione, la comunità, le passioni empatiche, la gratuità-; provocando non solo l’erosione del legame sociale, ma precludendo uno sviluppo più pieno e più ricco dell’individuo stesso. L’homo reciprocus è colui che integra l’unilateralità del paradigma economicistico (dell’utile e dello scambio) con la dimensione del dono, inteso nel senso proposto da Marcel Mauss, di struttura della reciprocità. Ben lungi dall’essere un modello di buonismo, egli non fa altro che attingere a moventi altri i quali, come ci ricorda per esempio Amartya Sen, sono intrinseci all’essere umano tanto quanto la ricerca dell’utile. Lo mostra il fatto che il dono non è il frutto di un dover essere, ma un evento che agisce già, spontaneamente, nel sociale; e che aspetta solo di essere valorizzato e praticato, al fine non solo di ricostruire il legame sociale, ma di riaprire l’accesso ad una felicità che rischia di inaridirsi totalmente nella ricerca egoistica del benessere materiale.
Responsabilità, uguaglianza e sostenibilità sono tre parole-chiave per interpretare il futuro. Quale delle tre fa più fatica a essere coniugata?
Si potrebbe pensare che fra le tre l’uguaglianza, godendo di una lunga tradizione nel pensiero moderno, sia quella più consolidata e meno attaccabile. Ma in realtà non è così perché va ripensata e riconfermata a fronte delle inedite minacce cui la espongono fenomeni complessi come la crisi della democrazia, il populismo, l’irruzione dell’altro come diverso. Indubbiamente però le altre due sono più direttamente connesse a fenomeni inediti e al tema del futuro. E’ infatti nel contesto di un’etica del futuro resa urgente dal primo manifestarsi delle sfide globali (nucleare, ecologica) che, con Hans Jonas nella seconda metà del ‘900, emerge l’importanza del concetto di responsabilità, intesa come responsabilità per: per il mondo, la natura, le generazioni future, in una parola per l’intero mondo vivente. E ciò vuol dire che c’è un nesso intrinseco tra responsabilità e sostenibilità. Abbiamo reso il mondo insostenibile, come già accennavo sopra, a causa della nostra hybris, della nostra avidità e della nostra cecità; abbiamo saccheggiato la terra in tutti modi possibili, la crisi ecologica sta esplodendo attraverso fenomeni sempre più accelerati. Dunque, siamo noi che l’abbiamo prodotta e siamo noi che dobbiamo farcene carico, assumendo, qui ed ora, la responsabilità per uno sviluppo sostenibile. Siamo di fronte ad una scommessa senza compromessi: dall’assunzione di responsabilità dipende la possibilità di prefigurare un mondo sostenibile e dalla sostenibilità dipende il futuro della vita, o meglio di una vita degna di essere vissuta.
La differenza emotiva del femminile è una risorsa potenziale ancora inespressa pienamente?
Qui bisogna fare una premessa. Il femminismo ha molti volti perché sfaccettato e complesso è il pensiero delle donne. Penso che non tutte si riconoscerebbero tout court in questo presupposto della differenza emotiva, che io condivido senz’altro insieme ad alcune voci del femminismo (come l’etica della cura): purché però venga sottoposto ad uno sguardo critico-decostruttivo. In altre parole, è vero che le donne sono state tradizionalmente identificate con l’amore, la cura, i sentimenti, ma questo patrimonio ereditario le ha anche fortemente penalizzate: non solo confinandole nel privato e nella pura gestione dei rapporti familiari, ma anche privandole di quello che chiamo il diritto alla passione. Oggi uno dei concetti preziosi del pensiero delle donne è quello di un soggetto in relazione, che va a contestare l’idea egemone (e patriarcale) di un Sé del tutto autonomo e autosufficiente (basti richiamare l’homo oeconomicus o il soggetto cartesiano). Tuttavia, è importante addentrarsi meglio nell’idea di relazione: che non vuol dire oblatività, cura sacrificale, dedizione -le qualità su cui a partire da Rousseau è stata costruita l’immagine moderna della donna che ancora conosciamo bene- quanto piuttosto attenzione, empatia, desiderio e passione per l’altro. Se la integriamo con la potenza del pathos, la differenza emotiva delle donne può essere non solo una risorsa ma una risorsa rivoluzionaria, capace di sovvertire l’idea consolidata (maschile) di soggetto, astratta e atomistica, e di valorizzare quella capacità di relazione che può (e deve) investire non solo l’altro come prossimo, ma la comunità, la città, la natura, il mondo vivente.
A quale autore e a quali testi deve di più la sua formazione filosofica?
In generale, il mio percorso è stato scandito dal pensiero critico: da Rousseau, che (nonostante le sue “colpe” relative alla visione delle donne!) ha di fatto inaugurato la filosofia critica, alla Scuola di Francoforte, da Marx a Tocqueville, da Anders ad Arendt. E poi il pensiero francese del 900: dal decostruttivismo di Derrida al Collège de sociologie (Bataille), da Michel Foucault alla filosofia dell’alterità (Lévinas). E last but not least, al femminismo. Tra i testi a cui sono particolarmente grata: La democrazia in America di Tocqueville, Eros e civiltà di Marcuse, L’uomo è antiquato di Anders; senza dimenticare il Simposio di Platone, Il disagio della civiltà di Freud…
Che cos’è la politica?
