#cavallo simbolico
Explore tagged Tumblr posts
Text
La cavalla storna: il dolore e il mistero in versi di Giovanni Pascoli. Recensione di Alessandria today
Un viaggio nella memoria e nella tragedia familiare
Un viaggio nella memoria e nella tragedia familiare Giovanni Pascoli, con “La cavalla storna”, offre uno dei componimenti più iconici della sua raccolta “Canti di Castelvecchio”. Pubblicata nel 1903, questa poesia rappresenta un commovente racconto autobiografico che fonde dolore personale, lirismo e tensione narrativa. Il ricordo della morte del padre, ucciso in circostanze misteriose, viene…
#Alessandria today#Canti di Castelvecchio#cavallo simbolico#decadentismo#Decadentismo italiano#dolore#Emozioni universali#Fedeltà#figura materna#Giovanni Pascoli#Giovanni Pascoli biografia#Giovanni Pascoli opere#Google News#introspezione#italianewsmedia.com#La Cavalla Storna#legame con il passato#legame familiare#letteratura italiana#lutto#lutto in poesia#Memoria#mistero#mistero irrisolto#morte del padre#morte e memoria#natura e poesia#nitrito#Omicidio#Pascoli e Decadentismo
0 notes
Photo
Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
LA REALTA' APPARENTE
Si può ancora oggi, discorrendo d’arte, essere platonici: ridurre la rappresentazione a imitazione di un’imitazione delle idee; oppure, considerare l’espressione artistica un accrescimento delle capacità di conoscenza del reale. Non ho usato a caso le parole “rappresentazione” e “espressione”. Platonicamente, la rappresentazione imita: la repraesentatio come ri-presentazione di un’immagine, re-ad-praesentare, rendere di nuovo presente. Espressione, invece, è exprimere da cui deriva expressio che indica lo spremere, il fare uscire qualcosa da qualcos’altro. Dunque, imitare oppure trarre, trarre da sé, trarre rielaborando il fenomeno sensibile portandolo in una nuova forma alla percezione dei sensi, una forma che non è comune, che non è mera imitazione ma realtà nuova. Il ritratto di una persona non è quella persona: è un’altra cosa, è un’altra essenza, è il percepito proposto in una nuova forma, è altro anche dall’oggetto imitato. Lo stile diviene così il modo in cui un supporto (la tela) viene utilizzato per tracciare un segno originale. Solo chi copia un dipinto imita: imita lo stile mediante la perfetta riproposizione di linee e colori. Ma il dipinto originale non imita: è! L’atto artistico è pura creazione di una forma, ma è creazione intertestuale: è il pensiero dell’artista sulla figura divina della Madonna o del Cristo in croce, ma il pensiero dell’artista non è una tabula rasa poiché è costituito da una continua revisione della memoria di tutta la realtà percepibile attraverso i sensi. Di qui lo stile che è unico. E che si piega all’interazione comunicativa: atto creativo di un concetto sovrasensibile (l’immagine divina) in una forma comprensibile. Poiché se chi scrive desidera farsi leggere, chi dipinge desidera farsi guardare. Ecco spiegata la ragione intrinseca di atto artistico attribuibile anche alle espressioni figurative vissute come banali (i rilievi dell’arte longobarda, l’altare di Rachis e molto altro) e che al contrario occorre definire sintetiche. Quel sintetismo è coerenza espressiva: da una parte comunica l’essenziale e dall’altra satura ogni argomento sulla impossibile rappresentazione reale del soprasensibile. Se le cose stanno così, bisogna ammettere che il realismo pittorico e plastico altro non sono che il riflesso stilistico ed estetico di una lunga epoca, un’epoca che dalla fondazione della diffusa civiltà comunale in Italia e nelle aree più sviluppate del continente europeo, si è evoluta anche nelle forme artistiche e nel loro significato. Quel significato che soggiace ad ogni segno e che non bisogna mai perdere di vista. L’atto artistico “significa” nello stesso momento in cui “è”. La ri-scoperta della prospettiva è dunque un fatto significativo oltre che di stile della rappresentazione. Può risultare utile un esempio. Quando Piero della Francesca (1416 - 1492) dipinge “La flagellazione”, in una data incerta a cavallo del 1453, anno della caduta di Costantinopoli e dell’eclissi dell’Impero bizantino, non usa la prospettiva per un afflato geometrico ma per collocare due eventi distinti nello spazio pittorico, assegnando di riflesso all’organizzazione prospettica degli spazi un significato simbolico specifico. A sinistra, la scena della flagellazione con Pilato vestito come l’imperatore bizantino – chiara comparazione concettuale tra le due figure, mentre il riferimento non è chiaro se possa essere attribuito a Giovanni VIII Paleologo oppure a suo figlio Costantino XI – mentre uno sconosciuto ripreso di spalle, vestito come un turco – forse è Maometto II, forse è suo padre Murad II che ad un passo dalla conquista di Costantinopoli decise di desistere - assiste alla scena ma accenna con la mano un gesto che potrebbe essere di clemenza ma che potrebbe anche connotarsi come atteggiamento di potere verso il Cristo (quindi verso il simbolo della cristianità rappresentata dalla città bizantina - sottoposto alle pene inflitte dai due carnefici. La scena è posta a Gerusalemme, dunque è vissuta nel passato che si trasfigura nel presente attraverso una simbologia che non ha nulla da invidiare a quella rinomata medievale. Una simbologia che si riafferma nella scena posta a destra nella quale, sullo sfondo di un paesaggio urbano, probabilmente italiano e visto di scorcio, tre figure sembrano assorte in una conversazione di alto profilo (citazione del tema delle conversazioni sacre): forse la metafora delle inutili discussioni in Occidente, a Ferrara e poi a Firenze, nel 1436, durante il Concilio che avrebbe dovuto sancire la riunificazione delle chiese scismatiche e la riedizione di una crociata per respingere gli ottomani e salvare Costantinopoli – simbolicamente anch’essa uno dei centri della cristianità in Oriente, area dove la fede era sorta – ovvero la trattativa tra un diplomatico di alto rango (a sinistra, forse il cardinale Bessarione) ed un “signore” italiano (siamo in un’epoca di dominatori combattenti nei novelli stati signorili italiani, da Federico di Montefeltro a Sigismondo Pandolfo Malatesta e Francesco Sforza, solo per citarne alcuni) che dovrebbe assumere il ruolo di difensore della cristianità. In mezzo a loro, un giovane che sembra ascoltarli assorto, che ha lo sguardo lontano: forse il "Porfirogenito" (porta un abito rosso porpora ed ha un atteggiamento regale, di cortese distacco) che avrebbe dovuto riassumere per diritto dinastico il trono di Bisanzio. Ecco, in questa semplificata ricostruzione del significato di un dipinto, sul quale si sono arrovellati e continuano a farlo illustri studiosi, c’è tuttavia l’esempio di quanto simbolismo si affermi in esso e di come la dimensione prospettica funga da “macchina del tempo” traslando l’evento contemporaneo in uno spazio-tempo intrecciato, come in due piani sequenza sovrapposti, usando con formidabile maestria l’atto di sintesi delle immagini sul supporto bidimensionale. La pittura del ‘400 non sfonda la terza dimensione ma fonda un linguaggio per immagini del tutto nuovo, una sintassi diversa che aveva bisogno di una grammatica diversa, parole nuove per parlare ad un tempo nuovo, parole che cambieranno nel corso dei secoli ma che fermano l’attimo e lo colgono. Certamente, questo nuovo linguaggio è misura della potenza espressiva che la tela rivela fissando un punto di vista obbligato ma potenzialmente infinito. Eppure, non c’è nulla di progressivo in questo, non c’è un mondo in via di maturazione ma artisti che segnano la contemporaneità e la tramandano ad un pubblico che oggi si pone annose domande sul significato mentre all’epoca tutto era ben chiaro o volutamente ambiguo per essere compreso solo dalle élite cui la raffigurazione era destinata. Se nell’arte si pone, gerarchicamente, un presente perennemente superiore al passato, non rimarrà nulla di essa. Ogni atto artistico è contemporaneo, segna il proprio tempo e solo in questa dimensione deve essere riletto e rivisto.
In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
#thegianpieromennitipolis#arte#arte medievale#arte italiana#piero della francesca#maria casalanguida
9 notes
·
View notes
Text
Alfons Alt Bestiae
Testo di Sophie Biass-Fabiani e Sally Bonn (De anima)
Peliti Associati, 2000, 138 pagine, 25,2x31,5cm, Rilegato con sovracoperta (hard cover, dust jacket), Fotografie a colori a piena e doppia pagina, ISBN 9788885121645
euro 35,00
email if you want to buy [email protected]
Si chaque animal photographié renvoie à une imagerie connue et conventionnelle, il ne s'agit pas pour Alfons Alt, de documenter une espèce. Chaque animal porte un nom (le percheron Raspoutine, le macaque Jimmy...) et l'image devient son portrait. Le sens symbolique est omniprésent dans l'oeuvre de ce photographe animalier.
Se ogni animale fotografato riporta ad una immagine conosciuta e convenzionale, non si tratta per Alfons Alt di documentare una specie. Ogni animale ha un nome (il cavallo Raspoutine, il macaco Jimmy..) e l'immagine diventa il suo ritratto. Il senso simbolico è onnipresente nell'opera di questo fotografo animalier.
24/08/24
1 note
·
View note
Text
Nome: Gruppo del Laocoonte
Data di realizzazione: Tra il 40 e il 30 a.C.
Materiale: Marmo
Dimensioni: Altezza di circa 2,42 metri
Provenienza e Scoperta
Luogo di ritrovamento: Roma, sul Colle Oppio
Data di scoperta: 1506
Scopritore: Scoperto durante gli scavi sotto Papa Giulio II
Attuale Collocazione
Museo: Musei Vaticani
Città: Città del Vaticano
Descrizione e Significato
Rappresentazione: Raffigura il sacerdote troiano Laocoonte e i suoi due figli avvolti e attaccati da due enormi serpenti marini.
Dettagli stilistici: È famosa per il realismo drammatico, l'espressione di sofferenza, e la complessità compositiva.
Significato simbolico: Il gruppo scultoreo illustra la punizione divina per aver avvertito i Troiani contro il cavallo di Troia.
