#cesellatore
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Ieri sera sono stato all'Alcatraz. Non capisco molto di questo genere di musica, ma credo che tutta la fauna milanese appassionata di Techno aspettava l'evento da un anno, come quello più importante in assoluto della stagione. È stato come andare alla prima della Scala, ma agli antipodi per quanto riguarda lo stile musicale e il genere di invitati che ti aspetteresti ad ascoltare la Tosca in religioso silenzio.
Siamo entrati al tocco della notte e subito le droghe hanno fatto la loro selezione naturale. Ragazzi e ragazze che s'aspettavano troppo dalla serata, e non hanno saputo gestire l'ansia da prestazione sono cascati come birilli dopo le prime note. Sono rimasti così gli esperti del settore, i premi nobel dell'Md e della musica selvaggia proveniente direttamente dalla consolle di questi dj, evidentemente famosissimi, che hanno mosso i loro primi passi nella lande metanfetaminichendella Berlino ovest dei primi anni Novanta (non a caso la serata si chiamava Der Techno).
Io sono rimasto sobrio come un bicchiere d'acqua distillata. Mi sono concesso solo due morettone ipa a 10 euro ciascuna. Ammetto che la seconda l'ho presa solo per rivedere il viso della barista, una delle donne più belle che ho avuto il privilegio di potere guardare.
Ma ritornando alla gente presente alla serata... gli uomini avevano spalle grosse come portaerei, ogni addominale scolpito con la precisione maniacale di un cesellatore di mosaici, tutti a petto nudo e sudati come cavalli del palio di Siena. Le donne erano un tripudio di muscoli guizzanti e abiti che potevano benissimo restare negli armadi, dato che non servivano a coprire nemmeno le pudende. A un occhio poco attento poteva sembrare che queste creature eteree e bellissime avessero impiegato dieci minuti per mettersi addosso un pietoso velo di stoffa e uscire. Ma sapevamo tutti che il loro stile era ricercato fino al minimo dettaglio, dall'acconciatura, al numero di borchie che dovevano ricoprire il seno destro, al tipo di smalto che doveva colorare l'ultima unghia del piede sinistro.
Ma nelle donne tutta questa ipersessualizzazione, sapevo, da bambino abusato, in molte di loro era una risposta agli stessi traumi subiti da me. Il dolore lo si affronta o tacendo e digrignando in silenzio i denti o urlando fino a che la gola ti diventa un'unica macchia rossa e infiammata, che come una luce al neon dice solo guardatemi.
Non tutte, spero, avevano subito abusi sessuali ( molestie sì, tutte. le ho viste reiterarsi anche ieri sera purtroppo) ma la tristezza che mi accompagnava nel guardarle, bellissime e dannate, è stata quasi catartica.
Ho rivelato ai miei due amici, dentro un mccafè, alle sei del mattino, cosa ho subito da piccolo e perché avere ricevuto un piedino sotto al tavolo la sera prima è stato per me un evento epocale (io che inizio a inculare simbolicamente il mio abusatore). E ho rivelato questo arcano del mondo femminile delle molestie, dell'abuso, del tacere e dell'urlare.
Spero che abbiano capito. Io ho solo provato a dare loro un piccolo strumento per capire meglio il dolore di alcuni esseri umani. E che come sempre l'apparenza non solo inganna, ma copre. Perché sotto c'è una ferita che a vederla farebbe fermare gli orologi del mondo.
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Lo sapete, la Fotografia è intrinsecamente fedele.
Alla realtà, fedele.
Ciò a cagione della neutralità che gli deriva dall'elaborazione motu proprio.
Ma quanto motu proprio?
Intendo:
se alcune fasi del processo sono indelegabili (dopo aver pigiato il bottone succedono cose dentro su cui non abbiamo facoltà d'influenza) su altre possiamo intervenire.
Qual'è allora il limen, il discrimine?
Il limen che separa la fedeltà dalla snaturalità.
Si è sovente propensi a considerare l'istanza postproduzionale come il luogo della stregoneria:
si era fatta una cosa in situ, la si è modificata a casa.
Come dire:
l'obiettivo non mente, il computer sì.
Ma ora riavvolgiamo il nastro, se V'aggrada farlo.
Torniamo eddunque al momento dello scatto.
Non si aveva alterato ancora niente, in quella fase.
Niente che riguardasse il file, almeno.
Dietro l'obbiettivo ...obiettivo - se mi consentite questo gioco di parole tra aggettivo e sostantivo - un sensore incontaminato.
Sì, in purezza, senza regolazioni extravaganti, come direbbe un canonista medioevale.
Ma anche nell'attimo fatidico impulsi premono.
Vengono da testa e mano, quegli impulsi (e sono benedetti, tra poco lo vedremo).
Marko Polonio è abile anche di mano.
Lo è in quanto Maestro d'ICM (Intentional Camera Movements).
Non è facile agire così, tecnicamente.
Quando ci si riesce, è subito Arte.
E Marko ben ci riesce.
Al servizio di cosa?
Di una virtuosa celazione.
Luci erano, sono divenute filamenti.
Steli, saette.
Alberi, sinanco soldati.
Vive e vivide traettorie, contrappuntano il resto del contenuto come orazione anelante il cielo.
L'opera di Teddy Hariyanto è al servizio di ulteriore Arte, ma di segno opposto:
in luogo di celare, disvela.
C'è un lavoro d'Alto Artigianato, con Teddy.
Alto Artigianato che si fa Rarefatta Poesia.
Incantevole per minimalistico nitore, l'esito che Teddy sortisce.
E' come un fine cesellatore di vetro a Murano, Teddy.
