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caputolex · 5 years ago
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#CORONAVIRUS: E' CONCESSO USCIRE A #CORRERE? 🏃‍♂️
La sovrapposizione di tanti e confusionari provvedimenti, ancora una volta, complica la risposta anche a questa banale domanda.
Qui proviamo a fare un po' di chiarezza. (👉 https://bit.ly/dirittodicorsa)
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caputolex · 5 years ago
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Coronavirus: il diritto di visita dei figli
Molti clienti, separati o divorziati, o comunque genitori di bambini o ragazzi minorenni, ci hanno chiesto se, a seguito dell’ultimo DPCM 22 marzo 2020 (e del D.L. del 24 marzo), possano continuare a spostarsi per prelevare e/ o vedere i figli come in precedenza. La risposta non è univoca.
→ in vigenza dei precedenti decreti (dell’8 marzo e del 9 marzo), gli spostamenti erano consentiti spostamenti motivati  “per (1) comprovate esigenze lavorative, (2) situazioni di necessità, ovvero per (3) motivi di salute”.
Il Governo, sul proprio sito aveva precisato: “gli spostamenti per raggiungere i figli minori presso l’altro genitore o presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono sempre consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione e divorzio”. La medesima risposta era stata data anche dal Tribunale di Milano, in un provvedimento d’urgenza dell’11 marzo, che faceva rientrare il diritto di raggiungere i figli minori tra le situazioni di necessità.
 → Con il nuovo DPCM del 22 marzo, il Governo ha limitato le possibilità di movimento al di fuori del proprio Comune di residenza (lasciando in essere, per gli spostamenti all’interno del Comune, la precedente disciplina). In particolare, ha introdotto un divieto assoluto (laddove prima vi era solo un invito ad evitare) di  spostamento al di fuori del proprio Comune, autorizzando i trasferimenti soltanto per (1) comprovate esigenze lavorative, (2) di assoluta urgenza, ovvero per (3) motivi di salute. Sono state escluse, quindi, rispetto ai DPCM precedenti, le situazioni di necessità, nelle quali rientravano gli spostamenti per raggiungere i figli.
Seppure è verosimile che il mancato inserimento del diritto a raggiungere i figli sia frutto di una svista dettata dall’urgenza, una lettura più rigida (ma letterale e prudente) della norma, ad oggi, vieterebbe ai genitori residenti in comuni differenti il rispetto della normale frequenza di visita dei propri figli.
L'esercizio del diritto di visita sarebbe autorizzato, invece, solo se fatto rientrare - con un discreto sforzo interpretativo - nei motivi di salute (quella psicofisica del minore).
Sembra improbabile, tuttavia, che la disparità di trattamento ad oggi riservata a chi risiede in Comuni diversi (magari limitrofi o, comunque, a distanza ragionevole), possa essere frutto di una scelta legislativa precisa. Una lettura sistematica, oltre che logica e - per quanto scarna - giurisprudenziale del quadro normativo, porta a pensare, quindi, che l’autorizzazione prima concessa sia tuttora in essere.
Risulta difficile pensare che un genitore che si recasse, anche oggi, in un Comune differente dal proprio per effettuare la visita prevista dagli accordi esistenti, possa essere realmente sanzionato; in ogni caso, l’eventuale impugnazione della sanzione troverebbe, con ogni probabilità, facile accoglimento.
Nel frattempo (addì 26 marzo), sul proprio sito, il Governo avverte che le F.A.Q. sono in aggiornamento dopo il DPCM del 22 marzo e, quindi, non aiutano a risolvere la questione.
È più che mai auspicabile - considerata anche la forte conflittualità che caratterizza la materia - che vi sia un intervento di chiarificatore in tempi brevi.
 CONCLUSIONI
Ad oggi (26.03.2020), in attesa dei dovuti chiarimenti, il diritto agli spostamenti per vedere i figli minorenni:
-         per genitori residenti nello stesso Comune è certamente consentito;
-         per genitori residenti in Comuni differenti:
è vietato (e potrebbe comportare il rischio di incorrere in una multa da 500 a 4000 Euro), secondo un’interpretazione letterale, ma meno condivisibile, della norma;
è consentito, secondo un’interpretazione teleologica, più ampia e condivisibile del quadro normativo.
 In un quadro così labile, confuso e in rapida evoluzione, il suggerimento è quello di evitare, da parte di entrambi i genitori, rigide prese di posizione che rischierebbero, a posteriori, di essere ritenute illegittime, in quanto pretestuose, contrarie agli interessi dei minori, alla loro salute e/ o a quella pubblica.
L’attuale situazione non dovrà essere utilizzata da un genitore per impedire all’altro di vedere i propri figli, o per modificare le modalità previste nei provvedimenti vigenti tra le parti, a meno che intervengano obiettive e specifiche ragioni connesse al Covid-19 che impediscano o sconsiglino la frequentazione dei figli da parte di uno dei genitori (anche se collocatario). Si pensi, per esempio, ai casi di quarantena, o ai rischi connessi a contatti con persone malate da parte di chi svolga una professione sanitaria o a contatto con il pubblico (in tal caso, in assenza di un accordo, il genitore potrà rivolgersi al tribunale attraverso un ricorso ex art. 709 ter cpc).
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caputolex · 7 years ago
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L’inedita reazione di un’azienda al reintegro obbligatorio disposto in una causa di lavoro. Sono cose che già succedono, in verità, ma senza dichiarazioni ufficiali. Natuzzi, nell’ottobre scorso, li avrebbe voluti ricollocare in un una newco, in una nuova società, come adesso va di moda. Ma 176 dei 355 esuberi individuati nel piano industriale, rifiutarono: solo 32  diedero l’assenso al trasferimento della newco nello stabilimento di Ginosa e 140 accettarono l’incentivo all’esodo. Gli altri 176 scelsero la via del ricorso, che in 3 hanno vinto (altri 7 non hanno fatto nulla). Natuzzi, ovviamente, ha preso atto della sentenza del Tribunale di Bari (che ha contestato l’iter della procedura di mobilità applicata limitatamente ai collaboratori in Cigs dello stabilimento di Ginosa), ma ha avvisato che per ogni reintegro “imposto” dai giudici verrà licenziato un altro lavoratore: «Il prossimo 3 luglio — si legge nella nota della società a seguito dell’incontro tenutosi al ministero dello Sviluppo economico — i tre lavoratori reintegrati verranno collocati in formazione per la riqualificazione e successivo reinserimento nel ciclo produttivo. L’azienda, tuttavia, non ha potuto negare di trovarsi di fronte a uno scenario che potrebbe avere impatti significativi sull’attuale assetto industriale, poiché l’inserimento di ulteriori 176 lavoratori nel ciclo produttivo non è sostenibile, né economicamente né industrialmente. Pertanto, quando il quadro della situazione sarà definito e si conoscerà il numero esatto dei lavoratori da reintegrare, l’azienda provvederà contestualmente alla loro reintegra al licenziamento, secondo i criteri di legge, di altrettanti lavoratori attualmente in organico».  
