#capelli fuori posto
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Da: The Fiery Cross
Parte seconda, cap. 18
La chiamata dei capo clan.
La brezza proveniva da ovest. Jamie alzò il mento, godendosi il suo tocco freddo sulla pelle accaldata. La terra digradava a onde di marrone e di verde, accese qua e là da sprazzi di colore che illuminavano la bruma degli anfratti come il chiarore di un fuoco da campo. Si sentì calare addosso una gran pace a quella vista, e respirò a fondo, mentre il suo corpo si rilassava. Anche Gideon si rilassò, ogni irascibilità ormai prosciugata come acqua da un secchio bucato. Pian piano Jamie lasciò cadere le mani sul collo del cavallo, che restò immobile, le orecchie puntate in avanti. Ah, pensò, mentre si impossessava di lui la consapevolezza di essere in un Posto con la P maiuscola. Pensava a posti del genere in una maniera inspiegabile a parole, limitandosi a riconoscerlo quando ne scovava uno. Avrebbe potuto definirlo sacro, se non fosse che la sensazione che gli procurava non c’entrava niente né con la chiesa né con i santi. Era semplicemente un luogo a cui sentiva di appartenere, e ciò bastava, anche se preferiva essere solo, quando gli capitava di trovarlo. Abbandonò del tutto le redini sul collo del cavallo. Nemmeno una creatura dalla mente distorta come Gideon avrebbe provocato guai, qui. E infatti il cavallo rimase tranquillo, con il massiccio e scuro garrese che fumava al freddo. Pur non potendo trattenersi a lungo, Jamie si sentiva profondamente soddisfatto di quella tregua... non solo dalla battaglia con Gideon, bensì anche dalle pressioni del prossimo. Aveva appreso molto tempo prima l’arte di isolarsi in mezzo a una folla, di cercare la privacy nella propria mente quando il corpo non poteva averne. Però era un montanaro nato, e aveva imparato presto anche l’incanto della solitudine, e l’aura di guarigione che emanavano i luoghi silenziosi. Tutto a un tratto ebbe una visione di sua madre, uno di quei piccoli, vividi ritratti che il suo cervello conservava gelosamente per poi tirarli fuori di punto in bianco in risposta a Dio sapeva cosa: un suono, un odore, qualche momentaneo ghiribizzo della memoria. Stava posando trappole per i conigli su una collina, quel giorno, tutto accaldato e sudato, con le dita irritate dalle ortiche e la camicia appiccicata alla pelle per via del fango e dell’umidità. Sua madre se ne stava là sotto l’ombra verdognola, a terra accanto a una piccola sorgente, del tutto immobile – il che non era da lei – con le lunghe mani ripiegate in grembo. Lei gli aveva sorriso in silenzio e lui le si era avvicinato, a sua volta senza parlare ma pieno di un grande senso di pace e contentezza, per poi appoggiarle il capo contro la spalla con un braccio di lei attorno alla vita, sapendo di trovarsi al centro del mondo. Aveva cinque anni all’epoca, o magari sei. All’improvviso, così come era arrivata, la visione svanì, simile a una trota luminosa che scompaia nell’acqua scura. Si lasciò dietro di sé la stessa sensazione di pace profonda, tuttavia, quasi che qualcuno lo avesse abbracciato, e una mano morbida gli avesse sfiorato i capelli. Scese rapidamente di sella per il bisogno di sentirsi gli aghi di pino sotto gli stivali, in una specie di collegamento fisico con quel posto. Per cautela legò le redini a un pino robusto, benché Gideon apparisse abbastanza calmo; abbassata la testa, stava brucando a terra in cerca di ciuffi d’erba secca. Jamie restò fermo un istante, poi si girò con cura a destra verso il nord. Non ricordava più chi glielo insegnato, se sua madre, suo padre o il Vecchio John, il padre di Ian. Recitò le parole, tuttavia, mentre girava in tondo seguendo il corso del sole, mormorando la breve preghiera a ciascuno dei quattro venti, per poi terminare a ovest, nel sole del tramonto. Raccolse a coppa le mani vuote e la luce le riempì, traboccandogli dai palmi.
Che Dio possa tenermi in salvo a ogni passo, Che Dio possa aprirmi ogni valico, Che Dio possa sgombrarmi ogni strada, E che possa accogliermi nelle Sue mani.
Seguendo un istinto più antico della preghiera, prese la fiaschetta dalla cintura e ne versò qualche goccia a terra. Brandelli di suoni gli giunsero sulle ali della brezza; risate e richiami, rumori di animali che si inoltravano nel sottobosco. Non lontana da lì, la carovana si trovava giusto dall’altra parte di una valletta, intenta ad aggirare lentamente la curva della collina di fronte. Doveva andare, adesso, raggiungerli nell’ultimo tratto di salita verso il Ridge. Eppure esitò qualche istante, restio a infrangere l’incantesimo di quel Posto. Captando con la coda dell’occhio un minuscolo movimento si chinò, strizzando gli occhi per scrutare la fitta ombra sotto un cespuglio di agrifoglio. Se ne stava lì immobile, perfettamente fuso con lo sfondo cupo. Non lo avrebbe mai visto, se i suoi occhi da cacciatore non ne avessero percepito il movimento. Un gattino piccolo piccolo, il pelo grigio gonfiato come un soffione maturo, gli enormi occhi spalancati che non battevano ciglio, quasi incolori nella tenebra. « A Chait», sussurrò tendendogli lentamente un dito. «Che cosa ci fai tu qui?»
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Il coraggio è DONNA! Vedete questa ragazza? Questa foto ha fatto letteralmente il giro del mondo! Sta cambiando il mondo!
Quella nella foto è una ragazza iraniana. Una studentessa di Teheran. La polizia l’aveva fermata perché non indossava il velo obbligatorio all’università. Perché sì nel suo paese le donne vivono in una prigione a cielo aperto: viene detto alle donne cosa fare, come vestirsi, cosa indossare, cosa pensare, chi possono amare. Le donne non sono libere!
E allora questa ragazza ha deciso di fare una cosa, una cosa semplicemente e pericolosissima: ha voluto ribellarsi. Ha voluto dire NO! Si è tolta il velo, si è tolta i vestiti, ha preso il suo corpo e l’ha sbattuto in faccia al regime: camminando a testa alta di fronte alle colleghe, al regime, al mondo intero. Non si è lasciata intimidire. Non si è lasciata intimorire. Non ha voluto piegarsi, in un paese dove una ciocca di capelli fuori posto può costarti la vita. Coloro che fanno la storia, coloro che hanno fatto la storia sono sempre quelli che hanno trovato dentro di loro il coraggio di dire di no!