La sua acqua - sì, è "sua" - ci elargisce la moderna scena di un interno di bar.
L'avventore s'approssima al tavolino per il laico rito del brunch.
Oppure no, è un architetto.
E lampada da tavolo quella ch'insistendo assiste l'inclinata superficie.
O fungo è, il centrale oggetto.
Ma l'omino indossa tunica.
Monaco allora, e quella lampada non è da tavolo, bensì un ardente lume che rende possibile il notturno lavoro di un amanuense (non fosse scandito dal ritmo di una Compieta).
Marko, Teddy.
L'uno cela, l'altro disvela.
Ma non sono traditori del reale, loro.
Sublimano il reale, loro.
E' una trasformazione che trasfigura, la loro.
Sì, trasfigurare dalla latina etimologia (trans +figurare).
Danno altra forma, loro.
Forma più alta, nobilitata.
Come Raffaello con l'omonimo dipinto a tempera grassa su tavola.
La direzione di pensiero è quella.
Dare sostanza al sogno, altrimenti esplicitato.
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Claudio Trezzani
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Alfonsina Strada, 130 anni fa nasceva la prima donna a correre il Giro d’Italia: “Gareggiava per pagare il manicomio del marito” “Alfonsina Strada cadde fulminata da sincope (in realtà era un infarto, ndr) mentre cercava di avviare la sua pesante moto dopo aver assistito alla Tre Valli Varesine”. Così scriveva La Stampa il 14 settembre 1959. Questa la fine di una vita iniziata il 16 marzo 1891, 130 anni fa. “La sua è una storia erculea, un simbolo di conquista e di libertà”, racconta lo scrittore per ragazzi Tommaso Percivale che ha dedicato il libro Più veloce del vento (Einaudi ragazzi) alla prima e unica donna a partecipare al Giro d’Italia: Alfonsina Strada, appunto. Nata a Castelfranco Emilia (Modena) da due braccianti analfabeti, è la seconda di dieci fratelli. E proprio “tenendo in collo i bambini che nascevano di anno in anno” – scriveva La Stampa citando la stessa Strada – diventa una donna “di costituzione fortissima”. A 10 anni, scopre la sua passione. Racconta Percivale: “Il padre compra una bicicletta molto vecchia e arrugginita dal dottore in cambio di qualche lavoretto nel suo giardino”. Ma non può darla alla figlia durante il giorno perché la usa per andare nei campi. Per questo Alfosina “la ruba per allenarsi di notte”. Il padre non vuole però che le donne vadano in bicicletta anche perché “sui giornali si scriveva che la sella era nociva per la loro salute”, spiega lo scrittore classe 1977. Allora “appende la bici nella stalla così che lei non ci arrivi”. Il primo uomo a capirla nel profondo è Luigi Strada, il suo primo marito (rimasta vedova, sposerà il ciclista emiliano Carlo Messori). “È un genio sia dal punto di vista tecnico-meccanico che dal punto di vista artistico. Lavora come cesellatore ma anche come inventore. Ha brevettato una macchina per il caffè espresso ma non è riuscito a monetizzarla”, racconta Percivale. Strada sostiene la moglie nella sua passione, ma poi “il suo carattere fragile ha la peggio e cade in depressione”. È anche per mantenerlo nel manicomio che Alfonsina decide di iscriversi al Giro d’Italia del 1924 dopo aver partecipato a due Giri di Lombardia. Il direttore e l’amministratore della Gazzetta dello Sport acconsentono alla sua richiesta. E proprio il giornale sportivo milanese la descrive così: “Nel gruppo c’è anche una vispa donnina, coi capelli tagliati alla bébé e i calzoncini corti, da cui scendono con impertinenza i lembi della camicia. Pedala con disinvoltura e allegria, tal quale un ragazzino che abbia marinata la scuola”. La ciclista taglia il traguardo in ogni tappa anche se la maggior parte delle volte con alcune ore di ritardo. È la stessa Morini, questo il suo nome da nubile, a raccontare dopo la penultima tappa (con arrivo a Fiume) al Guerin Sportivo: “I pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo”. Il successo le permette di pagare le rate del manicomio del marito e il collegio dove studia una nipote (“non ha mai avuto figli”, diversamente da quanto scritto su Wikipedia, racconta Percivale). E la necessità economica è uno dei motori della sua bicicletta, come racconta rispondendo all’intervistatore del Guerin: “Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella, ora sono… un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana?”. Emerge così tutta la sua voglia di ribellarsi: “Ha una rabbia incanalata in modo costruttivo. Non si è lasciata andare soffrendo per l’incapacità del mondo di accettare quello che lei voleva essere”, spiega Percivale. Una rottura a cui non ha mai voluto dare una patina politica: “Voleva ‘semplicemente’ diventare una star dello sport per realizzare il suo sogno da bambina”. FRANCESCO ZECCHINI
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All’alba, quando ti svegli di malavoglia, tieni sottomano questo pensiero: «Mi sveglio per svolgere il mio compito di uomo; e ancora protesto per avviarmi a fare quello per cui sono nato e per cui sono stato introdotto nel cosmo? O forse sono stato fatto per restare a letto a scaldarmi sotto le coperte?». «Questo, però, è più piacevole». Sei nato, allora, per godere? Il che, insomma, non significa forse: per essere passivo? O, invece, sei nato per essere attivo?
