Tumgik
#cerchiamo di non dimenticarlo
ombranelvento · 2 months
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Il mio buonismo è stato definito ridicolo.
Sapete, ne sono contenta. Preferisco essere ridicola, ammettendo che l'essere umano può essere imperfetto, infallibile e commettere sbagli, piuttosto che credere di essere persone intoccabili da tali tragedie e credersi Dio sceso in terra.
È un attimo, per tutti. CERCHIAMO DI NON DIMENTICARLO.
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a-dreamer95 · 7 months
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Sabato mattina ore 8:30, si parte. È solo una notte fuori sì, ma io neanche riesco a fare la valigia. Scrivo, prendo appunti, dormo poco, esco di casa e ti aspetto. Tu guidi, io guardo la cartina, come in un film degli anni 60. Mi dici che questa cosa è davvero troppo carina, la penso come te. Tutto lo stress, l’ansia per il lavoro, la casa, gli esami, la stanchezza. In un attimo, tutto scomparso. Un lungo viaggio per noi, che ancora non avevamo mai viaggiato fisicamente insieme, ed io parlo, parlo tanto, come sempre, e tu mi prendi in giro, sorridendo.
Guardo fuori dal finestrino, ascolto la musica e poi ti tengo la mano. Un viaggio leggero, il mio primo viaggio leggero dopo anni in cui uscire di casa era quasi un premio, era accontentare un capriccio, era fatica, era un qualcosa da scontare i giorni seguenti. Mi giro spesso verso di te, sei felice, io pure. Ancora non mi sembra vero. Arriviamo ed è tutto un camminare, esplorare, sentire, scherzare, ridere. Cerchiamo un posto un po' sperduto per mangiare un panino e poi ci immergiamo in un luogo da fiaba che neanche immaginavo potesse esistere. E qualcosa ci entra dentro, lo sentiamo entrambi. E lo so, custodiremo quel giorno e tutti i suoi segnali nel cuore, per sempre.
A tutto questo, a quello che verrà, a tutte le altre avventure e alle meravigliose gioie quotidiane, allo stringersi forte, e a quello che in poco tempo siamo diventati io e te.
Siamo una squadra, non dimenticarlo mai! ❤️
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cinquecolonnemagazine · 11 months
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Le Quattro Giornate di Napoli (quasi un diario)
“Le quattro giornate di Napoli (quasi un diario)”. Questo il titolo della presentazione del omonimo libro scritto dal presidente province dell'Anpi Napoli, Ciro Raia. Il libro è stato presentato presso la sede della Slc Napoli e Campania, al centro Direzionale. Le Quattro Giornate di Napoli (quasi un diario), l'evento e la presentazione L’evento è stato promosso da Sinagi, Associazione Merqurio, ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e associazione QdN (Qualcosa di Napoli). I saluti sono stati di Emanuele Lastaria, segretario del Sinagi Napoli e Gianluca Daniele, segretario generale della Slc Cgil Napoli e Campania. L'introduzione, invece, è stata a cura di Francesco De Rienzo, segretario dell’associazione Merqurio. All’incontro hanno partecipato Berardo Impegno, presidente dell’associazione QdN e Ciro Raia, autore del libro e presidente ANPI Napoli. Ha moderato l'evento la giornalista Taisia Raio. Il libro “Le quattro giornate di Napoli (quasi un diario)” è un libro che racconta sotto forma di diario gli eroi e gli avvenimenti che nel settembre del 1943 permisero alla città di Napoli di liberarsi dall’occupazione tedesca. Un viaggio nella memoria di un periodo storico, in un certo senso, poco raccontato dal punto di vista dei "protagonisti". L'autore, che fa tutti i nomi possibili degli eroi combattenti, racconta giorno per giorno, quindi, tutte le rivolte e le tentate insurrezioni, fornendo di ogni partecipante quanti più dettagli sulla sua vicenda.  Le parole dei protagonisti dell'evento «Il messaggio delle Quattro Giornate è sempre attuale, così come la capacità del popolo napoletano di reagire ai soprusi», così Gianluca Daniele ha aperto l'evento di presentazione del libro di Ciro Raia. Lo stesso presidente provinciale dell’Anpi, ha voluto sottolineare che: "il futuro non possa prescindere dalla nostra memoria. La vera resistenza è partita dal Sud e non dobbiamo mai dimenticarlo". Berardo Impegno, presidente dell’associazione Qdn, ha ricordato con le sue parole che "il movimento napoletano della resistenza sia stato un fronte compatto dimostrando un senso civico e di comunità che è importante ancora oggi". Emaunele Lastaria, segretario del Sinagi Napoli, ha ricordato come "Abbiamo voluto fare questa iniziativa perché riteniamo che in questo momento c'è un forte attacco alla memoria e alla libera informazione. Noi come Sinagi abbiamo fatto una battaglia per la libera informazione con iniziative come La notte delle edicole. Questi temi, la memoria e l'informazione libera, sono degli elementi fondamentali della nostra democrazia e con questa iniziativa cerchiamo di dare il nostro contributo in modo tale che in futuro possa portare avanti queste bellissime iniziative". Read the full article
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spettriedemoni · 3 years
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Appena 5 anni fa
A gennaio 2017 ero reduce da un intervento chirurgico di linfoadenectomia.
Mi avevano operato a dicembre del 2016 poco meno di un mese prima.
Ieri stavo pensando che se avessi dovuto operarmi nel 2020 probabilmente il mio intervento sarebbe stato rimandato causa Covid.
A volte ci dimentichiamo di quanto siamo fortunati.
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picmesilly · 6 years
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Devo partire da metà del film
Cioè da quando eravamo in fila per questo mega evento, o concerto, o comparsata in tv. Una fila immensa. Anche troppo, visto che ad un certo punto chiedono a metà della fila di arretrare perché spingevano. Noi ci rintaniamo da un'altra parte, ma finiamo in delle segrete segretissime ...dove ovviamente non dovevamo stare, ma ormai avevamo iniziato a scoprire questo mistero alla Dan Brown e non potevamo dimenticarlo. Perciò, come nella migliore tradizione Tom Hanks style, torniamo alla segreta di notte (ma il mio cellulare non mi accende la torcia, perché ha perso il segnale gps). Riusciamo a trafugare l'amuleto misterioso (non senza che prima Tom Hanks si sia fermato ad ammirare l'opera dei muratori che hanno tirato su una parete per nascondere metà di una stanza, facendoci una specie di libreria antica imbiancata di cartongesso). Dobbiamo scappare. Imbocchiamo delle scale di ferro all'aperto, io vado avanti e scopro che è una via senza uscita, torno indietro e i miei compagni sono andati per un'altra strada e non riesco a raggiungerli, forse dovrei rientrare e riuscire ma è rischioso e loro non mi sentono e non mi vedono. Siamo all'esterno di una costruzione tipo condominio dei teletubbies. E poi li vedo passare in una specie di macchinina giocattolo su una specie di mini ferrovia che fa il giro di questa montagnola tipo parco a tema. Gli tiro dei sassetti, conchiglie e rametti per attirare la loro attenzione, e mi accorgo anche che 1. sono piccolissimi e 2. sono lentissimi, così posso anticiparli e cerchiamo di trovare un modo per ritrovarci ...mi pare di capire che se segui la rampa di ferro dove stavano loro prima, arrivi dove passano queste macchinine, e se salti ti ritrovi piccolo e le prendi al volo ...mi pare ...
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ricomincerai · 7 years
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Ci racconti la tua storia?
Credo che sia giunto il momento.. quindi si. Vi parlo un po’ di me.