0 notes
Text
Per chi abita in… Via Vinegia: La via del vino
C'è chi azzarda che Via "Vinegia" fosse un'antica via "Venezia", nata per ospitare soprattutto veneziani inurbati sulle rive dell'Arno. In una città che contava già Via Pantani, via de' Fossi, via Sguazza e, più tardi, via del Diluvio - per le continue piene del fiume - non c'è da meravigliarsi se anche i fiorentini si fossero abituati a una piccola laguna, simile a quella veneta, anche se più domestica e meno famosa. Ma l'uso più comune di quella "Vinegia" fa pensare che qui abbondassero le osterie, e la strada altro non fosse che la "via del vino". È vero che i fiorentini, forse sull'esempio di quel primo romano Rubezio che coltivava la vigna oltre Varlungo, si mostrarono fin dall'antichità dei perfetti enologi. Perciò non fa meraviglia se, non solo in via Vinegia, ma un po' ovunque, vi fossero osterie, bettole e cantine. In via del Fico, l'albero che cresceva oltre il muro di cinta, aveva radici nel giardino di un'osteria, appunto l'Osteria del Fico.
Chi teneva una mescita aveva poi un segno convenzionale sullo sporto della bottega: una bella frasca fronzuta pendula a indicare che lì si trovava buon vino. Una specie di simbolico cartello, non dissimile da quello che il messo di Santa Romana Chiesa lascio a Montefiascone per indicare al suo superiore che il vino, da quelle parti, era buonissimo. Un “est, est, est” ermetico, significava quella rustica frasca. E tanto il segno fu ben conosciuto che presto corsa un proverbio: “chi non vende vino non metta frasca”. Le “frasche”, dunque, in città, si dovevano trovare un po' dovunque. Pur di potersi centellinare il vin bono, i fiorentini non facevano questione di locale o di spazio. Erano disposti a chiudersi anche nell'osteria di un piccolo Chiasso, tanto angusto e stretta da chiamarsi “Il Buco”, ma tanto famosa da distinguere inconfondibilmente uno sdrucciolo: il “Chiasso del Buco”. Questo locale faceva addirittura trattoria e il suo oste era rinomato in tutta Firenze. Altre osterie avevano poi la stessa disponibilità di spazio, solo variavano i nomi fino ad essere chiamati “pozzi”. Uno, intitolato persino alla dantesca Beatrice! Senza più voler scomodare Dante, anche via dell'Inferno deve il suo nome ad un'antica osteria, dove i fumi del vino ammorbavano tanto l'aria da ricordare i vapori infernali. L'Osteria del Purgatorio era più virtuosa. Quasi idilliaca quella del Paradiso. Per i viandanti e gli ospiti frettolosi, c'erano numerose cantine, perché non tutti i “passanti” avevano il tempo di fermarsi al banco dell'Osteria. I più indaffarati, come la gente del contado che arrivava in città magari su un carro di fieno o di legna, tiravano la briglia al cavallo e posteggiavano un istante davanti ad una piccolissima finestra arcuata: quella di una cantina. Pagavano “un grosso” e ricevevano il tozzo bicchiere, magari più spesso richiedevano un boccale, per calmare la sete del lungo viaggio. La piccola apertura bordata di pietra e gentile nel profilo, come l'arco di un ciborio, accoglieva poi bicchiere o boccale vuoti, mentre l'uomo si puliva la bocca col rovescio della mano. Il vino toscano era spesso così generoso, che il barrocciaio accompagnava quasi sempre il saluto facendo schioccare la lingua contro il palato asciutto. L'uomo della cantina e quello della strada, saranno diventati amici. Forse, due chiacchiere avranno accompagnato il rapido gesto del passante e del cantiniere.
Sulle facciate di antichi palazzi fiorentini fanno bella mostra di sé delle piccole finestrelle centinate, poste ad altezza di “braccio” e generalmente - se non sono murate - ancora dotate della loro porticina di legno originale. Queste curiose finestrelle, chiamate “buchette del vino”, come certo la maggior parte di voi sa, erano dei veri e propri punti vendita! Esse rappresentano un unicum della città di Firenze. Furono progettate ed imposte direttamente dalla Signoria nel XVII secolo alle nobili famiglie fiorentine: queste possedevano grandi appezzamenti terrieri nel contado, coltivati a vigna e olivo. Ma una particolare congiuntura economica negativa, li portò a richiedere alla Signoria di poter vendere le eccedenze di produzione vinicola anche ai passanti ed integrare così i loro ricavi. Il vino veniva principalmente venduto nei fiaschi, la cui origine si può far risalire alla fine del Duecento quando, nelle zone della Val d’Elsa e del Val d’Arno, numerosi mastri vetrai cominciarono a produrli.
Fin dai primi anni del Trecento, si cominciò a rivestire il il fiasco di vetro con un’erba palustre molto diffusa in stagni e acquitrini, localmente chiamata sala o stiancia, la cui funzione era quella di evitare la rottura del contenitore durante il trasporto.
Ma anche “l'esercizio” delle cantine aveva il suo orario. Poiché anticamente non c'erano giornali, l'orario del negozio era scolpito sul muro vicino alla piccola finestra. Venendo da via della Spada, sulla destra, quasi in angolo allo slargo da cui comincia via delle Belle Donne, c'è un piccolo rettangolo di pietra incisa che declama gli orari di apertura della cantina, nei vari periodi dell’anno. “Dal primo maggio…. “ si comprende che iniziava una una specie di orario primaverile, e la data cade a proposito. Il primo giorno di maggio, a Firenze si celebrava la festa dell'amore. “Ben venga maggio e il Gonfalon selvaggio… ”. Il selvaggio gonfalone non era un rustico stendardo, ma un ramo fiorito, di pesco, di mandorlo magari, traforato di petali bianchi o rosa, appena variato di piccole foglie nuove nuove come la stagione. Se la ragazza era amata, il giovane appendeva al batacchio del suo portone questo ramo fiorito. Se l'amore non era corrisposto, si trovava una resta di cipolle a cavalcioni di quel ferro brunito. Le cipolle, si sa, fanno lacrimare e inducevano, con la loro piccola sfera soda e tonda, uno dei due sfortunati giovani al pianto.
Gabriella Bazzani Madonna delle Cerimonie Read the full article
0 notes
Text
Chi erano le suffragette?
Le suffragette erano le attiviste del movimento di emancipazione femminile nato per ottenere il diritto di voto alle donne. Il termine, derivato dall'inglese suffragette, a sua volta da suffrage, «suffragio», fu coniato nel 1903 dal Daily Mail per deridere le donne che lottavano per il suffragio. Tuttavia, le suffragette lo adottarono con orgoglio e lo fecero proprio, trasformandolo in un simbolo della loro lotta. Suffragette, come nascono? Il movimento delle suffragette nacque in Gran Bretagna nella seconda metà dell'Ottocento, ma si diffuse rapidamente in tutto il mondo. In Italia, le prime associazioni femminili che si battevano per il suffragio nacquero alla fine del XIX secolo, ma fu solo nel 1919 che le donne italiane ottennero il diritto di voto. Le suffragette erano donne di diverse classi sociali, età e professioni. Erano unite da un forte senso di giustizia e dalla convinzione che le donne dovessero avere gli stessi diritti degli uomini, inclusa la possibilità di partecipare alla vita politica. Le suffragette utilizzarono una varietà di strategie per raggiungere i loro obiettivi. Si impegnarono in campagne di sensibilizzazione pubblica, organizzarono manifestazioni e proteste, e ricorsero anche alla disobbedienza civile e alla violenza. Le loro azioni suscitarono spesso l'opposizione delle autorità e della società, che le accusavano di essere sovversive e di mettere in pericolo l'ordine pubblico. Alcune suffragette furono arrestate, incarcerate e persino torturate. Nonostante le difficoltà, le suffragette non si arresero e continuarono a lottare per i loro diritti. La loro tenacia e determinazione portarono alla conquista del suffragio femminile in molti paesi del mondo. Le suffragette in Gran Bretagna Il movimento delle suffragette in Gran Bretagna è stato uno dei più importanti e radicali della storia. Le suffragette britanniche furono le prime a utilizzare la disobbedienza civile e la violenza per ottenere i loro obiettivi. Il movimento fu fondato nel 1903 da Emmeline Pankhurst e da sua figlia Christabel. Le Pankhurst erano donne di estrazione borghese che erano profondamente convinte che le donne dovessero avere gli stessi diritti degli uomini. Le suffragette britanniche organizzarono una serie di campagne di sensibilizzazione pubblica per attirare l'attenzione sul loro movimento. Si impegnarono anche in manifestazioni e proteste, spesso violente. Nel 1908, le suffragette organizzarono una grande manifestazione a Londra che sfociò in scontri con la polizia. In quell'occasione, molte suffragette furono arrestate e incarcerate. Nel 1913, Emily Davison si gettò sotto il cavallo del re Giorgio V durante il Derby di Epsom. La sua morte fu un evento simbolico che contribuì a sensibilizzare l'opinione pubblica sul movimento. Nel 1918, il governo britannico concesse alle donne il diritto di voto, ma solo a quelle con più di 30 anni e che possedevano una casa. Le donne con meno di 30 anni e le donne senza proprietà ottennero il diritto di voto nel 1928. In Italia Il movimento delle suffragette in Italia fu meno radicale di quello britannico, ma non meno importante. Le suffragette italiane si impegnarono in campagne di sensibilizzazione pubblica e organizzarono manifestazioni e proteste. Una delle figure più importanti del movimento delle suffragette italiane fu Anna Maria Mozzoni. Mozzoni era una giornalista e attivista che si batté per i diritti delle donne fin dalla fine del XIX secolo. Nel 1899, Mozzoni fondò l'Unione Femminile, un'associazione che si batteva per il suffragio femminile e per l'emancipazione delle donne in generale. Nel 1919, le donne italiane ottennero il diritto di voto, ma solo a quelle con più di 21 anni e che sapevano leggere e scrivere. Le donne analfabete ottennero il diritto di voto nel 1945. Il contributo Le suffragette hanno contribuito in modo significativo all'emancipazione delle donne. La loro lotta ha portato alla conquista del diritto di voto, che è stata una pietra miliare nella storia dei diritti delle donne. Hanno anche contribuito a cambiare la percezione delle donne nella società. Hanno dimostrato che le donne sono capaci di lottare per i propri diritti e di ottenere risultati concreti. Il loro esempio ha ispirato le donne di tutto il mondo a continuare a lottare per i propri diritti. Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay Read the full article
1 note
·
View note
Text
Parliamo quotidianamente di Astrologia ma facciamo un passo indietro e iniziamo dalle origini di questa affascinante disciplina.
Si dice che l'Astrologia sia nata in Mesopotamia ma che fosse già una disciplina praticata da civilità più antiche.
