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#CORONAVIRUS: E' CONCESSO USCIRE A #CORRERE? 🏃♂️
La sovrapposizione di tanti e confusionari provvedimenti, ancora una volta, complica la risposta anche a questa banale domanda.
Qui proviamo a fare un po' di chiarezza. (👉 https://bit.ly/dirittodicorsa)
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Coronavirus: il diritto di visita dei figli
Molti clienti, separati o divorziati, o comunque genitori di bambini o ragazzi minorenni, ci hanno chiesto se, a seguito dell’ultimo DPCM 22 marzo 2020 (e del D.L. del 24 marzo), possano continuare a spostarsi per prelevare e/ o vedere i figli come in precedenza. La risposta non è univoca.
→ in vigenza dei precedenti decreti (dell’8 marzo e del 9 marzo), gli spostamenti erano consentiti spostamenti motivati “per (1) comprovate esigenze lavorative, (2) situazioni di necessità, ovvero per (3) motivi di salute”.
Il Governo, sul proprio sito aveva precisato: “gli spostamenti per raggiungere i figli minori presso l’altro genitore o presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono sempre consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione e divorzio”. La medesima risposta era stata data anche dal Tribunale di Milano, in un provvedimento d’urgenza dell’11 marzo, che faceva rientrare il diritto di raggiungere i figli minori tra le situazioni di necessità.
→ Con il nuovo DPCM del 22 marzo, il Governo ha limitato le possibilità di movimento al di fuori del proprio Comune di residenza (lasciando in essere, per gli spostamenti all’interno del Comune, la precedente disciplina). In particolare, ha introdotto un divieto assoluto (laddove prima vi era solo un invito ad evitare) di spostamento al di fuori del proprio Comune, autorizzando i trasferimenti soltanto per (1) comprovate esigenze lavorative, (2) di assoluta urgenza, ovvero per (3) motivi di salute. Sono state escluse, quindi, rispetto ai DPCM precedenti, le situazioni di necessità, nelle quali rientravano gli spostamenti per raggiungere i figli.
Seppure è verosimile che il mancato inserimento del diritto a raggiungere i figli sia frutto di una svista dettata dall’urgenza, una lettura più rigida (ma letterale e prudente) della norma, ad oggi, vieterebbe ai genitori residenti in comuni differenti il rispetto della normale frequenza di visita dei propri figli.
L'esercizio del diritto di visita sarebbe autorizzato, invece, solo se fatto rientrare - con un discreto sforzo interpretativo - nei motivi di salute (quella psicofisica del minore).
Sembra improbabile, tuttavia, che la disparità di trattamento ad oggi riservata a chi risiede in Comuni diversi (magari limitrofi o, comunque, a distanza ragionevole), possa essere frutto di una scelta legislativa precisa. Una lettura sistematica, oltre che logica e - per quanto scarna - giurisprudenziale del quadro normativo, porta a pensare, quindi, che l’autorizzazione prima concessa sia tuttora in essere.
Risulta difficile pensare che un genitore che si recasse, anche oggi, in un Comune differente dal proprio per effettuare la visita prevista dagli accordi esistenti, possa essere realmente sanzionato; in ogni caso, l’eventuale impugnazione della sanzione troverebbe, con ogni probabilità, facile accoglimento.
Nel frattempo (addì 26 marzo), sul proprio sito, il Governo avverte che le F.A.Q. sono in aggiornamento dopo il DPCM del 22 marzo e, quindi, non aiutano a risolvere la questione.
È più che mai auspicabile - considerata anche la forte conflittualità che caratterizza la materia - che vi sia un intervento di chiarificatore in tempi brevi.
CONCLUSIONI
Ad oggi (26.03.2020), in attesa dei dovuti chiarimenti, il diritto agli spostamenti per vedere i figli minorenni:
- per genitori residenti nello stesso Comune è certamente consentito;
- per genitori residenti in Comuni differenti:
è vietato (e potrebbe comportare il rischio di incorrere in una multa da 500 a 4000 Euro), secondo un’interpretazione letterale, ma meno condivisibile, della norma;
è consentito, secondo un’interpretazione teleologica, più ampia e condivisibile del quadro normativo.