La politica è la cura della polis attraverso la capacità di prendere decisioni, rispettando quella funzione di rappresentanza dei cittadini che richiede un grande senso di responsabilità. A partire dalla modernità, la politica è per così dire inscindibile dalla democrazia come forma di governo, vale a dire dalla attiva partecipazione di tutti alla cosa pubblica (res publica). E’ ciò che Hannah Arendt chiamava un “agire di concerto”, nel quale essa vedeva un vero e proprio “miracolo”; anche perché presuppone un agire insieme nel rispetto della pluralità. Ma questo miracolo -che non pare proprio esistere in nessun luogo del mondo- richiede comunque la vigile e attenta consapevolezza critica di quelle che con Tocqueville possiamo chiamare le patologie della democrazia: individualismo, indifferenza e delega, torsione autoritaria, esplodere delle passioni tristi come l’invidia o la paura del diverso, erosione del legame sociale. Non abbiamo ancora ben compreso che la politica (e la democrazia) non sono qualcosa fuori di noi, ma siamo noi: dobbiamo quindi costantemente educarci alla democrazia -come sosteneva anche un autore illuminato come John Dewey- per correggere le degenerazioni sempre possibili ed agire per il bene comune, valorizzando le risorse positive intrinseche sia ai soggetti che al sociale.
Che cosa diventa la politica se perde l’aggancio al perseguimento del bene comune?
Diventa pura gestione degli interessi egoistici dei gruppi in conflitto, lotta per la conservazione del potere, tradimento della rappresentanza, visione shortsighted, capace solo di policies, per lo più inefficaci, per affrontare la contingenza e incapace di abbracciare più ampi ideali. E’ questa purtroppo l’immagine prevalente della politica oggi in diverse parti del mondo: aggravata da forme estreme e stupefacenti di avidità e di corruzione, da manipolazioni senza scrupoli di passioni e opinioni che tendono a trasformare il conflitto in violenza, dal ritorno del carisma e del potere carismatico, riproposto in forme caricaturali e pericolose ad un tempo, e sostenuto da involuzioni populistiche spacciate per legittimità democratica. Inoltre, ignorare il bene comune oggi vuol dire rendersi colpevoli dell’indifferenza verso il futuro e i destini di un mondo che, come ho detto, è percorso da sfide inedite, ed avrebbe perciò estremo bisogno di nuove parole d’ordine e nuove pratiche.
La globalizzazione è vista come nemica da alcuni popoli perché non governata?
In realtà la globalizzazione è molto “governata”: non dallo Stato e dalla politica, certo, che mostrano sempre di più la loro debolezza di fronte alle accelerate trasformazioni globali, ma dai poteri forti -economico, tecnologico, mediatico/informatico- pilastri del capitalismo neoliberista, capaci di varcare ogni confine, ispirati solo dalla logica del profitto e pronti allo sfruttamento senza scrupoli delle risorse planetarie, naturali ed umane. Gli Stati a loro volta tendono a rispondere per lo più arroccandosi difensivamente su posizioni cosiddette sovraniste, nell’illusione di poter difendere i propri confini con politiche “illiberali” che fanno appello con tutti i mezzi possibili, inclusa la menzogna legittimata da media e social networks, all’identità nazionale. Un processo bifronte ben sintetizzato dalla formula global/local, che si adatta anche alla dimensione antropologico/culturale: da un lato omologazione, indifferenziazione, pensiero unico, dall’altro emergere (dentro e fuori dell’Occidente) di comunità regressive sempre più alimentate da logiche immunitarie e dalla costruzione di un Noi esclusivo e ostile. Basti pensare, in Occidente, all’espulsione del diverso che trova il suo culmine nella sciagurata gestione del fenomeno migratorio, o, fuori dall’Occidente, all’escalation del fondamentalismo (soprattutto) islamico, fino ai suoi estremi terroristi. Eppure, in questo scenario desolante, c’è chi avanza l’ipotesi di un’ “altra” globalizzazione: non più del mercato ma del senso, per dirla con Nancy o Edgar Morin. Una globalizzazione come processo emancipativo, nella quale cogliere la chance di pensarsi come un’unica umanità: stretta intorno alla necessità di affrontare le patologie sociali e le sfide ecologiche, determinata a combattere le disuguaglianze senza negare le differenze, capace, come propongono Jeremy Rifkin e Peter Singer, di estendere i cerchi dell’empatia fino ad includere i poveri della terra e le generazioni future. Le condizioni oggettive di questa possibilità ci sono e sono date in primo luogo da quell’interdipendenza degli eventi che ci unisce di fatto in un legame planetario. Non ci resta quindi che mettere alla prova la nostra capacità soggettiva di cogliere la chance: quella di costruire, per usare il lessico di Alain Caillé e del Manifesto convivialista che ho attivamente condiviso, una società conviviale globale.
Siamo ancora nella società liquida di Bauman o la intende superata?