E sapete cosa è successo dopo? L’hanno trascinata via a forza, e da allora nessuno l’ha più vista. Sparita! La versione ufficiale è che la giovane «soffrisse di problemi mentali». «Isterica», «pazza» sono le parole più usate per mettere a tacere una donna. Per silenziare la voce di una donna quando dice cose scomode. Quando fa cose scomode.
Non sappiamo chi sia questa ragazza, non conosciamo il suo nome. Io però oggi vorrei soltanto dire una cosa: questa ragazza merita un RISPETTO enorme! Ci si può solo inchinare di fronte a tanta forza e dignità. E sì la sua storia merita di essere ricordata! In un mondo che ha fatto e farà di tutto per metterla a tacere, noi possiamo fare una cosa: diamole voce!
Guendalina Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X
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L’incontro di due persone è collisione di mondi. Comprendersi è gioco sottile di ascolto, attenzione, rispetto. “Abitarsi” l’un l’altro, miracolo quotidiano che si nutre di amore e Verità.
Io cerco di entrare nel mondo di chi amo in punta di piedi, togliendo le scarpe e non appoggiandomi da nessuna parte, per non rischiare di ferire angoli di anima. Qualunque sia la cautela, rimangono impronte. A disegnare passaggi di vita. Ombre. Capelli. Una mano poggiata sulla spalla.
In Te - nel tuo mondo - vorrei essere vento che arriva come carezza, senza scompigliare nulla. Sensazione di benessere che dura il tempo di dire “wow” e poi tutto come prima. Già... tutto come prima. Nel mio esserci e nel mio andare. Soffio. Un capello fuori posto. Tu che ti guardi intorno. Io che raccolgo un po’ di te. E un po’ ti abito. Senza affitto. Senza residenza.
Abitarsi di attimi.
Abitare Te.
Lasciando le chiavi sulla porta d’ingresso.
Magari torno. O forse no.
Letizia Cherubino
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Mi ritrovo a 25 anni e l’idea dell’amore come quella dei bambini.
Mi sono ritrovata a parlare con una bambina di amore.
È fidanzata, da un anno, con Francesco.
Prima di lui c’è stato un altro che però è stato rubato dalla sua migliore amica.
Penso che se questo le fosse successo alla mia età si sarebbero strappate i capelli a vicenda e lui ne sarebbe uscito illeso, come succede il 99,9% dei casi. Anche se la colpa non è mai da una sola parte.
Non so perché ora senta la necessità di scrivere quello che mi sta passando per la testa, forse perché ora scrivere a mano non mi basta di più, ho tanto da dire e poca voce per farlo.
Ho sempre preferito scrivere che parlare.
Continuo a scegliere le parole con la stessa accuratezza con cui le mie coetanee scelgono l’outfit (ora ci siamo tutti inglecizzati) che indosseranno per una serata in discoteca.
Io in discoteca non ci sono mai stata, non ho mai fumato una canna, fumo sporadicamente le sigarette, giusto per infliggermi un po’ di dolore.
Dicono che ogni sigaretta fumata accorci la vita di 7 minuti, sto sperimentando la veridicità di questa affermazione.
Non voglio morire.
Sia chiaro.
Quando ci penso ho onestamente paura.
Chiudi gli occhi e tutto finisce.
Non si pensa più.
Le connessioni tra neuroni si fermano.
Niente stimoli.
Niente input.
Niente output.
Tutto tace.
Eppure quante volte aspiriamo nella vita ad un po’ di silenzio?
Sono consapevole che per quanto voglia ciò è impossibile. Almeno da vivi.
Motivo per il quale mi sto quasi abituando all’idea che troverò la pace a cui aspiro una volta morta.
Il discorso sta prendendo decisamente una piega tetra.
Sono una persona abbastanza noiosa.
Non amo il casino.
Mi piacciono le pantofole calde, le coperte, le tisane e i libri.
Non mi piace andare a mangiare fuori, mi piace l’intimità delle mura di casa.
Ma sono consapevole che sono in rotta di collisione con il resto del mondo.
Questo mondo di oggi che deve ostentare tutto.
Ieri sono uscita e c’era un tramonto stupendo a Roma, il volerlo immortalare mi stava quasi distraendo che stavo dimenticando di vivermelo.
E invece l’ho vissuto.
Ho notato ogni piccola sfumatura presente. Nei minimi dettagli.
Io sono così, guardo i dettagli e cerco di leggerli tra le righe.
Sono sempre stata una che ha visto nel piccolo prima di vedere nel grande.
Questa società ci ha abituati ad avere tutto e subito. Pretendiamo di conoscere le persone con lo schiocco delle dita.
PRETENDIAMO.
Non penso ci sia niente di più brutto che pretendere un qualcosa da qualcuno.
È come se lo obbligassimo a fare qualcosa che non vuole per un tornaconto solo nostro.
Ne lede ogni libertà di scelta e di pensiero.
Lo stesso errore si commette quando parlando si dice “io al posto suo…”.
Al posto suo non ci sei.
Al posto suo c’è solo la persona.
Non tu.
Per fortuna o per sfortuna, dipende dai casi, ognuno ha una propria testa e ragiona come meglio crede.
Io ho sempre pensato di ragionare con la testa di una ragazza di 60 anni fa.
Non mi sono mai sentita a mio agio in questa società.
Come un pesce fuori dall’acqua che cerca di tornare al mare.
Non mi sono voluta adeguare alla massa.
Non mi sono mai voluta adeguare a qualcuno.
Per qualcuno.
Rimarrò sola? Non so.
Ho paura? Non so.
Perché le persone cercano di cambiarsi per andare bene a qualcuno?
Capisco lo smussare gli spigoli, ma perché cambiare rinnegando quello che si è?
Io non voglio rinnegare niente di quello che sono.
Qualcuno una volta mi ha detto che siamo la somma delle esperienze che ci sono capitate. Beh, non per vittimismo, ma potrei scrivere un libro per tutte le volte che sono caduta in tutte le maniere in cui una persona può cadere e con la sola forza delle mie braccia mi sia rialzata.
Non penso di avere una vita tragica, ma penso di avere una vita in cui il coraggio le ha fatto da padrona.
Sì, sono coraggiosa.
Questo me lo devo.
In fondo credo che un po’ io mi voglia un po’ di bene, per quanto a volte litighi con me stessa sul perché non riesca a cambiare alcune cose di me che davvero non mi piacciono.
Sono abituata a fare l’elenco dei miei difetti, e non riesco a trovare mai un pregio.
Ecco, coraggiosa è il primo pregio.