La malinconia mi appartiene e mi riempie gli occhi anche nei giorni felici. Per molto tempo ho deciso come avrei dovuto vivere i miei sentimenti. Spesso ho creduto di commettere un’errore, quando mi lasciavo andare “alle mie emozioni”. Sono stati anni difficili, gli ultimi, nei quali ho creduto che non sarei mai riuscita a superare o richiudere certe ferite aperte, che facevano ed hanno fatto, per tanto tempo, molto male. Il tempo passava, ed io non volevo altro che si richiudessero. Si dice che le ferite annuncino il mal tempo, che facciano più male quando sta per piovere, quando le nuvole scambiano la loro leggerezza con la pesantezza di certi nubifragi che sembrano diluvi universali. Le mie ferite hanno fatto male nei giorni di pioggia, in quelli di sole, nelle giornate calde di primavera; quando i raggi del sole cadevano dal cielo e m’illuminava il volto e non sembrava potesse esserci niente di più bello. Mi hanno fatto male sempre, le mie ferite. Tiravano tanto: quando ero da sola, quando ero tra la gente, quando non dicevo niente, quando parlavo, quando urlavo a squarciagola, quando mi sono chiusa, quando ho smesso di raccontarmi alla gente, quando ho smesso di mangiare, quando ho smesso di uscire, quando ho dovuto ricominciare a fare tutto, tutto da sola. Credevo fossero ancora aperte e l’ho creduto per molto, molto tempo. Ed ogni volta che credevo smettessero di farmi male, il tempo cambiava. Non per gli altri, non per chi si godeva il sole e neanche per chi avvertiva quei nubifragi in arrivo, ma per me. Il tempo scorreva veloce e allo stesso tempo le giornate sembravano interminabili, solo per me. Sono trascorsi anni, da quelle ferite. Non hanno smesso di farmi del male, in questi anni, ma mi hanno fatto capire tante cose. Ho capito che in realtà si erano già chiuse il secondo dopo che me le avevano inflitte e che, per tutti questi anni, l’unica carnefice di me stessa, sono stata io. Sono stata io perché mi sono chiusa. Sono stata io perché ho smesso di uscire. Sono stata io, perché, per un po’, ho smesso di mangiare. Sono stata io, ché ho lasciato che il dolore mi consumasse. Si è cibato della mia carne, delle mie lacrime, dei miei malumori, dei miei giorni… Dei miei giorni, è questa la cosa più dolorosa di tutte. E i giorni sono diventati mesi. I mesi sono diventati anni. Ed è sembrato impossibile fare qualsiasi cosa, ma non era vero niente. Non era vero niente, perché alla fine ho fatto di tutto. Ho superato qualsiasi circostanza. E qualsiasi altro dolore, sembrava piccolo quanto una formica, a confronto. Ho superato le difficoltà più grandi: le sfide con me stessa. Le ho vinte tutte, però, almeno quelle che ho vissuto fino ad ora!!! Finché non mi è rimasta solo una cosa da vincere: il tempo perso, che purtroppo non si recupera più. Così ho iniziato a fare follie. Magari delle banalità, che però sembrano abissi, quando finalmente l’effetto dell’anestesia finisce. La mia anestesia è stata auto-indotta e quindi, quando è finita, non è semplicemente finita: ha proprio smesso di esistere! La follia più grande è stata quella di rieducare me stessa all’amore per me stessa, che probabilmente ha sempre amato tutto, tranne che il suo riflesso. Non mi sono amata, ma ho amato tanto. Ed è stato questo il guasto tecnico che ha fatto saltare in aria il mio organismo. La mente umana ha porte che non tutti riescono ad aprire.Non ho mai perso la razionalità però, che, come ho scritto spesso, mi appartiene come fosse una dote innata!!! Ho infatti imparato a dimenticare “l’arte dell’arrangiarsi, senza accontentarsi mai”, che è stata la mia arte in questi anni, ed ho appreso l’arte di amarmi, così come sono. Ecco, “così come sono”, è ciò che voglio essere. Non so esattamente quante altre volte cambierò, quante altre cose mi accadranno, ma non m’importa. Il paradosso del “non voglio più perdere tempo”, anche se mentre ne parlo sembra che lo stia ancor facendo, non esisterá più. Tutto ciò che accade, adesso, serve solo a ricordarmi che la vita è MERAVIGLIOSA. Ogni tristezza aiuta. Ogni dolore aiuta. Ogni cosa aiuta. E io sono grata a me stessa per averlo combattuto, questo malessere, per non essermi lasciata andare, per essere cambiata in continuazione, ma sempre con consapevolezza, senza mai dimenticare i miei ideali, la mia essenza, il mio “io” interiore, che non ha mai smesso di urlare!!! Sono grata a me stessa per il tempo che abbiamo condiviso a “tu per tu”, perché questo tempo, seppur “perso”, in realtà mi ha permesso di allontanarmi da un contesto degradato, che invece ha rapito tante altre persone, e mi ha fortificato l’anima, facendomi ragionare con testa e cuore che parlavano la stessa lingua e si esprimevano all’unisono! Anche il tempo da soli serve. Essere circondati di persone, spesso, è solo un modo per cercare di dimenticare ciò che abbiamo dentro. Non ho mai voluto dimenticarlo, io. Forse è proprio per questo se ho capito che non è il dolore che ti causano gli eventi a distruggerti, ma siamo noi stessi a permetterlo, poiché incapaci di riuscire a riconoscere il dolore e di affrontarlo. L’esperienza aiuta. Ogni cosa, aiuta. Non sono ancora felice di ciò che ho, ma sono felice di ciò che sono! Ed è questo che più conta.
Mi chiamo Doriana. Non ho mai voluto raccontarvelo perché nella mia vita, al di fuori di qui, ci sono un sacco di cose che nessuno sa, ed ho sempre ritenuto opportuno che fosse così.Abitando in un contesto molto piccolo, dopo quella che é stata la mia ferita più grande, mi sono allontanata dalle persone idealizando il mio mondo. Durante questi anni, ho capito cosa conta, chi conta davvero: “sé stessi” è la prima voce di questa lista. La vita è davvero meravigliosa. E dovremmo smetterla di dire che non abbiamo una gioia, perché in realtà ne siamo CIRCONDATI e non ce ne accorgiamo. È vero, alle volte la felicità sembra così lontana dalle nostre giornate, dalle nostre vite, ma non è così. Avremmo davvero il potere di cambiarlo, questo modo, di renderlo un posto migliore, iniziando dal migliorare noi stessi, e invece ci lasciamo condizionare da un contesto privo di sviluppi positivi, da una società stanca e martoriata, che giorno per giorno molla sempre di più le redini e ci fa cadere a picco!
Non conosciamo più il rispetto, non sappiamo più cosa siano i valori, abbiamo paura di vivere le nostre emozioni! Abbiamo paura del giudizio. Abbiamo paura di non essere abbastanza. Abbiamo paura di non valere niente, mentre in realtà siamo incredibili.Cerchiamo di apparire per ogni cosa, in ogni contesto, soffriamo la competizione, non riusciamo più a pensare senza chiederci cosa potrebbero credere di noi gli altri, sentendoci esprimere la nostra opinione. Ricerchiamo di continuo “la perfezione”, siamo condizionati dai canoni estetici, ma non ci accorgiamo del fatto che un cuore che batte, è già la perfezione!!! Perfezione non é essere belli, avere qualcuno accanto, piacere a tutti. Piacere a tutti non significa essere amati. Amore non è egoismo. Egoismo non è scegliere per sé stessi quale sia la cosa migliore da fare. La cosa migliore da fare non è seguire la strada più facile. E la strada più facile non è quella che percorre “la massa” che, anzi, è tutto ciò che dovremmo evitare. Non abbiamo bisogno di essere qualcun altro per stare bene. Non abbiamo bisogno di diventare come nessun’altro, per stare bene. Quello che vorremmo essere, é tutto ciò che dovremmo aspirare ad essere. Senza condizionamenti, senza più paure, senza più competizioni malsane, senza niente che non siano il rispetto per sé stessi e per gli altri!!! Tutto qui.
A quelli come me (malinconici, nostalgici, con l’anima inquieta che fanno fatica ad apprezzare sé stessi, ma che hanno fame di VITA) auguro che possa essere sempre e per sempre così.
Si cambia tutti i giorni: il nostro riflesso negli occhi della gente è solo una riproduzione distorta di ciò che siamo. Vi auguro di cambiare con consapevolezza, di imparare a riconoscere voi stessi e di amarvi per ciò che siete! Vi auguro di perdervi, perché serve, ma di riuscire sempre a ritrovarvi. Forse un po’ ammaccati, forse con gli occhi stanchi, ma sempre INTERI. Perché, per quanto difficile possa essere o sembrare, questa vita vale la pena di essere vissuta!!!
Così come sei, quando sei a casa, quando nessuno ti guarda, quando non senti di aver paura, di dover dare spiegazioni, quando ti confronti con chi ti vuole bene, quando vai al cinema e non c’è nessuno che ti accompagna, quando sei in auto da solo e non puoi fare a meno di pensare che senza pensare non ci sai stare… Ecco: così come sei, é tutto ciò che dovresti voler essere!
Grazie di essere diventati così numerosi, in questi anni. Da oggi, anche le mie parole avranno un volto! E potrete condividerle pensando che, questo url, è un ricordo felice di un frammento di vita passata, ma Doriana è tante altre cose. Tanto altro. Non so se vi piacerà, ma non m’importa. E dovreste pensare lo stesso! Un bacio grande, sempre io.