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caputolex · 8 years ago
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La Giunta UCPI, con le quattro precedenti delibere di astensione, ha denunciato i limiti della riforma del processo penale di iniziativa governativa. Ancora una volta, anche con il DDL di riforma della legittima difesa e con la introduzione del reato di tortura, disattendendo le indicazione dell’avvocatura e dell’accademia, si sono operati interventi legislativi sulla spinta di evidenti e pericolose pulsioni populistiche ovvero ispirandosi a criteri del tutto irrazionali che introducono all’interno dell’ordinamento elementi di iniquità e di incertezza interpretativa ed applicativa. Inoltre, l’UCPI ha denunciato l’assoluta inammissibilità dell’uso della fiducia ai fini dell’approvazione di un DDL che incide in profondità sull’intero sistema processuale e sui diritti e sulle garanzie dei cittadini. Nonostante la massiccia adesione alle precedenti astensioni, l’attenzione mostrata dai media e dall’opinione pubblica alle tematiche oggetto della protesta, e nonostante le molteplici adesioni del mondo dell’accademia e le convergenti critiche sollevate da diversi esponenti della politica nei confronti della riforma, il Governo non ha tutt’ora ritenuto di dare alcun segnale di attenzione, impedendo che sul disegno di legge si sviluppi la necessaria discussione sulle molteplici questioni tuttora controverse, su riforme contrarie non solo agli interessi e ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera collettività, che esige, in un Paese civile moderno e democratico che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata e che la fase dell’accertamento dibattimentale venga posta al centro del processo penale, sottraendo la fase delle indagini preliminari all’attuale enfatizzazione e mediatizzazione, attuando e realizzando i principi del giusto processo, nel rispetto pieno delle garanzie dell’imputato e soprattutto di quelle poste a presidio del diritto inviolabile della difesa e della dignità stessa della persona, violate dalla estensione dell’istituto della partecipazione a distanza. Devono, dunque, essere ribadite tutte le ragioni di protesta e di contrarietà al disegno governativo indicate nelle precedenti delibere. Inoltre, poiché il Governo, nonostante le ripetute sollecitazioni ed i reiterati inviti, non ha inteso fornire alcuna risposta in ordine alla richiesta di una seria interlocuzione sui temi della riforma della giustizia posti dall’avvocatura, lo stesso deve essere nuovamente richiamato alla responsabilità politica derivante da ogni forma di compressione del dibattito politico sul DDL, che costituisce l’unica garanzia di una approfondita e meditata valutazione di una riforma che contiene al suo interno interventi normativi che non solo deprimono le garanzie del processo, violando i principi costituzionali della immediatezza e del contraddittorio, ma anche la presunzione di innocenza e il diritto alla vita, nel disprezzo dei principi costituzionali e convenzionali. Pertanto, la Giunta UCPI delibera l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 12, 13, 14, 15, 16 giugno 2017, invitando le Camere Penali territoriali ad organizzare in tali giorni manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata. Qui la delibera dell’UCPI
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caputolex · 8 years ago
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Così la Suprema Corte nella sentenza n. 11504/17: "Mantenimento non va riconosciuto a chi è indipendente economicamente". Ovvero, possiede redditi, patrimonio mobiliare e immobiliare, "capacità e possibilità effettive" di lavoro personale e "la stabile disponibilità" di un'abitazione .
La Cassazione stabilisce nuovi parametri in materia di assegno di divorzio: conta il criterio dell'indipendenza o autosufficienza economica, non il tenore di vita goduto nel corso delle nozze per assegnare l'assegno divorzile al coniuge che lo richiede. Il matrimonio cessa così di essere "sistemazione definitiva": sposarsi, scrive la Corte, è un "atto di libertà e autoresponsabilità". Una rivoluzione, a cui la Cassazione è arrivata con la sentenza 11504, depositata oggi, relativa a un divorzio "eccellente" tra un ex ministro e un'imprenditrice. I supremi giudici hanno respinto il ricorso con il quale la signora reclamava l'assegno di divorzio già negatole con verdetto emesso dalla Corte di Appello di Milano nel 2014, che aveva ritenuto incompleta la sua documentazione reddituale e valutato che l'ex ministro dopo la fine del matrimonio aveva subito una "contrazione" dei redditi. Pronunciandosi sul caso, la Cassazione ha corretto anche la motivazione del verdetto della Corte d'Appello di Milano: a far perdere all'ex moglie dell'ex ministro il diritto all'assegno non è il fatto che si supponga abbia redditi adeguati, ma la circostanza che i tempi ormai sono cambiati e occorre "superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva" perché è "ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Si deve quindi ritenere - conclude la Cassazione - che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell'ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale". La Cassazione entra nella ratio della sentenza 11504 con una apposita nota: "La Prima sezione civile - si legge - ha superato il precedente consolidato orientamento, che collegava la misura dell'assegno al parametro del tenore di vita matrimoniale, indicando come parametro di spettanza dell'assegno, avente natura assistenziale, l'indipendenza o autosufficienza economica dell'ex coniuge che lo richiede". La Corte ha ritenuto che il parametro del tenore di vita goduto durante il matrimonio non sia più un orientamento "attuale": con la sentenza di divorzio, osserva la prima sezione civile, "il rapporto matrimoniale si estingue non solo sul piano personale ma anche economico-patrimoniale, sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo, sia pure limitatamente alla dimensione economica del tenore di vita matrimoniale, in una indebita prospettiva di ultrattività del vincolo matrimoniale". Dunque, secondo i supremi giudici, va individuato un "parametro diverso" nel "raggiungimento dell'indipendenza economica" di chi ha richiesto l'assegno divorzile: "Se è accertato - si legge nella sentenza depositata oggi - che (il richiedente) è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto". I principali indici che la Cassazione individua per valutare l'indipendenza economica di un ex coniuge sono il "possesso" di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le "capacità e possibilità effettive" di lavoro personale e "la stabile disponibilità" di un'abitazione. Gian Ettore Gassani, presidente dell'associazione degli Avvocati Matrimonialisti Italiani, non esita a parlare di "terremoto giursprudenziale". "La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11504/17, ha rivoluzionato il diritto di famiglia in tema di riconoscimento dell'assegno divorzile e dei criteri per la sua quantificazione - scrive Gassani -. La Cassazione ha cambiato il criterio per riconoscere l'assegno al coniuge economicamente più debole e ha ritenuto che non sia più possibile valutare come parametro il tenore di vita dei coniugi goduto in costanza di matrimonio". "Secondo i giudici - prosegue il presidente degli avvocati matrimonialisti - l'assegno divorzile può essere riconosciuto soltanto se chi lo richiede dimostri di non poter procurarsi i mezzi economici sufficienti al proprio mantenimento. Viene spazzato via un principio sancito nel 1970 dalla legge 898 che ha introdotto il divorzio in Italia. Si tratta quindi di un terremoto giurisprudenziale in linea con gli orientamenti degli altri Paesi europei nei quali l'assegno divorzile dipende essenzialmente dai patti prematrimoniali".