Fino all'avvento del metodo scientifico Astrologia e Astronomia erano la stessa disciplina: a cavallo tra i secoli '600 e '700, soprattutto dopo la Rivoluzione Francese, l'Astrologia viene relegata a superstizione senza fondamento. È nell'800, in Europa, che l'Astrologia torna ad essere una disciplina studiata in diverse scuole.
"Astrologia" deriva dal Greco: Astròs (stella) e Logos (discorso). È una disciplina, che si basa su calcoli matematici ed astronomici e sulla conoscenza di un preciso linguaggio simbolico ed universale. Obiettivo dell’astrologia è anche quello di insegnarci a conoscere e ad accettare noi stessi.
Il simbolo fondamentale dell’astrologia è lo Zodiaco, che dall'etimologia della lingua greca, significa Strada della Vita... ma ne parleremo nel prossimo post!
Conoscevi le orgini dell'Astrologia? Scrivici nei commenti cosa ne pensi.
(immagine: Personificazione dell'Astrologia, Guercino, ca 1650-1655)
#astrologia astrologiaitalia astrologiaevolutiva astrologiadinamica storiaastrologia culturaeoltrelecce scuolaliveastrology#astro community#astro notes#astro observations#astrology#astrology posts#astroworld#birth chart#horoscope#natal chart#zodiac
1 note
·
View note
Text
Lirica, kandiskij,1911
É um filósofo oltre che un colorista. Non ha mai smesso di interrogarsi sul significato dell'arte.
Il vero contenuto di un quadro non é ciò che rappresenta, ma l'emozione che comunica
Tema del cavallo → legato alle fiabe, al folcrore, al cristianesimo. Era un simbolo privato e autobiografico dal momento che un cavallo abitava i suoi ricordi d'infanzia. Simbolico e magico.
Era già convinto che la pittura non deve esser Pittura del visibile - replica, riproduzione, imitazione di oggetti esistenti nel mondo. L'arte non può che essere astratta e dipingere l'invisibile cioè la vita stessa.
Una linea che si dirige verso destra a viene letta come ritorno a casa alle origini
Una linea che si dirige verso sinistra viene letta come direzione verso la lontananza, l'avventura e l'infinito
Kandiskij agisce su di noi come qualcosa di misterioso, spirituale. Cos'altro é lá vita se non movimento - esperienza, conoscenza e accrescimento di se? Ha ragione. Questo quadro trasmette benessere
0 notes
Text
Reggiseni
In un post di qualche giorno fa, @kon-igi mirabilmente e con il suo stile irriverente (in senso “vernacoliere”, citazione non a caso) spiegava il passaggio transgenere sessuale partendo dal mito delle Amazzoni, in particolare dal leggendario scontro raccontato nell’Iliade tra Achille e Pentesilea. Leggetelo per le spiegazioni biologiche, davvero importanti anche in vista di successive discussioni su un tema che è necessario da conoscere e da affrontare, io gli ho promesso che appena avuto un po’ di tempo avrei scritto delle chicche sulle leggendarie guerriere.
Secondo la leggenda e la storiografia di Erodoto, le Amazzoni erano un popolo guerriero formato da sole donne che viveva ai limiti orientali del mondo allora conosciuto, la Scizia, un vastissimo territorio che corrisponde a zone dell’odierna Romania, il Caucaso, espandendosi verso Oriente a parti del Turkemistan, Kazakistan e l’Iran, vivendo in prossimità dei fiumi. Erano famose guerriere che vivevano in società di tipo matriarcale, con due regine, una nei tempi di pace e una nei tempi di guerra. Del loro rapporto con i maschi, ci sono diverse versioni: le più famose raccontano che i maschi erano considerati schiavi e non potevano usare le armi, venendo usati solo a scopi riproduttivi; altre invece, come nella Geografia di Strabone (XI.5.4-5) raccontano che alcune migravano nei territori dei Gargareni (più o meno l’odierna Cappadocia), e si accoppiavano con i maschi di quella popolazione in segreto e al buio, affinchè non si potesse conoscere l'identità dell'altro.
Ma arriviamo al punto divertente: è verissimo che l’etimologia della parola Amazzone significa “senza un seno”, pratica che lo stesso Ippocrate nella Medicina descrive venisse effettuata bruciando la mammella con un disco incandescente di rame, per favorire il tiro con l’arco, e successive tradizioni seguono in parte questa idea, come Virgilio nell’Eneide (I, 466-496) che descrive la bellissima Pentesilea con l’elmo frigio e una cinta d’oro a comprimerle il seno (milibus ardet, aurea subnectens exsertae cingula mammae, bellatrix, audetque viris concurrere). Ma c’è un grande problema: in tutta l’iconografia delle Amazzoni, non c’è mai prova di questa amputazione, anzi spesso sono dipinte e scolpite con un florido seno; esempio più eclatante è il fregio della Amazzonomachia del Mausoleo di Alicarnasso. Questo perchè probabilmente ci fu un errore di traduzione: il termine di origine armene mazon, guerriera, si confuse con mastos, mammella; masa in altre lingue del territorio indica la luna, e nell’iconografia le Amazzoni avevano un piccolo scudo con disegnata una mezzaluna, probabilmente legata ad antichissimi culti lunari. Altra versione ancora fa derivare amazzone da ha-mazan, persiano per donna guerriera.
Rimangono altre piccole curiosità:
- vero che Achille nell’Iliade uccide tutte le 12 guerriere amazzoni accorse in aiuto dei Troiani, e il suo scontro con Pentesilea è una delle scene più memorabili del poema: Omero fa vincere Achille, tra l’altro Achille ferisce Pentesilea al seno (punto centrale della questione dal punto di vista simbolico) e si innamora della bellissima guerriera mentre cade esanime a terra, ma la vittoria era chiara dato che l’Iliade è il poema “dell’Ira di Achille”; versioni successive davvero raccontano di fantasie necrofile del Pelide, altre che fu ferito a Morte dalla guerriera e solo l ‘intervento di Teti presso Zeus portò all’epilogo conosciuto; tutte però confermano che fu Achille a consegnare emozionato alle Amazzoni la salma della loro regina, e lo era così tanto che alcuni guerrieri achei lo derisero, e ne ebbe la peggio Tersite, ucciso a pugni dall’eroe;
- le gesta delle Amazzoni erano uno dei fulcri di un altro poema epico, all’epoca dell’Iliade altrettanto famoso, l’Etiopide, attribuita da fonti antiche ad Arctino di Mileto, d cui però non ci rimangono che dei piccoli frammenti;
- le Amazzoni erano famose per l’abilità a cavallo, tanto che ancora adesso si usa amazzone per una donna che cavalca, e per le armi: Pentesilea usò durante lo scontro probabilmente una sagaris, scure d'arcione utilizzata dalle popolazioni nomadi che abitavano le steppe euro-asiatiche;
- la zona delle foreste equatoriali sudamericane si chiama Amazzonia perchè nel 1542 il cappellano della spedizione comandata da Francisco de Orellana, Gaspar de Carvajal, descrivendo lo scontro tra i soldati e gli indigeni, che probabilmente erano della popolazione conosciuta come Tapuyas, notò che presero parte alle scontro anche le donne; nella “Relacion del nuevo descubrimento del famoso Rio Grande que descubrió por muy gran ventura el Capitan Francisco de Orellana" il cappellano descrisse l’attraversamento del Capitano Orellana di un immenso fiume, che in un primo momento fu chiamato Rio De Orellana, ma poi cambiò in Rio delle Amazzoni proprio in ricordo delle donne guerriere che tendevano imboscate ai bordi del fiume.
59 notes
·
View notes
Text
Better days
La stanza era piacevolmente silenziosa: si era congedata dagli altri con un sorriso, accennando alla necessità di ultimare il bagaglio e cercare di conciliare l'ispirazione. Le amiche avevano voluto un'ulteriore rassicurazione e le aveva rincuorate: non le dispiaceva prendersi un po' di tempo per sé ed era più che legittimo che tutte potessero avere una serata più romantica con il proprio ragazzo. Finì di piegare i panni così che non occupassero troppo spazio nella valigia e sorrise con un moto ironico. Appena una settimana prima, parlando con Lizzie, aveva dovuto ammettere di non avere la benché minima voglia di partire per quella vacanza organizzata con largo anticipo. Era felice di essersi sbagliata e di aver seguito l'incoraggiamento dell'amica e dei genitori ed essersi, invece, presa quel tempo per distaccarsi dalla sua quotidianità.
Dalla tasca laterale dalle valigia estrasse i due oggetti che le avevano fatto compagnia in quelle giornate invernali: il taccuino degli appunti e la sciarpa di Darren. Si portò quest'ultima al viso: del profumo restava solo una lieve traccia, ma se l'avvolse intorno al collo e si mise comodamente seduta. Lasciò vagare lo sguardo sulle pagine in cui aveva vergato il possibile testo di una canzone con annesse cancellature, disegni stilizzati che l'avevano aiutata a rilassarsi mentre provava a canticchiare la melodia che le risuonava nella mente, cercando di convertirla in note. Si trattava solo di un abbozzo, ne era consapevole, ed era assai probabile che, quando si fosse esercitata al pianoforte, avrebbe dovuto cambiare una buona parte dei versi per adattarne la metrica. O che la melodia stessa subisse qualche modifica per armonizzare i due tipi di linguaggio. Sapeva che non poteva certamente considerarsi qualcosa di “definitivo”, ma si trattava della prima e unica composizione che riuscisse a farla realmente sperare negli ultimi mesi. Trovava altamente simbolico, inoltre, il fatto che fosse stata buttata giù a cavallo tra la fine di quell'anno terribile e lo sbocciare di quello successivo, quasi fosse quel presagio di cui aveva bisogno. Per quanto potessero essere dolci e confortanti le parole delle persone care, non potevano mai far bene all'anima quanto un proprio e personale convincimento. Era lungi dal dire di sentirsi “bene” ma, dopo quel periodo di distacco reale e virtuale, finalmente poteva asserire con certezza che sarebbe stata meglio. Che ogni giorno di più si stava avvicinando la fine di quel lungo tunnel. Forse per la prima volta riusciva a comprendere le parole di sua madre che, alludendo alle sue pene d'amore, le aveva assicurato che, con il senno di poi, avrebbe ripercorso ogni istante e ogni ferita per la speranza di incontrare il vero amore. “A volte nella vita percorriamo sentieri sbagliati, Muffin, ma guardando al nostro passato ci renderemo conto che erano tutti necessari per imboccare quello giusto”.