In un quadro così labile, confuso e in rapida evoluzione, il suggerimento è quello di evitare, da parte di entrambi i genitori, rigide prese di posizione che rischierebbero, a posteriori, di essere ritenute illegittime, in quanto pretestuose, contrarie agli interessi dei minori, alla loro salute e/ o a quella pubblica.
L’attuale situazione non dovrà essere utilizzata da un genitore per impedire all’altro di vedere i propri figli, o per modificare le modalità previste nei provvedimenti vigenti tra le parti, a meno che intervengano obiettive e specifiche ragioni connesse al Covid-19 che impediscano o sconsiglino la frequentazione dei figli da parte di uno dei genitori (anche se collocatario). Si pensi, per esempio, ai casi di quarantena, o ai rischi connessi a contatti con persone malate da parte di chi svolga una professione sanitaria o a contatto con il pubblico (in tal caso, in assenza di un accordo, il genitore potrà rivolgersi al tribunale attraverso un ricorso ex art. 709 ter cpc).
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L’inedita reazione di un’azienda al reintegro obbligatorio disposto in una causa di lavoro. Sono cose che già succedono, in verità, ma senza dichiarazioni ufficiali. Natuzzi, nell’ottobre scorso, li avrebbe voluti ricollocare in un una newco, in una nuova società, come adesso va di moda. Ma 176 dei 355 esuberi individuati nel piano industriale, rifiutarono: solo 32 diedero l’assenso al trasferimento della newco nello stabilimento di Ginosa e 140 accettarono l’incentivo all’esodo. Gli altri 176 scelsero la via del ricorso, che in 3 hanno vinto (altri 7 non hanno fatto nulla). Natuzzi, ovviamente, ha preso atto della sentenza del Tribunale di Bari (che ha contestato l’iter della procedura di mobilità applicata limitatamente ai collaboratori in Cigs dello stabilimento di Ginosa), ma ha avvisato che per ogni reintegro “imposto” dai giudici verrà licenziato un altro lavoratore: «Il prossimo 3 luglio — si legge nella nota della società a seguito dell’incontro tenutosi al ministero dello Sviluppo economico — i tre lavoratori reintegrati verranno collocati in formazione per la riqualificazione e successivo reinserimento nel ciclo produttivo. L’azienda, tuttavia, non ha potuto negare di trovarsi di fronte a uno scenario che potrebbe avere impatti significativi sull’attuale assetto industriale, poiché l’inserimento di ulteriori 176 lavoratori nel ciclo produttivo non è sostenibile, né economicamente né industrialmente. Pertanto, quando il quadro della situazione sarà definito e si conoscerà il numero esatto dei lavoratori da reintegrare, l’azienda provvederà contestualmente alla loro reintegra al licenziamento, secondo i criteri di legge, di altrettanti lavoratori attualmente in organico».
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La Giunta UCPI, con le quattro precedenti delibere di astensione, ha denunciato i limiti della riforma del processo penale di iniziativa governativa. Ancora una volta, anche con il DDL di riforma della legittima difesa e con la introduzione del reato di tortura, disattendendo le indicazione dell’avvocatura e dell’accademia, si sono operati interventi legislativi sulla spinta di evidenti e pericolose pulsioni populistiche ovvero ispirandosi a criteri del tutto irrazionali che introducono all’interno dell’ordinamento elementi di iniquità e di incertezza interpretativa ed applicativa. Inoltre, l’UCPI ha denunciato l’assoluta inammissibilità dell’uso della fiducia ai fini dell’approvazione di un DDL che incide in profondità sull’intero sistema processuale e sui diritti e sulle garanzie dei cittadini. Nonostante la massiccia adesione alle precedenti astensioni, l’attenzione mostrata dai media e dall’opinione pubblica alle tematiche oggetto della protesta, e nonostante le molteplici adesioni del mondo dell’accademia e le convergenti critiche sollevate da diversi esponenti della politica nei confronti della riforma, il Governo non ha tutt’ora ritenuto di dare alcun segnale di attenzione, impedendo che sul disegno di legge si sviluppi la necessaria discussione sulle molteplici questioni tuttora controverse, su riforme contrarie non solo agli interessi e ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera collettività, che esige, in un Paese civile moderno e democratico che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata e che la fase dell’accertamento dibattimentale venga posta al centro del processo penale, sottraendo la fase delle indagini preliminari all’attuale enfatizzazione e mediatizzazione, attuando e realizzando i principi del giusto processo, nel rispetto pieno delle garanzie dell’imputato e soprattutto di quelle poste a presidio del diritto inviolabile della difesa e della dignità stessa della persona, violate dalla estensione dell’istituto della partecipazione a distanza. Devono, dunque, essere ribadite tutte le ragioni di protesta e di contrarietà al disegno governativo indicate nelle precedenti delibere. Inoltre, poiché il Governo, nonostante le ripetute sollecitazioni ed i reiterati inviti, non ha inteso fornire alcuna risposta in ordine alla richiesta di una seria interlocuzione sui temi della riforma della giustizia posti dall’avvocatura, lo stesso deve essere nuovamente richiamato alla responsabilità politica derivante da ogni forma di compressione del dibattito politico sul DDL, che costituisce l’unica garanzia di una approfondita e meditata valutazione di una riforma che contiene al suo interno interventi normativi che non solo deprimono le garanzie del processo, violando i principi costituzionali della immediatezza e del contraddittorio, ma anche la presunzione di innocenza e il diritto alla vita, nel disprezzo dei principi costituzionali e convenzionali. Pertanto, la Giunta UCPI delibera l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 12, 13, 14, 15, 16 giugno 2017, invitando le Camere Penali territoriali ad organizzare in tali giorni manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata. Qui la delibera dell’UCPI
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Così la Suprema Corte nella sentenza n. 11504/17: "Mantenimento non va riconosciuto a chi è indipendente economicamente". Ovvero, possiede redditi, patrimonio mobiliare e immobiliare, "capacità e possibilità effettive" di lavoro personale e "la stabile disponibilità" di un'abitazione .
La Cassazione stabilisce nuovi parametri in materia di assegno di divorzio: conta il criterio dell'indipendenza o autosufficienza economica, non il tenore di vita goduto nel corso delle nozze per assegnare l'assegno divorzile al coniuge che lo richiede. Il matrimonio cessa così di essere "sistemazione definitiva": sposarsi, scrive la Corte, è un "atto di libertà e autoresponsabilità". Una rivoluzione, a cui la Cassazione è arrivata con la sentenza 11504, depositata oggi, relativa a un divorzio "eccellente" tra un ex ministro e un'imprenditrice. I supremi giudici hanno respinto il ricorso con il quale la signora reclamava l'assegno di divorzio già negatole con verdetto emesso dalla Corte di Appello di Milano nel 2014, che aveva ritenuto incompleta la sua documentazione reddituale e valutato che l'ex ministro dopo la fine del matrimonio aveva subito una "contrazione" dei redditi. Pronunciandosi sul caso, la Cassazione ha corretto anche la motivazione del verdetto della Corte d'Appello di Milano: a far perdere all'ex moglie dell'ex ministro il diritto all'assegno non è il fatto che si supponga abbia redditi adeguati, ma la circostanza che i tempi ormai sono cambiati e occorre "superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva" perché è "ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Si deve quindi ritenere - conclude la Cassazione - che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell'ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale". La Cassazione entra nella ratio della sentenza 11504 con una apposita nota: "La Prima sezione civile - si legge - ha superato il precedente consolidato orientamento, che collegava la misura dell'assegno al parametro del tenore di vita matrimoniale, indicando come parametro di spettanza dell'assegno, avente natura assistenziale, l'indipendenza o autosufficienza economica dell'ex coniuge che lo richiede". La Corte ha ritenuto che il parametro del tenore di vita goduto durante il matrimonio non sia più un orientamento "attuale": con la sentenza di divorzio, osserva la prima sezione civile, "il rapporto matrimoniale si estingue