Non vedi che le piante, i passeri, le formiche, i ragni, le api svolgono il proprio cómpito, collaborando per la loro parte alla vita dell’universo? E tu, allora, non vuoi fare ciò che è proprio dell’uomo, non corri verso ciò che è secondo la tua natura? «Ma è necessario anche riposarsi». È necessario, lo dico anch’io: la natura, però, ha posto una misura anche per questo, ne ha posto una anche per il mangiare e il bere; e tu, ciò nonostante, vai al di là della misura, al di là di quel che è sufficiente? Non lo fai più, però, quando si tratta di agire: allora ti tieni «nei limiti del possibile»! Non ami te stesso: perché in tal caso ameresti anche la tua natura e la sua volontà. Altri, che amano il proprio lavoro, vi consumano ogni energia, saltando il bagno, saltando i pasti: tu onori la tua natura meno di quanto il cesellatore onori il cesello o il danzatore la danza o l’avaro il denaro o il vanaglorioso la sua misera gloria? Eppure costoro, quando si appassionano, sono disposti a non mangiare e a non dormire pur di veder crescere l’opera in cui sono impegnati: a te invece le azioni ispirate al bene della comunità sembrano di minor valore, meno degne di attenzione?
Marco Aurelio, A se stesso (Pensieri) , libro V, 1.
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LUI C'È RIUSCITO
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Lui... Lui c'è riuscito
Lui ce l'ha fatta.
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A forza di dire solenni panzane, improbabili spacconate da bar, boiate da cesellatore di zolle della Valtellina, ricette da borioso tuttologo e teorico del nulla, lui ce l'ha fatta alla grande, a somigliare alle stronzate che dice h/24.
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E loro? Loro, le stronzate?
Loro, chiamate per nome, una a una si sono affezionate. Loro tutte quante, hanno deciso per solidarietà al Maestro, di somigliargli sempre di più,
sempre di più
SEMPRE DI PIÙ
SEMPRE DI PIÙ
SEMPRE DI PIÙ
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Quasi un gioco di specchi
Affinità elettive!
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Ma questo, ai Leghisti non ditelo.
Ai bambini, ai bambini che credono a tutto ciò che si racconta loro, certe verità da adulti, meglio tacerle.
Perchè rovinargli questi mitici anni d'infanzia, questa beata innocenza!
[ ops...scusate... un refuso! ]
questa beata...
ignorante ignoranza!
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Buccellati
Buccellati #buccellati #gioielli #altamoda #orefici #perfettamentechic #felicementechic
La Buccellati Holding Italia è un’azienda italiana di gioielleria, orologeria, accessori di lusso formata dalla fusione delle aziende con i già esistenti marchi Mario Buccellati e Gianmaria Buccellati, corrispondenti ai nomi anagrafici di due orafi: padre e figlio. Nell’agosto 2017 è diventata di proprietà del gruppo cinese Gangsu Gangtai Holding.
Mario Buccellati è stato un orafo, gioielliere e…
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#Andrea Buccellati#Animalier#argentiere#arte di argentiere#Buccellati#Buccellati Asia Pacific#Buccellati France#Buccellati Holding Italia#Buccellati London#Buccellati USA#Buona Vigilia#cesellatore#Claudia Granati#Clessidra#Creatore della moda#Creatore di stile#Del Vallino#Fondazione Gianmaria Buccellati#Gabriele D&039;annunzio#Gangsu Gangtai Holding#Gangtai Group#Gioielleria#gioielliere#incastonatore di pietre preziose#Istituto Gemmologico Italiano#Lucrezia Buccellati#Maria Cristina Buccellati#Mario Buccellati#Mastro Paragon Coppella#orafo
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Il piano orientale Zeina Abrached Ed. Bao Publishing, 2016
Questo gioiello grafico della Abrached è delicato come le ali di un pesce volante; è tenue come i suoni che accompagnano la vita appassionata e serena di Abdallah nelle vignette che ritmano il suo cammino e il suo colpetto garbato all'insostituibile fez e che ispirano il suo genio musicale; è amorevole come il sentimento che l'artista rivela a ogni tavola per il suo paese d'origine. Un amore che poco per volta verrà comunicato e condiviso con la adottiva Francia dove la Abrached sceglierà di vivere e a cui solo alla fine del racconto, dopo tanti ritorni a Beirut, sarà in grado di fare anche qui il suo "ritorno". Dunque, la meraviglia di poter sempre "ritornare" quando si viaggia è ciò che ci fa sentire sempre a casa. E questa sensazione si può avere solo quando "casa" è la nostra stessa vita.
Abdallah invece sceglierà Vienna per l'avventura della sua esistenza in compagnia di un vecchio amico viaggiatore rimasto troppo a lungo impantanato nelle tradizioni familiari della piccola borghesia libanese.
E cosi Zeina trova il modo di raccontare non una e ben più di due piccole incantevoli epiche storie personali, fatte di suoni, ricami, dettagli, ricci e onomatopee. Intreccia i tasti bianchi e neri del pianoforte alle sue due lingue amate, il francese e il libanese, trasformando questo avviluppo di culture differenti in un gioco ordinato, pulito, limpido. Ritrae con delicato rispetto alcune storie d'amore per l'arte, per le proprie passioni, la musica e il disegno, per l'integrazione culturale che è ricchezza reciproca e non sterile confronto tra diversi. E per le donne di Victor, naturalmente.
Il disegno mi ha richiamato inizialmente alla memoria il pollo alle prugne della Satrapi, ma in realtà questo rimando è dovuto quasi esclusivamente all'analogo uso di uno stile piatto che in quest'opera perde essenzialità e concisione per diventare piuttosto virtuosismo e arzigogolo, quasi il lavoro di un cesellatore di metalli preziosi. Sembra di vedere le geometrie maiolicate e gli affreschi damascati della cultura mediorientale diventare gioco di luci e ombre, simboli alchemici che si intrecciano svelando poco per volta la ricca trama della vita di un mondo che a volte immaginiamo troppo piccolo, ma solo perché non siamo capaci di vederlo in controluce o perché viaggiamo troppo in fretta senza goderci davvero il percorso. C'è da imparare da Abdallah.