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caputolex · 8 years ago
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Allungamento della prescrizione e cd. processo a distanza, in particolare, le motivazioni che spingono l’Unione delle Camere Pnali Italiane a indire questa nuova astensione (la quarta, negli ultimi due mesi, sempre per gli stessi motivi) contro il DDL di riforma della giustizia che il Governo vorrebbe approvare con il meccanismo della fiducia. Qui il comunicato per esteso.
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caputolex · 8 years ago
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Dura lotta contro il Ministro Andrea Orlando, reo di “aver preso in giro la magistratura onoraria venendo meno a tutti gli impegni assunti, ingannando l’Europa”. Aumento del carico di lavoro senza regolarizzazione del rapporto di lavoro della magistratura onoraria, queste le accuse rivole al Ministro.
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caputolex · 8 years ago
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Interessante approfondimento di Giulia Siviero (Il Post) sul concetto di violenza sessuale in diverse legislazioni e sul valore del consenso e del dissenso. Poco pertinenti alcuni esempi, che semplificano in modo capzioso argomenti molto complessi, ma merita sicuramente una lettura.
Lunedì 9 gennaio un uomo è stato condannato per stupro a dodici mesi di prigione con sospensione condizionale da un tribunale di Losanna, Svizzera, per essersi tolto il preservativo durante un rapporto sessuale. La donna con cui stava facendo sesso aveva chiaramente espresso la volontà di avere un rapporto protetto e non si era accorta che, da un certo punto in poi, questo accordo non era stato mantenuto. Del caso si sono occupati molti giornali internazionali, perché una sentenza di questo tipo può in qualche modo influenzare la percezione comune di che cosa possa essere considerato uno stupro; e perché mostra come alcune sentenze e legislazioni si siano evolute sulla base del principio che un rapporto sessuale richieda l’esplicito consenso di tutte le persone coinvolte, non il dissenso, e che non sia necessaria la violenza o la forza per parlare di reati sessuali. Ovviamente questo non vale ancora da tutte le parti: un caso come quello di Losanna non avrebbe portato a una sentenza simile in altri paesi, probabilmente Italia compresa.
La sentenza svizzera L’episodio oggetto della sentenza risale al giugno del 2015. L’uomo coinvolto è francese e aveva all’epoca 47 anni, lei è svizzera. I due si erano conosciuti su Tinder: dopo una prima serata trascorsa insieme, si erano dati nuovamente appuntamento a casa di lei e avevano avuto un rapporto sessuale. Il Corriere del Ticino scrive che «nel corso del rapporto l’uomo aveva tolto il preservativo nella speranza di poter ottenere del sesso orale, pratica che la donna aveva rifiutato. L’uomo aveva allora continuato il rapporto, ma senza il preservativo. La compagna ha affermato di essersene accorta soltanto a rapporto ultimato». A quel punto la donna aveva chiesto più volte all’uomo di sottoporsi a dei test, ma lui non l’aveva fatto.
La sentenza, ha spiegato l’avvocato della donna, è inedita in Svizzera e potrà comunque essere contestata con un ricorso. In questo primo giudizio la Corte ha ritenuto che imporre un rapporto non protetto, quando invece gli accordi tra le parti lo prevedevano, può essere assimilato a una violenza sessuale. Ciò che è stato considerato importante dai giudici è stato il consenso originario, dato cioè solo a determinate condizioni, e di conseguenza il venir meno di quelle condizioni.
Il consenso non è una sineddoche In molti si sono chiesti se togliere il preservativo senza il consenso della donna – ma comunque durante un rapporto consenziente, e dunque in una situazione lontana da quella a cui comunemente pensiamo quando si parla di stupro – possa essere considerato davvero una violenza sessuale, visto che manca quella piccola, ristretta e identificabile serie di circostanze a cui si associa una violenza sessuale. Le discussioni più approfondite e avanzate su questo tema, però, mettono al centro del ragionamento non la “violenza sessuale” in sé ma il concetto di “consenso”. Le due cose non sono ovviamente slegate, ma il legame non è immediatamente evidente se non in situazioni estreme.
L’idea di consenso teoricamente è molto semplice da capire. Vorremmo fare all’altra persona una tazza di tè. Se dice di sì, allora sappiamo che vuole una tazza di tè. Quando arriva il tè, o mentre lo beve, quella persona potrebbe accorgersi che quello che sta bevendo non è tè: oppure potrebbe semplicemente cambiare idea e decidere di non berlo più: e in quel caso non dovrebbe essere costretta a proseguire. Potrebbe succedere poi che quella persona è incosciente, e quindi non potrebbe rispondere alla domanda “vuoi del tè?”: e anche in quel caso non dovrebbe essere costretta a farlo. Oppure, quella persona potrebbe essere stata cosciente quando le era stato chiesto se voleva del tè, lo voleva e ha detto di sì, ma mentre il bollitore era sul fuoco ha perso i sensi. Allora si dovrebbe mettere da parte per un momento il proprio tè, assicurarsi che l’altra persona non sia in pericolo e non farle bere il nostro tè pensando che in fondo è solo del tè, e da sveglia aveva detto sì. Se poi quella persona accetta il tè, inizia a berlo e in quel momento perde i sensi, non glielo si deve versare giù per la gola pensando, di nuovo, che è solo del tè.
Fin qui è tutto abbastanza semplice, ma il concetto di “consenso” legato al sesso sembra diventare confuso quando ci si allontana da quella che comunemente viene considerata una “reale violenza sessuale”, e quindi dal té fatto bere a una persona contro la sua volontà: per esempio quando l’altra persona non è incosciente ma nemmeno completamente lucida (magari perché ha volontariamente bevuto dell’alcol), quando la situazione riguarda degli adulti che si conoscono, quando non c’è penetrazione e quando si tratta il consenso come fosse una sineddoche: cioè quando un consenso limitato a determinate condizioni viene inteso come un consenso per il tutto e a qualsiasi condizione.
Capita allora che alcuni giudizi (nei tribunali o al bar) facciano una specie di percorso alla rovescia rispetto agli orientamenti considerati più avanzati: partono da una presunzione di consenso, magari basandola su informazioni che con quell’episodio non hanno nulla a che fare, si basano sull’assenza di un sufficiente dissenso da parte della vittima non tenendo conto, nei casi più estremi, dell’incapacità di acconsentire e ritengono necessaria la presenza di vincoli: costrizione, violenza, minaccia. Il risultato è non dare pieno valore alla volontà di chi subisce violenza e di attribuirle parte della colpa.