Ma tornando al discorso di prima…
Vanno a scuola insieme.
Non si sono visti e neanche sentiti per tutto il periodo dell’estate.
Le ho chiesto allora perché non gli avesse scritto per tutto il periodo e la sua risposta è stata: “Avevo da fare con le amichette.”
Di risposta le ho chiesto se dopo tutto questo tempo lontani era sicura che anche da parte sua ci fosse lo stesso sentimento.
Penso di aver impiantato in lei il seme del dubbio.
Se magari prima ne era convinta, adesso non più.
Eppure 60 anni fa partivano per la guerra, passavano mesi senza vedersi e, se Dio voleva, riuscivano a mandarsi una cartolina ogni tot di tempo.
Ora il dubbio sorge non appena si ha un messaggio non visualizzato.
Maledette spunte blu.
Sorge il dubbio se non si risponde entro un tempo predefinito.
Ed ecco che la vipera del tradimento si insinua nelle nostre menti.
E distrugge tutto.
Con questo non voglio dire che prima non si tradiva, anzi forse era anche più facile tradire prima.
Senza Instagram, senza storie, senza localizzazione, senza messaggistica istantanea, senza chat segrete di Telegram (che ancora non so come funzionino).
Forse c’era una cosa che oggi è difficile trovare: il rispetto.
Ecco, forse ho trovato un altro mio pregio.
La mia famiglia mi ha insegnato a rispettare tutto e tutti.
Non so ammazzare neanche una mosca senza sentirmi in colpa.
Ho imparato il rispetto per ogni forma vivente: animali, piante, persone.
Ho imparato il rispetto per ogni forma non vivente.
Grazie mamma, grazie papà, grazie nonna e grazie zia.
Forse non gliel’ho mai detto.
Prima o poi lo farò.
Loro sono le colonne portanti della casa che sono.
E gliene sarò per sempre grata.
Mi hanno insegnato il senso di sacrificio. E rispettare chi ne fa.
Cerco di mantenere ogni promessa, di renderla reale.
Ma in un mondo che ti fa lo sgambetto più e più volte è difficile, ma continuo ad apprezzare la buona volontà di chi ci prova.
È un mondo malato che sta facendo ammalare anche le persone che ci vivono. Forse gli animali sono gli unici che ne restano illesi.
Quanto può essere cattivo l’essere umano?
Einstein diceva che l’uomo ha inventato la bomba atomica, ma nessun topo inventerebbe mai una trappola per topi.
Siamo davvero così stupidi?
Perché soffriamo di queste manie di grandezza?
Perché questa necessità di prevalere sull’altro e di doverlo sventolare ai quattro venti?
Comunque, continuando il nostro viaggio nella mente di una bambina di 7 anni, dopo aver impiantato in lei il seme del dubbio ho cercato di sistemare la situazione, ormai già distrutta, affermando che in caso contrario avrebbe comunque potuto trovarne un altro. O anche due. Così da avere la riserva.
Lei ha fatto spallucce.
Non penso abbia apprezzato la mia affermazione.
In realtà non l’apprezzo neanche io.
Non nutro grande simpatia per coloro che decidono di intraprendere relazioni parallele. Anzi, direi che (sì, lo so che è brutto da dire), le schifo. E non poco.
Se una persona non ti fa stare bene, bisogna avere il coraggio di lasciarla andare.
Può essere doloroso, ma anche le ferite più dolorose guariscono.
E questo lo so bene, forse daranno un leggero fastidio ogni qualvolta il tempo cambierà.
Ogni qualvolta ti ci soffermerai a pensare.
Mamma dice sempre: “Le cose che non si fanno sono le migliori.”
Ma con quanti punti di domanda ci lasciano?
Quanti finali alternativi si alternano nella mente di una persona?
Sono una persona curiosa.
Ma non nel senso che sia impicciona, mi sono sempre fatta i fatti miei e continuerò a farlo visto che aspiro a campare 100 anni.
Sono spinta da curiosità costruttiva, non mi limito a sapere il fatto in sé, ma mi piace capire, scavare nel profondo. Forse la parola più corretta da usare sarebbe comprendere il perché di una scelta piuttosto che un’altra.
Mi astengo dal dare qualsiasi giudizio.
Mi limito a dare un consiglio, senza aspettarmi che la persona lo segua, anche perché chi è che segue i consigli?
Io sono la prima a non farlo.
Mi piace sbatterci di testa, di faccia, rompermi le ossa, il cuore e l’anima.
Si dice si impari meglio sbagliando e io voglio sbagliare nel modo giusto.
Voglio passare la vita imparando, crescendo, diventando sempre più saggia.
Avrei voluto dire a quella bambina che poi tanto male non è stare soli, conoscersi.
Capire quello che realmente vogliamo.
Quello di cui abbiamo realmente bisogno.
Avrei voluto dirle di non piangere alle ginocchia sbucciate perché il cuore sbucciato quando crescerà farà ancora più male.
Avrei voluto dirle di godersi ogni attimo della sua età.
Avrei voluto dirle di avvicinarsi al mondo dell’amore il più tardi possibile.
Avrei voluto dirle che ha fatto bene a godersi l’estate con le amichette piuttosto che pensare al fidanzato.
Avrei voluto dirle che l’amore se è vero supera ogni ostacolo, ogni distanza, ogni tempo.
Avrei voluto dirle che non deve mai dare nulla per scontato, perché nel momento in cui lo fai tutto perde di valore e non è più come prima.
Non aspettatevi che una persona vi stia accanto per sempre, che vi ami per sempre.
L’amore è un fuoco di paglia, di solito la passione brucia velocemente.
La vera scommessa è alimentarlo.
Vorrei essere brava in questo.
Invece credo che tra le mie mille mila cose da fare non riesca mai ad alimentarlo come si deve, e niente.
Fa la famosa vampa e si spegne.
Azzarderei a dire che quasi a volte l’acqua per spegnerlo sopra l’abbia messa io.
Perché l’amore si identifica con il cuore?
Un muscolo involontario.
Probabilmente perché così come non abbiamo la possibilità di controllare il suo battito non possiamo decidere di chi innamorarci.
Ed ecco lì che capita di innamorarsi di chi probabilmente non avremmo mai detto.
Nel mio caso penso che avrei messo la mano sul fuoco che non sarebbe mai successo, ed invece è successo.
Ho imparato il mai dire mai proprio in questo caso.
E chi l’avrebbe detto che avrei messo le armi per distruggermi in mano a qualcuno.
Mi meraviglio con quanta facilità l’essere umano sia capace di buttare giù tutto quello che costruisce senza nessuna pietà e rimpianto.