Capolavoro di delicatezza soffusa a ritmo di musica e quarti di tono in cui non c'è spazio per il dramma di una guerra che viene così inevitabilmente evocata, ma lasciata in disparte, vinta dagli affetti, dalle amicizie e da relazioni che vibrano di una forza ben più grande di quella di una misera rassegna di volti.
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Gli astemi non hanno mai fatto la storia della letteratura. Ovvero: difesa a spada tratta di Giuseppe Vannicola dopo un tradimento editoriale
Un chilo e duecentocinquanta grammi di carta giallina cucita con filo refe ed avvolta in brossura con sovracoperta funerea… così sono state impacchettate per i posteri la vita e le opere di un cesellatore della parola poco conosciuto vissuto nei primi anni del Novecento, Giuseppe Vannicola, quando l’Italia si sforzava di essere fucina di creazione in tutti i campi e non come è ridotta ora, fetida topaia di furbi ed opportunisti, sempre pronti a farsi un selfie salendo con i piedi sul corpo dell’altro. Con 35 euro, quei buffi foglietti colorati che dal 2002 muovono le nostre vite nel luna park europeo, mi sono portato a casa questo mattoncino, l’ho letto e riletto, soprattutto le prime 70 pagine in leziosa numerazione romana e in plurale maiestatis denominate “saggio introduttivo” (di saggio c’è poco, di “introduttivo” mooolto…); ero tentato dal dissezionare, smembrare il corpus cartaceo come faccio con i quotidiani (appena compro il giornale lo strappo nella costa per poterlo leggere meglio in metropolitana) per poter stendere a terra i vari capitoli e disinnescare il timore reverenziale che 600 pagine incutono e così scopri che le 226 pagine di Sonata Patetica dal sapore mitteleuropeo sono diventate 100 paginette da “contratto di governo” tutte precisine, insipide ed inodore, roba da stalker; scopri che una chicca editoriale come Corde della grande lira, nato come omaggio alla compagna Olga, delicato e profondo nell’uso e nel significato è diventato interessante come una biopsia istologica e raggiungi “l’abominio della desolazione” quando arrivi a Elsa l’abbandonata, una pièce teatrale mai rappresentata che se la sfogliate seppur virtualmente sul sito dedicato a Vannicola, come uscì su La Riviera Ligure, vi trasmette un po’ di interesse, un po’ di vita mentre nel mattoncino diventa mera e pura ispezione microbiologica. Faccio un esempio, trascrivendo qualche riga tratta da Tetano Metafisico e dalla biografia che pubblicò Ferdinando Gerra nel 1978 :
(…) “Corde della grande Lira” è un insieme di tredici concetti espressi in stile aforistico stampati ciascuno in una pagina a sé, solo recto, in un piccolo libro formato album (12,5×20) costituito da trentadue pagine non numerate. In copertina muta è riprodotta unicamente un’orchidea … (tratto da “Tetano Metafisico��)
(…) il Vannicola scrisse una serie di tredici brevissimi pensieri, pubblicandoli poi con il titolo “Corde della grande lira” in un elegante fascicoletto formato album (cm. 12,5 x 20), con copertina muta su cui spicca il disegno di un’orchidea. (tratto dalla biografia di F. Gerra)
Ma, la vedete la differenza??? e il cosiddetto “saggio introduttivo” inizia con queste parole che mi hanno fatto consumare tutto il Maalox che avevo in casa: “(…) Non è ancora ben noto cosa abbia scritto, né quale sia stata la sua vita”. Perché devo assistere impassibile a questo accoltellamento verbale?
Giuseppe Vannicola non merita questo petulante interessamento peloso, lui scriveva per illuminare la sua vita difficile di colori, di speranza, di vino e assenzio, eeeh cosa sarà mai… gli astemi non hanno fatto la storia della letteratura, il Futurismo è nato da una sbornia e da una uscita di strada in auto, il più grande “musicista” del Novecento italiano strappava le pagine dei suoi Canti Orfici a chi non le poteva capire, l’Uomo Inimitabile volava su Vienna a seminar volantini, Guido Morselli sappiamo bene come è finito per non essere pubblicato, Lorenzo Calogero morì di fame sul suo letto, in Calabria, dopo aver scritto sulla terra delle poesie splendide e noi non dobbiamo incazzarci per questo superficialismo editoriale? Per dirla con il rev. M.L.King, I have a dream… sogno di vedere, un giorno, ristampati in anastatica, i lavori di Vannicola “come erano e dove erano”, come nei titoli di coda di un terremoto. Non so cosa mi trattenga dal passare nel tritadocumenti l’altezzoso mattoncino… veramente lo so, sono quei buffi foglietti colorati che ho speso, perché costano fatica, ultimamente anche molto sudore, e non è giusto nei nostri confronti, sprecarli.
Silvano Tognacci
*Per mettere un piede nel genio di Giuseppe Vannicola, sfogliate qui.