Sorrise al pensiero della madre, più che sicura che al ritorno a casa, il giorno dopo, avrebbe trovato ad attenderla almeno una mezza dozzina di suoi messaggi, malgrado le avesse spiegato che non sarebbe stata reperibile. Ed era assai probabile che giungesse a casa nello stesso pomeriggio o la esortasse a raggiungerla per cena.
Depose il taccuino, ma si avvicinò alla finestra della stanza e la schiuse per appoggiarsi un'ultima volta al davanzale e rimirare il cielo stellato. Doveva anche ammettere che, a distanza di due settimane, riusciva a ripensare a quella notte sotto un altro punto di vista. Se anche Darren fosse rimasto qualche giorno in più, come avrebbe potuto lucidamente prendere una decisione su un'eventuale frequentazione che sfociasse in una relazione? Non si era forse istintivamente aggrappata a lui che era sembrato il suo unico punto di riferimento, l'unico, pur estraneo, ad averle detto la verità spiacevole e a essersi preso cura di lei, andando ben oltre le mansioni pattuite? Con quali basi avrebbero potuto creare una storia, qualora lui fosse stato concorde? Avrebbe ripensato ai loro inizi come una coincidenza assai poco lusinghiera con la fine definitiva dei suoi contatti con Tiffany e Patrick? Inoltre, e qui non poté che sospirare con un corrugamento delle sopracciglia, se anche avesse iniziato a provare dei reali sentimenti per il giovane, questo non rappresentava alcuna garanzia che potessero essere compresi. E tanto meno ricambiati. Da quanto aveva appurato di lui, in effetti, sembravano essere agli antipodi su questioni legate alla vita sentimentale. Senza contare che, a quanto pareva, aveva una ragazza ad attenderlo a casa, seppur avesse avuto l'impressione che fosse ancora “scottato” per quel rifiuto a cui aveva alluso durante il giochino alcolico. Scosse il capo tra sé e sé, ripetendosi che l'identità della fanciulla in questione non avrebbe cambiato il punto della questione. Le era più semplice comprendere che doveva lasciarne andare anche i ricordi più piacevoli. Magari alla fine della composizione, si disse, carezzando la sciarpa e tornando a osservare il cielo stellato.
Starò bene, si disse. Cercherò di amarmi per prima. Si riscosse nel sentire il richiamo delle amiche e si affrettò a chiudere la finestra e a riporre la sciarpa nella tasca laterale. Ci saranno giorni migliori, lo so.
1 note
·
View note
Text
8 dicembre 2005: Venaus è libera!
Tutti sono convinti della manifestazione, tutti sanno che il movimento ancora una volta ci può riuscire. E’ chiaro quello che si andrà a fare, con l’astuzia, la determinazione che contraddistingue ormai il movimento bisogna provarci. Il giorno prima i preparativi sono stati frenetici, un commerciante di Rivoli che affitta e ripara generatori di corrente è un no tav convinto, e siccome siamo spesso da lui si dice disposto a donare per la causa un container per rifare il presidio, la nostra base di partenza per ri-insediarci a Venaus. Lo andiamo a prendere il giorno prima, facciamo il giro dei blocchi in statale dove passa è salutato da un’ovazione.
E’ il comune di Bussoleno a mettere a disposizione il furgone che lo deve caricare e che vogliamo portare a Venaus, l’area individuata è quella del prato davanti all’ingresso del cantiere.
La manifestazione è convocata per la mattina alle 10.30 piazza della stazione di Susa, è la manifestazione del riscatto, chi c’è e siamo almeno 10.000, sa cosa fare, sa che questo è il corteo della svolta, oggi ce la riprendiamo!
Venaus è presidiata dalle forze dell’ordine in maniera massiccia, il bivio dei passeggeri è chiuso da uomini e mezzi, uguale Mompantero, Giaglione è libera. Il percorso della manifestazione è semplice e il movimento lo conosce già, l’ultima volta il 4 giugno, lo abbiamo fatto in 30.000, la partenza uguale, quella piazza l’abbiamo riempita di 50.000 no tav allo sciopero generale della valle. E’ questo il passaporto della manifestazione, è tutto questo più le botte prese nella notte di Venaus, e l’occupazione dell’ autostrada, è questo che si legge sui volti votati alla riscossa. Alcuni compagni sono giunti da fuori per partecipare a quella che sarà la Manifestazione per eccellenza.
Aprono i sindaci, davanti a loro una schiera di giornalisti e cameraman, anche loro hanno capito che oggi il movimento farà notizia, a seguire il container addobbato con il nonno combattivo della bandiera disegnato su una tavola di legno enorme, dietro ancora si apre il corteo con una talpa in gommapiuma che simboleggia gli scavi sospirati di VENAUS, il furgone dell’amplificazione dei comitati, il camper no tav e dietro migliaia di persone con le bandiere, i cartelli autoprodotti, e tanto coraggio.
La manifestazione si snoda in salita, alla prima curva verso Venaus ci si prepara, dietro al container i compagni si schierano: 7 scudi di plexigass, uno per ogni lettera vergata in rosso a comporre il più dei combattivi NO TAV e ai lati 2 scudi con sopra i manifesti che chiamavano a raccolta il 4 giugno con il cartelli stradale di Venaus, elmetti da cantiere in testa e il pensiero rivolto al bivio dei passeggeri, passaggio simbolico verso il cantiere, è il primo posto che ci hanno chiuso del resto.
Dal furgone si spiegano una volta in più le ragioni del corteo, si salutano le realtà venute da fuori, e si dichiarano le intenzioni di scendere a Venaus; quando la testa giunge ai passeggeri i sindaci contrattano il passaggio del container e di una delegazione, intorno si crea una folla incredibile che si posiziona man mano dietro agli scudi formando un’onda d’urto e tutt’intorno sulle collinette antistanti a formare quasi una curva di tifosi per la partita che da lì a poco si giocherà.
Dal furgone si continua a spiegare la situazione, “oggi siamo noi a provare a passare i blocchi, abbiamo anche noi gli scudi, spingeremo verso Venaus!”, l’intervento è accolto da applausi e grida d’incitamento, inizia la contesa, passa il container e la polizia si schiera compatta a chiudere il varco, le arieti no tav ci provano si parte a spingere, il contatto è determinato, la polizia carica ma non riesce ad andare oltre a pochi centimetro dalla propria postazione, calci e manganelli colpiscono gli scudi e chi ne rimane fuori, Nicoletta Dosio è colpita in pieno volto da una manganellata che gli rompe il naso, la professoressa sanguina vistosamente, il corteo spinge e risponde alle cariche, volano oggetti ed è naturale che sia così. I compagni della fila di scudi sono circondati da gente che non si tira indietro, molti sono di Venaus, tutti sono lì per provarci. Non si indietreggia , la massa spinge e la colluttazione dura diversi minuti. Dalle curve sopra le collinette si scattano foro e riprese e soprattutto si incita a non mollare l’azione, dalla casa accanto al blocco vola qualche vaso di terracotta all’indirizzo della polizia, un anziano no tav colpisce un poliziotto con l’ombrello. E’ il momento, il corteo si divide, una parte prosegue in su verso Guaglione e si riversa giù dalla montagna per i sentieri. Tutti i punti sono buoni, inizia a nevicare quasi a rendere la coreografia della giornata di resistenza alpina perfetta, ai passeggeri continua il fronteggiamento ma inizia a filtrare gente dai lati delle forze dell’ordine che ormai allo sbaraglio si aprono sconfitte. Sono migliaia i no tav che sono già al cantiere, l’area è recintata a fero di cavallo, il prato su cui si sono costruiti i giorni meravigliosi di resistenza sono circondati da quella rete rossa che vilmente i tecnici di CMC, passamontagna calato sul volto, protetti dalla polizia la notte del blitz hanno piantato nel terreno. I manifestanti si dispongono tutt’intorno alla rete, si aspetta il via, sembra così a guardare bene. La discesa sotto gli osceni piloni dell’autostrada, già vergati a vernice con due scritte no tav enormi, sono una cascata colorata di no tav, da Giaglione scendono i furgoni e il resto della manifestazione che passando dalla chiesa di Venaus che ancora una volta batte i rintocchi della lotta.
Il via arriva, la rete cade sotto i piedi di chi si va a riprendere la propria terra, capeggiati da una bandiera issata i no tav si dirigono al cantiere con la polizia che indietreggia chiudendosi a testuggine. Le reti sono divelte, prese a calci persino dai bambini, la rete arancione è sequestrata e servirà poi a comporre scritte no tav sui prati antistanti. E’ una massa enorme quella che invade il prato, l’avanguardia della manifestazione intima alle forze dell’ordine la fuga, è ancora una volta la balera a separare no tav e agenti, poco tempo è c’è ancora il disperato tentativo da parte di una squadra di carabinieri di disperdere la folla. Due lacrimogeni lanciati non fanno di certo oggi desistere nessuno! “Via!” è il segnale e si entra nel cantiere, lì i mezzi di CMC e LTF vengono lasciati incustoditi e vengono giustamente danneggiati, camper, gru e macchinari saranno inutilizzabili, i wc chimici formano una barricata verso la via interna dove gli agenti si sono ritirati, non vengono neanche più presi in considerazione.
Nel tragitto verso l’interno del cantiere vengono individuate le provviste delle forze dell’ordine che vengono requisite e distribuite tra i manifestanti. L’altra parte del prato è satura di manifestanti, il prato del cantiere è completamente invaso, la forza pubblica è schiacciata nell’unico rifugio lasciatogli. Si schierano a difesa dell’ingresso principale, sono ridicoli, gli viene costruita una barricata in faccia laddove sorgeva il vecchio presidio, non sanno cosa fare, sono immobili e palesemente preoccupati.
Si è ovunque, è di nuovo tutto del movimento, la gente è euforica. Nel prato si da vita ad un comizio dove tutti acclamano la liberazione di Venaus, c’è chi la chiama la battaglia di VenausGrado in ricordo di Stalingrado, e anche la neve ci si mette ad aiutare i paragoni. Persino gli amministratori sono euforici, “ci siamo ripresi la dignità riprendendoci il cantiere” dice il sindaco di Venaus, “in montagna abbiamo sempre vinto” afferma il sindaco di Susa”, A sarà Dura risponde la gente, il comizio è di tutti, la virttoria è collettiva.
Ignare le forze dell’ordine annunciano il prossimo ritiro che on avverrà, ma rimarranno mogie e schierate all’interno di quella piccola area rimastagli.
La giornata si completa calando sul prato il container, dando vita al nuovo presidio, bandiera no tav e albero di natale in cima, inaugurazione del sindaco e del più assiduo presidiante, Biagio fuochista di Venaus.