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pangeanews · 4 years
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“Persi nel labirinto, siamo diventati il Minotauro”. Enzo Fontana parla del libro di Giuseppe Culicchia su Walter Alasia
C’era una volta in Egitto un certo Giuseppe detto il Sognatore che si ritrovò in prigione con la falsa accusa di tentato stupro della moglie del suo padrone. Con Giuseppe vennero a trovarsi imprigionati due cortigiani del faraone che gli si rivolsero affinché interpretasse i loro sogni. Giuseppe li ascoltò, lesse nei loro sogni e disse ad uno che sarebbe stato impiccato, mentre all’altro disse che sarebbe ritornato a porgere il calice al suo signore. Giuseppe pregò costui di non dimenticarlo, una volta ritornato libero e felice, e il coppiere del faraone, in qualche modo, lo promise. Le cose andarono proprio come Giuseppe aveva svelato, ma il coppiere del faraone dimenticò la promessa. Così sono fatti gli uomini: per la maggior parte dimenticano le promesse. Però non tutti gli uomini, grazie a Dio. Non Giuseppe lo Scrittore. Lo scrittore Giuseppe Culicchia infatti ha mantenuto la promessa che fece da bambino, quando il giovane brigatista Walter Alasia, suo amato cugino, di più, suo fratello maggiore, fu ucciso: la promessa di diventare uno scrittore per scrivere un libro su di lui, per ricostruirne i lineamenti umani che gli avvoltoi della stampa e della televisione avevano sfigurato più della morte. In genere i parenti scomodi si rimuovono, si occultano, si finge di dimenticarli. Altri, una volta diventati scrittori di successo, si sarebbero ben guardati dal rischio di compromettere la propria immagine. Altri avrebbero finto di dimenticare la promessa. Giuseppe lo Scrittore invece non ha l’animo dei cortigiani del faraone o dei salotti letterari e non si è dimenticato la promessa, non tanto per via del senso dell’onore, penso, ma per amore. E ne è venuto fuori un libro vero. Uno dei rari libri su quegli anni che valga la pena di leggere, e non solo perché Giuseppe Culicchia ha familiarità con la tragedia.
Aprire questo libro per me è stato doloroso. L’ho letto d’un fiato e mi ha tolto il sonno, anche questa notte in cui ho ritrovato la forza per scriverne. È stato come riaprire una ferita, come viaggiare sulla macchina del tempo e ritrovarmi nella Milano degli anni ’70, “nel fiore dei miei peccati”. Non farò il benché minimo tentativo di fingermi uno scrittore o un critico al di sopra delle parti, semplicemente perché da ragazzo stavo dalla stessa parte di Walter Alasia, dalla stessa parte della barricata, intendo dire, anche se non nello stesso gruppo. Noi si scelse, eccome, la parte per cui batterci. Era la parte dei “dannati della terra”, come scriveva il terzomondista Franz Fanon, o degli “ultimi”, come più saggiamente dice anche il più terzomondista dei successori del Pescatore del Mar di Galilea (papa Francesco, che propone però ben altri mezzi per curare i mali del mondo, e raccoglie comunque gli sputi e l’odio “urbi et orbi” di tutti i fascisti, razzisti, suprematisti, nonché le lodi di tanti ipocriti, anche sinistri, ai quali dei poveri non gliene frega niente, il che è peggio). Era la parte degli operai, degli sfruttati, a cominciare dalla parte più sfruttata dell’umanità, la parte femminile. Insomma, noi si fece una scelta di campo. Dico questo per fare subito chiarezza, non certo con un fine apologetico, affinché nessuno possa dire, se non in malafede: “Certo, di buone intenzioni sono piene le fosse…”
Allora, secondo molti santi storici degli anni successivi, secondo sociologi, psicologi, scrittori di successo e, peggio di tutto, secondo tanti piccoli inquisitori o giornalisti dell’eretica pravità, l’Italia era percorsa e posseduta dai demoni, in tutto e per tutto simili a quelli descritti da Dostoevskij. Questi demoni avevano smesso le insegne dei guelfi e dei ghibellini, e, per essere al passo con la moda del tempo, si erano travestiti da guelfi neri o da guelfi rossi. Questi ultimi avevano tracciato persino la stella a cinque punte, pensando di copiarla dai Tupamaros, mentre i diritti d’autore del Pentacolo andrebbero attribuiti a Salomone. Così, evocati, i demoni erano apparsi a legioni e si erano impossessati di migliaia e migliaia di giovani. La visione di Dostoevskij pareva essersi avverata anche in Italia, non solo un secolo prima nella Russia zarista. Solo che questi giovani – dei quali, ripeto, faceva parte anche chi va scrivendo queste righe – non erano angeli caduti, ma perlopiù semplicemente giovani che desideravano di tutto cuore un mondo nuovo, come lo desiderava Walter Alasia. Giovani tipo quelli di cui il grande scrittore de I demoni aveva fatto delle caricature destinate alla deportazione in Siberia. Ovviamente c’erano anche dei vecchi, pochi ma c’erano, soprattutto del tipo intellettuale, e questi erano un po’ più rassomiglianti ai padri spirituali dei demoni di Dostoevskij, in genere del tipo parolaio e un po’ vigliacco. Ignoro se esistesse davvero un Grande Vecchio. In buona fede posso dire e affermare solo di aver visto il Grande Vecchio coi lunghi capelli e la barba bianca affrescato sulla volta della Cappella Sistina. Però ha un alibi: è lì da secoli, dai tempi di Michelangelo.
Walter Alasia e il cugino, Giuseppe Culicchia
A Dostoevskij aveva risposto un altro grande scrittore, Tolstoj, dicendogli che non era bello quello che aveva scritto dei rivoluzionari, e che in essi egli vedeva e isolava solo il momento della violenza, e che se avesse guardato nel loro animo ci avrebbe trovato anche l’abnegazione e la sete di giustizia, e, in fondo al tunnel, avrebbe visto Dio. Ora io non so se nel buio tunnel si potesse intravedere anche qualche traccia di zoccolo caprino, ma certo un demonietto nel cuore doveva avercelo anche Dostoevskij. In quanto a Tolstoj, cui un giovane semisconosciuto avvocato indiano di nome Gandhi scriveva dal Sudafrica come al maestro della “non resistenza al male”, in quanto a Tolstoj dicevo le tracce erano piuttosto evidenti e da lui stesso dichiarate. Nelle Confessioni egli scrive di avere ucciso degli uomini (probabilmente nelle incursioni caucasiche) e di avere sfidato altri uomini a duello, al fine di ucciderli. Ciononostante nel suo ambiente, racconta Tolstoj, era considerato un uomo “relativamente morale”. Con ciò voglio dire che il male, che noi vediamo e cerchiamo soprattutto negli altri, è anche in noi stessi, latente, pronto a cogliere la prima occasione. E questo vale per i santi, i santoni e persino per i grandi scrittori. Vale per ogni essere umano. Ma i falsificatori dicono il contrario. Però io credo e sono convinto che la frode sia più grave della violenza, e che la frode più spiaccia a Dio, “e per questo stan di sotto li frodolenti”, come debitamente spiega Virgilio a Dante nell’XI dell’Inferno. L’attuale, più che allora, è un’epoca fraudolenta, per certi versi più bassa, vile e cattiva, come sempre nei confronti dei più deboli, dei poveri cristi. Non solo è una miserabile epoca fraudolenta, ma è anche più violenta. Basta guardare ad un palmo dal nostro naso, basta guardare alla guerra, che è terrorismo su scala industriale.
Mi si perdoni la digressione, anche se non penso di essere uscito fuor di tema. Qual è il ritratto di Walter Alasia che affiora dal libro? Come una foto d’altri tempi ai sali d’argento, ne è venuto fuori il ritratto umano di Walter Alasia visto con gli occhi di un bambino, che sono gli occhi di Dio, anche se poi, per darcene un’idea, si affida alla mano e alla penna dell’adulto diventato scrittore. Ma la mano che muove questa penna è veramente l’Amore, l’amore che non giudica, l’amore che è più forte della morte. L’amore e il dolore. Ne è emerso un ritratto di Walter Alasia come di un ragazzo fondamentalmente buono e generoso, come certamente era, prima e anche dopo la scelta della lotta armata. L’indole fondamentale di una persona si mantiene anche nelle circostanze più drammatiche. Ma allora che cosa accadde? Come fu possibile che un ragazzo di indole buona e che aveva scelto la parte dei poveri e degli sfruttati bruciasse la sua e un’altra vita? Forse perché visse “al tempo de li dei falsi e bugiardi”? Non più falsi e bugiardi degli idoli dei giovani d’oggi. Forse perché si fece sedurre da una dottrina ingannevole e fallace? Che fosse una dottrina che vale poco è ben dimostrato dagli esiti della Rivoluzione d’Ottobre, rivoluzione in cui tanti spiriti generosi misero tutte le loro speranze. 1917: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” 1989: “Proletari di tutto il mondo, perdonateci!” 2021: “Mafiosi di tutto il mondo, uniamoci!” A cosa è servito fucilare i Romanov per ritrovarsi, cent’anni dopo, coi Putinov? Tanti sacrifici, tanto dolore per niente. Ma questo è accaduto dal principio del mondo, è accaduto a milioni e milioni di esseri umani, con l’ausilio di molte e differenti dottrine. E anche senza dottrina alcuna. Il tempo di vivere con te di Giuseppe Culicchia non nasce da una scuola di scrittura creativa dove, al massimo, si possono apprendere le tecniche e qualche trucco del mestiere. Questo libro nasce dalla scuola del dolore. Non è scritto per giudicare né per giustificare, ma è una ricerca nel profondo di un’epoca e di un essere umano tanto amato, per capire. Per capire e per sperare che quanto è accaduto non accada ancora.