Con il concetto di società liquida, Bauman coglie senza dubbio una trasformazione importante del nostro tempo, ancora decisamente attuale, che pone l’accento su una diffusa condizione di incertezza e di fragilità dovuta al franare di regole e valori consolidati, all’assenza di punti di riferimento e alla frammentazione del legame sociale. Liquida, per darne solo qualche pennellata, è la società nella quale, a differenza della prima modernità, “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” (come recita la metafora di Marx), lasciando gli individui in balia di un cambiamento permanente che rende endemica la vertigine del disorientamento. E’ la società caratterizzata dall’individualismo illimitato di cui parlavo sopra, che alla perdita del legame e del progetto, dei valori e della stabilità delle relazioni e del lavoro, risponde con la precarietà e la futilità del consumismo, del successo, dell’apparire ad ogni costo, dal teatrino dei talk shows alla ricerca dei like come conferma della propria fragile identità. E’ la società che esalta l’immediatezza e l’accelerazione a scapito dei contenuti. Tuttavia, in questo scenario ancora attuale che consacra il trionfo della precarietà e dell’effimero, vediamo rinascere forme che possiamo definire solide, sia pure in un senso nuovo, le quali affiorano inevitabilmente dal rimosso: forme regressive, come il revival di ideologie razziste, xenofobe e totalitarie a fondamento di comunità immunitarie e pateticamente esclusive (quello che ho chiamato comunitarismo endogamico); ma fortunatamente anche forme emancipative, come la rinascita di movimenti collettivi tesi alla ricostituzione del legame sociale, all’affermazione del valore della comunità e dei legami affettivi, all’assunzione della responsabilità collettiva (verso il pianeta, la natura) e della solidarietà (verso l’altro, il diverso). Non possiamo che scommettere, nel senso pascaliano, su quale di queste due forme avrà la meglio, puntando ovviamente sulla seconda.
Ormai solo un Dio o solo la filosofia può salvarci?
Se mi lasciassi sopraffare dal pessimismo, sarei tentata di aderire all’ammonimento heideggeriano. Ma se vogliamo darci una speranza, la filosofia può effettivamente venire in nostro soccorso: continuando in primo luogo a porre domande radicali e coraggiose che scuotano le coscienze in un mondo percorso da un lato da un oppiaceo individualismo e da una colpevole indifferenza, e dall’altro da ottuse regressioni verso miti identitari. Come ho già detto, abbiamo bisogno di una filosofia vitale che non tema di contaminarsi anche con altri linguaggi (letteratura, psicoanalisi, cinema) laddove il concetto e l’argomentazione non sono (più) sufficienti. Ma, come mi ha insegnato soprattutto il pensiero delle donne, la filosofia deve anche fornire risposte, prospettive, sentieri inediti, che siano all’altezza delle sfide della contemporaneità. È quello che chiamo un normativismo er-etico, che non proponga schemi astratti o retorici imperativi, ma tenda a valorizzare le risorse intrinseche sia al soggetto che al sociale; e che abbia il coraggio di lanciare nuove e rivoluzionarie parole d’ordine.
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Casa
Mi piacciono le tue finestre alte, che arrivano al soffitto.
Mi piacciono i pianti disperati sul divano ad orari improbabili dopo aver visto l'ennesimo film non strappalacrime.
Mi piacciono le ore in bagno a non far niente fra il tepore della stufetta e le arrabbiature della mamma.
Mi piace il disordine della mia camera, che rappresenta il disordine nella mia testa.
Mi piace la mia gatta che mi stressa finché non le do da mangiare.
Mi piace il mio cane che abbaia a qualsiasi cosa senza un motivo apparente.
Mi piace mia mamma che sceglie sempre con cura i momenti peggiori per parlarmi.
Mi piacciono i video su facebook al massimo volume perché senza la musica i buongiornissimo caffè non sono la stessa cosa, vero ma'?
Mi piace l'audio che mia mamma ascolta ogni mattina: "buongiorno bellissima", con un forte accento meridionale.
Mi piacciono il bacino e l'abbraccio che do a mamma quando è arrabbiata con me e non li vuole.
Mi piace che mia mamma si metta a ridere ogni volta che mi arrabbio con lei.
Mi piace che mia mamma sappia sempre cosa vorrei.
Mi piace che accendo la TV e il volume è al massimo.
Mi piace che la mamma rispetti le mie scelte, che: "è vegano questo?".
Mi piace che ci sputtaniamo a vicenda quando viene a trovarmi il papà.
Mi piace che la TV si accenda a orari strani perché la gatta si è seduta, ancora una volta, sul telecomando.
Mi piace che la sveglia della mamma suona alle 5, di mattina e di pomeriggio, e io sono sempre l'unica a sentirla.
Mi piace che la mamma si arrabbia sempre per le stesse cose.
Mi piace che il mio cane venga ogni mattina in camera mia perché sente che mi sono svegliata e mi accoglie in questo nuovo giorno con la gioia più grande.
Mi piacciono le sigarette in camera.
Mi piace che la mamma si vede grassa e brutta.
Mi piace l'aria che sa di: "è tutto ok, è finita la vita sociale per oggi".
Mi piace piangere prima di dormire e svegliarmi con gli occhi gonfi e rossi.
Mi piace stare sveglia tutta la notte.
Mi piacciono le riflessioni che devo subito scrivere, a qualsiasi orario.
Mi piacciono le coperte di pile e il camino acceso.
Mi piace la finestra aperta che mi congela la camera.
Mi piace guardare fuori e vedere le case dei vicini che odio.
Mi piace vedere la natura ovunque.
Mi piace la foto delle mie lontane cugine americane fra i bicchieri della credenza.