non solo sul piano personale ma anche economico-patrimoniale, sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo, sia pure limitatamente alla dimensione economica del tenore di vita matrimoniale, in una indebita prospettiva di ultrattività del vincolo matrimoniale". Dunque, secondo i supremi giudici, va individuato un "parametro diverso" nel "raggiungimento dell'indipendenza economica" di chi ha richiesto l'assegno divorzile: "Se è accertato - si legge nella sentenza depositata oggi - che (il richiedente) è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto". I principali indici che la Cassazione individua per valutare l'indipendenza economica di un ex coniuge sono il "possesso" di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le "capacità e possibilità effettive" di lavoro personale e "la stabile disponibilità" di un'abitazione. Gian Ettore Gassani, presidente dell'associazione degli Avvocati Matrimonialisti Italiani, non esita a parlare di "terremoto giursprudenziale". "La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11504/17, ha rivoluzionato il diritto di famiglia in tema di riconoscimento dell'assegno divorzile e dei criteri per la sua quantificazione - scrive Gassani -. La Cassazione ha cambiato il criterio per riconoscere l'assegno al coniuge economicamente più debole e ha ritenuto che non sia più possibile valutare come parametro il tenore di vita dei coniugi goduto in costanza di matrimonio". "Secondo i giudici - prosegue il presidente degli avvocati matrimonialisti - l'assegno divorzile può essere riconosciuto soltanto se chi lo richiede dimostri di non poter procurarsi i mezzi economici sufficienti al proprio mantenimento. Viene spazzato via un principio sancito nel 1970 dalla legge 898 che ha introdotto il divorzio in Italia. Si tratta quindi di un terremoto giurisprudenziale in linea con gli orientamenti degli altri Paesi europei nei quali l'assegno divorzile dipende essenzialmente dai patti prematrimoniali".
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Allungamento della prescrizione e cd. processo a distanza, in particolare, le motivazioni che spingono l’Unione delle Camere Pnali Italiane a indire questa nuova astensione (la quarta, negli ultimi due mesi, sempre per gli stessi motivi) contro il DDL di riforma della giustizia che il Governo vorrebbe approvare con il meccanismo della fiducia. Qui il comunicato per esteso.
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Dura lotta contro il Ministro Andrea Orlando, reo di “aver preso in giro la magistratura onoraria venendo meno a tutti gli impegni assunti, ingannando l’Europa”. Aumento del carico di lavoro senza regolarizzazione del rapporto di lavoro della magistratura onoraria, queste le accuse rivole al Ministro.
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Parla male dell’ex con i figli: punizione esemplare per la donna
In Italia, rischia di perdere l’affidamento condiviso la madre divorziata che parla male dell’ex marito davanti al figlio. Il Tribunale di Roma ha condannato una donna a pagare €30 mila all’ex compagno per aver adottato “atteggiamenti sminuenti e denigratori della figura paterna”, che avevano portato il loro bambino a rifiutarsi di incontrare il papà. Una punizione esemplare per aver “svilito nel suo ruolo di educatore e di figura referenziale” l’uomo, che il giudice ha voluto infliggere come avvertimento. “Se la mamma dovesse continuare con questa condotta” - si specifica nella decisione - “le sanzioni a suo carico saranno ancora più pesanti”. Fino ad arrivare anche alla revisione delle condizioni dell’affido. L’intera sentenza, cliccando qui
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Coronavirus: uscita non giustificata e sanzioni previste
Da qualche giorno sta girando su Whatsapp un audio di oltre 8 minuti nel quale la sedicente “avvocato Simona Veneri del Foro di Brescia” intende “chiarire alcuni aspetti” sulla possibilità di essere fermati ed indagati per violazione dell’art. 650 cp (“Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità”). Anche a voler concedere il buon intento, il messaggio ha creato più confusione che chiarezza e siamo stati più volte contattati per capire che cosa ci fosse di vero nel lungo vocale.