Ci sono tanti aspetti di questo libro che mi hanno colpito, ma soprattutto la profonda pietà per tutti gli esseri umani coinvolti in questa tragedia. Ciò mi ha ricordato quel rapsòdo cieco che la tradizione tramanda col nome di Omero, che cantò con imparziale pietà le sofferenze dei vinti e dei vincitori.
La lettura di questo libro mi ha confermato nel sentimento che la migliore causa del mondo, la più giusta e santa, non vale la lacrima di un bambino, le lacrime di Giuseppe il bambino che piange l’amatissimo cugino o le lacrime di un orfano che non rivedrà più suo padre. Io vidi una di queste lacrime scendere sul viso di una ragazza tanti e tanti anni fa, durante un’udienza nel corso di un processo. In questo processo c’ero entrato quasi di mia volontà solo per stare accanto a una persona a me cara e dovevo rispondere di un reato minore (detenzione di arma). Per una volta, ero innocente, anche se, come da copione, non lo dissi e non mi difesi. Con mio dispiacere, i giudici, più furbi di me, giustamente mi assolsero, impedendomi così di restare a Milano per l’appello. Era il processo alla “Colonna Walter Alasia”, una colonna oramai allo sbando, una colonna di prigionieri intenti spesso a beccarsi l’un l’altro, come i capponi di Renzo, “come accade troppo sovente tra compagni di sventura”. La ragazza della lacrima sedeva a fianco di un avvocato di parte civile e penso che fosse la figlia di un uomo che era stato ucciso. Questa lacrima caduta in una bolgia processuale mi colpì e mi fece più male di una pallottola. Così, la sera, ritornato nella mia cella, cominciai a scrivere qualcosa. All’udienza del giorno successivo chiesi e ottenni la parola e parlai di un tale che si perdeva in un labirinto come quello di Cnosso, e di come costui, a furia di vagare, forse trovasse infine il Minotauro, e cioè uno specchio, l’immagine di se medesimo. Questo eravamo diventati, chi più chi meno, nessuno escluso. Il cielo ci aveva donato un lume per orientarci nel labirinto del mondo e della vita, ma noi l’avevamo perduto. Sia resa lode agli dèi di Menandro, che avevano caro Walter Alasia e gli risparmiarono lo spettacolo.
Enzo Fontana
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hothe4d · 7 years
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Credere in noi stessi, al giorno d'oggi, è molto difficile, se non impossibile e io sono la prima molte volte a non farlo.. Me ne rendo conto quando lo faccio e so di sbagliare, apro gli occhi e capisco che è un errore, forse il più grande, a non credere in noi stessi. Così cerchiamo la felicità nei posti sbagliati ed abbiamo riposto le nostre speranze su persone o cose che, semplicemente, non possono soddisfarci. Per quanto mi riguarda, e soprattutto per non dimenticarlo, sullo specchio sopra il lavandino ho scritto "Ecco il viso della persona da cui dipende la tua felicità." Quindi si, credo in me stessa, e quando nella mia testa c'è solo un groviglio di pensieri ci provo, fino a non riuscirci. Dovremmo credere più in noi stessi per raggiungere la felicità, non si chiama egoismo, ma ci facciamo del bene.
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robysbis · 5 years
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Posted @withrepost • @salomondegiu Ciao a tutti , lo so che e' passato un anno ormai dal suo smarrimento, ma noi non perdiamo le speranze e lo cerchiamo sempre con la speranza nel cuore che sia ancora vivo. Ugo perso ad Albenga (Savona) circa un anno fa , al momento della perdita indossava un collarino sul rosso, Ugo e' microcippato, lo abbiamo cercato dappertutto, ci sono stati vari avvistamenti prima vicini dopodiche' nel tempo anche piu' distanti, ma niente di concreto... Vi chiediamo di non dimenticarlo e di condividere il post piu' volte, lo so per tanti puo' sembrare un'impresa ad oggi difficile, ma noi non perdiamo mai la speranza di ritrovarlo. Vi chiediamo solo di ricondividere il post e per avvistamenti avvisarci al piu' presto al num.339/6306891 Grazie di cuore a tutti! #annunci_cani_trovati #annunci_cani_smarriti #appelli_cani_smarriti #cani_smarriti #cani_trovati #cani_ritrovati #segnala_smarrimento #segnala_cane_smarrito #canismarriti Reposted from @cani_e_gatti_smarriti (presso Albenga) https://www.instagram.com/p/B3oi0SFAXmE/?igshid=sw4d47w2ai1j
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giancarlonicoli · 6 years
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13 gen 2019 18:28
VELASCO-PHILOSOPHY- “GIOCARE DI SQUADRA NON E’ UN IMPERATIVO ETICO, E’ UNA NECESSITA’: FA RENDERE DI PIU’. PLATINI SI TENEVA STRETTO BONINI CHE CORREVA PER LUI" – IL COACH DELL’ITALVOLLEY DEI FENOMENI PARLA DEL RITORNO A MODENA, DELLA SUA NAZIONALE MIX DI "TALENTO, AUTOSTIMA, UMILTA’", DELL'ARGENTINA DEI MILITARI, DEL FRATELLO TORTURATO E DEGLI AMICI UCCISI - "LA DEMOCRAZIA? STIAMO PERDENDO IL VALORE DEL CONVIVERE CON CHI LA PENSA DIVERSAMENTE"
Walter Veltroni per la Gazzetta dello Sport
Julio Velasco, cosa ha l' Italia che ti attira? Per te è un po' come il ritorno di Ulisse, ogni tanto torni nella tua seconda patria.
«Ho vissuto più in Italia che in Argentina. Un argentino qui si sente a casa. Non pensa mai di essere estraneo. A volte chi è nato nel primo mondo, l' Europa, non si rende conto di quale privilegio sia. Si può essere più o meno bravi, nella vita, ma la fortuna dipende anche da dove si nasce. La bellezza dell' Italia è la sua "integrale diversità" , tutto è nello stesso Paese. La montagna, il mare, i borghi . E' un Paese in cui la bellezza è sovrana, ovunque. E sono felice di essere tornato a Modena Volley. Quando mi chiamarono la prima volta pensavo scherzassero. Io non mi sarei chiamato. Ero giovane e non formato. Ma qui mi trovo bene.Per questo sono tornato».
La tua doppia identità, argentina e italiana, il tuo fascino per paesi e culture sconosciute come l' Iran dove hai allenato e vinto. E' possibile coniugare identità e apertura? Cioè essere insieme radici e mondo?
«Per me sì. Uso una metafora che riguarda il nostro ambiente. Noi abbiamo sempre bisogno di avere autostima forte. Se hai troppi dubbi, i giocatori se ne accorgono. Anche i grandi campioni devono avere autostima, devono sopportare le pressioni. Ma la differenza decisiva sta tra l' avere una grande autostima ed essere egocentrici. Uno può avere una grande autostima e capire però che ci sono anche altri bravi, forse più bravi di lui. Si deve essere consapevoli che nessuno, mai, è il centro del mondo.
Siamo solo uno dei tanti. Io credo che questo succeda anche con le culture e con i popoli. Si può avere una grande autostima, quindi una grande identità, senza pensare che tutto si concluda con noi. Ci sono anche gli altri. Trovo a volte un po' curioso dimenticare che molte delle cose del vivere quotidiano, che oggi consideriamo nostre, ieri non lo erano. Il caffè, per dirne uno. Cosa di più italiano? Ma in Italia non ci sono piante di caffè, è arrivato da terre lontane. Qualcuno lo ha fatto entrare e l' Italia lo ha fatto suo, lo ha integrato. E non parliamo della musica: dal tango alla salsa al jazz».