Mi piace fare da mangiare per tutte e due, contro ogni aspettativa.
Mi piacciono l'edificio diroccato, gli alberi e il campo trascurato fuori dalla finestra di camera mia.
Mi piace il campanile che suona ogni mezz'ora.
Mi piace la mamma che urla pensando di parlare normalmente perché non sente bene.
Mi piace la cucina con tutte le cose al posto loro.
Mi piace il modo in cui entra la luce in ogni stanza.
Mi piace la civetta che canta ogni sera.
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Non-aggiornamenti
Sono libera di uscire da due giorni e, perdonerete il gioco di parole, ma non ho un momento libero. Ho passato una quarantena sommariamente positiva, se devo essere sincera. Avevo il tempo e la calma per organizzare tutte le cose che volevo fare, le nuove buone abitudini che volevo instaurare, gli allenamenti e i momenti di relax. Ora voglio mantenere quei ritmi di produttività dovendoli accostare alle uscite con gli amici e alle guide con mio padre. Io sono uno di quegli animali mitologici che ha la patente ma non ha mai guidato, quindi fondamentalmente sono una pippa. Non mi metto a guidare da sola in mezzo alla città perchè non ho un desiderio di morte ma soprattutto non voglio fare figure di merda, dato che in questa città ci conosciamo tutti. E santo Dio, è una cosa che non mi era mancata per niente.
Ieri sera sono andata con tre miei amici a bere una birra nel locale invernale per eccellenza; nei mesi freddi la piazza in cui è situato è così piena di gente che se perdi il tuo amico puoi star certo che non lo ritroverai. Insomma, dato il clima autunnale che sta caratterizzando questi ultimi giorni, il locale è ancora aperto (d’estate chiude). Insomma, per essere nel mezzo di una pandemia c’era un assembramento degno della festa patronale di un paesino della Campania. Tante tante persone che non vedevo da gennaio, l’ultima volta che sono stata nella mia città prima di adesso. Mi ritengo una persona abbastanza socievole, molto amichevole e a cui piace il casino non eccessivo. Tuttavia, come menzionato in precedenza, l’estate scorsa ho fatto diverse conoscenze, sia in fatto di ragazzi che in frequentazioni amichevoli. La maggior parte di queste si sono rivelate superficiali, a tal punto che quando ieri ho rivisto determinate persone sono stata colpita da un senso di risentimento, un rancore perchè non eravamo riusciti a mantenere i rapporti. Sensazione insensata, dato che come loro non si erano impegnati a diventare best friends con me, anch’io avevo mostrato lo stesso menefreghismo. Però sì, l’elevato numero di conoscenti intorno a me ieri sera mi ha fatta sentire un attimo contrariata dalla vita. Non ero proprio a mio agio.
La questione principale è che, dopo due giorni in giro per la città, non ho ancora visto Mauro. So che è impegnato con lo studio, se la memoria non mi inganna a breve dovrebbe laurearsi. Però mi dispiace lo stesso. Mi dispiace anche perchè la prima sera, l’altro ieri, avrei almeno incontrato i suoi amici se non fosse stato per il mio gruppo. La mia compagnia di amici è un argomento che merita un post a sè stante, perchè ho così tante cose da dire che scriverò 82mila parole a riguardo. Insomma, per via della asocialità dei miei amici abbiamo virato dal percorso convenzionale e anzichè andare nel famoso locale menzionato pocanzi (dove gli amici di Mauro sarebbero andati) ci siamo diretti in un altro pub che non mi va particolarmente a genio. Essendo l’unica contraria, ha vinto la maggioranza. Oggi, però, le cose sono diverse.
Oggi è venerdì e sono certa di alcune cose. Ho la consapevolezza che la maggior parte dei miei amici uscirà e vorrà divertirsi, quindi andremo cercando la movida. So anche che un mio amico ha fatto un esame stamattina, quindi vorrà bere per festeggiare. Ho la certezza che il miglior modo per festeggiare è bere in compagnia di più persone possibile, e di conseguenza si andrà nel famoso locale dove sono quasi sicura che andrà anche il gruppo di Mauro. La consapevolezza finale che ho, è che lui non rinuncia mai al beverdì. Sicuramente uscirà stasera; non so dove andrà, ma le probabilità di trovarci nello stesso posto sono alquanto alte. E’ un peccato che non possa scrivere il nome del locale, perchè è davvero carino, ma preferisco mantenere la mia privacy. A proposito, sul versante “infatuazione” non ho molte novità. Il panico e la fibrillazione che mi assalivano prima quando pensavo a lui si sono un po’ calmate, ma penso che sia perchè non lo vedo da tanto e sono così impegnata che non ho neanche il tempo di farmi venire le farfalle allo stomaco. C’è anche da dire che ogni volta che esco di casa non faccio altro che cercarlo con lo sguardo. Dettagli.