E’ sancito, Venaus è libera.
Per gli elicotteri di polizia e carabinieri rimane un’enorme scritta NO TAV fatta con la rete che hanno messo con i manganelli la notte del 5.
La gente di Venaus rimane sul posto, quando cala il buio in corteo si torna a Susa, la vittoria è schiacciante, il corteo è festoso e cantando Bella Ciao torna alla piazza da dove è partito, dove c’è una piccola distribuzione di viveri e bevande calde.
Nella serata una fiaccolata porterà alcune centinaia di abitanti della Val di Susa a sfilare festeggiando la vittoria tra Venaus e Novalesa.
La prima pagina dei quotidiani, la prima notizia dei tg ed ogni discussione è aperta dalla notizia, La Valle di Susa si è ripresa Venaus, questa è il dato di fatto di quell’8 dicembre, nel nome della dignità di un popolo che diventa comunità in lotta, che sa diventare movimento, che se serve sa come e quando combattere.
7 notes
·
View notes
Link
Prima di quel famoso primo episodio, l’attore diplomato alla Royal Academy of Dramatic Art era conosciuto come l’uomo dal cuore spezzato nell’eterno Love, Actually. Una volta vestiti i panni del vice sceriffo Rick Grimes, però, è diventato difficile immaginarlo diversamente. [...] Rick è sempre stato un protagonista facile da ammirare. Era l’uomo innamorato del figlio Carl e poi della figlia adottiva Judith. Mentre la sua banda di sopravvissuti attraversava il sud alla ricerca di un posto per sfuggire dai loro nemici non-morti, Rick si è adattato a tutte le situazioni… a volte troppo lentamente, ma ce l’ha sempre fatta.
Rick era il cuore di The Walking Dead. Ma non ne è mai stato il cervello, o l’anima. In quei primi tre anni si potevano già intravedere i primi sintomi di quello che i fan chiamano “The Rick Problem”, cioè l’idea che ha portato gli autori a fare scelte creative sempre più inspiegabili: The Walking Deadè la storia dell’evoluzione di un uomo e non, per dire, quella di una civilizzazione da ricostruire dopo un’apocalisse zombie. Per riuscire in quest’inversione, quell’uomo pragmatico e accessibile doveva diventare sempre più amaro e privo di morale. L’eroe che arrivava a cavallo per salvare la situazione era sempre più difficile da ammirare. Era diventato The TV Antihero.
[...] Ma insomma, cos’è che succede a Rick nell’ultimo episodio? Dopo essersi ferito nel tentativo di allontanare un’orda di zombie dalla struttura a cui si è tanto affezionato, Rick decide di far esplodere tutto per impedire ai non morti di attraversare e arrivare alle comunità. (Come direbbe il caro vecchio Negan: «Mi fai vomitare, Rick. Davvero»). Il corpo ustionato, spezzato, ma ancora funzionante dello sceriffo è ritrovato dall’imperscrutabile Anne, che con un elicottero lo trasporta in una nuova comunità. Poi, in un finale esageratamente simbolico, l’episodio vola sei anni avanti nel tempo, rivelando una giovane Judith Grimes impegnata ad aiutare alcuni sopravvissuti.
Ed è così che uno show guidato da un antieroe è diventato… uno show sulla figlia più giovane?
Prima che l’uomo con un (spesso ridicolo) piano sparisca nel cielo, però, lo show gli ha regalato un lungo addio. Rick perde conoscenza e immagina una serie di conversazioni con tutti gli amici morti nelle stagioni passate: Shane, Sasha, Hershel. Tutti gli dicono qualcosa su quello che ha imparato, sia sulla leadership che sulla sopravvivenza. Lincoln, e il suo personaggio, meritavano un ultimo inchino. Ma è proprio osservando queste brevi scene che è chiaro quanto poco sia rimasto da fare e da scoprire per il povero Rick Grimes, dopo otto lunghi anni di questo The Walking Dead. Abbiamo seguito uomini come lui per troppo tempo. Forse, è arrivato il momento di lasciarli andare.
1 note
·
View note
Text
[ARTICOLO] “Due settimane per la realizzazione, un messaggio di trascendenza della giustizia”... Ecco come è nata l’esibizione dei BTS con Haetae
“I BTS hanno presentato una scenografia leggendaria ai GDA.
Lo scorso 6 gennaio, alla 33esima edizione dei GDA (N.B\ “Golden Disk Awards”), i BTS si sono esibiti prima con “Fake Love”, con cui hanno rapito il pubblico, e poi con “IDOL”, con la scenografia della quale hanno definitivamente dato prova di essere “gli idol migliori di tutti i tempi”.
Nello specifico, ad essersi guadagnata i complimenti dei fan e ad essere diventata un hot topic su internet anche dopo la fine della performance è stata una mastodontica scultura di Haetae (10 m di lunghezza, 4 di larghezza e 4 di altezza) a cavallo della quale il gruppo ha attraversato il palco durante l’esibizione di “IDOL”, guadagnando il centro dopo essersi spostato con la struttura da 1,5 tonnellate per 50 m. Una volta scesi, i BTS hanno poi offerto una performance leggendaria esibendosi nella fantastica coreografia della canzone con oltre cento ballerini che hanno riempito il palco. Inutile dire che anche gli altri artisti presenti sono rimasti incredibilmente affascinati da tutto ciò.
Per creare la statua di Haetae sono state impiegate ben due settimane. Il direttore creativo Yoon Jinhee del “JTBC Broadcast Art Team” che ha progettato il tutto ha raccontato: “Ci sono volute due settimane per realizzare la statua di Haetae soltanto. Dopo aver scolpito un particolare tipo di polistirolo, abbiamo poi piazzato delle sbarre e maniglie per garantire una maggiore sicurezza, per poi rifinire il tutto con del ritardante ignifugo. Abbiamo guardato soprattutto alla sicurezza nella progettazione della posizione e dell’altezza delle scale. L’incolumità degli artisti è stata la nostra priorità”.
Il direttore di scena dello spettacolo Yoon Wonsang ha invece detto: “Abbiamo fatto numerosi aggiustamenti per far sì che la statua arrivasse con la corrente in tutta sicurezza al palco centrale installando una sorta di binari di stazionamento sul pavimento. Ci siamo impegnati il più possibile perchè il palco si estendesse quanto più possibile vicino ai fan, ma sempre in sicurezza, e anche dopo aver finito di montare il tutto abbiamo controllato dozzine di volte per ben due giorni che ogni cosa funzionasse correttamente, durante le prove”.
L’intera esibizione dei BTS non è stata progettata in questo modo con il solo scopo di essere grande e spettacolare, ma anche per veicolare messaggi importanti: è riuscita ad esprimere, infatti, la potenza e il messaggio per cui la musica può trascendere la giustizia, le generazioni, le ere, le lingue, le nazionalità, razze e religioni. Haetae è un animale immaginario che sa discernere fra giusto e sbagliato, fra ciò che è buono e ciò che non lo è. Il team che lo ha creato, lo ha fatto ispirandosi alla strada dei BTS dagli albori fino ad oggi, e infatti come ha spiegato il direttore artistico Yoon, “abbiamo pensato al percorso musicale dei BTS, a come siano sempre andati avanti muovendosi nel giusto in ogni circostanza e al loro modo di fare musica, e ciò che Haetae rappresenta, il suo significato simbolico, si adegua perfettamente a tutto questo. Inoltre il gruppo ci ha ricordato Haetae per come protegge sempre i fan confortandoli e dando loro energia attraverso la musica. Per rappresentare lo status globale e il cammino dei BTS abbiamo così pensato di far cavalcare la statua ai membri per arrivare fino al centro del palco”.
Il direttore ha poi aggiunto: “Con una struttura a prisma (N.B\ del palco) e luci penetranti abbiamo portato in scena la forza infinita della musica, forza che si espande senza soluzione di continuità, senza confini, senza limiti, con il il palco come rappresentazione visiva dell’influenza della musica e della popolarità dei BTS che trascendono la lingua, l’età e l’etnia”.
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©jimindipityR ) | ©BTSARMY_Salon
29 notes
·
View notes
Text
Inaugurato a Latina il monumento dedicato ai braccianti indiani
Monumento https://www.facebook.com/comunedilatina/videos/984311042340772 Un monumento dedicato ai più umili lavoratori della terra provenienti dalla lontana India a Latina: sono le mani dei braccianti Sikh dell’agro pontino quelle utilizzate come calco per realizzare la scultura bronzea di Dante Mortet che dal 28 aprile si trova in via Giulio Cesare a Latina, nei pressi delle autolinee, che in occasione della Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, c'è stata l’inaugurazione di quello che è il primo monumento dedicato proprio ai braccianti dal titolo "Le mani del rispetto”; un’iniziativa che, inserita in un percorso più ampio, è stata realizzata dal Centro Studi “Tempi Moderni”, da Roma BPA- Mamma Roma e i suoi Figli Migliori e da Mano Artigiana, e ha avuto il contributo della Rappresentanza italiana della Commissione Europea.Ha spiegato Paolo Masini, presidente di Roma BPA, che ha coordinato l'incontro ed è tra i promotori dell'evento: "Un'iniziativa che abbiamo fortemente voluto dall'altissimo valore simbolico e che abbiamo scelto di realizzare in questa giornata così significativa e che, inoltre, si pone a cavallo di due date importanti per la storia del nostro Paese, il 25 aprile e il 1°maggio". Ha definito l’iniziativa Antonio Parenti, capo della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, sottolineando la necessità di tutelare tutti i tipi di lavoratori da qualunque area del mondo provengano:"Un momento di riconoscimento dell'impegno svolto in quest'area e la continuazione di uno sforzo di integrazione dei lavoratori stranieri che danno un contributo fondamentale allo sviluppo economico del nostro Paese” Alla cerimonia ha preso parte anche Franco Gabrielli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, autorità delegata alla sicurezza della Repubblica: "L'immigrazione è tema da non declinare in buonismi o cattivismi ma va governato con un'intelligente politica dei flussi, rimpatriando chi delinque e attuando una forte politica d’integrazione.. Riaffermare la dignità delle persone misura la civiltà di una società e combattere il caporalato va in questa direzione. Il fatto che questo monumento riporti il concetto del rispetto, sintetizza al meglio questa iniziativa”.Ha aggiunto Marco Omizzolo, presidente del Centro Studi “Tempi Moderni” e promotore dell’iniziativa: “Là dove c'è il caporalato, e in questa provincia ce n'è molto, là dove ci sono le mafie, non c'è democrazia: uomini e donne sono costretti a lavorare come schiavi e questo non è proprio di un paese civile. Ma noi lo diventeremo e questa scultura ricorderà a tutti e per sempre che non solo c'è un impegno, ma c'è una responsabilità collettiva nel costruire la democrazia. Non solo nel celebrarla”. Nel corso degli interventi che si sono succeduti durante la cerimonia è intervenuto anche Dante Mortet, l’artista autore dell’opera, che ha sottolineato come “Le Mani del Rispetto siano un’opportunità affinché una scultura possa diventare un simbolo, sul territorio, di una storia di civiltà”. Un’opera che il sindaco di Latina, Damiano Coletta, ha definito “di alto valore simbolico”, che “in un momento come questo fa il focus sul mondo dei braccianti agricoli che nel nostro territorio ha una presenza importante e di fatto anche sulla piaga del caporalato riguardo a cui ognuno deve fare la propria parte”. Alla cerimonia hanno preso parte in rappresentanza della Regione anche l’assessore al Lavoro Claudio Di Berardino e il consigliere Marta Bonafoni. Ha ricordato Di Berardino: ”Abbiamo siglato un protocollo con le parti istituzionali e datoriali sui diritti e sulle regole, fino ad arrivare ad una legge sul contrasto al caporalato" Gli ha fatto eco la Bonafoni, relatrice della legge contro il caporalato: "Abbiamo voluto garantire dignità e diritti, cercando di azzerare i 70 chilometri che ci sono tra la Pisana e Latina.”Toccanti e commoventi le testimonianze di due esponenti della comunità dei braccianti indiani. Molte altre le personalità intervenute, tra le quali: Maurizio Falco, Prefetto di Latina, Roberto Iovino, Segretario Generale Cgil Roma, Giovanni Gioia Segretario Generale Cgil Frosinone e Latina, Ilaria Masinara, campaigner di Amnesty International su migrazione e discriminazione. Read the full article
0 notes
Text
(pt. II) WHY? - OH, ‘CAUSE SHE’S DEAD
Non fiori ma opere di bene.