Mentre io mi sono ritrovata a dire addio ad una macchina e a dare il benvenuto ad un’altra.
Ho provato il senso di colpa nell’averla quasi tradita per qualcosa di nuovo.
Perché è questo quello che succede nella vita, buttiamo il vecchio per fare spazio al nuovo.
Io sono così legata al vecchio che provo dolore quando lo butto.
Ecco, forse questo invidio a quella bambina, la facilità con cui nel momento in cui il piccolo Francesco deciderà di lasciarla lei troverà qualcun altro e riuscirà a chiudere Francesco in un cassettino della sua memoria che probabilmente non riaprirà mai più.
Io i miei cassetti della memoria li apro e anche spesso.
Maledette domande che attanagliano la mia mente e non la lasciano riposare.
Forse se riuscissi a lasciarmi scivolare tutto addosso sarebbe più facile.
E invece il Padre Eterno ha deciso di farmi cocciuta, testarda e con la necessità di sapere come, quando, dove e perché.
Vorrei poter chiudere tutto a chiave, buttare la chiave in un qualsiasi posto e perderla così da non poter riaprire niente, anche volendo.
Sono masochista.
Non mi taglio, non mi infliggo dolore fisico perché mi basta il dolore dell’anima.
E se per i tagli questi cicatrizzano, non so come possa guarire un’anima mal concia.
Lana Del Rey canta: “Mi amerai lo stesso quando non avrò nient’altro che la mia anima dolorante?”
Mi chiedo se davvero esista qualcuno capace di amare una persona nonostante l’anima che non si regge in piedi.
Ci vuole tanto amore ad amare chi non ci ama.
E ci vuole grande forza di volontà a lasciare andare le persone.
Lasciare andare qualcuno è la più grande forma di generosità.
Come può un rapporto cambiare per “colpa” di una frase sbagliata?
Dicono che la lingua riesca a ferire più di un coltello.
E perché le permettiamo di ferirci?
Sento ancora quel formicolio al cuore quando ripenso ad alcune frasi, che siano belle o brutte.
Nella maggior parte dei casi sono tutte le parole che più mi hanno ferita.
Quelle che più mi hanno fatta sentire inadatta.
Ma non penso di essere inadatta per davvero.
Penso sinceramente che alcune situazioni non vadano con altre.
Ecco di nuovo quella sensazione.
La me di dentro urla, si sta spolmonando. E la me di fuori non riesce a tirare fuori niente.
A volte penso se possa essere liberatorio salire sulla prima montagna e urlare, fino a non avere più aria nei polmoni. Fino ad essere stremati per l’urlo e non per altro.
A volte vorrei farlo.
Poi penso che le persone mi prenderebbero per pazza.
Anche se è mio uso e costume credere che i pazzi stiano fuori e le persone mentalmente stabili siano chiuse nel primo reparto di psichiatria disponibile.
Forse in mezzo a loro troverei la mia pace, chissà.
Vorrei fare un appello a me stessa: smettila di provare a fidarti delle persone.
Sono destinate tutte ad andare via. E tu speri ancora nelle cose irreali.
Chiudi gli occhi e immagini cose che sai anche tu non succederanno mai. E ti addormenti con il cuore un po’ più leggero, perché quello ti da pace.
Perché sono così?
Cos’è che realmente voglio?
O sono solo lo specchio di quello che gli altri vogliono da me?
Vorrei bastare a me stessa.
Essere sicura di me, delle mie capacità, senza il bisogno che qualcuno mi ricordi quanto valga.
Amo stare da sola, e non capisco perché continuo a far entrare persone nella mia vita che la mettono sottosopra.
Inizio ad essere quasi certa di essere masochista.
Sto per prendere il treno.
L’ennesimo.
Quanti treni ho preso, e non ne ho mai perso uno.
Anche quando ero in ritardo.
Sono stata sempre brava a prenderli.
A farli coincidere con altri.
Ad aspettare il meno possibile alle coincidenze.
Non mi è mai piaciuto aspettare.
Non sono una che sta con le mani in mano aspettando che arrivi la manna dal cielo.
Mi sono sempre data da fare, ho organizzato la mia vita in ogni minimo dettaglio e la vita ci ha provato ripetutamente a far saltare ogni mio piano.
A volte ci è riuscita.
A volte no.
Mi chiedo dunque, perché se non riesco ad aspettare un treno che dovrebbe portarmi altrove dovrei riuscire ad aspettare una persona?
Beh, il treno prima o poi arriva e anche se in ritardo a destinazione ci porta.
Ma le persone?
Arrivano?
Tornano?
Riescono a portarti realmente dove vuoi che ti portino?
Non si può decidere dove queste ti porteranno. Bisogna lasciarsi guidare.
E io non sono brava in questo.
Sono stata abituata a guidare, e non riesco a far sì che le persone guidino me.
Eppure io vorrei qualcuno che mi portasse al mare.
Scorrendo la ricerca di Instagram in una di quelle pagine di frasi fatte e depresse ho letto trova qualcuno che ti faccia dimenticare di avere un telefono.
Chissà com’è prendere il treno della vita.
Quello che dicono passi solo una volta.
Quello del hic et nunc, del carpe diem.
Non penso di aver mai colto un’occasione, troppo presa ad organizzarmi la vita che probabilmente mi sono dimenticata di viverla.
Ho messo da parte tutti i sentimenti, cercando di reprimerli.
Li ho messi così schiacciati bene in un cassetto che pensavo di averli sistemati lì a vita.
E invece il cassetto è esploso, lasciando venire fuori tutto quello che credevo di non poter provare.
La depressione.
Se mi avessero detto che un giorno ne avrei sofferto sinceramente gli avrei riso in faccia.
E invece sono qui, a distanza di due anni, con questo mostro dietro le spalle che mi attacca all’improvviso, quando sono più vulnerabile.
E so da me che la spinta per “guarirne” devo darmela da sola, ma le persone che, intorno a me, si limitano a dire: “Dai, su. Muoviti. Se ti fermi è perché sei tu che vuoi stare male” mi istigano sempre di più ad isolarmi.
Mi piace stare sola.
Mi piace l’equilibrio che raggiungo.
Se sto male non devo dar conto a nessuno.
Se sto bene non devo dar conto a nessuno.
Solo a me stessa.
Chissà quale organo ne risente di più.
Il cuore?
Il cervello?
Penso che i miei siano andati entrambi in sovraccarico e il mio esplodere ne è stata semplicemente una conseguenza.
Come se nel cassetto avessi messo più di quanto avrei dovuto e ora non si riesce più a chiudere e tutti i sentimenti repressi siano usciti uno dietro l’altro, sovrapponendosi anche a volte.