Ho parlato con il suo migliore amico, lo chiameremo... C. Con una scusa ho risposto a una sua storia e abbiamo finito per avere una delle nostre tipiche conversazioni vaghe, in cui entrambi sappiamo cosa vogliamo dire ma non lo diciamo mai apertamente. Ho cercato di ottenere qualche indizio, qualche risposta alle mie tante domande. Sono arrivata anche a chiedergli schiettamente “ho ancora speranze o no?” Ci mancava solo che includessi il nome del suo migliore amico nella domanda. Ovviamente, non ho ricevuto risposte soddisfacenti, ma solo frasi molto ambigue e confusionarie in cui lui mi diceva “Tranquilla, se quest’estate le cose si tranquillizzano avrai un fidanzato.” Ammetto che, parafrasata e decontestualizzata, questa frase è davvero strana. La cosa brutta è che anche la frase originale collocata nel contesto a cui appartiene è una merda. Io e C ci piacciamo molto, abbiamo mentalità simili e penso che sia una persona davvero speciale. Ma sa essere davvero un bastardo. I miei tentativi di estorcere informazioni sono falliti, quindi non ho certezze su niente. C mi ha detto, in pratica, che appena sa qualcosa me lo fa sapere. Ciò che lui non ricorda è che in passato mi ha detto che lui e Mauro si dicono qualsiasi cosa, quindi se ci fosse stato qualcosa da sapere su questo fronte, lui in questo momento ne sarebbe a conoscenza. Ha solo scelto di non dirmelo. Penso che prima di dirmi cose che potrebbero risultare compromettenti o significative, lui voglia parlarne con Mauro. Infatti penso che se non è accaduto ieri, sicuramente ne discuteranno oggi o stasera. Questa cosa che sono l’oggetto di conversazione quando sono assente mi mette ansia.
E niente, purtroppo non ho cose poetiche da dire o riflessioni profonde da pubblicare. Però oh, è il mio blog e ci scrivo quello che mi pare. I viaggi mentali assurdi scritti su tastiera arriveranno molto presto. Per ora voglio riuscire a leggere, scrivere, allenarmi, bere tanta acqua, uscire con gli amici e imparare a guidare. Lasciandomi anche un po’ di tempo per i caffè pomeridiani al bar. Sopravviverò?
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Amati per amare
‘’Amati per Amare’’ è un libro di crescita personale, scritto da Daniele Di Benedetti, pubblicato a Settembre del 2019.
Daniele prima ancora di essere uno youtuber, un formatore,il ‘’risvegliatore di felicità’’ è prima di tutto uno di quelli che si è tirato su le maniche e ce l’ha fatta.
Questo prezioso libro me l’ha prestato una mia compagna e da allora non faccio che ringraziarla.
Il libro comincia con una frase di Lewis Benedictus Smedes :
‘’ PERDONARE SIGNIFICA APRIRE LA PORTA PER LIBERARE QUALCUNO E SCOPRIRE CHE ERI TU IL PRIGIONIERO’’.
E con questa frase, ti mette già nella condizione di pensare che puoi leggerlo bene solo se hai veramente voglia di metterti in gioco, scovarti, leggerti e perdonarti.
Il libro l’ho letto in un due settimane e non perchè sia corposo di pagine bensì di riflessioni ed esercizi, che mi han vista in lacrime nelle ore più improponibili del giorno.
Non si è mai del tutto pronti di fronte alla verità e questo ci spiazza no? per questo mi sono presa la libertà di perdere del tempo su alcuni passaggi, per capirmi meglio.
Trovare del tempo per sè stessi è fondamentale, lo si legge ovunque, solo che è difficile farlo davvero.
Per quanto mi riguarda, gli esercizi mi hanno devastata e allo stesso tempo liberata, ho scoperto di avere dei blocchi e dei rancori, così vecchi, lontani da me, che però continuavo a tenere sulle spalle come uno zaino pieno di pietre.
Rancori che han condizionato la mia esistenza e che in parte lo fanno ancora in quelle rare volte in cui torno ad essere vulnerabile. Mentirei nel dire che questo libro mi ha cambiata o stravolto la vita, mi ha invece resa più consapevole di quello che sono, mi ha reso cosciente del fatto che l’idea che si ha di sè stessi è basata sulle parole, sui gesti, sulle convinzioni di una vita, basati a loro volta sulla paura del giudizio e la necessità di sentirsi accettati e amati.
Mi sento di poter riassumere questo prezioso libro così :
COMPRENDERE PER MODIFICARE LE INTENZIONI E LA VISIONE DEL MONDO CHE CI COSTRUIAMO.
GUARDARE LE EMOZIONI NEGATIVE DA ESTERNI,DA PERFETTI SCONOSCIUTI, PERDONARE E PERDONARSI PER SENTIRSI LIBERI DA OGNI ZAVORRA EMOTIVA, PER AMARE INCONDIZONATAMENTE NOI STESSI E GLI ALTRI, PER IMPARARE A DARE SENZA LA PRETESA DI RICEVERE QUALCOSA IN CAMBIO.
CAMBI TU, CAMBIANO LE TUE ABITUDINI E VIBRI SU QUELLE CHE DI BENEDETTI CHIAMA ‘’ALTE FREQUENZE’’ , TU CHIEDI E L’UNIVERSO TI RISPONDE.
L’amore si impara vivendolo. Vivendo l’amore scopri la tua bellezza nascosta.
STUPENDO.