Saranno queste le disposizioni per il mio funerale.
(anche se, conoscendo la mia augusta persona, è forse più appropriato "non opere di bene ma fiori di zucca in pastella")
(con le alici e la mozzarella)
(toh, che rima ricercata)
Ma non solo fritture: alla mia funzione funebre - rigorosamente civile - vorrò anche un paio di maxischermi da stadio che per tutta la sua durata mandino in loop il video di "Look what you made me do".
Ora, sono consapevole che sia una richiesta un po' strana, visto che è esattamente questo video che mi ha mandato all'altro mondo. In effetti, dubito che sia d'uso comune mettere in mostra l'arma del delitto al funerale di qualcuno morto ammazzato con detta arma del delitto, ma queste sono le mie ultime volontà, quindi hop hop Gadget.
Perché questo video, se ancora non lo si è capito, mi ha stesa.
Perché questo video è p e r f e t t o.
(Joseph Khan dirigimi la vita)
È la quinta collaborazione tra Taylor e il regista Jospeh Khan, che ha già siglato quelle perle per Blank Space, Bad Blood, Wildest Dreams e Out Of The Woods.
Però Look What You Made Me Do è il non plus ultra, la summa di tutta la videografia di Taylor, perché penso che nessun altro video sarà in grado di superarlo (ma lo dicevo anche per Blank Space, e sappiamo tutti come è andata a finire...). Insomma, è la cosa migliore mai concepita da mente umana dopo il fritto misto di pesce.
Ma andiamo per ordine. Perché questo video è così grandioso? Perché è, intanto, la conferma di un paio di cose che è vero che sapevamo già, ma che forse abbiamo un po’ dimenticato, quindi fa bene rinfrescare la memoria:
1) che Taylor è perfettamente consapevole di ogni. singola. cosa. che viene detta o fatta nei riguardi della sua persona pubblica, e seppure noi fan siamo lestissimi a saltare sul nostro cavallo bianco lancia in resta per prendere le sue difese (il che è in ogni caso sacrosanto), le probabilità che Taylor abbia già pensato da sola a come contrattaccare sono altissime. E infatti... Probabilmente vivremmo tutti molto più scialli se semplicemente comprassimo un po' di popcorn e aspettassimo di vedere cosa ha in serbo Taylor, se il napalm o una bomba all'uranio impoverito;
2) che nessuno riesce a perculare Taylor Swift tanto quanto Taylor Swift percula Taylor Swift. Si è sempre messa in gioco e ha sempre dimostrato un'invidiabile autoironia, e l'autoironia è forse il meccanismo di difesa più efficace in un contesto come quello in cui vive e lavora lei, cioè sempre sotto l'occhio di tutti, in specie dei leoni da tastiera. Questo perché se siamo noi i primi a ridere di noi stessi per un certo qualcosa, quando poi saranno gli altri ad attaccarci su quella stessa cosa, quegli attacchi non avranno certo gli effetti di un uragano, quanto piuttosto di una brezza marina. Gli si toglie legittimazione, in buona sostanza. Taylor si prende in giro da una vita, e questo video ne è l'ennesima dimostrazione: ha asfaltato i suoi detrattori, e contemporaneamente ha spuntato loro le armi.
2.1) E, cosa ancora più fondamentale, questo video così brillante e autoironico è l'ulteriore prova che la vecchia Taylor in fondo in fondo non sia morta poi per davvero. Semplicemente, è morta soltanto la Taylor che incassava e incassava e incassava, così che dalle sue ceneri potesse nascere quella che invece grida "QUESTA È SPARTAAAA" e poi ti passa sopra col trattore.
Questo video, in ogni caso, è grandioso anche e soprattutto per la cura dei dettagli con cui è stato realizzato, perché nulla di quello che c'è è fine a se stesso, e si vede.
D'altronde, come lo stesso Khan ha spiegato su Twitter, hanno cominciato a lavorare al video in gennaio, e la post-produzione è durata fino alla mattina stessa del rilascio: va da sé che, con dietro un lavoro del genere, non poteva che uscirne qualcosa che avrebbe fatto vacillare la mente.
Si può dire che questo video sia la versione incarognita di Blank Space, che a sua volta era un po' la versione incarognita di Shake It Off. Il messaggio è fondamentalmente lo stesso per tutti e tre, cioè "annatevene a morì ammazzati tutti quanti", solo che Shake It Off lo fa veicola in maniera giocosa, mentre Blank Space in maniera ironica. Look What You Made Me Do invece lo fa come Attila faceva le cose a suo tempo: cioè non facendo più crescere l'erba dovunque fosse passato.
Ora, è vero che I'm late for the party e questo video è stato già sviscerato in lungo e in largo e Roberto Giacobbo ha già in mente di farci uno speciale di Voyager di tredici ore per determinare se e in che modo c’entrano i templari, quindi probabilmente non ci troverete nulla di nuovo ma io 'ste cose ve lo dico lo stesso perché sennò qua che ci sto a fare?
(in ogni caso ho provato a dare per ogni punto l’interpretazione più personale possibile)
- Il video si apre con una panoramica dall’alto di un cimitero, dove notiamo già il primo tocco di macabra classe: le lapidi formano la sigla TS; - Taylor ora è uno zombie. La vecchia Taylor è morta, e al suo posto è risorta una versione riveduta, decomposta e corretta (quella di cui sopra, che vi passa sopra col trattore). E indossa il vestito che indossava nel video di Out Of The Woods. Quindi si può dire che non era “fuori pericolo” manco per il cazzo; - In una delle lapidi è inciso il nome “Nils Sjöberg”, lo pseudonimo sotto il quale Taylor ha scritto This Is What You Came For, di Calvin Harris (suo ex) e Rihanna; - Zombie Taylor seppellisce la vecchia Taylor, in particolare mette una pietra sopra (o, per meglio dire, la terra) sulla Taylor del 2014 (anno di uscita di 1989), come si evince dall’abito - quello del Met Gala - che indossa; - Taylor, e qua Zio Paperone può soltanto inchinarsi, è immersa in una vasca da bagno piena di gioielli e di preziosi. Nel discorso introduttivo a Blank Space durante l’esibizione al Grammy Museum, Taylor ha concluso scherzando sul fatto che probabilmente i media se la immaginano, al termine delle sue relazioni, mentre si dispera “in una vasca da bagno di marmo circondata da perle”; - Tra i gioielli spicca un’unica banconota, da un dollaro. Il video è stato girato a maggio, ma la post-produzione è durata fino all’ultimo secondo. È ragionevole pensare che possa comunque essere un riferimento al simbolico dollaro di risarcimento chiesto nella causa contro David Mueller (di cui potete leggere qui), nonostante si sia svolta in agosto: potrebbe essere agilmente stata aggiunta in seguito con la CGI. O magari sono state semplicemente girate due versioni della scena, col dollaro e senza, a seconda di quale sarebbe stato l’esito del processo che all’epoca delle riprese non era ancora iniziato; - Peraltro, trovo che la banconota sia visivamente molto significativa, e rafforza ancora di più la sua presa di posizione sul diritto delle donne di scegliere cosa sia, nei confronti del proprio corpo, lecito o no: poiché anche in occasione del processo c’è chi ha suggerito che stesse comunque agendo per fama e per soldi (e non per mandare un messaggio), quella banconota solitaria in mezzo a ottocentomiliardi di dollari in gioielli grida a pieni polmoni che “ehi, guardate che Taylor i soldi li caga, non ha certo bisogno di racimolare qualche milione in più per mezzo delle aule di tribunale”;
- Di nuovo nella sequenza della vasca, nel riflesso dello specchio si può notare una Taylor che, sempre immersa nei gioielli, applaude (il che è un po’ inquietante dato che la Taylor in primo piano non sta facendo lo stesso gesto);
- Serpenti, serpenti ovunque, serpenti che addirittura servono il tè, dove il sorseggiare il tè ormai è diventato meme per indicare qualcuno che se la gode mentre si prende la sua rivincita. Un’immagine altrettanto efficace sarebbe stata Taylor che suona la cetra mentre guarda Roma (o, in questo caso, il mondo), bruciare per opera sua; - “Et tu Brute” (“Anche tu, Bruto”) è la scritta incisa sul bracciolo. Quando pensiamo alla morte di Cesare, pensiamo subito alla frase “Tu quoque Brute, fili mi” (“Anche tu, Bruto, figlio mio”), che è la traduzione latina di quanto riportato dal greco Cassio Dione. Queste che invece troviamo nel video sono le parole che William Shakespeare fa pronunciare al dittatore nell’atto III, scena 2 del Giulio Cesare, comunque sempre rivolto al figlio adottivo che lo andava a pugnalare insieme agli altri cospiratori. Ma Dione o Shakespeare che sia, in ogni caso la sostanza non cambia: Cesare è lo stesso morto ammazzato, pugnalato alle spalle dalle persone delle quali si fidava; - Una Maserati si schianta contro un palo, Taylor - con un Grammy in mano - si prende un colpo di frusta che lèvate, roba da codice giallo al pronto soccorso, e i paparazzi accorrono. Ora, la Maserati fa subito pensare a Red (“Loving him was like driving a new Maserati down a dead end street”), e ci sta. Ho letto in effetti che molti hanno visto in quella strada proprio la strada senza uscita di Red. Sebbene sia d’accordo con loro che il riferimento sia proprio a quella canzone, in realtà mi sento di dissentire sul vicolo cieco: non è evidentemente una strada senza uscita, è semplicemente lei che è una pippa a guidare. Credo quindi che la “dead end street” non sia da interpretare in senso letterale ma metaforico, e in questa interpretazione ci aiutano i paparazzi che si precipitano a fotografare i rottami dell’auto. I media, infatti, attendono di banchettare su ogni suo passo falso vero o presunto (l’incidente) fregandosene altamente quello che per un cantante dovrebbe contare più di ogni altra cosa, la musica e i riconoscimenti che ne derivano (il Grammy). Quindi “senza uscita” nel senso che “non se ne esce, è un circolo vizioso”: per quanti sforzi lei faccia, per quanta cura metta nella sua arte, i media saranno sempre e comunque interessati solo al gossip;