Tocco un po’ anche di bipolarismo probabilmente.
Meriterei un oscar come migliore attrice per tutte le volte che ho riso quando avrei voluto piangere.
Meriterei un oscar come migliore attrice per aver mentito sul mio stato di salute mentale a tutti, compresa la famiglia.
Meriterei un oscar come migliore attrice per tutte le volte che mentre ridevo pensavo a come sarebbe stato buttarsi dal Canale di Mezzanotte.
Ci sono andata.
Mi sono seduta sul bordo del ponte.
Penso che più di una volta sia stata sul punto di farlo.
Perché non l’ho fatto?
Probabilmente perché io sono ancora qui e posso scegliere di vivere, lei non ha avuto scelta.
E se l’avesse avuta sicuramente avrebbe voluto vivere.
Per cui, mossa da un minimo di lucidità, sono scesa giù e sono tornata a casa, mettendo la maschera perfetta.
Ma non a tutti si può mentire.
E gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Non vedo i miei occhi brillare da un po’.
Chissà se ricapiterà.
E se la nostra vita fosse un libro scritto a penna?
Un cosiddetto manoscritto.
Senza bozza.
Senza margine di correzione, perché si sa, non si può cancellare con la gomma e riscrivere tutto.
Si può solo mettere una linea e andare avanti, fino alla fine del racconto. Fino alla fine del libro.
E lì, dove la penna inizia a incantarsi, arrivano le decisioni prese d’istinto.
Quegli scarabocchi che nessuno riuscirà mai a decifrare, neanche noi.
Perché quelle decisioni prese di pancia sembrano così sensate nel momento in cui le prendiamo mentre con il senno di poi si rivelano dei veri flop?
Perché, a volte, l’istinto prevale sulla ragione, perché autoinfliggersi dolore sperando in qualcosa che sicuramente non capiterà.
La legge di Murphy parla chiaro: se c'è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo; Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andare male, e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto; lasciate a sé stesse, le cose tendono ad andare di male in peggio.
E allora mi chiedo, perché si molla la presa in alcune situazioni?
Perché non siamo più così bravi da lottare per quello in cui crediamo?
Perché non mi fido più delle mie sensazioni?
Ho sempre viaggiato con il mio sesto senso.
A volte bene, altre male.
Penso faccia parte del gioco.
Non credo nemmeno si possa pretendere che la vita giri sempre bene, penso sia impossibile vivere una vita senza cadere.
Dovrebbero essere le imperfezioni a rendere le cose perfette.
Il sudore dei sacrifici rende tutto più bello.
Ma ai sacrifici bisogna essere abituati.
E come ci si abitua?
Come può una persona abituarsi alla sofferenza per avere cose belle.
Ma perché si deve soffrire per arrivare al bello?
Per apprezzarlo di più?
E perché non godere delle piccole cose, ma aspettarsi sempre cose plateali?
Perché non compiacersi dei gesti ripetuti, seppur piccoli, ogni giorno, ma riempirsi gli occhi e soprattutto la bocca per un qualcosa che accade una sola volta e per un tempo breve.
Ho rivisto la piccola Giada.
Le ho chiesto di aggiornarmi sulle sue vicende amorose.
Mi sono così appassionata a questa storia d’amore che mi sembra quasi di viverla in prima persona.
Ci siamo sedute a terra.
Ha trovato dietro la tenda del salotto i regoli.
È stato come tornare indietro di quasi 20 anni.
Ricordo l’emozione, quando arrivava il momento dei regoli alle elementari.
La felicità nell’aprire quella scatola che sembrava magica perché quei piccoli rettangoli avrebbero dovuto insegnarmi a contare.
Anche se, diciamocelo sinceramente, tutti li abbiamo usati per costruire la famosa torre.
Apprezzo dei bambini in genere lo stupore davanti alle piccole cose; il trovare il buono e il bello anche nelle piccole cose.
Quelle più insignificanti.
Poi com’è che si diventa così materialisti?
Qual è il preciso istante in cui le piccole cose, anche le più stupide, smettono di bastarci e iniziamo a volere e a pretendere sempre di più?
Ho sempre avuto paura di crescere, di perdere il mio contatto con l’innocenza della tenera età, non essere più considerata la bocca della verità, diventare agli occhi del resto degli adulti una persona che sputa veleno perché dice quello che pensa.
Io non credo di sputare veleno, non penso nemmeno di essere così vipera come mi dipingono. Credo che la verità tendenzialmente faccia paura, fa paura a tutti, anche a me che sembro così dura e tosta.
La verità quando ci viene detta, nuda e cruda, ci spoglia di ogni maschera e ci costringe a guardarci allo specchio, come se fossimo tanti vermi privati di un guscio protettivo.
L’adulto è viscido, e di questo ne sono sempre stata convinta.
Ha sempre secondi fini, non sa bastarsi a sé stesso, cerca perennemente il confronto con altri per sentirsi superiore, non sa competere in modo sano, è cattivo e diventa egoista, egocentrico, cercando di creare una storia in cui risulta essere il protagonista assoluto.
Per non parlare degli adulti nelle relazioni: è un continuo prevalere sull’altro nel 90% dei casi, non si sa più viaggiare l’uno accanto all’altra.
Ho quasi 25 anni e la voglia di provare gli stessi sentimenti di Giada, la voglia che qualcuno provi per me gli stessi sentimenti che prova Giada.
La purezza.
Non perché servo a qualcuno, non mi piace essere sfruttata.
Ho sempre fatto mio il detto: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”, ma puntualmente ricevo altro. Ricevo quello che probabilmente se fossi realmente stronza farei alle persone.
Non so sfogarmi, non so buttare giù quello che provo se non scrivendo.
Mi sento così bene quando scrivo.
Non saprei come fermarmi.
Ho tanto da dire, continuo ad avere sempre tanto.
E continuo ancora a meravigliarmi delle mie capacità paragonate a quelle di persone più grandi.
Perché continuo a sottovalutarmi?
Apriamo i regoli, con l’intenzione (ovviamente) di fare la Tour Eiffel.
Iniziamo a mettere da parte tutti i pezzi che ci servono e intanto penso che vorrei essere circondata una vita intera da bambini e animali, dalle anime pure, da chi non fa male a qualcun altro per il puro scopo di goderne; voglio essere circondata da chi se fa male a qualcuno sa chiedere scusa.
Arriva il momento della fatidica domanda, chiederle come fosse andato il ritrovo con Francesco.
Ne ho quasi timore, soprattutto dopo l’ultima chiacchierata, ma i bambini hanno quell’innocenza disarmante contro cui nulla vince.