Il ruolo del consenso nella disciplina dei reati sessuali In astratto, e in base all’importanza attribuita al consenso in senso decrescente, si possono distinguere tre diversi modelli di diritto penale sessuale: il modello consensuale, quello limitato e quello vincolato. Quello italiano appartiene al terzo, nonostante – come vedremo – la giurisprudenza si sia orientata verso il secondo.
Il modello consensuale puro dà rilevanza massima al consenso: significa che c’è un reato quando in qualsiasi tipo di relazione sessuale manca il consenso valido della persona offesa. Il modello consensuale limitato dà importanza non tanto al consenso, ma al dissenso: è cioè necessaria una effettiva e manifesta volontà contraria (dissenso) della persona che ha subìto una violenza. Il modello vincolato, che è anche il più diffuso, non attribuisce in modo esplicito al consenso un ruolo centrale, ma si basa sul fatto che le aggressioni sessuali, per essere perseguite e punite, debbano avere certe caratteristiche: violenza, minaccia, costrizione. Il problema principale del terzo modello è che alcune aggressioni sessuali non siano ritenute tali dato che non si sono verificate con modalità violente o minacciose.
Negli ultimi anni sulla questione del consenso sono stati fatti molti passi avanti, soprattutto grazie al lavoro di femministe e attiviste contro la violenza sulle donne e grazie alle convenzioni internazionali ed europee approvate in materia, come la Convenzione di Istanbul che è il documento più autorevole a cui fare riferimento. In alcuni paesi questi cambiamenti si sono tradotti anche in importanti svolte “consensualistiche” del diritto penale sessuale: si è dato cioè maggiore valore all’elemento del consenso.
Il caso più recente di modifiche legislative di cui si è discusso è quello della Germania. La Germania era considerata un paese piuttosto arretrato in materia di violenza sessuale (lo stupro coniugale era diventato un reato solamente nel 1997): prima del 2016 una violenza sessuale poteva essere definita stupro solo se chi l’aveva subita aveva provato fisicamente a difendersi e poteva anche dimostrarlo in tribunale. La linea generale era che se il rifiuto veniva espresso senza sufficiente determinazione o in modo poco esplicito, l’aggressore non poteva essere condannato. L’evidente inadeguatezza di questo modello “vincolato” aveva fatto sì che molti stupratori non venissero puniti: i centri e le associazioni che si occupano di donne avevano parlato di 107 casi non puniti nel 2014 e di una sola denuncia su 10 che portava a una condanna. La riforma approvata nel 2016 consente invece la punibilità degli atti sessuali “meramente dissensuali”, cioè commessi contro la volontà riconoscibile della vittima, senza necessità di violenza o minaccia. La nuova legge si basa sul principio del “No significa no”: è sufficiente superare il dissenso della vittima ai fini della rilevanza penale del reato sessuale.
Secondo le attiviste e chi si occupa di violenza contro le donne, la nuova legge tedesca e quelle simili sono positive ma non sono ancora abbastanza, dato che non aderiscono al modello consensuale puro: non offrono infatti una protezione adeguata a quelle donne che non sono in grado di esprimere chiaramente la loro mancanza di consenso, sapendo che molte donne stuprate hanno testimoniato di aver scelto di non reagire alla violenza per paura che la loro resistenza potesse peggiorare la situazione. Il principio più corretto su cui costruire una legge non dovrebbe essere, dunque, quello del “No significa no”, ma quello del “Sì significa sì”, quello cioè del consenso esplicito. Un buon riferimento citato dalle femministe è la legge approvata in California nel 2014 e soprannominata appunto “Yes Means Yes”: parte dal principio che un rapporto sessuale vada accettato e non che da quel rapporto una persona debba dissentire o si debba difendere. Occorre insomma un consenso chiaro perché l’atto sessuale non sia violenza.
In Europa il paese che più ha aderito a un modello consensualistico è il Regno Unito con il Sexual Offences Act del 2003. È una legge composta da ben 143 articoli: le ipotesi di reato sono elencate nella Parte I e quelle che hanno a che fare con i reati sessuali in senso stretto sono 44 (lo sforzo è stato dunque distinguere in modo chiaro le varie fattispecie). La ratio della legge è poi quella del consenso del soggetto cosiddetto passivo, e non è necessario per l’incriminazione che chi agisce utilizzi determinate modalità. Il Sexual Offences Act, alla sezione 74 intitolata “Consenso”, dà poi una definizione esplicita di “consenso sessuale” basandola su tre caratteristiche: «Agli scopi della presente normativa, una persona consente se aderisce per scelta, e se dispone della libertà e della capacità per compiere tale scelta».
Facendo riferimento alla sentenza svizzera sul preservativo, Sinead Ring, docente dell’Università del Kent, ha spiegato al Guardian che rimuovere un preservativo senza il consenso di una delle parti potrebbe rientrare, teoricamente, in una sezione della guida del Crown Prosecution Service, che fornisce ai procuratori inglesi una serie di direttive e linee guida. Nel testo (sezione 74) c’è una parte dedicata al “consenso condizionato”, cioè al consenso a un attività sessuale a certe condizioni che invece sono state violate. In un processo di revisione giudiziaria del 2013, l’Alta Corte esaminò un ricorso fatto contro il rifiuto del direttore dei pubblici ministeri di avviare un procedimento per violenza sessuale intentato da una donna contro il suo ex compagno. La donna aveva acconsentito al rapporto sessuale solo alla condizione che il suo compagno non avesse eiaculato all’interno della sua vagina. Lui lo fece deliberatamente e la Corte dichiarò che la donna era stata privata della sua libertà di scelta relativamente al suo consenso originale. Di conseguenza il suo consenso era stato a un certo punto “tradito”.
La Svezia ha a che fare con il caso molto famoso di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, accusato nel 2010 di stupro per essere stato coinvolto in una relazione sessuale non consensuale. La fattispecie di cui è sospettato Assange in Svezia è «stupro di minor gravità». Secondo la donna che l’ha accusato, Assange avrebbe avuto un rapporto sessuale non protetto mentre lei dormiva. La donna, in precedenza, aveva anche chiaramente espresso il desiderio che lui si mettesse un preservativo. La Svezia ha modificato la propria legislazione in senso consensuale nel 2005, riclassificando come stupro tutti i rapporti sessuali avuti con una persona incosciente. Lo «stupro di minor gravità», punibile con il carcere da due a quattro anni, è definito come un atto di breve durata, commesso senza violenza o altre umiliazioni, ma per il quale non c’è stato comunque alcun consenso.