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L’insoddisfazione è forse la bestia più brutta di tutte. Ti rendi conto di non potertela scrollare di dosso solo quando ci sei dentro fino al collo. Credi che basti avere quello che hai desiderato per stare bene tutta la vita ma la verità è che confondiamo desiderio con bisogno e bisogno con necessità. Non dobbiamo stare bene tutta la vita ma bene con noi stessi. Ma come facciamo a farlo se qualunque “obbiettivo” raggiunto, (mascherato da desiderio), con tanta difficoltà si rivela essere effimero e privo di significato, che esistenza potrebbe mai essere? Una vita di corsa, di aspettative troppo alte o troppo basse, una vita bianca o nera, una vita senza vie di mezzo che non lascia spazio al dubbio. È proprio il dubbio quello che spesso ci spaventa di più ma che in realtà ci tiene con i piedi per terra. È lui che ci fa chiedere “ ma è veramente questo quello che voglio?”, “ ne vale la pena?”. Ma purtroppo ci spaventa, perché ci fa appunto dubitare di tutto quello abbiamo fatto fino ad ora, e a quale scopo? Non potremo saperlo fino a quando il nostro cervello non prende una decisione. Perché deve essere sempre così brutto. Desiderare qualcosa così tanto e alla fine rimanere delusi o peggio, indifferenti. Ed anche vivere di poche aspettative, che vita è alla fine di tutto? Ci sforziamo sempre di non rimanere feriti un’altra volta contando solo su noi stessi e dimenticandoci a forza degli altri, ma alla fine della giornata non è un po’ triste come cosa? E non è ancora più triste il fatto di non volerlo ammettere? La verità è che non sapremo mai qual è la strada più giusta da seguire per vivere bene, non sapremo mai se in realtà abbiamo vissuto una buona vita se non all’ultimo momento. Non sappiamo nulla come non lo sapremo mai e questa incoscienza che hanno tutti nel vivere una vita tranquilla è spaventosa. Come si fa a non pensare a questo, come si fa a non guardare più in là del proprio naso a tal punto da non dormire più bene come una volta. Quando ci si rende conto di essere arrivati a questo punto?
Quando è tardi. Quando ci si sveglia. All’improvviso. L’insoddisfazione, l’incertezza, la pochezza e la limitatezza che distingue noi persone ci perseguiterà per tutta la vita. C’è a chi non importa perché ha problemi più gravi a cui pensare, come il lavoro, la casa, la famiglia, e poi c’è chi senza motivo viene bombardato ed affogato da questo mare di domande, riflessioni e non si sa che altro senza motivo, perché a lui doveva capitare, perché due dna si sono uniti per formarne uno di una persona che doveva essere così. Niente risposte. Solo domande. Una continua ricerca, ma niente risposte. E l’unica certezza che c’è è il fatto che questa ricerca continuerà per tutta la vita, senza sosta. È inutile dire che con il tempo ci si rende conto che è tutto relativo, soggettivo; è inutile perché lo è sempre stato. Anche l’insoddisfazione è soggettiva dal momento in cui una persona può provarla dopo aver preso un 8 e un’altra dopo 60 anni e dopo aver fatto lo stesso lavoro e tutto quello che doveva fare , credendo di aver vissuto una buona vita. Parole effimere, senza senso, che colpiscono solo se si sa di cosa si sta parlando. Le persone vengono deluse giorno dopo giorno dall’incostanza. Chi ce lo fa fare ad impegnarci? Quando sappiamo effettivamente con certezza che impegnarci non ci farà del male? Non lo sappiamo mai. Dovremmo buttarci senza paracadute con l’alta possibilità di finire con il culo e la faccia a terra e i piedi per aria. Chapeau a chi lo fa.
Una delle paure più grandi delle persone è la morte, ma perfino questa si può riportare in un discorso più grande. Non sappiamo cosa c’è dopo quindi abbiamo paura dell’ignoto; del non sapere, del non avere risposte, nel non sapere cosa succederà nella tua vita, anche delle cose troppo complicate che richiedono uno sforzo maggiore, e non sappiamo effettivamente neanche perché. C’è chi dice che ha paura dell’oblio. Ma come si fa ad aver paura di una cosa che è dopo l’ignoto, come fa solo ad esistere una cosa dopo l’ignoto che in se non sappiamo neanche che cos’è. Questo per dimostrare che la natura di noi persone consiste nel continuamente mettere in discussione tutto, non essere mai soddisfatti di quello che abbiamo perché vogliamo di più, non trovare risposte, e continuare così in questo circolo vizioso che non ha fine fino a quando non ti rinchiudi nel tuo “ non guardo oltre il mio naso”; e per chi pensa così, nonostante la bruttezza del concetto, è una conquista ed una vittoria di una vita vissuta come si deve quasi. E come cosa è triste, ridicolo, imbarazzante. A cosa si deve ridurre una persona pur di rientrare dei canoni della normalità tra l’altro. È impossibile non volere qualcosa che fa parte inesorabilmente di tutti. È impossibile non essere insoddisfatti, anche se lo speriamo con tutti noi stessi perché ci rendiamo conto di che vita misera sarebbe. Quei pochi che riescono a farlo è perché hanno vissuto incoscientemente, quasi all’ombra di tutto quello che li circondava, nascosti. E vengono invidiati, perché non si sentono prosciugati da questo peso enorme. Perché loro non sanno che altri invece hanno questa certezza quasi fisica e dolorosa che rimarrà tutto uguale. Altri sanno solo come ci si sente appesantiti, la leggerezza non sanno cos’è perché non l’hanno mai vissuta.