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...un noir bello e intenso...che mi ha lasciato il buon sapore della sua assoluta qualità. Simenon è un abile cesellatore dell'animo umano, della tragica casualità che sovrintende ai nostri giorni, della follia rincantucciata nella routine dei gesti e delle convenzioni....e con una scrittura secca ed essenziale apre ampi sguardi di conoscenza. E' sconcertante il ripensare allo squallore dei suoi personaggi in ogni suo libro "dipinti" così egregiamente. Sì dipinti...perché il dettaglio sulla loro esistenza è così carico di colori e sfumature tendenti al grigio sfumature comprese, che te li vedi comparire nella tua immaginazione, come fossero reali. Per questo la sua scrittura non ha un confine temporale: attraversa ogni epoca e oggi, in questa povera nostra società contemporanea abbattuta dal capitalismo sia economicamente che culturalmente, è ancora più attuale...Consiglio assolutamente la lettura #libridisecondamano #ravenna #booklovers ##instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #georgessimenon (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/CJAk8Fjnvxz/?igshid=1tt0rxw49w6t7
#libridisecondamano#ravenna#booklovers#instabook#igersravenna#instaravenna#ig_books#consiglidilettura#georgessimenon
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Alfonsina Morini nasce in una famiglia di contadini. Ben presto si appassiona al ciclismo e partecipa a numerose competizioni locali. Nei paesi in cui sfrecciava con la sua bicicletta viene soprannominata “il diavolo in gonnella”. Continuamente osteggiata dalla famiglia per la sua passione a 24 anni, nel 1915, sposa Luigi Strada, cesellatore che, invece, la incoraggia e addirittura le regala, il giorno delle nozze, una bicicletta da corsa nuova. L’anno successivo i due si trasferiscono a Milano, dove Alfonsina comincia ad allenarsi con serietà. Nel 1924 partecipa, prima donna in assoluto, al Giro d’Italia. Parte e compie regolarmente 4 tappe: la Milano-Genova (arrivando con un’ora di distacco dal primo ma precedendo molti rivali), la Genova-Firenze (in cui si classifica al cinquantesimo posto su 65 concorrenti), la Firenze-Roma, giungendo con soli tre quarti d’ora di ritardo sul primo e davanti ad un folto gruppo di concorrenti, e la Roma-Napoli dove conferma la propria resistenza. Nella tappa L’Aquila-Perugia, invece, Alfonsina arriva fuori tempo massimo. A quel punto i giudici si dividono in due fazioni: chi vuole estrometterla e chi è favorevole a farla proseguire. Il direttore della Gazzetta, Emilio Colombo, che aveva permesso la partecipazione di Alfonsina al Giro e aveva capito quale curiosità suscitasse nel pubblico la prima ciclista italiana della storia, propone un compromesso: ad Alfonsina sarà consentito proseguire la corsa, ma non è più considerata in gara. Lei acconsente e prosegue il suo Giro. All’arrivo di ogni nuova tappa viene accolta da una folla che la acclama, la festeggia, la sostiene con calore e partecipazione. Alfonsina continua a seguire il Giro fino a Milano, osservando gli stessi orari e gli stessi regolamenti dei corridori. Un giro di dodici tappe per un totale di 3618 chilometri, che si conclude con la vittoria di Giuseppe Enrici dopo il duello con Federico Gay. Dei 90 corridori partiti solo 30 arrivano a Milano. E Alfonsina è tra loro. Negli anni successivi viene negata ad Alfonsina la possibilità di iscriversi al Giro. Lei però vi partecipa ugualmente per lunghi tratti, come aveva fatto al suo esordio, conquistando l’amicizia, la stima e l’ammirazione di numerosi giornalisti, corridori e degli appassionati di ciclismo che continuano a seguire le sue imprese con curiosità, rispetto ed entusiasmo. Partecipa a numerose altre competizioni finché nel 1938, a Longchamp, conquista il record femminile dell’ora (35,28 km). Rimasta vedova di Luigi Strada, Alfonsina si risposa a Milano, il 9 dicembre 1950, con un ex ciclista, Carlo Messori, con l’aiuto del quale continua nella sua attività sportiva fino a che non decide di abbandonare lo sport agonistico. Ma la sua passione per la bicicletta non viene meno. Apre, infatti, a Milano, in via Varesina, un negozio di biciclette con una piccola officina per le riparazioni. Rimasta di nuovo vedova nel 1957, manda avanti da sola il negozio. Ogni giorno, per andare al lavoro, Alfonsina usa la sua vecchia bicicletta da corsa indossando una abbondante gonna pantalone. Abbandonerà la sua bicicletta solo molti anni dopo, per una Moto Guzzi 500 cmc. Muore il 13 settembre del 1959 all’età di 68 anni, a causa di un incidente con la sua moto.
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Dove per la prima volta, io, mi son sentito tutti
Vorrei
Vorrei nascere in tutti i paesi, perchè la terra stessa, come anguria, compartisse per me il suo segreto, e essere tutti i pesci in tutti gli oceani e tutti i cani nelle strade del mondo. Non voglio inchinarmi davanti a nessun dio, la parte non voglio recitare di un hippy ortodosso, ma vorrei tuffarmi in profondità del Bajkal e sbuffando riemergere nel Mississippi. Vorrei nel mio mondo adorato e maledetto, essere un misero cardo – non un curato giacinto, essere una qualsiasi creatura di dio sia pure l’ultima jena rognosa, ma in nessun caso un tiranno e di un tiranno, nemmeno il gatto – in nessun caso. Vorrei essere uomo, in qualsiasi personificazione: anche torturato in un carcere del Guatemala, o randagio nei tuguri di Honk Kong, o scheletro vivente nel Bangladesh o misero jurodivyj a Lhasa, o negro a Capetown, ma non personificazione della feccia.
Vorrei giacere, sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo, essere gobbo, cieco, provare ogni malattia, ferita, deformità, raccogliere luride cicche –purchè in me non s’insinui il microbo ignobile della superiorità.
Non vorrei far parte dell’elite, ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi, nè dei cani del gregge, nè dei pastori che al gregge si conformano,
vorrei essere felicità, ma non a spese degli infelici, vorrei essere libertà, ma non a spese di chi è asservito.