Ciò premesso, qui una breve (per quanto possibile) analisi dell’audio Whatsapp, che può essere riassunto in tre punti:
1️⃣ Se si viene fermati in giro senza giustificato motivo, si commette il reato di cui all’art. 650 cp e si viene denunciati: viene nominato un avvocato d’ufficio (o viene chiesto se ne esiste uno di fiducia), chiedono le generalità e il domicilio presso il quale ricevere gli atti: è fondamentale dichiarare il domicilio presso la propria abitazione e non presso lo studio dell’avvocato 2️⃣ Viene comminata un’ammenda che non va confusa con una semplice contravvenzione amministrative e NON va pagata, perché “pagarla corrisponde all’esecuzione della pena e quindi va sul casellario giudiziale”, con conseguenze nefaste dal punto di vista personale e lavorativo 3️⃣ Vi arriverà un decreto penale di condanna a casa e dovrete contattare immediatamente il vostro avvocato, che avrà 15 giorni di tempo per fare ricorso e trasformarla in un’oblazione, che andrà pagata per estinguere il reato.
Sul punto 1️⃣ Innanzitutto, non è detto che il reato contestato sia solo quello di cui all’art. 650 cp. Per esempio, in caso di autocertificazione che attesti il falso, verrà contestato il reato di “Falso in atto pubblico” (483 cp), oppure, nel caso di persone contagiate, potrebbe essere contestato il reato di “Epidemia dolosa” (438 cp) o “colposa” (452 cp), o ancora di “Diffusione di malattia infettiva” (T.U. delle Leggi Sanitarie). In ognuno di questi casi, tutto il successivo discorso affrontato nel messaggio vocale circa l’ammenda e la successiva oblazione, verrebbe meno. Infine, l’elezione di domicilio può essere fatta sia presso la propria abitazione che presso lo studio dell’avvocato. Non è assolutamente “fondamentale” l’elezione presso la propria abitazione, anzi, se per qualsiasi motivo si rischia di non vedere con continuità la posta, molto meglio domiciliarsi altrove.
Sul punto 2️⃣ Il messaggio è molto ambiguo e fa pensare che le Forze dell’Ordine, al termine del controllo, possano chiedere il pagamento di un’ammenda (il vecchio: “che fa, concilia?”), o rilascino un comune verbale di contravvenzione, in entrambi i casi: “da non pagare”. Non è così. Le Forze dell’Ordine si limiteranno a identificare la persona e a notificarle un verbale di comunicazione di notizia di reato, avvertendola che, se non ha un avvocato di fiducia, le viene nominato un avvocato d’ufficio (indicato chiaramente nel verbale). Non c’è nessuna sanzione da pagare al momento, ma solo l’avviso di un’apertura di indagini (che potrebbero condurre, in linea teorica, anche a un nulla di fatto). Saranno comunque le Forze dell’Ordine stesse a chiarire la natura dell’attività svolta e i doveri dell’indagato, senza alcuna richiesta di denaro, né rilascio di bollettini da pagare.
Sul punto 3️⃣ Ammesso che il solo reato contestato sia quello di cui all’art. 650 cp, che la Procura opti per un “Decreto penale di condanna” (cosa non scontata ma molto probabile, effettivamente) e che la sanzione scelta sia quella dell’ammenda, una delle opzioni che potrà scegliere l’avvocato è sicuramente quella dell’oblazione (che consiste, anch’essa, come l’ammenda, nel pagamento di una somma che l’imputato, nel caso specifico, ha la facoltà di ottenere, ma non il diritto: sarà il Giudice a decidere se concederla). Un’altra opzione, per esempio, potrebbe essere quella della “Messa alla prova” (168 bis cp), che consiste nello svolgimento di attività di volontariato di rilievo sociale. Con entrambe le modalità, si otterrebbe l’estinzione del reato e l’eliminazione delle sue conseguenze penali. In ogni caso, le soluzioni sono tante (patteggiamento, giudizio abbreviato, etc.) e ognuna ha i suoi pro e i suoi contro, oltre al fatto che alcune sono precluse, in determinate circostanze (per esempio, nel caso di soggetto recidivo ex art. 99 cp). Va precisato, comunque, che anche in caso di pagamento dell’ammenda contenuta nel decreto penale di condanna, dal punto di vista pratico non si avrebbero conseguenze particolarmente gravose: la sanzione, infatti, godrebbe del beneficio della non menzione nel casellario giudiziale.
➡️ Per concludere: non date retta a vocali di dubbia provenienza. Qualora veniste fermati, non c’è nessun pericolo di pagare e diventare “pregiudicati a vostra insaputa”. ➡️ Affidatevi a un avvocato (il vostro o, se non ne avete uno, a quello d’ufficio), che potrà esaminare il caso concreto e proporvi, di volta in volta, la miglior soluzione disponibile.