Il sospiro di sollievo tirato dopo aver saputo che ancora ad oggi stanno insieme è stato rumoroso, tanto da scambiare uno sguardo complice con la mamma.
A distanza di circa un anno io e Giada ci siamo riviste.
Qualcosa è cambiato, io sono cambiata e anche lei.
Se lei è cresciuta in altezza, in bellezza e anche in intelligenza, io sono diventata più vecchia, scorbutica e meno paziente verso ogni genere umano.
Non vedo Giada da un anno e quanto vorrei poter parlarle ancora. Interfacciarmi con lei e con l’ingenuità con cui vede il mondo: senza malizia, senza cattiveria, senza alcun melodramma irrisolvibile.
Mi chiedono spesso perché sia così attirata dai bambini e dagli animali, probabilmente la risposta si trova in questo: non fanno melodrammi e se dovesse accadere la situazione si placa in un tempo così breve da non destare nessuna preoccupazione.
Quanto sarebbe bello tornare piccoli, dove le uniche preoccupazioni sono soltanto i giochi non comprati da mamma e papà, le merende e il pisolino pomeridiano fatto controvoglia.
A ventisette anni il pisolino pomeridiano è quasi diventato un default per me, senza il quale non saprei neanche sopravvivere alle persone che mi sono intorno.
Vorrei tanto sapere di Giada, dei suoi amori, se è riuscita a continuare la sua storia con Francesco, mi piacerebbe dirle che ho trovato probabilmente l’equilibrio a cui aspiravo, ma so che mi guarderebbe interrogativa perché: come lo spieghi l’equilibrio ad una bambina?
Ho paura a dirlo forte, non tutte le persone sono felici se lo sei anche tu, ma ho trovato quella sorta di pace interiore che sembrava non potesse arrivare per me.
Sto per iniziare a fare una cosa che mi piace. Non mi interessa della fatica. Ho scoperto che con le persone giuste accanto sono ancora più forte di quello che credevo. Ho capito chi sì e chi no. Chi mi fa fiorire e chi cerca di estirparmi come un’erbaccia.
Grazie delle delusioni, dei momenti no, dei momenti in piena sbronza, delle scelte sbagliate, dei viaggi in macchina, del mare che calma in inverno e abbronza l’estate. Grazie dell’amore, delle amicizie nate dal nulla, del cuore rotto, dello scudo contro le parole che fanno male. Grazie per le serate a guardare le stelle in balcone con la sigaretta accesa, i lividi addosso per l’equitazione che libera la mente, i lividi dello stress mentale. Grazie per gli addii e le riscoperte di alcune persone. Grazie per il mio essere leggera, saper capire quando essere pesante e quando no, quando farne melodramma e quando no. Grazie perché ho capito quanto valgo, ho capito che non mi accontento di tutti e che chi mi sta accanto lo fa per scelta, per amore e ha rubato un pezzetto del mio cuore e lo custodisce preziosamente. Grazie anche a chi il pezzetto del mio cuore lo ha preso a pugni, a cazzotti e ci ha ballato sopra con la speranza di vedermi a terra strisciare come magari fanno loro. Mari splende anche grazie a voi. Soprattutto grazie a voi.
L’ultima foto non poteva non essere il mio panorama sul mio golfo preferito.
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«Vede, a me non piace né comandare né essere comandato. A me piace lavorare da solo, così è come se sotto al lavoro finito ci mettessi la mia firma; ma lei capisce bene che un lavoro come quello non era per un uomo solo. Così ci siamo dati da fare: dopo quella gran tormenta che le ho raccontato era tornata un po' di calma e non si andava tanto male, ma a colpi veniva giù la nebbia. Per capire ognuno che tipo era ci ho messo un po' di tempo, perché non siamo mica fatti tutti uguali: specie poi coi forestieri. L'ortodosso era forte come un toro. Aveva la barba fin sotto gli occhi e i capelli lunghi fin qui, però lavorava preciso e si vedeva subito che era del mestiere. Solo che non bisognava interromperlo, se no perdeva il filo, cascava dalle nuvole e doveva ricominciare tutto dal principio. Di Staso è venuto fuori che era figlio di un barese e di una tedesca, e difatti si vedeva che era un po' incrociato; quando parlava facevo più fatica a capirlo che se fosse stato un americano d'America, ma per fortuna parlava poco. Era uno di quelli che dicono sempre di sì e poi fanno alla sua maniera: insomma bisognava starci attenti, e il suo guaio era che pativa il freddo, così tutti i momenti si fermava, si metteva a ballare magari anche in cima al traliccio, che mi faceva venire la pelle di gallina, e si metteva le mani sotto le ascelle. Il pellerossa era una sagoma: l'ingegnere mi ha raccontato che era di una tribù di cacciatori, e che invece di stare nella loro riserva a fare tutti quei gesti per i turisti, avevano accettato in blocco di trasferirsi nelle città per fare la pulizia delle facciate dei grattacieli; lui aveva ventidue anni, ma quel mestiere lo facevano già suo padre e suo nonno. Non è che sia la stessa cosa, per fare il montatore ci va un po' più di cervello, ma lui cervello ne aveva.
Però aveva delle abitudini strane, non guardava mai negli occhi, non muoveva mai la faccia e sembrava tutto d'un pezzo, anche se poi sul montaggio era svelto come un gatto. Anche lui parlava poco: era grazioso come il mal di pancia, e a fargli osservazione rispondeva; dava anche dei nomi ma per fortuna solo nel dialetto della sua tribù, così si poteva far finta di non capire e non nascevano questioni. Mi resta da dire del regolare, ma quello ho da capirlo ancora adesso. Era proprio un po' intiero, ci metteva tempo a capire le cose, ma aveva volontà e stava attento: perché lo sapeva, che non era tanto furbo, e cercava di farsi forza e di non sbagliare, e difatti in proporzione sbagliava abbastanza poco, appunto, non capivo come facesse a sbagliare così poco. Mi faceva pena perché gli altri gli ridevano dietro, e mi faceva tenerezza come un bambino, anche se aveva quasi quarant'anni e non era tanto bello da vedere. Sa, il vantaggio del nostro lavoro è che c'è posto anche per gente come quella, e che sul lavoro imparano quelle cose che non hanno imparato a scuola; solo che con loro ci va un po' più di pazienza.»
Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi (Supercoralli Nuova serie); prima edizione 1978.