Confondiamo anche la leggerezza con il divertimento. Il linguaggio è uno strumento potente, le parole hanno un significato ed in base a questo vanno pesate.
Tuttavia chi siamo per dire chi è ignorante e chi no. Su cosa ci basiamo. Su qualcosa inventato da noi, su un metro di misura inventato da noi. Ma l’essere costretti a queste regole non è un po’ come l’assolutismo?
Una lista delle cose certe però c’è: insoddisfazione, egoismo , ignoto e leggerezza. Sono le chimere del genere umano e così sarà sempre.
Voglio ridere spensieratamente perché diciamocela tutta, mi nascondo in tutte le risate che mi faccio per tutto.
Cerco di trovare il divertente nelle situazioni per non prenderle sul serio, ma è il mio modo di affrontare la realtà giusta o meno che sia.
Vorrei solo che mi smettesse di battere il cuore così veloce.
Vorrei tornare all’inizio di febbraio quando il mio problema era normale ed era uscire con un ragazzo che mi piaceva. E dire queste cose adesso quando mezz’ora fa stavo bene mi spiazza ancora di più. Mi sembra di essere stata catapultata da me stessa indietro di mille anni luce.
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Marche: “Le Parole della Montagna”, un Festival per chi vuole raggiungere le Terre Alte.
Marche: “Le Parole della Montagna”, un Festival per chi vuole raggiungere le Terre Alte. La montagna è da sempre luogo privilegiato per la ricerca del sacro, simbolo di perennità e di trascendenza. Con la sua verticalità e altezza vertiginosa, con la vicinanza al cielo e l’inaccessibilità, la montagna infatti, fin dalle più antiche culture, è considerata un ponte fra il visibile e l’invisibile, dimora degli dei, via per la quale l'Uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all'uomo (si pensi al Kailash, all’Olimpo, al Monte Sinai, all’Oreb e così via). Per l’Uomo in ascolto di sé stesso, la montagna è antidoto all’orizzontalità, all’affollamento, alla velocità, cui si contrappone con la lentezza, la solitudine, la fatica, l’essenzialità. Chi si mette in cammino verso la vetta, per vivere un’esperienza personale, cerca un contatto con valori e significati che parlino un linguaggio non omologato, ma personale e trascendente. Su questa filosofia, 14 anni fa, è nato il Festival Le Parole della Montagna, contenitore di eventi di alpinismo, filosofia, poesia, arte, cinema, letteratura, spettacolo, con ospiti di elevatissima caratura culturale e riflessioni raffinate per chi non si ferma in pianura e vuole raggiungere le Terre Alte. Il valore aggiunto del Festival è l’atmosfera che si viene a creare, fatta di relazioni e tanta bellezza, complice il luogo dove è ambientato, Smerillo, un piccolissimo Borgo medievale, sotto i Monti Sibillini, in provincia di Fermo, arroccato sopra un crinale roccioso, dove non c’è veramente nulla e dove, sembra incredibile, ma non si può comprare nemmeno il pane. È tutto piccolo a Smerillo. Sono piccoli gli spazi; è piccolissimo il numero degli abitanti; è piccolo, anzi inesistente l’appeal commerciale del Borgo. Ma grandi sono i panorami a 360° che spaziano dal mare alla montagna; grande la luce che illumina la cima del crinale roccioso su cui si arrocca il Borgo medievale; grandi i colori e gli odori delle stagioni che si alternano; grandi le emozioni che offre un luogo così ridotto all’essenziale. Condizione ottimale, per chi vuole mettersi in gioco. Lo hanno capito gli organizzatori del Festival Le Parole della Montagna, un gruppo di amici desiderosi di fare e condividere cultura, che per parlare di sacralità della montagna hanno scelto, contro ogni logica commerciale, proprio Smerillo, così lontano dagli eventi mondani, ma così autentico, dove fra una conferenza e l’altra viene offerto un aperitivo o in tarda serata un orzo caldo, tanto per creare convivialità, favorire la nascita di nuove amicizie e permettere lo scambio di idee; dove il dibattito culturale cui partecipano vivamente tutti gli spettatori rimane vivo anche fuori dal palco, grazie ad un confronto personale con i relatori, che molto spesso si intrattengono per tutta la durata del festival, testimoniando così di condividere un progetto, piuttosto che svolgere meramente un lavoro. Stesso ambiente che ritroviamo anche nei piccoli Borghi di Monteleone di Fermo e Monte San Martino, coinvolti negli appuntamenti del Festival, per un rilancio della cultura, dopo la forzata interruzione dovuta alla pandemia, proprio dai piccoli Borghi. La protagonista dell’intera kermesse è una Parola, suggerita ogni anno dalla montagna, intorno a cui ruota l’intero programma, ricco ed intenso. Lo scorso anno, la parola “perdersi” aveva maturato numerose riflessioni e soprattutto speranze. Uscire dalla crisi economica, personale, sociale è possibile, ma come? È la montagna, ancora una volta, ad offrire un nuovo spunto di riflessione, attraverso la parola “cordata”. Una parola mutuata dalla pratica alpinistica, che ha il sapore della fatica, della scalata e rappresenta quel gruppo di individui che scalano la montagna legati fra loro da una corda, il primo dei quali avanza fino ad assicurare la corda al gancio di protezione che trova in parete, mentre il secondo gli