Vorrei amare tutte le donne del mondo e vorrei essere donna anch’io – magari una volta soltanto…
Madre-natura, l’uomo è stato da te defraudato. Perchè non dargli la maternità? Se in lui, sotto il cuore, un figlio si facesse sentire così senza un perchè certo l’uomo non sarebbe tanto crudele.
Vorre essere essenziale – magari una tazza di riso nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto, o una cipolla nella brodaglia di un carcere di Haiti,o un vino economico in una trattoria di terz’ordine napoletana e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio in orbita lunare: che mi mangino pure e mi bevano – purchè nella mia morte ci sia una utilità.
Vorrei appartenere a tutte le epoche, far trasecolare la storia tanto da stordirla con la mi impudenza: della gabbia di Pugacev segherei le sbarre quale Gavroche introdottosi in Russia condurrei Nefertiti a Michajlovsloe, sulla trojka di Puskin.
Vorrei cento volte prolungare la durata di un attimo: per potere nello stesso istante bere alcool con i pescatori della Lena, baciare a Beirut, danzare in Guinea, al suono del tam-tam, scioperare alla Renault correre dietro un pallone con i ragazzi di Copacabana, vorrei essere onnilingue, come le acque segrete del sottosuolo.
Fare di colpo tutte le professioni e ottenere così che un Evtusenko sia semplicemente poeta, un altro, un militante clandestino spagnolo, un terzo, uno studente di Barkeley e un quarto, un cesellatore di Tbilisi.
Un quinto – scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza e il decimo… il centesimo… il milionesimo…
Poco per me essere me stesso-tutti, fatemi essere! E per ciascun essere, in coppia, come si usa.
Ma dio, lesinando la carta carbone mi ha prodotto in un solo esemplare nel suo bogizdat. Ma a dio confonderò le carte.
Lo raggirerò! Avrò mille facce fino all’ultimo giorno, affinchè la terra rimbombi per causa mia e i computers impazziscano per il mio universale censimento.
Vorrei, umanità, lottare su tutte le tue barricate, stringermi ai Pirenei, coprirmi di sabbia attraverso il Sahara e accettare la fede della grande fratellanza umana e fare proprio il volto di tutta l’umanità.
E quando morirò – sensazionale Villon siberiano – non deponetemi in terra inglese o italiana – ma nella nostra terra russa, su quella verde, serena collina, dove per la prima volta io mi sono sentito tutti.
“dove per la prima volta, io, mi son sentito tutti” una lezione di vita da Evgenij Evtušenko
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THE BEATLES - RUBBER SOUL (Parlophone, 1965)
È il 1965. I Beatles sono sul tetto del mondo. Reduci da un trionfale tour negli States decidono che è arrivato il momento di un nuovo disco di materiale inedito. Nasce così Rubber Soul. Un disco rivoluzionario in cui i Fab Four raggiungono vette compositive inarrivabili per chiunque altro. Quattordici tracce della durata media inferiore si tre minuti che girano per lo più su tre accordi. Di fatto gettano le basi per quel che sarà da lì in poi la musica pop. Non più dischi buttati giù e registrati in un paio di giorni ma lavori pensati e ragionati. Il tutto grazie a menti allargate dall’abbondante uso di LSD. Gli assoli di Harrison si fanno più convincenti e la sua passione per il sitar e la musica indiana in generale comincia a farsi sempre più spazio. Lennon dal canto suo vuole raccontare storie. Norwegian Wood ne è un lampante esempio. McCartney prosegue nella sua ricerca da cesellatore di armonie e confeziona quella Michelle che ha fatto innamorare mezzo mondo. Perfino Starr si adegua e cresce esponenzialmente nelle sue esecuzioni ritmiche. Non c’è più spazio per l’esuberanza degli esordi. È giunto il momento di fare sul serio. Rubber Soul non è solo uno spartiacque per il quartetto di Liverpool ma rappresenta una vera e propria pietra angolare del rock che sarà. Capolavoro.