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L’«indipendenza economica» che fa venir meno il diritto all’assegno divorzile è «la capacità per una determinata persona, adulta e sana, di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)». E un primo parametro il giudice lo può ricavare dagli introiti del coniuge più debole: sopra mille euro al mese il diritto può essere negato.
Questa la precisazione contenuta nell’ordinanza presidenziale della IX Sezione del Tribunale di Milano, emessa il 22 maggio 2017 (presidente f.f. Buffone) all’esito della prima analisi della posizione delle parti in un giudizio di divorzio.
Ordinanza che interviene subito dopo la sentenza n. 11504/17 della Corte di cassazione (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 maggio) di cui richiama i principi e che segna un primo contributo per l’approfondimento del nuovo criterio guida affermato dai supremi giudici. In sostanza, posta l’inutilizzabilità del concetto del «tenore di vita», vi è ora da continuare a perfezionare il diverso criterio dell’«indipendenza economica» normativamente paragonabile al criterio della «autosufficienza economica» valido per il riconoscimento ai figli maggiorenni, non autonomi economicamente, di un assegno in loro favore. Il richiamo all’autosufficienza economica, come criterio fissato dalla Cassazione cui far riferimento, nell’analisi circa l’esistenza o meno di un assegno divorzile, si può dire abbia ricevuto, con l’ordinanza milanese, alcuni importanti contributi in via sistematica: in primis la stessa è stata riconosciuta come immediatamente applicabile ai giudizi in corso, aventi a oggetto l’analisi dell’assegno divorzile e infatti, l’elemento da considerare come parametro, è costituito, nel caso di specie, dall’indagine che deve essere svolta con puntualità sul coniuge richiedente l’assegno divorzile ed è tesa alla verifica in capo all’istante dell’esistenza di «adeguati redditi propri» adeguati però alla capacità di provvedere – tenuto conto del contesto sociale di riferimento – al proprio sostentamento.Immediata correlazione di questo ragionamento è la preliminare adesione, del giudice di Milano, all’impianto tradizionale, richiamato dalla Cassazione di cui sopra, che suddivide il giudizio sull’assegno divorzile in due fasi: quella dell’esistenza o meno del diritto e quella, eventuale, sulla misura dello stesso. Ed è proprio in ordine ai presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile che la pronuncia di Milano fissa un criterio ulteriore, sempre sostitutivo del tenore di vita: quello del «riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica del richiedente». Nel compiere questa analisi, ben può il giudice, poi, adottare come «parametro (non esclusivo) di riferimento quello rappresentato dall’ammontare degli introiti che, secondo la legge dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato – soglia che ad oggi è di 11.528,41 euro annui ossia mille euro mensili)». Questo perché, prosegue il giudice milanese, come anche affermato dalla Corte di appello di Milano, l’assegno divorzile non si deve tradurre in una impropria misura, finalizzata a colmare eventuali sperequazioni tra i redditi degli ex coniugi, ma nella verifica delle posizioni e queste devono essere lette secondo il principio della auto-responsabilità economica di ciascuno dei coniugi, come persone singole; fermo restando l’onere probatorio dell’esistenza del diritto sul richiedente, e sempre salvo l’ulteriore irrinunciabile principio del «non pregiudicare» la possibilità per l’onerato di condurre anch’esso una vita dignitosa.