garantisce sicurezza in caso di caduta. Perché funzioni il sistema di sicurezza, la corda deve essere tesa e gli alpinisti devono procedere ad una giusta distanza, coordinando i loro movimenti, rispettando l’uno il ritmo dell’altro ed attivando una comunicazione efficace fra loro, a discapito della velocità. Ecco allora che la parola si riveste di significati simbolici. Partecipare ad una cordata richiede fiducia nell'altro, cui affidiamo la nostra sicurezza, responsabilità verso l’altro legato a te, rispetto dei tempi e dei limiti altrui, cura e attenzione reciproche, un legame solido, giusta distanza ed armonia. La montagna ci suggerisce allora che il cammino da percorrere non è del singolo, ma del gruppo unito da una forza comune. Forse ci salviamo se iniziamo a sentirci responsabili l’uno nei confronti dell’altro e se, pur nel rispetto della debita distanza, mettiamo al centro il legame, la relazione. Con grandi nomi della cultura, dell’arte, dell’alpinismo e dello sport, il Festival si prepara a discutere della cordata quale metafora della vita di relazione. “Questo Festival – commenta l’assessore alla Cultura della Regione Marche, Chiara Biondi - rappresenta un segnale in sintonia con le politiche che la Regione sta attuando. Immaginare e realizzare un evento letterario in un piccolo comune dell’Appennino significa scommettere sulle aree interne e montane, attribuire loro un valore specifico. I piccoli borghi marchigiani hanno caratteristiche che fanno parte della nostra identità. Sono un patrimonio su cui investire, una risorsa con tanto potenziale da esprimere. Anche il tema della cordata ci trova in sintonia. Le reti museali che stiamo creando e promuovendo sono, similmente, un’alleanza con l’obiettivo di arrivare insieme e più in alto”. Ad aprire la manifestazione, il 13 luglio, è stata come sempre l’arte. Con una performance dal vivo dell’artista Giuliano del Sorbo, l’opera d’arte diventerà momento unico e irripetibile, vissuto sul momento, per trasformare la figura umana in una metafora dell’incontro fra i popoli. Si prosegue con il prof. Stefano Bartezzaghi, esperto di semiotica e parole, nonché enigmista, che ci spiegherà come le parole si incordano ed incrociano fra loro. Per l’appuntamento alpinistico, con la sapiente moderazione di Andrea Bianchi, torna Alex Txikon reduce dalla grande impresa invernale sul Manaslu, insieme a Tamara Lunger, sua compagna di cordata nella storia salita invernale sul Nanga Parbat, per raccontare la loro impresa sui tetti del mondo, legati uno all’altro. Venerdì 14 luglio sarà la volta del fotografo Matthias Canapini per raccontare i cammini comunitari sulle rotte dei migranti. Per la scienza, saranno la biologa Paola Bonfante e l’etologa Elisabetta Pelagi a spiegare come anche le piante e gli animali costruiscono un loro mondo sociale. La filosofa Simonetta Tassinari si occuperà, invece, della forma plastica dell’amicizia, degli amici perfetti e di quelli veri. E la fiducia? È fondamentale, nella cordata così come nella vita quotidiana, soprattutto se lavori in un circo e sei il bersaglio umano di un lanciatore di coltelli. Uno spettacolo mozzafiato quello pensato per venerdì sera con le emozionanti esibizioni del Circo Takimiri accompagnate dalle poesie di Davide Rondoni. Da sempre il Festival è momento di impegno e riflessione, la Comunità Dianova di Montefiore dell’Aso parlerà dell’importanza della reciprocità e della condivisione. Il dialogo proseguirà con Felice Cimatti e Donatella Pagliacci per un’analisi delle relazioni fra assembramenti e giusta distanza. La spiritualità, che da sempre ha un posto d’onore al Festival, è affidata al pensiero di Padre Paolo Dall’Oglio, di cui parlerà la sorella Francesca ed il giornalista Luigi Maffezzoli, oltre ad Enzo Bianchi che aprirà alla dimensione del dialogo e della vocazione alla convivenza. Quale metafora migliore della cordata se non un’orchestra? La serata del sabato sarà allietata dall’Orchestra I Sinfonici, che si esibirà in un concerto ricco di emozioni. Domenica 16, Smerillo diventa salotto letterario con gli scrittori Giulia Ciarapica e Fabio Bacà che affronteranno il tema dei legami familiari, per poi aprire alla lezione-spettacolo di Cesare Catà sulla Compagnia degli Anelli, elogio dell’amicizia. In Italia però la domenica vuol dire calcio e Franco Causio, storico campione dei Mondiali del 1982, ci introdurrà nelle dinamiche del gioco di squadra, espressione di legame e affiatamento. Il 21 luglio a Monteleone di Fermo, ci sarà Umberto Galimberti che rifletterà sulla responsabilità nei confronti dell’altro, necessaria nelle relazioni sociali. Il festival si concluderà a Monte San Martino il 23 luglio, con un atteso appuntamento che vedrà protagonista lo psicologo Alberto Pellai, per una riflessione sull’amore, cordata indispensabile nella coppia e nel rapporto genitori-figli. Non mancheranno i laboratori esperienziali, un’agorà poetica con i migliori poeti contemporanei, il festival dei bambini con una performance teatrale nei boschi di Smerillo ed escursioni a tema.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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