#Primo Levi#La chiave a stella#Einaudi#emigrati#vita#letteratura italiana degli anni '70#libri#leggere#letture#citazioni letterarie#nativi americani#lavorare#etica del lavoro#XX secolo#Europa#letteratura europea#Unione Sovietica#Urss#Russia#popolo russo#umiltà#povertà#Piemonte#amicizia#solidarietà#fratellanza#Italia#letteratura industriale#romanzo di invenzione#Premio Strega
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Questo post è stato preso dalla pagina di Alvaro Marin Vieco.
Ciao, sono un pipistrello!!!
Non succhio il tuo sangue e non rimarrò impigliato nei tuoi capelli.
Mi nutro di zanzare e molti altri insetti.
Le nostre case vengono smantellate e non abbiamo altro posto dove andare.
Se per caso entro in casa tua, è per sbaglio e non voglio spaventarti. Per favore non colpirmi con mazze o scope; mi fa molto male e ho molta paura.
Se atterro, potrei non riuscire più ad alzarmi e avrò bisogno del tuo aiuto. Prendi solo un asciugamano e mettimi fuori con attenzione. Volerò subito, te lo prometto.
Quindi se sto volando nel tuo spazio, spegni le luci e lascia accesa solo quella esterna con la porta aperta, uscirò in poco tempo.
Cordiali saluti, tuo innocuo pipistrello.
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XO (only if you say yes!)
mondo si gentile con me questa è la prima storia che scrivo e decido di pubblicare.
“Se non apri questa porta ti uccido” la voce ovattata ed annoiata di Ethan risuonava al di là del portone, Lea rise di gusto “Va bene, va bene, arrivo” disse prima di aprire la porta facendo entrare il ragazzo zuppo dalla testa ai piedi che la guardò con uno sguardo bellamente arrabbiato ed infastidito.
“Grazie eh” mormorò Ethan entrando in casa, sfilandosi prima le scarpe per poi togliersi il giacchetto, rimanendo solo in abiti comodi, fradici, l'aria calda gli accarezzò il volto, dandogli delle sfumature rosee sulle guance.
“Quando vuoi” scherzò Lea, correndo a prendere una felpa dall’armadio di suo fratello Jasper che appena la vide piombare nella sua stanza le urlò contro di bussare. “Tieni metti questa e dammi pure la giacca e la tua felpa, la metto ad asciugare in bagno sul termosifone riscaldato, almeno non devi uscire zuppo”
“Ma che gentile che sei” scherzò Ethan sfilandosi la felpa che assieme si portò su anche la maglia nera che indossava sotto facendolo rimanere a petto nudo, Lea arrossì osservando il fisico del capitano di basketball della sua scuola ed il suo fisico marmoreo, aveva tutti i muscoli al posto giusto e non troppo marcati, il giusto per renderlo disgustosamente attraente.
Lea sentì il cuore accelerare mentre lo osservava. Il vapore che si alzava dalla sua pelle umida creava un'aura quasi mistica attorno a lui. Non aveva mai notato quanto fosse definito il suo addome, quanto fossero forti le sue braccia.
“Non…non posso lasciare che il capitano si ammali” disse balbettando Lea, abbassando lo sguardo, cercando di nascondere il rossore che le ardeva sulle guance.
Ethan sorrise, divertito dalla reazione di Lea. "Non preoccuparti, non mi ammalerò. Sono fatto di ferro, io." Si avvicinò a lei, prendendo la felpa dalle sue mani prima di infilarla.
scosse la testa passandosi una mano tra i capelli rossastri ancora un po’ bagnati.
Ethan fece un passo avanti, stringendola in un abbraccio umido che la avvolse come una coperta calda. Lea si irrigidì, sentendo il suo corpo caldo contro il suo. Il profumo di Ethan, un mix di shampoo e colonia, la inebriava, il suo cuore batteva come un tamburo. Gli strinse le mani in vita, reciprocando l'abbraccio, "Mi sei mancato," mormorò, la voce tremante. Strofinò il viso nell'incavo del suo collo, assaporando il calore della sua pelle.
"Sono stato fuori solo cinque giorni per una partita, non sono mica andato in guerra," esclamò ridendo, ma il suo tono era più dolce del solito.
La sua risata, profonda e melodiosa, riempì il soggiorno, creando un'atmosfera intima e intensa.
Ma la magia fu interrotta dai passi pesanti di Jasper che risuonarono lungo il corridoio. Lea si staccò da Ethan, il suo viso arrossato. I suoi occhi cercarono quelli di Ethan, ma lui aveva già girato lo sguardo sorridendo non appena Jasper entrò nel suo campo visivo.
“Ethan! Amico, che partitona Domenica! quel canestro proprio sul finire del tempo!” esclamò scansando Lea che indietreggiò prese i vestiti bagnati di Ethan e si diresse verso il bagno, sentendosi come se le avessero strappato il cuore. Appoggiò gli abiti sul termosifone, guardando il vuoto per qualche secondo. Il cuore le batteva ancora all'impazzata.
Lea appoggiò la schiena al muro freddo, il respiro corto. Il rumore della pioggia che batteva contro la finestra la travolse, come i suoi pensieri confusi. Si strinse nel suo maglione, cercando un po' di calore. Ricordava la loro prima grande litigata, quando erano ancora alle superiori. Ethan si era rotto il crociato durante una partita di basket e si era presentato alla sua festa di compleanno la sera stessa con le stampelle. Lei lo aveva apprezzato moltissimo, ma si era sentita in colpa, quasi soffocata dal suo altruismo.
Ora, anni dopo, si ritrovava di nuovo a provare le stesse emozioni. Ethan la faceva impazzire, con la sua gentilezza, il suo sorriso contagioso. Ma era così lontano, così irraggiungibile. Si sentiva come una bambina che ammirava un supereroe, in grado solo di guardarlo da lontano.
Lea si voltò verso la porta, esitando un attimo. Sentiva la voce di Ethan mescolarsi a quella di suo fratello, creando una melodia familiare che la faceva sorridere e piangere allo stesso tempo. Con un profondo sospiro, si allontanò dalla porta, dirigendosi verso la sua camera.
Accese la lampada da scrivania, illuminando un piccolo angolo della stanza. Si mise a sfogliare i suoi appunti, cercando di concentrarsi sui concetti che aveva difficoltà a capire. Ma i suoi pensieri continuavano a vagare verso la presenza di Ethan nel soggiorno.
Infilò le cuffie e avviò la playlist condivisa, era un’accozzaglia di generi e di canzoni sconclusionate che però avevano un significato ben preciso. Le note familiari riempirono la stanza, riportandola indietro nel tempo. Ricordava quando avevano creato quella playlist, trascorrendo ore a cercare nuove canzoni, a condividerle e a commentare. Era stata una delle loro prime uscite da soli, dopo essersi conosciuti meglio.