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Una nuova astensione proclamata dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Questo il comunicato ufficiale:
La Giunta UCPI con le tre precedenti delibere di astensione ha denunciato i limiti della riforma del processo penale di iniziativa governativa, con interventi disorganici, contraddittori, irragionevoli e incostituzionali, quali quelli sulla prescrizione e sul cd. processo a distanza, e che al suo interno contiene interventi normativi che non solo deprimono le garanzie del processo, violando i principi costituzionali della immediatezza e del contraddittorio, ma anche la presunzione di innocenza e il diritto alla vita, nel disprezzo dei principi costituzionali e convenzionali. L’UCPI ha denunciato, altresì, l’assoluta inammissibilità dell’uso della fiducia ai fini dell’approvazione del DDL, che incide in profondità sull’intero sistema processuale e sui diritti e sulle garanzie dei cittadini. Nonostante la massiccia adesione alle precedenti astensioni, l’attenzione mostrata dai media e dall’opinione pubblica alle tematiche oggetto della protesta, e nonostante le molteplici adesioni del mondo dell’accademia e le convergenti critiche sollevate da diversi esponenti della politica nei confronti della riforma, il Governo non ha tutt’ora ritenuto di dare alcun segnale di attenzione, restando evidentemente fermo nella intenzione di ricorrere anche davanti alla Camera dei deputati al voto di fiducia, impedendo che sul disegno di legge si sviluppi la necessaria discussione sulle molteplici questioni tuttora controverse, su riforme contrarie non solo agli interessi e ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera collettività, che esige, in un Paese civile moderno e democratico che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata e che la fase dell’accertamento dibattimentale venga posta al centro del processo penale, sottraendo la fase delle indagini preliminari all’attuale enfatizzazione e mediatizzazione, attuando e realizzando i principi del giusto processo, nel rispetto pieno delle garanzie dell’imputato e soprattutto di quelle poste a presidio del diritto inviolabile della difesa e della dignità stessa della persona, violate dalla estensione dell’istituto della partecipazione a distanza. Ancora una volta, ad esempio con il DDL di riforma della legittima difesa, disattendendo del tutto le indicazioni dell’avvocatura e dell’accademia, si è operato un intervento legislativo sulla spinta di evidenti e pericolose pulsioni populistiche che non rispondono ad alcuna reale esigenza di tutela, risultando la legge in vigore, così come riformata con la legge del 2006, già ampiamente rispondente alle finalità di tutela che si intendono perseguire. Devono, dunque, essere ribadite tutte le ragioni di protesta e di contrarietà al disegno governativo indicate nelle precedenti delibere, e il Governo deve essere nuovamente richiamato alla responsabilità politica riproporre il voto di fiducia anche davanti alla Camera su tale riforma. Pertanto, la giunta UCPI delibera l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 22, 23, 24, 25 maggio 2017, invitando le Camere Penali territoriali ad organizzare, in tali giorni, manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata, riservandosi di indire ulteriori manifestazioni nazionali sul tema delle garanzie e dei diritti processuali di tutti i cittadini.
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L'astensione contro la riforma della magistratura onoraria voluta da Orlando, ora all’esame del CSM, partirà il 15 maggio e terminerà l’11 giugno.
Nessuna tutela previdenziale e infortunistica, scarsa retribuzione e insufficiente garanzia di indipendenza e terzietà sono i temi principali della protesta. Qui la lettera di proclamazione dello sciopero
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Sembra incredibile, eppure la Nona Sezione Civile del Tribunale di Milano, quella specializzata in separazioni e divorzi, ha davvero messo nero su bianco la frase: «la signora non agisce consapevolmente ma è “agìta”». Inizialmente, il marito chiede la separazione e domanda che l’addebito sia posto a carico della moglie per l’«ossessione religiosa» e i «devastanti comportamenti compulsivi». Dopo un lungo iter processuale, durante il quale sono stati sentiti medici, preti, esorcisti e amici, la conclusione è che la moglie non sia affetta da malattie mentali, che i suoi comportamenti non siano spiegabili e che quindi, la separazione, non le sia addebitabile, perché posseduta. Succede anche questo. Se i legali del marito dovessero impugnare la sentenza, sarebbe divertente leggere i motivi...
#divorzio#separazione#addebito#diritto#Diritto di Famiglia#posseduta#possessive#esorcismo#diavoletto#caputolex
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La riforma del processo penale a colpi di fiducia non è proprio piaciuta all’UCPI che, dopo quella dal 20 al 24 marzo, ha proclamato una nuova astensione dalle udienze dal 10 al 14 aprile.
Qui la delibera
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Senegalese, senza permesso di soggiorno, con diversi precedenti per spaccio, viene trovato a spacciare sui Navigli, a Milano. Risulta essere già stato investito da un divieto di dimora a Milano, ma dichiara di dormire alla stazione centrale della città oggetto della misura cautelare. Il giudice convalida l'arresto, ma lo rilascia, con una nuova misura cautelare: un altro divieto di dimora a Milano.