Ti pare che la globalizzazione abbia appiattito però le differenze, omologato tutto?
«Sì, e questo determina una reazione alla globalizzazione. Uno viaggia e trova gli aeroporti, centri commerciali, pubblicità uguali in tutto il mondo. Questo crea anche la reazione, il dire "no, questo è nostro, sono radici, non vogliamo che diventi tutto uguale". E così, purtroppo, quella che prima è nata come una legittima reazione culturale - il dire "Io voglio essere io nel mondo grande"- ora sta diventando anche ideologia, un pensiero politico e lì le cose si complicano. Io sono molto preoccupato, non per me, ma per i miei nipoti, per il loro futuro».
Ti sembra che questo sia un tempo che ha perduto le speranze? Che coltivi solo passioni tristi? Rabbia, rancore?
«No. Nella storia c' è sempre stata rabbia, c' è sempre stata ingiustizia. E sono stati grandi motori della storia e del progresso. Il problema è quando quella rabbia prende strade sbagliate, sbaglia nemico, sbaglia i linguaggi.Adesso non voglio troppo entrare in cose politiche. La sinistra sta lasciando la rabbia sociale alla destra. Come è già successo in Europa. E' come quando si dice dei giovani, "I giovani di adesso." Queste generalizzazioni non le condivido. Anche noi non eravamo tutti partecipi degli ideali, della rivoluzione, dei sogni. Eravamo una minoranza grande ,ma minoranza, negli Anni 60.
Anche adesso ci sono giovani che prendono, partono, vanno negli altri paesi, lavorano, studiano, rischiano, sognano. Altri no, altri si accomodano nel consumismo più assoluto. Io credo che oggi ci sia anche molta energia, nella società. Si dice che gli Anni 60 erano meravigliosi. Ma se gli Anni 60 erano meravigliosi come mai gli Anni 70 sono stati gli anni della ribellione, dei gruppi armati? Come mai se era tutto fantastico? Perché è nata la contestazione, il maggio francese, tutto quello che è venuto? Non è vero: è che noi eravamo giovani.
Questo era fantastico. La nostalgia non aiuta la storia».
Che ruolo hanno i social?
«Io non li ho, non li uso. Non li leggo nemmeno. Sono come tutti gli strumenti. Possono essere usati in tutti i modi. I mezzi di informazione in un regime totalitario possono essere strumento di libertà di opinione. I social network lo stesso.Ma con gli stessi mezzi un regime può controllare l' opinione pubblica. E' inevitabile che il progresso abbia due facce. Io non sono né favorevole né contrario. Non li uso perché faccio come il computer, che se ha troppe cose dentro poi diventa lento. Molte cose le elimino per essere più veloce per le cose che mi interessano.
Quello a cui non partecipo è il giudizio negativo dell' epoca in cui viviamo. Perché l' umanità ha fatto passi incredibili, e le opportunità che ne sono discese sono infinite ed eccezionali. Mi sembra che viviamo un momento di cambiamento epocale. Credo che tra cinquant' anni si scriverà di questo periodo come di una rivoluzione costante. Per noi è più difficile pensare che il mondo sia così perché ne abbiamo conosciuto un altro e forse siamo noi che facciamo fatica a capire. Così ci sembra negativo quello che non comprendiamo. Come in tutte le cose saranno gli uomini, saranno le persone a decidere. La storia deciderà».
Ti sembra che ci sia un po', non dico la morte, ma l' autunno delle competenze?
«Mi ricordo quando si diceva "Sono morte le ideologie". Invece sono più vive che mai. Solo che hanno preso altre forme.Ideologia oggi significa che se uno la pensa come me io sono in diritto di assegnargli un incarico o un ruolo, anche se non ha competenze. Perché la sola cosa che conta è che la pensi come me. Ma a livello del lavoro, delle aziende, dello sport, le competenze sono, al contrario, molto importanti. In Italia dopo la guerra, dopo il fascismo, c' è stato un momento storico assolutamente straordinario.
C' era da ricostruire un Paese dopo vent' anni di fascismo che, non bisogna mai dimenticarlo, aveva il consenso popolare. Oggi tutti dicono che i politici di quell' epoca erano più preparati. Ed è vero. Ma prenda gli imprenditori, i manager, i medici... Oggi c' è più competitività. Una volta bastava fare le cose bene, oggi bisogna farle meglio degli altri. Una caratteristica tipica dello sport, questa. Nel nostro mondo ad esempio, è impressionante il livello di specializzazione che si è raggiunto. Una volta il medico di una squadra di calcio era quello della famiglia del presidente».
Che cosa è il concetto di squadra in una società in cui l' io, rispetto al noi, è sovrastante?
«Prenda la cultura americana dello sport. Se c' è una cultura individualista è quella americana. Però loro lavorano molto in squadra, in tutti gli ambiti.Nello sport si mettono insieme allenatori di primo livello e lavorano insieme per un' Olimpiade. Io credo che il lavoro di squadra sia un metodo e non un imperativo etico. Non è che giochiamo di squadra perché siamo poco egoisti, perché siamo buoni, perché ci piace stare con gli altri. Giochiamo di squadra perché è più efficiente, perché si rende di più. Anche perché siamo meno soli nei momenti difficili. Però quella è una conseguenza, non voluta».
Fammi un esempio...
«Quando organizziamo una partita di calcio di bambini, mettiamo a tutti le maglie e i pantaloncini giusti. Ma non è una partita di calcio, perché ognuno prende il pallone e non lo molla finché non lo prende un altro che, a sua volta, non lo mollerà. Così i bimbi vanno avanti e si divertono da matti.
Ma non è una partita. Se è una partita bisogna insegnare a passare la palla, definire i ruoli: uno gioca davanti, uno dietro, non vanno tutti dietro la palla.
E lì comincia a essere una squadra. Una squadra lo sport lo fa in modo naturale. In altri ambiti è giusto parlare di valori. Nello sport è una scelta pragmatica. I ruoli si rispettano altrimenti la cosa non funziona. Nel mondo del lavoro delle volte non si rispettano i ruoli e si usa la famosa frase: "Ci perdo più tempo a spiegarlo che a farlo io". Nello sport questo non esiste. Il tempo giusto, mai sprecato, è quello della spiegazione.E' quello che definisce, che costituisce, una vera squadra».
Non facile in un tempo in cui i campioni sono star mediatiche...
«Quando mi chiedono del gioco di squadra dico: bisogna convincere gli egoisti a fare il gioco di squadra. Come? Dobbiamo dimostrargli che conviene. Sembra cinico, altrimenti non funziona. Non possiamo fare una squadra di bravi ragazzi. Noi cerchiamo i migliori giocatori e i migliori spesso sono egoisti, ma certo sono più individualisti, perché sanno di essere forti.
Dobbiamo convincere loro. E come li convinciamo? Ci sono molti esempi nel calcio: tutti i grandi giocatori, da Maradona a Platini, hanno sempre avuto almeno un compagno di squadra che faceva quello che non facevano loro. E se lo tenevano stretto...».
Il Bonini?
«Certo, Bonini correva e se uno menava Platini lui interveniva dicendo: "Attento o meno io te". Questa è l' essenza, la diversità propria del gioco di squadra, la complementarietà nei ruoli. E' un metodo, il gioco di squadra, e bisogna conoscere il suo funzionamento».
Come si gestisce una vittoria e come una sconfitta in un collettivo?
«Quando uno vince deve capire che ha vinto quella volta, con quell'avversario, quel giorno e che domani tutto può cambiare. Bisogna insegnare la precarietà della vittoria. E soprattutto guardare le cose che ancora dobbiamo migliorare. Quando si vince è un buon momento per farlo. A condizione che ci sia l' umiltà di non credere che, siccome abbiamo vinto, siamo imbattibili. Quando si perde invece è il momento di dare fiducia, di alimentare l' autostima, di dire "va bene sono stati più bravi loro, ma abbiamo avuto una brutta giornata, e passerà". Non abbiamo potuto, ancora. Non ci siamo riusciti, ancora. Se non c' è quell' ancora tutto diventa più difficile».
C' è un giorno della tua vita che non vorresti rivivere?
«Il periodo della giunta militare in Argentina. E quando è scomparso mio fratello. Quello è stato un giorno che sicuramente non avrei voluto vivere».
Ricordi quel momento?
«Era un periodo in cui ero andato via dalla mia città e campavo insegnando qualunque cosa.