Di recente in Irlanda, a seguito di un ricorso respinto che aveva a che fare con un uomo condannato per aver violentato sua madre, la Corte Suprema ha raccomandato l’introduzione nella legislazione della definizione di consenso. E nel 2012 – a seguito dei molti casi di stupro nei campus universitari – anche gli Stati Uniti hanno modificato la definizione di stupro che era in vigore dal 1929 e che lo definiva come «conoscenza carnale di una donna, in maniera forzata e contro la sua volontà». La nuova formula, oltre a prevedere entrambi i generi tra le vittime e gli aggressori, include altre forme di violenza prima non considerate, e i casi in cui la vittima non può dare il proprio consenso perché sotto l’effetto di alcol, di droga o perché mentalmente incapace. L’espressione «in maniera forzata» è stata infatti sostituita con quella «senza il consenso della vittima».
E in Italia? Anche in Italia c’è stata un’evoluzione del concetto di violenza sessuale. Negli anni Ottanta questi reati erano classificati ancora dal codice Rocco del ventennio fascista, che li considerava «delitti contro la moralità pubblica e il buon costume». Solamente nel 1956 la Cassazione decise che al marito non spettava il potere educativo e correttivo del pater familias, che comprendeva anche la coazione fisica (lo jus corrigendi); solo alla fine degli anni Sessanta la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo l’articolo 559 del codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie; solo nel 1981 venne abrogata la rilevanza penale della causa d’onore e venne abolito il “matrimonio riparatore” che prevedeva la cancellazione del reato di violenza nel caso in cui lo stupratore anche di una minorenne accettasse di sposarla. Ma negli anni Ottanta venivano ancora pronunciate sentenze come questa:
«Qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche in maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo» (sentenza del Tribunale di Bolzano del giugno 1982).
Solo nel 1996, dopo circa vent’anni di iter legislativo, la legge italiana contro la violenza sessuale classificò questo reato come crimine contro la persona, trasferendolo dal Titolo IX (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) del codice penale al Titolo XII (Dei delitti contro la persona).
Oggi in Italia la condotta tipica di violenza sessuale si verifica, secondo quanto scritto all’articolo 609 bis del codice penale, quando un soggetto «con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità» ne costringa un altro «a compiere o a subire atti sessuali». Si verifica anche quando c’è induzione a compiere o a subire atti sessuali «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto» o «traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». Il presupposto della sussistenza dei reati sessuali è la costrizione, cioè il contrasto tra la volontà di chi commette il reato e di chi lo subisce. L’ipotesi incriminatrice è una sola (“violenza sessuale”) diretta in origine a punire solo lo stupro e gli atti sessuali, ma nella prassi vi è stata fatta rientrare anche una parte consistente di reati che hanno a che fare con le molestie sessuali. “Atti sessuali” è una definizione ampia e generica (e per questi motivi anche piuttosto criticata) ma la giurisprudenza tende a includere non solo «gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente». (Cassazione penale, sez. III, sentenza 26 marzo 2007 numero 12425).
Nonostante le modifiche introdotte siano state importantissime, la legge del 1996 mantenne una delle caratteristiche fondamentali del codice Rocco: la necessaria presenza della violenza e della minaccia quali mezzi di aggressione per il riconoscimento del reato. Il modello del codice Rocco, conservato nell’attuale legge sulla violenza sessuale, può dunque essere definito un “modello vincolato”, perché oltre alla mancanza del consenso della vittima richiede il ricorso (diretto e immediato) a una serie di mezzi di costrizione.
E poi è arrivata la Cassazione Se la disciplina legislativa dei delitti sessuali è basata sui principi di un modello vincolato, la giurisprudenza nella pratica ha superato il requisito della violenza mezzo di costrizione, avvicinandosi a un modello consensualistico. Se cioè la definizione di consenso non deriva in modo esplicito dalla norma, negli anni si è costruito un orientamento che ha consolidato una giurisprudenza del consenso che tende a tenere conto della condotta positiva e non negativa: ritiene che il consenso al rapporto sessuale debba essere pacifico, che possa essere basato su un comportamento concludente (non è cioè necessario che sia verbale) e dice che tale consenso non deve subire interruzioni poiché riguarda una sfera soggettiva in cui sono tutelate la dignità e la libertà di ciascuno e ciascuna. Può dunque capitare che una persona in un primo momento sia d’accordo all’atto sessuale, ma che successivamente ci ripensi e manifesti il proprio dissenso (verbalmente o con un comportamento concludente: per esempio uscendo dalla stanza nella quale aveva accettato di andare). E tale revoca può essere fatta in qualsiasi momento.
Nel 2008 la Cassazione (con sentenza del 29 gennaio numero 4532) stabilì che: «Il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di violenza sessuale la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso».
Nel 2012 la Cassazione confermò (sentenza 37916) la condanna a 3 anni e mezzo di reclusione di un uomo decisa dalla Corte d’Appello di Ancona: la Corte disse che andava condannato per violenza sessuale chi impone pratiche sessuali estreme a una persona che mostrandosi consenziente all’inizio del rapporto, a un certo punto manifesti di non voler andare oltre. Le due persone avevano avuto una relazione in cui si alternavano momenti di sesso volontario a momenti nei quali il consenso veniva meno: «L’aver ritenuto che ben potessero coesistere incontri sessuali consensuali, con altri nei quali, proprio per la mancanza di consenso della donna, intervenissero comportamenti violenti e minacce da parte dell’uomo» non fu ritenuta una cosa incoerente da parte della Cassazione.
In una sentenza del 2016 sempre la Cassazione, con la sentenza 9221, si è pronunciata sulla decisione del Tribunale delle libertà di accogliere il riesame relativo a una persona che era stata posta a misure cautelari per reato di violenza sessuale: secondo quei giudici, il comportamento dell’indagato non era stato caratterizzato da violenza o da costrizione ma piuttosto dal comportamento della donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale completo. L’argomento del tribunale del riesame fu che l’eiaculazione non voluta all’interno della vagina a conclusione del rapporto non intaccava il consenso di lei a un rapporto invece voluto. Il consenso non poteva insomma dirsi venuto meno solo per effetto di quella particolare conclusione.
L’atto sessuale, ha detto invece la Cassazione, postula la «presenza necessaria del consenso durante l’intero arco del rapporto sessuale da parte della vittima senza interruzioni ed esitazioni o resistenze di sorta». La Corte poi, non ha ritenuto condivisibile l’affermazione del Tribunale secondo cui «l’avvenuta eiaculazione interna avesse causato nella ragazza soltanto una sorta di rammarico che nulla toglieva alla natura consensuale iniziale del rapporto sessuale perché così facendo si frammenta il concetto di atto sessuale che va riguardato in modo globale ed ogni sua componente per essere giudicato non voluto o meno». E ancora: «Sul tema dell’abuso sessuale determinato da un mutamento dell’originario consenso iniziale: anche una conclusione del rapporto sessuale, magari inizialmente voluto, ma proseguito con modalità sgradite o comunque non accettate dal partner, rientra a pieno titolo nel delitto di violenza sessuale». Infine: «L’eiaculazione interna rappresenta, peraltro, una delle tante modalità di conclusione di un rapporto sessuale che può incidere sulla sua spontaneità e libertà reciproca fino a trasformarlo in atto sessuale contrario alla volontà di uno dei due protagonisti. Nè può ridursi il momento dell’eiaculazione ad un segmento “neutro” dell’atto sessuale».