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Vorrei nascere in tutti i paesi (Evgenij Aleksandrovič Evtušenko Zima, Russia 18/7/1933 - Tulsa, Oklahoma, USA 1/4/2017) Vorrei nascere in tutti i paesi perchè la terra stessa, come anguria, compartisse per me il suo segreto, e essere tutti i pesci in tutti gli oceani e tutti i cani nelle strade del mondo. Non voglio inchinarmi davanti a nessun dio, la parte non voglio recitare di un hippy ortodosso, ma vorrei tuffarmi in profondità del Bajkal e sbuffando riemergere nel Missisipi Vorrei nel mio mondo adorato e maledetto, essere un misero cardo - non un curato giacinto, essere una qualsiasi creatura di dio sia pure l’ultima jena rognosa, ma in nessun caso un tiranno e di un tiranno, nemmeno il gatto - in nessun caso. Vorrei essere uomo, in qualsiasi personificazione: anche torturato in un carcere del Guatemala, o randagio nei tuguri di Hong-Kong, o scheletro vivente nel Bangladesh o misero jurodivyj a Lhasa, o negro a Capetown, ma non personificazione della feccia. Vorrei giacere, sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo, essere gobbo, cieco, provare ogni malattia, ferita, deformità, raccogliere luride cicche – purchè in me non s’insinui il microbo ignobile della superiorità. Non vorrei far parte dell’elite, ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi, né dei cani del gregge, né dei pastori che al gregge si conformano, vorrei essere felicità ma non a spese degli infelici vorrei essere libertà, ma non a spese di chi è asservito. Vorrei amare tutte le donne del mondo e vorrei essere donna anch’io - magari una volta soltanto... madre-natura, l’uomo é stato da te defraudato. Perché non dargli la maternità? Se in lui, sotto il cuore, un figlio si facesse sentire così senza un perché, certo l’uomo non sarebbe tanto crudele. Vorrei essere essenziale – magari una tazza di riso nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto, o una cipolla nella brodaglia di un carcere di Haiti, o un vino economico in una trattoria di terz’ordine napoletana e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio in orbita lunare: che mi mangino pure e mi bevano – purché nella mia morte ci sia una utilità. Vorrei appartenere a tutte le epoche, far trasecolare la storia tanto da stordirla con la mi impudenza: della gabbia di Pugacev segherei le sbarre quale Gavroche introdottosi in Russia condurrei Nefertiti a Michajlovsloe, sulla trojka di Puskin. Vorrei cento volte prolungare la durata di un attimo: per potere nello stesso istante bere alcool con i pescatori nella Lena, baciare a Beirut, danzare in Guinea, al suono del tam-tam, scioperare alla Renault correre dietro a un pallone con i ragazzi di Copacabana, vorrei essere onnilingue, come le acque segrete del sottosuolo Fare di colpo tutte le professioni e ottenere così che un Evtusenko sia semplicemente poeta, un altro, militante clandestino spagnolo, un terzo, uno studente di Berkeley e un quarto, un cesellatore di Tbilisi. Un quinto – un maestro elementare in Alaska, un sesto – un giovane presidente in qualche dove, anche in Sierra Leone, diciamo, un settimo – scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza e il decimo... il centesimo... il milionesimo... Poco per me essere me stesso tutti, fatemi essere! E ciascun essere, in coppia, come si usa. Ma dio, lesinando la carta carbone mi ha prodotto in un solo esemplare nel suo bogizdat. Ma a dio confonderò le carte. Lo raggirerò! Avrò mille facce fino all’ultimo giorno, affinché la terra rimbombi per causa mia e i computers impazziscano per il mio universale censimento. Vorrei, umanità, lottare su tutte le tue barricate, stringermi ai Pirenei, coprirmi di sabbia attraverso il Sahara e accettare la fede della grande fratellanza umana e fare proprio il volto di tutta l’umanità. E quando morirò - sensazionale Villon siberiano - non deponetemi in terra inglese o italiana – ma nella nostra terra russa, su quella verde, serena collina, dove per la prima volta io mi sono sentito tutti.
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BRONZISTA/CESELLATORE DI FONDERIA https://t.co/7y5vsuTolE PERSEO SA - Latina - FONDERIA D'ARTE DEL TICINO (CH) RICERCA CESELLATORE/BRONZIS… lavorolatina http://twitter.com/lavorolatina/status/918716145389092864 October 13, 2017 at 07:52AM <blockquote class="twitter-tweet"><p lang="it" dir="ltr">BRONZISTA/CESELLATORE DI FONDERIA <a href="https://t.co/7y5vsuTolE">https://t.co/7y5vsuTolE</a> PERSEO SA - Latina - FONDERIA D'ARTE DEL TICINO (CH) RICERCA CESELLATORE/BRONZIS…</p>— lavorolatina (@lavorolatina) <a href="https://twitter.com/lavorolatina/status/918716145389092864?ref_src=twsrc%5Etfw">October 13, 2017</a></blockquote> <script async src="//platform.twitter.com/widgets.js" charset="utf-8"></script>
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«Ouro, esmeralda, púrpura»: magias literárias de Marco Aurélio
Além de óptimo príncipe e magistral cultor da ética estóica, Marco Aurélio demonstrou-se também um brilhante cinzelador da língua grega, em trechos do Tὰ εἰς ἑαυτόν que não desmerecem das melhores prosas poéticas de Baudelaire. Os exemplos disso serão talvez muitos mas valha por todos este, que é o melhor dos que conheço:
Ὅ τι ἄν τις ποιῇ ἢ λέγῃ, ἐμὲ δεῖ ἀγαθὸν εἶναι, ὡς ἂν εἰ ὁ χρυσὸς ἢ ὁ σμάραγδος ἢ ἡ πορφύρα τοῦτο ἀεὶ ἔλεγεν· ὅ τι ἄν τις ποιῇ ἢ λέγῃ, ἐμὲ δεῖ σμάραγδον εἶναι καὶ τὸ ἐμαυτοῦ χρῶμα ἔχειν. [Tὰ εἰς ἑαυτόν VII 15]
Tradução (minha):
Seja o que for que alguém faça ou diga, é meu dever continuar a ser bom. É como se o ouro, ou a esmeralda, ou a púrpura sempre estivessem dizendo: «Seja o que for que alguém faça ou diga, é meu dever continuar a ser esmeralda, e preservar aquela cor que é só minha».
Note-se a braquilogia daquele ἐμὲ δεῖ σμάραγδον εἶναι, que substitui o previsível ἐμὲ δεῖ σμάραγδον ἢ χρυσὸν ἢ πορφύραν εἶναι. O imperador usa aqui duma brevitas tão elegante e tão eficaz como em tantos outros exemplos da mesma que conhecemos do latim de Tácito; mas este limitar-se a mencionar explicitamente a esmeralda, no final do parágrafo, parece-me implicar uma complexa grinalda de significados, subentendidos mas não secundários, de entre os quais me apraz destacar os que seguem.
A Esmeralda, superior ao Ouro e à Púrpura?