- Avrebbe senso anche un’altra interpretazione, che è coerente con quanto detto prima e dirò appena dopo riguardo ai soldi: che in realtà lo schianto vorrebbe significare che tutto quello che fa, Taylor lo fa per far parlare di sé, e quindi l’incidente era stato già ampiamente programmato; - La rapina in banca e l’incursione stile Harley Quinn de noantri negli uffici di un servizio di streaming mi fanno pensare al fatto che la dipingono come una persona avida, interessata solo al denaro. Quando decise di togliere la sua musica da Spotify l’hanno subito accusata di averlo fatto perché non la pagavano abbastanza. In realtà, lei voleva che venissero pagati gli artisti minori (aggiornamento: ora Taylor è di nuovo su Spotify, perché guess what, Spotify ha cambiato le condizioni contrattuali); - L’esercito di manichini top model sono un palese riferimento ad un’altra critica che va per la maggiore, cioè che Taylor si circonda soltanto di amiche belle e magre e bianche, dando così un’immagine negativa e un cattivo esempio, perché evidentemente se sei magro sei per forza anoressico e se hai amiche caucasiche sei evidentemente razzista; - I ballerini sono otto, uno per ogni suo ex. - Indossano un crop top con su scritto “I ❤TS”, perché Tom Hiddleston una volta per gioco ha avuto l’ardire di indossare una maglietta “I ❤TS” e le sue fan si sono offese mortalmente e ne hanno fatto un caso internazionale roba che c’è stato molto meno casino quando Hitler ha invaso la Polonia; - E adesso viene veramente il bello (le cose di prima erano solo un assaggio), ciò che ieri mattina alle sette e mezzo mi ha fatto urlare IO LA VENERO: le Taylor delle epoche precedenti. C’è quella del Fearless Tour, quella del Red Tour, quelle dei video di WANEGBT, You Belong With Me, 22, Shake It Off, I Knew You Were Trouble e di determinate esibizioni ed eventi pubblici. Basta strizzare gli occhi e rinunciare a qualche diottria che in quella piramide umana si vede e si riconosce di tutto; - E sono tutte torreggiate dalla nuova Taylor che, visto che ormai è considerata come progenie del Demonio quindi che sarà mai un omicidio di massa, pensa bene di scalciarle via mandandole incontro alla morte; - E adesso l’altra cosa che mi ha fatto urlare IO LA VENERO alle sette e mezzo della mattina: le Taylor delle epoche precedenti e di quelle attuali (quindici in tutto, una per ogni traccia di reputation) CHE BATTIBECCANO UTILIZZANDO GLI INSULTI CHE HANNO RIVOLTO A LEI IN TUTTI E DIECI GLI ANNI DI CARRIERA. Questi ultimi trenta secondi di video sono una vera perla. Così, abbiamo Zombie Taylor che se la prende con You Belong With Me Taylor per la sua faccia sorpresa,
Shake It Off Taylor rincara la dose dicendo che in effetti non può essere così sorpresa tutto il tempo,
Snake Taylor sibila e si becca un “bitch” da parte della Taylor che finalmente ha imparato a ballare, ma Zombie Taylor si picca perché non vuole essere chiamata in quel modo,
Fearless Taylor sfoggia quindi un accento da contadina del sud degli Stati Uniti e Red Tour Taylor le dice che è falsa,
Biker Taylor si lamenta che adesso farà di nuovo la vittima,
(per dire, l’autoironia che vi dicevo sopra: ora che Taylor si è appropriata di questa storia del fare la vittima, quanto mai potrà valere adesso un insulto del genere? Spoiler: zero. Tra l’altro, il discorso era venuto fuori anche all’uscita di questo singolo, e quindi il video conferma che Taylor - come Cersei Lannister - era già, ed è sempre, un passo avanti a tutti)
Met Gala Taylor, che sembra uscita da una casetta di pan di zenzero, guarda sconvolta Leopard Taylor (che detta così sembra un sistema operativo Apple) mentre scatta foto e acquisisce delle prove (che provvederà poi a modificare in modo opportuno) per smerdare la gente,
ed infine 2009 VMAs Taylor chiede di essere esclusa da questa “narrativa” di insulti vari, per venire brutalmente zittita da tutte le altre (perché nessuno ha mai acconsentito a non cagarle più il cactus con quei due rigurgiti di succhi gastrici che sono Kim Kardashian e Kanye West).
E proprio in questi ultimi trenta secondi si concentrano i riferimenti a quell’epidemia di colera che sono Kim Kardashian e Kanye West, ovvero i due che hanno dato inizio a tutto, disintegrando la reputazione di Taylor. E allora abbiamo Zombie Taylor non vuole essere chiamata “bitch” perché è così che West apostrofa Taylor nella sua canzone Famous, senza mai aver avuto il consenso per farlo da parte della diretta interessata (che aveva sì approvato il testo, ma senza sapere che si sarebbe riferito a lei in quei termini). La Leopard Taylor che invece scatta le foto che poi modificherà come le farà più comodo fanno pensare alla telefonata tra West e Taylor (e registrata dalla Kardashian senza il consenso di lei) in cui si voleva far credere che in realtà Taylor fosse al corrente di tutto, salvo poi scoprire che la registrazione era stata tagliata e aggiustata in modo che raccontasse la storia che volevano loro. Infine, il cerchio si chiude con 2009 VMAs Taylor, che è quella che stata interrotta da West sul palco la momento della premiazione per miglior video, la quale chiede di essere lasciata fuori da questa storia, così riferendosi al post su Instagram dell’anno scorso in cui chiedeva la stessa cosa.
Eeeeeee siamo arrivati alla fine. Mamma mia che fatica, oh, ma chi me l’ha fatto fare di essere fan di Taylor Swift? Comincio pure ad avere una certa età, non posso più stare su fino all’una a scrivere roba come una forsennata. Giuro che, se tutti i video di questa nuova era saranno così dettagliati e complessi, io mollo tutto e divento fan di Toto Cutugno. (a questo link la parte I del post, quella sull’uscita del singolo)
52 notes
·
View notes
Photo
Barisciano è un bellissimo borgo dell’Abruzzo, sorto tra il VI e l’VIII secolo, che si trova in provincia dell’Aquila e che con i suoi circa 1800 abitanti è considerato la Porta del Parco Nazionale del Gran Sasso. Grazie ai suoi mille metri di altitudine, alla vicinanza con il capoluogo abruzzese, dal quale dista solo 18 km, ed alla poca distanza dal mare, gode di un’invidiabile posizione geografica: i dintorni montagnosi a tratti lasciano spazio a inaspettate vallate e altopiani, dando vita paesaggi davvero unici. La sua antica origine si deve all’unificazione di due “ville”, ossia Barisciano di sopra e Barisciano di sotto o Bariscianello, la cui popolazione partecipò attivamente alla fondazione della città de L’Aquila nel corso del Duecento. Barisciano è intriso di storia, di memorie e di tradizioni e la presenza di ampie piazze ed importantissimi monumenti storici ne fanno un luogo dall’incredibile fascino oltre che base di partenza per percorsi alla scoperta degli antichi borghi montani che si trovano nelle prossime vicinanze. Duramente colpito dal terremoto del 2009, Barisciano è oggi uno dei comuni abruzzesi tra i più avanti nel processo di ricostruzione. Molti sono stati i lavori di recupero e mantenimento a salvaguardia soprattutto dei tanti e significativi edifici religiosi e civili presenti nel suo territorio. Il borgo rinato si offre oggi a chi decide di visitarlo come uno scrigno di preziosi tesori di inestimabile bellezza. Cosa vedere e fare nel borgo di Barisciano Uno dei principali punti di interesse del borgo abruzzese è il Castello di Barisciano, una vera e propria fortezza dell’antichità. Eretto nell’XI secolo, fu in passato il luogo adibito ad ospitare tutta la popolazione del paese in caso di pericolo e proprio per questa sua importante funzione, fondamentale nella vita dell’epoca, fu fondato sopra un colle montuoso in una posizione strategica per sovrastare e protegge tutto il borgo medievale sottostante. Durante il periodo del feudalesimo divenne dimora di importanti famiglie aristocratiche del luogo, ma fu oggetto di attacco e venne purtroppo distrutto nel 1424 durante l’assedio alla città per essere definitivamente abbandonato intorno al XVI secolo, quando le esigenze di difesa vennero meno. Dell’antico splendore del castello sono oggi visibili sono dei resti, ciò che rimane di numerosi attacchi e di diversi terremoti che si sono succeduti nel tempo, ma il sito merita sicuramente una visita essendo un’altissima testimonianza delle fortificazioni medievali abruzzesi. Importante edificio religioso, addossato al castello è la Chiesa di San Rocco, che fu eretta a memoria dell’epidemia di peste del 1526 e che venne dedicata a San Rocco, venerato per la sua virtù di conferire miracolose proprietà all’acqua di un pozzo limitrofo. Questa chiesa è oggi meta d’elezione per innumerevoli pellegrini, essendo infatti il luogo al quale si giunge attraversando la celebre Via Mariana: si tratta di un percorso che si snoda lungo un sentiero immerso in un bosco nel quale si trovano cinque nicchie in pietra, custodi dei misteri del Santo Rosario, più una sesta nicchia votiva situata in cima al cammino, dove è stata posta una Madonnina. Il percorso, oltre all’incredibile carica spirituale, gode anche di una notevole bellezza paesaggistica poiché scorre proprio sotto le rovine del Castello di Barisciano. Nel territorio di borgo sono presenti molti altri edifici religiosi che meritano di essere ricordati, come la Chiesa di San Flaviano che risale all’anno 1000 e che fu ricostruita nel 1733 dopo numerosi terremoti o il Santuario della Madonna di Valleverde del ‘500, dal ha un grande valore simbolico in quanto proprio qui furono viste scorrere le miracolose lacrime della Madonna. La Chiesa dell’immacolata