Quindi va tutto bene? Non proprio. Non fare riferimento in modo esplicito a un modello consensualistico può avere degli effetti negativi: il fatto che ci si possa non basare sulla giurisprudenza, intanto, e il fatto che tutta una serie di atti sessuali vengano tralasciati o sottovalutati. In Italia ci sono diversi e celebri esempi di sentenze che non hanno tenuto conto della giurisprudenza.
Nel 2015 finì sulle prime pagine di molti giornali il cosiddetto “stupro della Fortezza da Basso”, con riferimento al luogo dove avvenne la violenza. Nel luglio del 2015 sei ragazzi accusati – e condannati in primo grado – di aver stuprato una ragazza di Firenze furono assolti in secondo grado. Nelle loro motivazioni, i giudici diedero per scontato che ci fosse consenso e il ritiro di quel presunto consenso non fu ritenuto sufficientemente esplicito. La certezza della non costrizione si basò sia sul comportamento passato della ragazza (ritenuto valido, in qualche modo, retroattivamente) sia sul suo comportamento di quella sera (un rapporto orale avuto nel bagno, il non manifesto fastidio per le avances ricevute, gli strusciamenti e i palpeggiamenti a cui aveva acconsentito durante il ballo). E dunque: le scelte passate la qualificarono immediatamente come una-ragazza-dal-consenso-facile e il suo consenso a un certo tipo di pratiche che fanno parte della sessualità venne interpretato come un consenso a qualsiasi pratica sessuale: anche a una pratica sessuale di gruppo.
La “sentenza Fortezza da Basso” fu molto criticata perché mostrava l’approccio ancora persistente alla questione della violenza sessuale anche nelle aule dei tribunali, e perché si basava su un meccanismo paradossale che il modello consensualistico esclude a priori. Il meccanismo diventa immediatamente evidente se invece che a una violenza sessuale si pensa a un furto. Se qualcuno venisse scippato per la strada, la prima domanda non sarebbe mai: “Che cosa hai fatto per meritarti questo?”. E se a qualcuno venisse rubata l’automobile, non si passerebbe in rassegna il rapporto del derubato con la propria auto per vedere se il furto possa essere attribuito in qualche modo a una sua “inadeguatezza” o a un suo determinato comportamento abituale per attenuare la responsabilità del ladro. Quando, infine, un’auto viene rubata, si presuppone che il derubato volesse essere derubato?
Nel maggio del 2015 il tribunale di Modena assolse tre ragazzi dall’imputazione di stupro nei confronti di una ragazza ubriaca perché «se è vero che il comportamento passivo della vittima e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la sedicenne fosse consenziente».
Barbara Carsana, esperta di diritto di famiglia e avvocato che si occupa di violenza di genere, fa notare che non basarsi solo sulla giurisprudenza potrebbe essere “molto positivo” e, di fatto, limitare sentenze come quelle della Fortezza da Basso: «La norma deve subire l’influsso del tempo. Quello che dobbiamo rivedere e aggiornare è la norma nella sua formulazione in base al principio consensualistico puro, scardinando con la giurisprudenza avveduta una norma obsoleta». E ancora: «Da noi la giurisprudenza non è mai un precedente vincolante, a meno che non sia a Sezioni Unite, ma se te ne discosti lo devi motivare. Quindi, non fare riferimento esplicito a un modello consensualistico può avere l’effetto negativo che anche la giurisprudenza più avveduta e lungimirante (e in linea con le norme che l’Italia ha sottoscritto con la Convenzione di Istanbul) ceda il passo ad un’altra che è il frutto inconsapevole del conservatorismo sociale che a volte può affermarsi attraverso alcuni dei suoi rappresentanti del diritto». Per Barbara Carsana basterebbe introdurre nella norma una definizione che determini espressamente il consenso, sostituendo ad esempio al termine “costringe” dell’articolo 609 bis la formula “senza il consenso”: «La costrizione implica una subornazione, cioè l’idea che si venga meno ad un dovere, la mancanza di consenso no. Culturalmente si deve superare l’idea del possesso a livello sessuale. E poi: davvero possiamo e dobbiamo sempre ritenere che l’attività sessuale richieda o ponga come modello quell’impulso invincibile che è alla base della costrizione? E non che, come per altri incontri di attività umane (certo con le dovute differenze) si possa richiedere semplicemente un “sì” pieno dall’inizio alla fine del rapporto?».
I casi in cui c’entra il consenso (al di là dei diversi modelli) possono essere molto complessi da perseguire e molto difficili da dimostrare in tribunale. Come hanno fatto notare molte e molti esperti, però, introdurre in modo esplicito il concetto di consenso in una legislazione può avere un effetto importante non solo nelle aule dei tribunali. Nella normativa italiana ci sono state delle significative evoluzioni nel concepire che cos’è una violenza sessuale, ma alcune sentenze fanno ancora pensare di essere dalla parte sbagliata della storia, mentre altre vengono giudicate eccessive. Commentando gli episodi dei campus universitari statunitensi, nel 2014 un professore di legge di Yale che aveva scritto di stupro per il New York Times si chiese se avesse senso considerare illegale “il sesso inconscio”. Sempre nel 2014 il giornalista del Wall Street Journal James Taranto sostenne che le vittime di stupro ubriache avessero una parte di colpa. Le donne, scrisse, «sono assolte da ogni responsabilità in virtù del fatto di aver consumato dell’alcol». Ancora oggi, dunque, c’è chi pensa che una violenza sessuale commessa contro una persona ubriaca non sia una forma di violenza, così come vent’anni fa in Italia c’era chi pensava che una donna sposata non potesse essere stuprata dal marito.
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caputolex · 8 years ago
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Parla male dell’ex con i figli: punizione esemplare per la donna
In Italia, rischia di perdere l’affidamento condiviso la madre divorziata che parla male dell’ex marito davanti al figlio. Il Tribunale di Roma ha condannato una donna a pagare €30 mila all’ex compagno per aver adottato “atteggiamenti sminuenti e denigratori della figura paterna”, che avevano portato il loro bambino a rifiutarsi di incontrare il papà. Una punizione esemplare per aver “svilito nel suo ruolo di educatore e di figura referenziale” l’uomo, che il giudice ha voluto infliggere come avvertimento. “Se la mamma dovesse continuare con questa condotta” - si specifica nella decisione -  “le sanzioni a suo carico saranno ancora più pesanti”. Fino ad arrivare anche alla revisione delle condizioni dell’affido. L’intera sentenza, cliccando qui
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caputolex · 5 years ago
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Coronavirus: uscita non giustificata e sanzioni previste
Da qualche giorno sta girando su Whatsapp un audio di oltre 8 minuti nel quale la sedicente “avvocato Simona Veneri del Foro di Brescia” intende “chiarire alcuni aspetti” sulla possibilità di essere fermati ed indagati per violazione dell’art. 650 cp (“Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità”). Anche a voler concedere il buon intento, il messaggio ha creato più confusione che chiarezza e siamo stati più volte contattati per capire che cosa ci fosse di vero nel lungo vocale.