Já que antes se tinha referido explicitamente ao ouro, à esmeralda e à púrpura, por esta ordem, por que é que Marco Aurélio terá seleccionado a esmeralda e não o ouro ou a púrpura, na braquilogia de que nos ocupámos no parágrafo precedente? Foi um mero acaso? Não creio: se a escolha entre os três elementos lhe fosse indiferente, ter-lhe-ia ocorrido mais facilmente “repescar” o primeiro termo do trinómio, o ouro; ou o último, a púrpura, que se encontrava mais próximo no fluir do discurso. Ir seleccionar a esmeralda, i. e., o termo que pusera “no meio”, entre os outros dois, parece-me cada vez mais uma escolha deliberada. Mas qual o critério, então, que teria presidido a essa escolha?
A resposta à pergunta tem que ver com a consciência, bem viva em Marco Aurélio, do facto de ele próprio ser imperador e ser filósofo.
Os três elementos enunciados são particularmente idóneos para exprimirem, a nível tradicional e simbólico, o conceito de uma incorruptível constância: o ouro não se oxida, a púrpura não desbota; e a esmeralda, além de melhorar a visão, simbolicamente associável à inteligência e à sabedoria, preserva e reforça a memória.
Além disso, o ouro e a púrpura são símbolos do poder supremo: económico, no caso do primeiro; social e político, no caso da segunda. Como imperador, a riqueza e a senhoria: o ouro e a púrpura. Como homem e como filósofo, reflexão e memória: a esmeralda. Qual elemento lhe é mais caro, de entre os três? A resposta é clara. De todos os bens que a divindade lhe põe à escolha, também Marco Aurélio opta, como Salomão (v. I Reis 3:12), por «um coração inteligente».
A.J.N.C. – 18/4/20
«Oro smeraldo porpora»: magie letterarie di Marco Aurelio
Oltre ad essere un ottimo principe e un magistrale cultore dell’etica stoica, Marco Aurelio si è pure dimostrato un brillante cesellatore della lingua greca, in passi del Tὰ εἰς ἑαυτόν non inferiori alle migliori prose poetiche di Baudelaire. Di esempi che lo comprovino ce ne sono forse tanti; ma questo, insuperabile, è quello che meglio conosco:
Ὅ τι ἄν τις ποιῇ ἢ λέγῃ, ἐμὲ δεῖ ἀγαθὸν εἶναι, ὡς ἂν εἰ ὁ χρυσὸς ἢ ὁ σμάραγδος ἢ ἡ πορφύρα τοῦτο ἀεὶ ἔλεγεν· ὅ τι ἄν τις ποιῇ ἢ λέγῃ, ἐμὲ δεῖ σμάραγδον εἶναι καὶ τὸ ἐμαυτοῦ χρῶμα ἔχειν. [Tὰ εἰς ἑαυτόν VII 15]
Traduzione (mia):
Qualunque cosa uno faccia o dica, è mio dovere continuare ad essere buono. È come se l’oro o lo smeraldo o la porpora sempre stessero dicendo: «Qualunque cosa uno faccia o dica, è mio dovere continuare ad essere smeraldo e preservare quel colore che è solo mio».
Si noti la brachilogia dell’ ἐμὲ δεῖ σμάραγδον εἶναι che sostituisce il prevedibile ἐμὲ δεῖ σμάραγδον ἢ χρυσὸν ἢ πορφύραν εἶναι. L’imperatore si esprime in questo caso con una brevitas elegante ed efficace quanto tanti esempi della medesima offertici dal latino di Tacito; ma questo suo limitarsi a menzionare esplicitamente lo smeraldo, alla fine del paragrafo, sembra implicare una complessa filigrana di significati, sottintesi ma non secondari:
Lo Smeraldo, superiore all’Oro e alla Porpora?
Giacché si era prima riferito esplicitamente all’oro, allo smeraldo e alla porpora, in quest’ordine, per quale motivo avrà Marco Aurelio selezionato lo smeraldo e non l’oro o la porpora, nella brachilogia di cui ci siamo occupati al paragrafo precedente? Per un mero caso? Non credo: se la scelta tra i tre elementi gli fosse stata indifferente, più facilmente avrebbe “ripescato” il primo termine del trinomio, l’oro; oppure l’ultimo, la porpora, più “vicina” dal punto di vista del flusso discorsivo. Il fatto che abbia prescelto proprio lo smeraldo, cioè il termine che aveva messo in mezzo agli altri due, mi sembra sempre più una scelta deliberata. Ma quale criterio, allora, lo avrebbe guidato?
La risposta a tale domanda ha a che vedere con la coscienza, ben viva in Marco Aurelio, del fatto di essere imperatore e filosofo.
Tutti e tre i simboli di eccellenza da lui evocati sono particolarmente atti ad esprimere il concetto de un’incorruttibile costanza: l’oro non si òssida, la porpora non stinge; e lo smeraldo, oltre ad acuire la vista, simbolicamente associabile all’intelligenza e alla saggezza, preserva e irrobustisce la memoria.
Inoltre, l’oro e la porpora sono simboli del sommo potere: economico, nel caso del primo; sociale e politico, nel caso del secondo. Come imperatore, la ricchezza e la signoria: l’oro e la porpora. Come uomo e come filosofo, riflessione e memoria: lo smeraldo. Quale dei tre elementi gli è il più caro? La risposta è indubbia. Se una divinità gli avesse dato la possibilità di scegliere un solo bene tra tutti quanti ci siano al mondo, come successe a Salomone (v. I Re 3:12), anche Marco Aurelio avrebbe preferito che gli venisse accordato «un cuore intelligente».
A.J.N.C. – 18/4/20
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Da chitarrista e fondatore dei Rossomaltese, gruppo milanese degli anni Novanta, a uno degli autori più apprezzati dell’attuale panorama musicale italiano, il percorso artistico di via Rockol Music News
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