Concezione si trova invece a piazza Trieste e la sua costruzione si deve agli antichi feudatari del posto, i Caracciolo, i quali ordinarono l’edificazione di questo edificio di culto proprio accanto al loro palazzo. Particolare importanza riveste tutt’oggi quello che in passato fu sede del Convento Francescano di San Colombo del XIV secolo, oggi meta di pellegrini abruzzesi provenienti da ogni angolo della regione. Il suo nome è dovuto al trasferimento, nel 1740, del corpo di San Colombo Martire dalle catacombe romane di San Callisto all’altare maggiore della chiesa. Oggi le spoglie, che in passato sono state trafugate, non si trovano più nella chiesa e negli ultimi anni il convento è stato convertito in una dimora storica, facendo di questo luogo un punto di incontro, di cultura, di natura e di tradizione, ideale per tutti coloro che desiderano fuggire dallo dallo stress cittadino per rifugiarsi in un luogo di relax e spiritualità. Questo edificio inoltre è anche sede dell’importante Centro Ricerche Floristiche dell’Appennino San Colombo, nel quale vengono conservate e studiate numerose varietà di semi. Al suo interno è ammirabile l’Herbarium Apenninicum è una collezione di piante pressate ed essiccate che conta circa 65.000 campioni meticolosamente catalogati, mentre annesso al centro si trova il Museo del Fiore e dell’Orto Botanico. Barisciano tra natura e tradizioni gastronomiche Il territorio di Barisciano è immerso in un paesaggio incantevole, destinazione perfetta per chi ama i viaggi all’insegna del benessere e del contatto con la natura. Immerso nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il borgo è punto di partenza per escursioni nel verde, passeggiate a piedi, o tour in bicicletta o a cavallo. A pochi chilometri da Barisciano si trovano inoltre altri borghi medievali di spicco come ad esempio la meravigliosa ed imperdibile Rocca Calascio. Per i buongustai e gli appassionati di buon cibo, Barisciano è famosa per offrire alle buone forchette l’opportunità di assaggiare piatti tipici locali e prodotti della saporita cultura enogastronomica abruzzese. Una delle occasioni migliori per visitare il borgo alla ricerca dei suoi segni culinari è la Sagra della Patata che si svolge ogni anno ad agosto: durante la manifestazione è possibile degustare, oltre che il tubero preparato in infinite versioni e ricette, come il baccalà con patate, anche altre prelibatezze della regione, come gli gnocchi con le salsicce, la pecora alla callara, le scrippelle ‘mbusse, gli arrosticini di pecora o le zeppole. Tradizioni e monumenti di pregio si uniscono in questo piccolo comune dell’Abruzzo, per renderlo meta apprezzata durante tutto l’anno, tra eventi, manifestazioni ed un’aria vibrante di cultura, nella cornice di un borgo d’altri tempi tutto da esplorare. https://ift.tt/3dAVYZQ Cosa vedere nello splendido borgo di Barisciano Barisciano è un bellissimo borgo dell’Abruzzo, sorto tra il VI e l’VIII secolo, che si trova in provincia dell’Aquila e che con i suoi circa 1800 abitanti è considerato la Porta del Parco Nazionale del Gran Sasso. Grazie ai suoi mille metri di altitudine, alla vicinanza con il capoluogo abruzzese, dal quale dista solo 18 km, ed alla poca distanza dal mare, gode di un’invidiabile posizione geografica: i dintorni montagnosi a tratti lasciano spazio a inaspettate vallate e altopiani, dando vita paesaggi davvero unici. La sua antica origine si deve all’unificazione di due “ville”, ossia Barisciano di sopra e Barisciano di sotto o Bariscianello, la cui popolazione partecipò attivamente alla fondazione della città de L’Aquila nel corso del Duecento. Barisciano è intriso di storia, di memorie e di tradizioni e la presenza di ampie piazze ed importantissimi monumenti storici ne fanno un luogo dall’incredibile fascino oltre che base di partenza per percorsi alla scoperta degli antichi borghi montani che si trovano nelle prossime vicinanze. Duramente colpito dal terremoto del 2009, Barisciano è oggi uno dei comuni abruzzesi tra i più avanti nel processo di ricostruzione. Molti sono stati i lavori di recupero e mantenimento a salvaguardia soprattutto dei tanti e significativi edifici religiosi e civili presenti nel suo territorio. Il borgo rinato si offre oggi a chi decide di visitarlo come uno scrigno di preziosi tesori di inestimabile bellezza. Cosa vedere e fare nel borgo di Barisciano Uno dei principali punti di interesse del borgo abruzzese è il Castello di Barisciano, una vera e propria fortezza dell’antichità. Eretto nell’XI secolo, fu in passato il luogo adibito ad ospitare tutta la popolazione del paese in caso di pericolo e proprio per questa sua importante funzione, fondamentale nella vita dell’epoca, fu fondato sopra un colle montuoso in una posizione strategica per sovrastare e protegge tutto il borgo medievale sottostante. Durante il periodo del feudalesimo divenne dimora di importanti famiglie aristocratiche del luogo, ma fu oggetto di attacco e venne purtroppo distrutto nel 1424 durante l’assedio alla città per essere definitivamente abbandonato intorno al XVI secolo, quando le esigenze di difesa vennero meno. Dell’antico splendore del castello sono oggi visibili sono dei resti, ciò che rimane di numerosi attacchi e di diversi terremoti che si sono succeduti nel tempo, ma il sito merita sicuramente una visita essendo un’altissima testimonianza delle fortificazioni medievali abruzzesi. Importante edificio religioso, addossato al castello è la Chiesa di San Rocco, che fu eretta a memoria dell’epidemia di peste del 1526 e che venne dedicata a San Rocco, venerato per la sua virtù di conferire miracolose proprietà all’acqua di un pozzo limitrofo. Questa chiesa è oggi meta d’elezione per innumerevoli pellegrini, essendo infatti il luogo al quale si giunge attraversando la celebre Via Mariana: si tratta di un percorso che si snoda lungo un sentiero immerso in un bosco nel quale si trovano cinque nicchie in pietra, custodi dei misteri del Santo Rosario, più una sesta nicchia votiva situata in cima al cammino, dove è stata posta una Madonnina. Il percorso, oltre all’incredibile carica spirituale, gode anche di una notevole bellezza paesaggistica poiché scorre proprio sotto le rovine del Castello di Barisciano. Nel territorio di borgo sono presenti molti altri edifici religiosi che meritano di essere ricordati, come la Chiesa di San Flaviano che risale all’anno 1000 e che fu ricostruita nel 1733 dopo numerosi terremoti o il Santuario della Madonna di Valleverde del ‘500, dal ha un grande valore simbolico in quanto proprio qui furono viste scorrere le miracolose lacrime della Madonna. La Chiesa dell’immacolata Concezione si trova invece a piazza Trieste e la sua costruzione si deve agli antichi feudatari del posto, i Caracciolo, i quali ordinarono l’edificazione di questo edificio di culto proprio accanto al loro palazzo. Particolare importanza riveste tutt’oggi quello che in passato fu sede del Convento Francescano di San Colombo del XIV secolo, oggi meta di pellegrini abruzzesi provenienti da ogni angolo della regione. Il suo nome è dovuto al trasferimento, nel 1740, del corpo di San Colombo Martire dalle catacombe romane di San Callisto all’altare maggiore della chiesa. Oggi le spoglie, che in passato sono state trafugate, non si trovano più nella chiesa e negli ultimi anni il convento è stato convertito in una dimora storica, facendo di questo luogo un punto di incontro, di cultura, di natura e di tradizione, ideale per tutti coloro che desiderano fuggire dallo dallo stress cittadino per rifugiarsi in un luogo di relax e spiritualità. Questo edificio inoltre è anche sede dell’importante Centro Ricerche Floristiche dell’Appennino San Colombo, nel quale vengono conservate e studiate numerose varietà di semi. Al suo interno è ammirabile l’Herbarium Apenninicum è una collezione di piante pressate ed essiccate che conta circa 65.000 campioni meticolosamente catalogati, mentre annesso al centro si trova il Museo del Fiore e dell’Orto Botanico. Barisciano tra natura e tradizioni gastronomiche Il territorio di Barisciano è immerso in un paesaggio incantevole, destinazione perfetta per chi ama i viaggi all’insegna del benessere e del contatto con la natura. Immerso nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il borgo è punto di partenza per escursioni nel verde, passeggiate a piedi, o tour in bicicletta o a cavallo. A pochi chilometri da Barisciano si trovano inoltre altri borghi medievali di spicco come ad esempio la meravigliosa ed imperdibile Rocca Calascio. Per i buongustai e gli appassionati di buon cibo, Barisciano è famosa per offrire alle buone forchette l’opportunità di assaggiare piatti tipici locali e prodotti della saporita cultura enogastronomica abruzzese. Una delle occasioni migliori per visitare il borgo alla ricerca dei suoi segni culinari è la Sagra della Patata che si svolge ogni anno ad agosto: durante la manifestazione è possibile degustare, oltre che il tubero preparato in infinite versioni e ricette, come il baccalà con patate, anche altre prelibatezze della regione, come gli gnocchi con le salsicce, la pecora alla callara, le scrippelle ‘mbusse, gli arrosticini di pecora o le zeppole. Tradizioni e monumenti di pregio si uniscono in questo piccolo comune dell’Abruzzo, per renderlo meta apprezzata durante tutto l’anno, tra eventi, manifestazioni ed un’aria vibrante di cultura, nella cornice di un borgo d’altri tempi tutto da esplorare. Barisciano è un borgo abruzzese che ha saputo rinascere dopo il terremoto dell’Aquila, facendosi apprezzare per la sua storia e le sue bellezze.
1 note
·
View note