Ciò premesso, qui una breve (per quanto possibile) analisi dell’audio Whatsapp, che può essere riassunto in tre punti:
1️⃣ Se si viene fermati in giro senza giustificato motivo, si commette il reato di cui all’art. 650 cp e si viene denunciati: viene nominato un avvocato d’ufficio (o viene chiesto se ne esiste uno di fiducia), chiedono le generalità e il domicilio presso il quale ricevere gli atti: è fondamentale dichiarare il domicilio presso la propria abitazione e non presso lo studio dell’avvocato 2️⃣ Viene comminata un’ammenda che non va confusa con una semplice contravvenzione amministrative e NON va pagata, perché “pagarla corrisponde all’esecuzione della pena e quindi va sul casellario giudiziale”, con conseguenze nefaste dal punto di vista personale e lavorativo 3️⃣ Vi arriverà un decreto penale di condanna a casa e dovrete contattare immediatamente il vostro avvocato, che avrà 15 giorni di tempo per fare ricorso e trasformarla in un’oblazione, che andrà pagata per estinguere il reato.
Sul punto 1️⃣ Innanzitutto, non è detto che il reato contestato sia solo quello di cui all’art. 650 cp. Per esempio, in caso di autocertificazione che attesti il falso, verrà contestato il reato di “Falso in atto pubblico” (483 cp), oppure, nel caso di persone contagiate, potrebbe essere contestato il reato di “Epidemia dolosa” (438 cp) o “colposa” (452 cp), o ancora di “Diffusione di malattia infettiva” (T.U. delle Leggi Sanitarie). In ognuno di questi casi, tutto il successivo discorso affrontato nel messaggio vocale circa l’ammenda e la successiva oblazione, verrebbe meno. Infine, l’elezione di domicilio può essere fatta sia presso la propria abitazione che presso lo studio dell’avvocato. Non è assolutamente “fondamentale” l’elezione presso la propria abitazione, anzi, se per qualsiasi motivo si rischia di non vedere con continuità la posta, molto meglio domiciliarsi altrove.
Sul punto 2️⃣ Il messaggio è molto ambiguo e fa pensare che le Forze dell’Ordine, al termine del controllo, possano chiedere il pagamento di un’ammenda (il vecchio: “che fa, concilia?”), o rilascino un comune verbale di contravvenzione, in entrambi i casi: “da non pagare”. Non è così. Le Forze dell’Ordine si limiteranno a identificare la persona e a notificarle un verbale di comunicazione di notizia di reato, avvertendola che, se non ha un avvocato di fiducia, le viene nominato un avvocato d’ufficio (indicato chiaramente nel verbale). Non c’è nessuna sanzione da pagare al momento, ma solo l’avviso di un’apertura di indagini (che potrebbero condurre, in linea teorica, anche a un nulla di fatto). Saranno comunque le Forze dell’Ordine stesse a chiarire la natura dell’attività svolta e i doveri dell’indagato, senza alcuna richiesta di denaro, né rilascio di bollettini da pagare.
Sul punto 3️⃣ Ammesso che il solo reato contestato sia quello di cui all’art. 650 cp, che la Procura opti per un “Decreto penale di condanna” (cosa non scontata ma molto probabile, effettivamente) e che la sanzione scelta sia quella dell’ammenda, una delle opzioni che potrà scegliere l’avvocato è sicuramente quella dell’oblazione (che consiste, anch’essa, come l’ammenda, nel pagamento di una somma che l’imputato, nel caso specifico, ha la facoltà di ottenere, ma non il diritto: sarà il Giudice a decidere se concederla). Un’altra opzione, per esempio, potrebbe essere quella della “Messa alla prova” (168 bis cp), che consiste nello svolgimento di attività di volontariato di rilievo sociale. Con entrambe le modalità, si otterrebbe l’estinzione del reato e l’eliminazione delle sue conseguenze penali. In ogni caso, le soluzioni sono tante (patteggiamento, giudizio abbreviato, etc.) e ognuna ha i suoi pro e i suoi contro, oltre al fatto che alcune sono precluse, in determinate circostanze (per esempio, nel caso di soggetto recidivo ex art. 99 cp). Va precisato, comunque, che anche in caso di pagamento dell’ammenda contenuta nel decreto penale di condanna, dal punto di vista pratico non si avrebbero conseguenze particolarmente gravose: la sanzione, infatti, godrebbe del beneficio della non menzione nel casellario giudiziale.
➡️ Per concludere: non date retta a vocali di dubbia provenienza. Qualora veniste fermati, non c’è nessun pericolo di pagare e diventare “pregiudicati a vostra insaputa”. ➡️ Affidatevi a un avvocato (il vostro o, se non ne avete uno, a quello d’ufficio), che potrà esaminare il caso concreto e proporvi, di volta in volta, la miglior soluzione disponibile.
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caputolex · 8 years ago
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L’«indipendenza economica» che fa venir meno il diritto all’assegno divorzile è «la capacità per una determinata persona, adulta e sana, di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)».  E un primo parametro il giudice lo può ricavare dagli introiti del coniuge più debole: sopra mille  euro al mese  il diritto può essere negato.
Questa la precisazione contenuta nell’ordinanza presidenziale della IX Sezione del Tribunale di Milano, emessa il 22 maggio 2017 (presidente f.f.   Buffone) all’esito della prima analisi della posizione delle parti in un giudizio di divorzio.