Stavo spiegando a una ragazza ortografia in casa sua. Suona il campanello, ed è un mio amico de La Plata, un professore di filosofia. Lo vedo lì e mi dice: "Hanno preso tuo fratello". Io sono andato via da lì, siamo andati a prendere un caffè ed era surreale, perché sono quelle situazioni in cui ti senti sospeso in aria. Non potevamo fare niente. Mi piacerebbe essere scrittore per poter raccontare quel momento, perché è come se si perdesse contatto con la realtà. Non mi è successo di fronte alla morte, perché la morte era consumata.
Quando è morta mia mamma ero a un corso in Sud Corea. Mi hanno svegliato alle tre del mattino in albergo.Era definitivo: "E' morta tua mamma". Non mi sentivo fuori dalla realtà. Quando sparì mio fratello fu una cosa tremenda. Il vuoto, l'attesa, la ricerca. Il rammarico è di non essere stato di più con mia mamma, in quei giorni».
Tuo fratello quanto è stato nelle carceri?
«Quaranta giorni».
E' stato torturato?
«Sì».
Dove?
«Nel commissariato. A La Plata».
Quanti amici hai perduto in questa tragedia?
«Io ho perso il mio miglior amico delle superiori. Erano tre fratelli. Tutti e tre uccisi. Erano artisti. Ho perso anche il mio miglior amico dell' università. E poi due compagni di pallavolo, della mia squadra».
L' indifferenza è l' anticamera della violenza?
«L' essere umano può essere meraviglioso, ma può essere terribile. E' la storia di Caino e Abele. Lo dobbiamo tenere presente, perché in un attimo diventiamo feroci. Non si può linciare una persona perché ruba un cellulare. Siamo fatti così, si vede anche nello sport: genitori che finiscono con il menarsi per discussioni nelle partitelle dei figli. È parte dell' essere umano, non siamo naturalmente buoni. Bisogna lavorarci. Dobbiamo vivere insieme, c' è poco da fare. Quello che mi mette molta paura è che si sta perdendo uno dei principi fondamentali della democrazia: devo convivere con quelli che la pensano diversamente da me. Non è vero che se io sono maggioranza posso fare quello che mi pare. No, devo convivere, devo cercare l' accordo su un sacco di cose.
Posso pensare di aver ragione, ma mi devo mettere d' accordo con un altro che secondo me non ha ragione».
C' è il rischio che la democrazia appaia all' opinione pubblica, abituata alla velocità, un ferro vecchio?
«Sì, purtroppo questo rischio c' è. Molta gente vuole la soluzione subito e non importa il prezzo che deve pagare, compresa la libertà degli altri, compresi i diritti degli altri. Sempre di più si sta diffondendo questa idea. Idea che c' è stata già in Europa, nel mondo. E questo è un rischio enorme, anche per oggi. La democrazia, intesa come un sistema di governo politico, ma anche la democrazia in ambiti più piccoli, come può essere una squadra o una società sportiva, deve essere efficiente, non deve insistere solo sui valori. Se la democrazia è efficiente deve dare risposte concrete alla gente.
Altrimenti viene qualcuno che risponde a questo bisogno...».
La differenza tra leader e capo?
«Il capo comanda. Il leader guida, indica la strada. Un grande leader indica la strada e fa crescere quelli che la devono percorrere perché poi la sappiano fare da soli. Poi c' è bisogno di capi. A livello militare per esempio, sono più capi che leader perché, questo me lo spiegava un professore alla scuola militare in Argentina, in guerra bisogna insegnare a non ragionare. Se ti dicono andiamo a prendere quella collina, non bisogna rispondere "no, non abbiamo la mitragliatrice". Andiamo a prendere la collina, punto. Ti dicono di tagliare la gola a un uomo?
Se ragioni non lo fai. Proprio per questo i militari non possono guidare un Paese, perché sono educati alla guerra, che ha le sue caratteristiche.
Quando mi chiedono cosa caratterizza un leader io rispondo che prima di tutto deve sapere dove andare. Lo deve sapere. E saper spiegare».
Tu hai allenato la Nazionale italiana che è stata la squadra di pallavolo più forte del secolo. Ed è stata più forte anche perché l'hai allenata tu. Come definire quel miracolo?
«Si sono combinate diverse cose che non sempre si presentano contemporaneamente. Il talento, la grande disponibilità al lavoro, l' umiltà, ma con grande personalità e autostima. E condizioni di lavoro buone, non ci mancava niente. Il tutto ha prodotto quel fenomeno. A volte c'è il talento, ma la disponibilità è limitata, soprattutto dopo che si vince cala e invece in quella squadra non è mai calata. Talvolta c'è l' autostima però manca l'umiltà. Invece in quella nazionale c' era tutto. La squadra si rinnovava, entravano nuovi giocatori e con i nuovi io praticamente non ho dovuto fare niente, perché entravano in un meccanismo che gli altri già seguivano.
Guardavano gli altri e andavano avanti quasi da soli. E' stato un gruppo eccezionale, un momento eccezionale».
Nella poesia "I giusti" Borges dice che i giusti sono il tipografo che compone i caratteri con i quali la poesia è scritta, chi gioca a scacchi, chi accarezza un cane. Il giusto non è il capo, ma il comportamento di ciascuno, corrispondere al proprio dovere. Chi sono per te i "giusti"?
«Mi viene da dire che sono d'accordo con Borges. Mi viene da pensare che un giusto è uno che cerca di non essere ingiusto... Si può essere duri, qualche volta anche odiati, perché per portare al massimo un gruppo a volte uno non fa sempre delle cose carine. Però non ci si può permettere di essere ingiusti. Faccio l' esempio del professore. C'era l' insegnante che ti riempiva di compiti, ti interrogava duramente.
Non parlavi bene di lui. Ma non lo facevi con livore o con odio, dicevi solo: "Questo è un rompicoglioni". Del professore ingiusto parlavi invece con disprezzo. Quello che, ai leccaculo, metteva un buon voto. E allora penso che nella vita bisogna cercare di non essere ingiusti. E non bisogna nemmeno sembrarlo. Devi pensare come ti vede l'altro, quando prendi le tue decisioni. Che possono essere dure, ma mai ingiuste».
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frammentidilys · 7 years
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A volte ce le cerchiamo proprio le ginocchia sbucciate, le lacrime che escono a fiumi, i baci ricambiati senza valore, ce le cerchiamo, a volte, le tristezze che la sera ti fanno sentire stanca stanca come una vecchietta, perché spesso cerchiamo di avere per forza ciò che non possiamo avere. Capita che mi sento super contenta e poi, seduta in una stanza grande con la luce delle lampadine, tutto cambia..sarà perché non vedo una piantina o le nuvole, però mi sento fuori posto e mi chiedo se anche il ragazzo seduto accanto a me certe sere si sente così, un po' incompreso perfino da se stesso, un po' solo anche in mezzo a volti amici, se si sente -ogni tanto- una persona a metà che vorrebbe solo colmare quel vuoto che sente nel petto. Ma la verità è che non esiste nessun vuoto, non dobbiamo colmare nessun buco, perché non ci manca nulla, non capiamo che ciò che abbiamo intorno è già tutto ciò di cui abbiamo bisogno per stare bene. Solo che capita spesso di dimenticarlo. E non si fa.
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thetasteofthesoul · 8 years
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REMEMBER
Devo trovare un modo per ricordarmi, fra tanto tempo, se le cose andranno male, o se magari staremo insieme ma non ci sopporteremo più, di questo periodo, di questi momenti che viviamo troppo lontani ma paradossalmente vicini, dove mi vieni in mente all’improvviso e le guance mi si accartocciano tutte dal sorriso e lo stomaco va in un brodo di giuggiole, dove ridiamo come dei matti per delle puttanate e ci mandiamo le foto più stupide, dove ci manchiamo tantissimo ma cerchiamo di farci forza a vicenda, dove sogniamo millemila cose che potremmo fare insieme, sicuri che saranno tutte meravigliose.
Dovrò ricordarmene un giorno lontano, quando magari sarò triste, o sola, o insoddisfatta della vita, e dirmi “io un giorno sono stata felice come non avrei mai pensato di riuscire ad esserlo, ho amato con tutta la mia forza e sono stata amata da una persona che mi ha scelto tra le tante persone su questa terra, perché ero io e lo facevo felice, come io ho scelto lui.”
Non vorrò dimenticarlo mai, no matter what. 