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Ad Aosta, una causa civile dura in media 342 giorni. A Lamezia Terme, 2094 giorni. In mezzo a questi due estremi, diverse realtà. E il parametro del tempo per la definizione di una causa non è il solo che conta.
Non è affatto detto che i tribunali dove ci sono forti scoperture di organico siano anche quelli meno produttivi. Ovviamente, vale anche la regola inversa: pur disponendo di tutti i magistrati e del personale amministrativo, ci sono uffici giudiziari che arrancano.
Così, per esempio, il tribunale di Bolzano, che pure lamenta il 33% di scoperture tra le toghe e il 53% fra gli addetti alle cancellerie, nell’ultimo anno è riuscito ad aggredire l’arretrato in modo significativo e a ridurre i tempi dei processi: performance che gli valgono il primo posto in classifica. Enna, invece, che fa registrare risultati meno brillanti, ma non per questo negativi, è l’ultimo della classe, perché poteva, invece, contare sulla piena copertura degli organici.
La non automatica correlazione tra forze in campo e produttività è uno degli elementi messi in luce dalla ricerca condotta da Fabio Bartolomeo, direttore del servizio statistica del ministero della Giustizia nonché rappresentante italiano presso la Cepej, la commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa. Il ranking risponde all’esigenza del ministro Andrea Orlando di tenere sotto controllo il livello di servizio offerto dagli uffici giudiziari.
Lo studio - che l’autore definisce «sperimentale» - prende in considerazione il settore civile e, in particolare, gli affari contenziosi, ovvero quelli più complessi da un punto di vista procedurale, trattati dai 140 tribunali fino al 1° gennaio scorso. A questi processi sono stati applicati più parametri: l’anzianità dell’arretrato (quello ultratriennale fa scattare i risarcimenti della legge Pinto per l’irragionevole durata del procedimento); i tempi delle cause; il clearance rate (rapporto tra tutte le cause definite e iscritte), che misura la capacità di smaltire l’arretrato; la copertura degli organici. La ricerca precisa che, per quanto dal punto di vista dei servizi al cittadino non si dovrebbe tener conto dei vincoli organizzativi interni dei tribunali, per misurare le performance non si può ignorare l’indicatore del personale, perché si tratta di una «variabile indipendente dalla responsabilità dei dirigenti degli uffici».
Breve classifica della produttività dei tribunali (qui quella completa):
1 BOLZANO
2 ROVERETO
3 NOVARA
9 TORINO
11 MILANO
36 GENOVA
42 NAPOLI
58 VENEZIA
59 BOLOGNA
60 ROMA
87 FIRENZE
121 BARI
137 MESSINA
138 MATERA
139 NOCERA INFERIORE
140 ENNA
Ai primi posti della classifica ci sono anche grandi tribunali come Torino e Milano (rispettivamente, al 9° e 11° posto), a dimostrazione che non sempre le migliori performance si registrano negli uffici medio-piccoli. E questo nonostante Torino e Milano abbiano forti scoperture di organico, a cui si è fatto fronte - come in tutti gli altri tribunali premiati dal ranking - con la riorganizzazione del lavoro e delle strutture.
Un altro dato messo in luce dalla ricerca è una “territorialità” dell’efficienza: nella parte alta della classifica si trovano soprattutto tribunali del Nord (il primo del Centro è Sulmona, che occupa il quinto posto), mentre quelli dell’Italia centro-meridionale affollano la parte bassa del ranking. Più in particolare, nelle prime 30 posizioni, quasi il 16% dei tribunali è del Nord (3,6% del Centro e 2% del Sud), mentre nelle ultime 30 gli uffici del Nord sono lo 0,7%, quelli del Centro il 3% e del Sud il 18 per cento. E questo - sottolinea la ricerca - nonostante le scoperture di personale amministrativo siano soprattutto al Settentrione, dove si registra una media del 25% contro la media nazionale del 21 per cento. Più omogenee, invece, le lacune di magistrati (il 13% di media nel 2016), senza particolari scompensi geografici.
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