Ordinanza che interviene subito dopo la sentenza n. 11504/17 della Corte di cassazione (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 maggio) di cui richiama i principi  e che segna un primo contributo per l’approfondimento del nuovo criterio guida affermato dai supremi giudici. In sostanza, posta l’inutilizzabilità del concetto del «tenore di vita», vi è ora da continuare a perfezionare il diverso criterio dell’«indipendenza economica» normativamente paragonabile al criterio della «autosufficienza economica» valido per il riconoscimento ai figli maggiorenni, non autonomi economicamente, di un assegno in loro favore. Il richiamo all’autosufficienza economica, come criterio fissato dalla Cassazione cui far riferimento, nell’analisi circa l’esistenza o meno di un assegno divorzile, si può dire abbia ricevuto, con l’ordinanza milanese, alcuni importanti contributi in via sistematica: in primis la stessa è stata riconosciuta come immediatamente applicabile ai giudizi in corso, aventi a oggetto l’analisi dell’assegno divorzile e infatti, l’elemento da considerare come parametro, è costituito, nel caso di specie, dall’indagine che deve essere svolta con puntualità sul coniuge richiedente l’assegno divorzile ed è tesa alla verifica in capo all’istante dell’esistenza di «adeguati redditi propri» adeguati però alla capacità di provvedere –  tenuto conto del contesto sociale di riferimento – al proprio sostentamento.Immediata correlazione di questo ragionamento è la preliminare adesione, del giudice di Milano, all’impianto tradizionale, richiamato dalla Cassazione di cui sopra, che suddivide il giudizio sull’assegno divorzile in due fasi: quella dell’esistenza o meno del diritto e quella, eventuale, sulla misura dello stesso.  Ed è proprio in ordine ai presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile che la pronuncia di Milano fissa un criterio ulteriore, sempre sostitutivo del tenore di vita: quello del «riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica del richiedente». Nel compiere questa analisi, ben può il giudice, poi, adottare come «parametro (non esclusivo) di riferimento quello rappresentato dall’ammontare degli introiti che, secondo la legge dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato – soglia che ad oggi è di 11.528,41 euro annui ossia mille euro mensili)». Questo perché, prosegue il giudice milanese, come anche affermato dalla Corte di appello di Milano, l’assegno divorzile non si deve tradurre in una impropria misura, finalizzata a colmare eventuali sperequazioni tra i redditi degli ex coniugi, ma nella verifica delle posizioni e queste devono essere lette secondo il principio della auto-responsabilità economica di ciascuno dei  coniugi, come persone singole; fermo restando l’onere probatorio dell’esistenza del diritto sul richiedente, e sempre salvo l’ulteriore irrinunciabile principio del «non pregiudicare» la possibilità per l’onerato di condurre anch’esso una vita dignitosa. 
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caputolex · 8 years ago
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Una nuova astensione proclamata dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Questo il comunicato ufficiale:
La Giunta UCPI con le tre precedenti delibere di astensione ha denunciato i limiti della riforma del processo penale di iniziativa governativa, con interventi disorganici, contraddittori, irragionevoli e incostituzionali, quali quelli sulla prescrizione e sul cd. processo a distanza, e che al suo interno contiene interventi normativi che non solo deprimono le garanzie del processo, violando i principi costituzionali della immediatezza e del contraddittorio, ma anche la presunzione di innocenza e il diritto alla vita, nel disprezzo dei principi costituzionali e convenzionali. L’UCPI ha denunciato, altresì, l’assoluta inammissibilità dell’uso della fiducia ai fini dell’approvazione del DDL, che incide in profondità sull’intero sistema processuale e sui diritti e sulle garanzie dei cittadini. Nonostante la massiccia adesione alle precedenti astensioni, l’attenzione mostrata dai media e dall’opinione pubblica alle tematiche oggetto della protesta, e nonostante le molteplici adesioni del mondo dell’accademia e le convergenti critiche sollevate da diversi esponenti della politica nei confronti della riforma, il Governo non ha tutt’ora ritenuto di dare alcun segnale di attenzione, restando evidentemente fermo nella intenzione di ricorrere anche davanti alla Camera dei deputati al voto di fiducia, impedendo che sul disegno di legge si sviluppi la necessaria discussione sulle molteplici questioni tuttora controverse, su riforme contrarie non solo agli interessi e ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera collettività, che esige, in un Paese civile moderno e democratico che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata e che la fase dell’accertamento dibattimentale venga posta al centro del processo penale, sottraendo la fase delle indagini preliminari all’attuale enfatizzazione e mediatizzazione, attuando e realizzando i principi del giusto processo, nel rispetto pieno delle garanzie dell’imputato e soprattutto di quelle poste a presidio del diritto inviolabile della difesa e della dignità stessa della persona, violate dalla estensione dell’istituto della partecipazione a distanza. Ancora una volta, ad esempio con il DDL di riforma della legittima difesa, disattendendo del tutto le indicazioni dell’avvocatura e dell’accademia, si è operato un intervento legislativo sulla spinta di evidenti e pericolose pulsioni populistiche che non rispondono ad alcuna reale esigenza di tutela, risultando la legge in vigore, così come riformata con la legge del 2006, già ampiamente rispondente alle finalità di tutela che si intendono perseguire. Devono, dunque, essere ribadite tutte le ragioni di protesta e di contrarietà al disegno governativo indicate nelle precedenti delibere, e il Governo deve essere nuovamente richiamato alla responsabilità politica riproporre il voto di fiducia anche davanti alla Camera su tale riforma. Pertanto, la giunta UCPI delibera l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 22, 23, 24, 25 maggio 2017, invitando le Camere Penali territoriali ad organizzare, in tali giorni, manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata, riservandosi di indire ulteriori manifestazioni nazionali sul tema delle garanzie e dei diritti processuali di tutti i cittadini.
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caputolex · 8 years ago
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L'astensione contro la riforma della magistratura onoraria voluta da Orlando, ora all’esame del CSM, partirà il 15 maggio  e terminerà l’11 giugno.
Nessuna tutela previdenziale e infortunistica, scarsa retribuzione e insufficiente garanzia di indipendenza e terzietà sono i temi principali della protesta. Qui la lettera di proclamazione dello sciopero
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caputolex · 8 years ago
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Sembra incredibile, eppure la Nona Sezione Civile del Tribunale di Milano, quella specializzata in separazioni e divorzi, ha davvero messo nero su bianco la frase: «la signora non agisce consapevolmente ma è “agìta”». Inizialmente, il marito chiede la separazione e domanda che l’addebito sia posto a carico della moglie per l’«ossessione religiosa» e i «devastanti comportamenti compulsivi». Dopo un lungo iter processuale, durante il quale sono stati sentiti medici, preti, esorcisti e amici, la conclusione è che la moglie non sia affetta da malattie mentali, che i suoi comportamenti non siano spiegabili e che quindi, la separazione, non le sia addebitabile, perché posseduta. Succede anche questo. Se i legali del marito dovessero impugnare la sentenza, sarebbe divertente leggere i motivi...
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caputolex · 8 years ago
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La riforma del processo penale a colpi di fiducia non è proprio piaciuta all’UCPI che, dopo quella dal 20 al 24 marzo, ha proclamato una nuova astensione dalle udienze dal 10 al 14 aprile.
Qui la delibera
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caputolex · 8 years ago
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Senegalese, senza permesso di soggiorno, con diversi precedenti per spaccio, viene trovato a spacciare sui Navigli, a Milano. Risulta essere già stato investito da un divieto di dimora a Milano, ma dichiara di dormire alla stazione centrale della città oggetto della misura cautelare. Il giudice convalida l'arresto, ma lo rilascia, con una nuova misura cautelare: un altro divieto di dimora a Milano.
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