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italianaradio · 5 years
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Come dovremmo utilizzare lo smartphone in vacanza
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/come-dovremmo-utilizzare-lo-smartphone-in-vacanza/
Come dovremmo utilizzare lo smartphone in vacanza
Come dovremmo utilizzare lo smartphone in vacanza
Se il nostro smartphone non ha più segreti riguardo ciò che può fare e, si sospetta molto presto, nemmeno più limiti, qualche problema riguardo la loro presenza nella nostra vita di tutti i giorni, resta. Lo utilizziamo mentre camminiamo per strada, ci stiamo abituando a guardare il mondo attraverso le sue lenti, ai concerti le torce hanno sostituito gli accendini e riusciamo a farne un utilizzo smodato perfino quando siamo alla guida. Ma come ci dobbiamo comportiamo in spiaggia con il telefono sempre a portata di mano?
Samsung ha deciso in questo senso di intervenire, costituendo, dopo un accurato studio, quello che ha chiamato “Galateophone”, ovvero una serie di semplici regole legate all’utilizzo degli smartphone durante la stagione estiva. Non leggi, consigli, una modalità diversa, più rilassata, di approcciarci a quella che è considerata a tutti gli effetti la nostra personalissima scatola nera, affinché la convivenza tra spiaggia e tecnologia sia del tutto pacifica.
 Il Trend Radar di Samsung ha condotto una ricerca con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su 1.500 giovani compresi tra i 25 e i 35 anni, in una parola i famigerati millenials. Lo smartphone si conferma in assoluto il compagno di viaggio preferito in vacanza (88%), l’oggetto da portare sempre con sé in spiaggia, seguito dal tablet (55%) e dall’e-Reader (44%). I giovani lo portano con sè per restare informati su cosa succede nel mondo (85%), per l’aiuto che può dare durante il viaggio (71%), per scattare foto e video (65%) e per restare in contatto con i familiari (59%).
Le app più cliccate tra un bagno e un altro comunque restano quelle dei social network (85%), ma naturalmente c’è chi lo usa per fare telefonate (77%) e chi per ascoltare la musica (58%). Sempre secondo lo studio, un millennial su tre lo utilizza tra le 5 e le 6 ore al giorno, il 25% arriva addirittura fino a 8 ore. E in vacanza? Sicuramente in maniera diversa che a casa: il 49% infatti dichiara di limitarne l’uso. È più la voglia, rispondono gli intervistati, di godersi le vacanze staccando dal resto del mondo (68%), oppure perché hanno paura di rovinarlo al sole (61%), ma non manca un 51% che cerca di non esagerare per non disturbare gli altri e un 47% che evita di portarlo con sé per paura di dimenticarlo in giro.
Limitarne l’uso, di fatto, significherebbe spegnerlo in spiaggia (41%), lasciarlo a casa quando si è fuori (28%), metterlo in modalità aerea (19%) oppure togliere la connessione internet (12%); ma come possiamo notare le percentuali che riguardano opzioni che comportano l’accantonare l’oggetto per qualche ora si abbassano notevolmente. È a questo punto della storia, una volta preso atto che le nostre cattive abitudini sono diventate ormai una regola, che va composto un Galateo, dare delle coordinate precise affinché ciò che sta diventando sempre più naturale, ovvero una forte dipendenza dagli smartphone, lo sia sempre meno, perlomeno in spiaggia durante l’estate.
Ecco allora arrivare il Galateophone con le sue prime cinque semplici regole:
1 – No alla suoneria alta che infastidisce i vicini di ombrellone, stop agli sms continui e agli squilli: la parola chiave in spiaggia è “silenzioso”;
2 – Stop al vivavoce, esistono gli auricolari, amatissimi dai millennials, che li definiscono l’accessorio più utilizzato proprio al mare (84%);
3 – No a video e musica a tutto volume, canzoni in spiaggia sì, ma solo al tramonto, meglio se con speaker di ultima generazione, altro accessorio amatissimo da un millennial su tre;
4 – Stop gli occhi fissi sul telefono: il paesaggio merita di essere contemplato, per rilassarsi, pensare e, perché no, magari sognare un po’. Ma soprattutto per imprimere le immagini delle vacanze nella propria mente!
5 – Privacy is the key: stop alle videochiamate con il rischio di filmare inavvertitamente il vicino di ombrellone.
Niente di eccezionale in effetti, norme di comportamento che non avrebbero bisogno di essere raccolte e diffuse, ma delle quali, a quanto pare, abbiamo forte necessità. Il Trend Radar di Samsung ha anche analizzato nel dettaglio in che modo i giovani utilizzano lo smartphone in spiaggia. L’89% degli intervistati per scattare foto e video, meglio se sul bagnasciuga (34%), sdraiati sul lettino (29%), sotto l’ombrellone (25%), e anche in acqua (12%).
Il 54% scatta selfie, Il 68% chatta con gli amici, il 61% cerca eventi e ristoranti da provare in vacanza, il 57% ascolta musica e il 53% controlla le mail. Il timore maggiore è che il nostro smartphone si bagni (73%), ma anche che la batteria si scarichi più velocemente (68%) o si surriscaldi (56%), oppure semplicemente di perderlo (51%) o ancora di rovinarlo con la sabbia (47%).
Per il 68% del campione, le più ossessionate dallo smartphone in spiaggia sarebbero le donne contro il 38% degli uomini. “E’ giusto limitare l’uso dello smartphone per una civile convivenza sotto l’ombrellone – commenta la psicologa psicoanalista Raffaella Conconi, coordinatrice del Servizio Tutela Minori di Lecco e provincia –  soprattutto in contesti già sociali come quello della spiaggia, in cui l’uso eccessivo del telefono può limitare i rapporti umani. Non dimentichiamo, inoltre, che il viso incollato sullo schermo o la telefonata in viva voce sono fastidiosi non solo per il vicino di ombrellone, ma anche per chi è in vacanza con noi. Abituiamoci, insomma, all’idea di non avere lo smartphone sempre sott’occhio. Cerchiamo di fare attività variegate, dalla lettura di un libro a una bella passeggiata”.
Se il nostro smartphone non ha più segreti riguardo ciò che può fare e, si sospetta molto presto, nemmeno più limiti, qualche problema riguardo la loro presenza nella nostra vita di tutti i giorni, resta. Lo utilizziamo mentre camminiamo per strada, ci stiamo abituando a guardare il mondo attraverso le sue lenti, ai concerti le torce hanno sostituito gli accendini e riusciamo a farne un utilizzo smodato perfino quando siamo alla guida. Ma come ci dobbiamo comportiamo in spiaggia con il telefono sempre a portata di mano?
Samsung ha deciso in questo senso di intervenire, costituendo, dopo un accurato studio, quello che ha chiamato “Galateophone”, ovvero una serie di semplici regole legate all’utilizzo degli smartphone durante la stagione estiva. Non leggi, consigli, una modalità diversa, più rilassata, di approcciarci a quella che è considerata a tutti gli effetti la nostra personalissima scatola nera, affinché la convivenza tra spiaggia e tecnologia sia del tutto pacifica.
 Il Trend Radar di Samsung ha condotto una ricerca con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su 1.500 giovani compresi tra i 25 e i 35 anni, in una parola i famigerati millenials. Lo smartphone si conferma in assoluto il compagno di viaggio preferito in vacanza (88%), l’oggetto da portare sempre con sé in spiaggia, seguito dal tablet (55%) e dall’e-Reader (44%). I giovani lo portano con sè per restare informati su cosa succede nel mondo (85%), per l’aiuto che può dare durante il viaggio (71%), per scattare foto e video (65%) e per restare in contatto con i familiari (59%).
Le app più cliccate tra un bagno e un altro comunque restano quelle dei social network (85%), ma naturalmente c’è chi lo usa per fare telefonate (77%) e chi per ascoltare la musica (58%). Sempre secondo lo studio, un millennial su tre lo utilizza tra le 5 e le 6 ore al giorno, il 25% arriva addirittura fino a 8 ore. E in vacanza? Sicuramente in maniera diversa che a casa: il 49% infatti dichiara di limitarne l’uso. È più la voglia, rispondono gli intervistati, di godersi le vacanze staccando dal resto del mondo (68%), oppure perché hanno paura di rovinarlo al sole (61%), ma non manca un 51% che cerca di non esagerare per non disturbare gli altri e un 47% che evita di portarlo con sé per paura di dimenticarlo in giro.
Limitarne l’uso, di fatto, significherebbe spegnerlo in spiaggia (41%), lasciarlo a casa quando si è fuori (28%), metterlo in modalità aerea (19%) oppure togliere la connessione internet (12%); ma come possiamo notare le percentuali che riguardano opzioni che comportano l’accantonare l’oggetto per qualche ora si abbassano notevolmente. È a questo punto della storia, una volta preso atto che le nostre cattive abitudini sono diventate ormai una regola, che va composto un Galateo, dare delle coordinate precise affinché ciò che sta diventando sempre più naturale, ovvero una forte dipendenza dagli smartphone, lo sia sempre meno, perlomeno in spiaggia durante l’estate.
Ecco allora arrivare il Galateophone con le sue prime cinque semplici regole:
1 – No alla suoneria alta che infastidisce i vicini di ombrellone, stop agli sms continui e agli squilli: la parola chiave in spiaggia è “silenzioso”;
2 – Stop al vivavoce, esistono gli auricolari, amatissimi dai millennials, che li definiscono l’accessorio più utilizzato proprio al mare (84%);
3 – No a video e musica a tutto volume, canzoni in spiaggia sì, ma solo al tramonto, meglio se con speaker di ultima generazione, altro accessorio amatissimo da un millennial su tre;
4 – Stop gli occhi fissi sul telefono: il paesaggio merita di essere contemplato, per rilassarsi, pensare e, perché no, magari sognare un po’. Ma soprattutto per imprimere le immagini delle vacanze nella propria mente!
5 – Privacy is the key: stop alle videochiamate con il rischio di filmare inavvertitamente il vicino di ombrellone.
Niente di eccezionale in effetti, norme di comportamento che non avrebbero bisogno di essere raccolte e diffuse, ma delle quali, a quanto pare, abbiamo forte necessità. Il Trend Radar di Samsung ha anche analizzato nel dettaglio in che modo i giovani utilizzano lo smartphone in spiaggia. L’89% degli intervistati per scattare foto e video, meglio se sul bagnasciuga (34%), sdraiati sul lettino (29%), sotto l’ombrellone (25%), e anche in acqua (12%).
Il 54% scatta selfie, Il 68% chatta con gli amici, il 61% cerca eventi e ristoranti da provare in vacanza, il 57% ascolta musica e il 53% controlla le mail. Il timore maggiore è che il nostro smartphone si bagni (73%), ma anche che la batteria si scarichi più velocemente (68%) o si surriscaldi (56%), oppure semplicemente di perderlo (51%) o ancora di rovinarlo con la sabbia (47%).
Per il 68% del campione, le più ossessionate dallo smartphone in spiaggia sarebbero le donne contro il 38% degli uomini. “E’ giusto limitare l’uso dello smartphone per una civile convivenza sotto l’ombrellone – commenta la psicologa psicoanalista Raffaella Conconi, coordinatrice del Servizio Tutela Minori di Lecco e provincia –  soprattutto in contesti già sociali come quello della spiaggia, in cui l’uso eccessivo del telefono può limitare i rapporti umani. Non dimentichiamo, inoltre, che il viso incollato sullo schermo o la telefonata in viva voce sono fastidiosi non solo per il vicino di ombrellone, ma anche per chi è in vacanza con noi. Abituiamoci, insomma, all’idea di non avere lo smartphone sempre sott’occhio. Cerchiamo di fare attività variegate, dalla lettura di un libro a una bella passeggiata”.
gabriele fazio
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concesionscrittrice · 7 years
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Buongiorno amici del web! La nostra mente é un po' come la nostra casa: piena di spazi e cassetti da riempire e svuotare. Se dimentichiamo quest'ultima azione, nasce il disordine. Questo ci fa correre il rischio di non riuscire più a trovare ciò che cerchiamo, ancor peggio di dimenticarlo. Per Questo, di tanto in tanto, bisogna svuotare i cassetti e tenere solo realmente quello che ci se serve. Ad esempio, un maglione infeltrito e bucato che ci ha regalato nostra nonna non ci servirà più e per quanto ne siamo affezionati, dovremmo lasciarlo andare via. In alternativa potremmo ritagliare un pezzo ( fatelo subito) e utilizzarlo per creare un astuccio che contenga i fondotinta che sono sparsi sulla lavatrice!!! Terremo comunque un ricordo della nonna. Fare ordine e pulizia ci renderà le cose più chiare e ci aiuterà a trovare cose nuove che ci facciamo stare bene. #ordine #pulizia #cassetto #starebene #buongiorno
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spettriedemoni · 5 years
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L'otto...
Tempo fa mi capitò durante una sera di marzo che una ragazza mi facesse un complimento un po' pesante e subito dopo mi desse il suo numero. Declinai l'offerta perché, le spiegai, se mi fossi comportato io con lei in quel modo certo non avrei fatto una bella figura (e ci mancherebbe) e sicuramente lei si sarebbe risentita molto, al posto mio.
Era una serata di marzo, dicevo, precisamente l'8 marzo. Quel giorno era diventato per quella ragazza (e non solo per lei, c'è da giurarci) "l'otto della vendetta" . Un giorno in cui comportarsi esattamente come i peggiori maschi.
Cosa spingesse lei ed altre donne a comportarsi in quel modo non saprei dirlo con esattezza. Immagino fosse solo un modo di prendersi una rivincita, in un certo senso, la vendetta, appunto.
Certo fu una lezione per me che così seppi davvero cosa prova una donna quando subisce avances non volute, non cercate e di sicuro volgari. Essere trattati come oggetti non piace, è innegabile.
Se dunque questo fanno le donne la sera dell'8 marzo, viene da chiedersi che senso abbia questo giorno, se non abbia più senso abolirlo. Dopotutto non serve a molto se tutto quello che vogliono fare le donne in questo giorno è andare a vedere uno spogliarello maschile o fare avances volgari tipo quella che ricevetti io.
Invece c'è bisogno della "Festa della Donna" oggi più che mai. C'è bisogno perché a parità di curriculum si tende ad assumere un uomo. C'è bisogno perché mediamente una donna è retribuita con un compenso inferiore rispetto a quello di un uomo. C'è bisogno perché si giudica una donna per il suo genere e non per le competenze. C'è bisogno perché una donna che è brava, precisa ed efficiente nel suo lavoro è una maestrina antipatica mentre un uomo è bravo, preparato e simpatico. C'è bisogno perché una donna che vuole fare sesso con un uomo conosciuto una sera è una troia, mentre un uomo che fa sesso la prima sera che esce con una donna è un maschio virile, uno stallone e un seduttore. C'è bisogno perché ancora la società odierna pretende che la donna scelga il ruolo che le impone il maschio. C'è bisogno perché oggi, per la Festa della Donna, gira un meme che dice: "In un mondo di Kardashian, sii una Marie Curie" che è pretendere di imporre le scelte a qualcuno in base al suo genere solo perché un certo pensiero presuppone che per una donna sia meglio un modello invece di un altro. C'è bisogno perché perfino nello sport vi è differenza tra uomini e donne. C'è bisogno perché per anni alle donne sono stati imposti certi modelli di fisico con danni a volte irreparabili. C'è bisogno perché per tanti uomini una donna è loro proprietà e dunque si sentono in diritto di abusare di loro, di brutalizzarle e di ucciderle. C'è bisogno perché il femminicidio purtroppo è una piaga dolorosa. C'è bisogno perché a quanti dicono "Sì, ma perché parliamo di donne? È più giusto parlare di umanità, non solo di donne" si deve rispondere che la parità di genere è una questione di umanità.
C'è bisogno perché la strada della parità, della lotta alle discriminazioni di genere è solo all'inizio.
C'è bisogno perché il femminismo spesso viene ridicolizzato.
C'è bisogno perché la strada è lunga.
C'è bisogno perché come esseri umani siamo tanto uomo quanto donna.
Cerchiamo di non dimenticarlo.
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robysbis · 5 years
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Ciao a tutti , lo so che e' passato un anno ormai dal suo smarrimento, ma noi non perdiamo le speranze e lo cerchiamo sempre con la speranza nel cuore che sia ancora vivo. Ugo perso ad Albenga (Savona) circa un anno fa , al momento della perdita indossava un collarino sul rosso, Ugo e' microcippato, lo abbiamo cercato dappertutto, ci sono stati vari avvistamenti prima vicini dopodiche' nel tempo anche piu' distanti, ma niente di concreto... Vi chiediamo di non dimenticarlo e di condividere il post piu' volte, lo so per tanti puo' sembrare un'impresa ad oggi difficile, ma noi non perdiamo mai la speranza di ritrovarlo. Vi chiediamo solo di ricondividere il post e per avvistamenti avvisarci al piu' presto al num.339/6306891 Grazie di cuore a tutti! #annunci_cani_trovati #annunci_cani_smarriti #appelli_cani_smarriti #cani_smarriti #cani_trovati #cani_ritrovati #segnala_smarrimento #segnala_cane_smarrito #canismarriti (presso Albenga) https://www.instagram.com/p/B3g__q8CLdi/?igshid=1dtou9is8s5pb
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