Senza rendersi conto, si era addormentata sulla scrivania, la testa appoggiata ai libri. Al suo risveglio, vide Ethan disteso addormentato sul suo letto, il telefono in mano con un video sul basket ormai dimenticato. I raggi del sole non filtravano più dalla finestra. l’unica fonte di illuminazione era rimasta la sua lampada.
Lea si alzò stirandosi arrivando vicino la finestra vedendo le gocce di pioggia battere incessantemente contro il vetro, il vento che spostava i rami del vecchio pino che era nel giardinetto condominiale, il meteo era peggiorato rispetto a quando era arrivato Ethan qualche ora fa.
Lea guardò il suo letto occupato dalla figura familiare di Ethan, la luce soffusa illuminava il suo viso rilassato. Lea sorrise, ammirandolo. Sentiva il suo cuore batterle forte nel petto. Si mosse lentamente, cercando di non fare rumore. Uscì dalla stanza attenta a non disturbarlo, camminò verso il salotto dove Jasper era impegnato a guardare una qualche serie tv.
Percependo la sua presenza, suo fratello si mise seduto sul divano guardandola con un sopracciglio alzato.
“Perchè sembri un'anima in pena? Che è successo? Non vi ho sentiti parlare, non puoi dirmi che non prova la stessa cosa che provi tu”, disse Jasper, la voce tremante di un'emozione trattenuta a fatica.
Lea lo guardò storto come ogni volta che Jasper tirava fuori l'argomento Ethan Lee. Respirò profondamente e raggiunse il fratello sedendosi accanto a lui con il broncio sul volto.
“Ehy, parlaci, vedi che non te ne pentirai, parola di fratello ma sopratutto parola di scout!”, esclamò alzando il mignolo della sua mano, la sua voce più alta del solito, quasi strillata.
Lea sorrise lievemente 'non sei nemmeno mai stato uno scout', disse continuando a guardarlo male.
“Ascolta, conosci Ethan meglio di me, Dio, me lo hai presentato tu come il tuo migliore amico e già avevo i miei dubbi, lo vedevi a scuola come si comportava? I compiti li passava solo a te, le cheerleaders le ignorava tutte, al massimo ci parlava solo quando era costretto, suvvia Lea, non puoi dirmi che quel ragazzo non è innamorato di te! Stai soffrendo, Lea, e lui pure! Metti fine a tutto ciò e parlaci!” esclamò Jasper, schizzando in piedi, il volto contorto dalla frustrazione. Le mani le strinse a pugno, le nocche bianche.
"Jasper, non credo sia la scelta giusta, con quale coraggio posso dire ad Ethan che..."
"Dirmi cosa?" La interruppe proprio Ethan con ancora gli occhi lucidi e stiracchiando le braccia fino a sopra la sua testa, facendo alzare la felpa di Jasper e mostrando la parte inferiore dell'addome.
Lea arrossì violentemente, sentendo il calore salire alle guance fino alle radici dei capelli. I suoi occhi cercarono disperatamente un punto su cui fissarsi, ma ogni oggetto nella stanza sembrava brillare di una luce più intensa, sottolineando il suo imbarazzo.
Ethan rimase fermo, a metà del suo stiramento, lo sguardo fisso su Lea. La sua espressione era un misto di curiosità e di un'amichevole attesa. Sembrava quasi divertito dalla reazione della ragazza, ma allo stesso tempo ansioso di sapere cosa stesse cercando di dirgli.
Lea avrebbe voluto sprofondare nel pavimento. Ogni secondo che passava sembrava un'eternità, e la sua mente correva a mille all'ora cercando una via d'uscita da quella situazione imbarazzante. Il suo cuore batteva forte nel petto, quasi soffocandola.
"Ehm... niente, dimenticavo," balbettò infine, cercando di riprendere il controllo della situazione. Ma la sua voce tremante la tradì, e la sua faccia era ancora più rossa di prima.
Ethan la osservò per un attimo, un sorriso appena accennato sulle labbra. "Sicura? Sembravi sul punto di dirmi qualcosa di importante."
Lea abbassò lo sguardo, cercando di nascondere il suo imbarazzo. "No, davvero, niente di importante."
Ethan annuì, ma il suo sguardo indagatore la fece sentire a disagio. Aveva la netta sensazione che lui avesse capito che stava nascondendo qualcosa, e l'idea la terrorizzava.
"Eh no, non ci sto, ora basta, Ethan, Lea ti deve parlare, perciò parlate e Lea piantala di scappare!" Esclamò con la disperazione chiara nella sua voce Jasper, camminando dritto verso lo stesso corridoio da cui il primo era arrivato e chiudendosi la porta alle spalle, lasciando Ethan e Lea da soli in salotto con sottofondo solo la scadente serie che Jasper stava guardando.
"Ok, che diavolo sta succedendo?" Chiese Ethan avvicinandosi a Lea, peggiorando l'imbarazzo della ragazza. Lea sentì il calore salire alle guance e il cuore batterle come un tamburo.
"O la va o la spacca," mormorò, "Ethan io..." Cominciò, bloccandosi. Le parole sembravano intrappolate in una bolla di ovatta, impossibili da pronunciare. Rimase incantata dagli occhioni dolci di Ethan, che la fissavano con un'intensità che la faceva tremare. "Tu?" La incalzò dolcemente il ragazzo, sedendosi di fianco a lei.
"Ethan tu mi piaci," sbottò, la voce tremante. "Tanto," aggiunse prima di coprirsi il viso con le mani. Sentì Ethan muoversi di fianco a lei, pronta a vederlo alzarsi ed andare via. Lea strinse gli occhi, cercando di trattenere le lacrime che minacciavano di scendere.
Ethan le prese i polsi delicatamente, scoprendole la faccia. Lea lo lasciò fare ed incrociò il suo sguardo. Ethan aveva sul volto uno dei sorrisi più belli del globo, un sorriso che le scaldò il cuore. "Sono felice che i miei sentimenti siano reciprocati," spiegò, sorpreso ma anche sollevato. "Anche se pensavo fosse ovvio dalle superiori che provassi qualcosa per te."
Lea sorrise timidamente, cercando di abituarsi all'idea che tutto quello che aveva sempre sognato stava finalmente accadendo. In quel momento, il mondo intorno a loro svanì, ridotto a un vago rumore di fondo. C'era solo lei, lui e il battito accelerato dei loro cuori, un ritmo sincopato che sembrava pulsare in ogni vena. Con un gesto lento, Ethan si avvicinò a lei, gli occhi scintillanti di un'emozione che lei non aveva mai visto prima. "Posso baciarti?" domandò il ragazzo, la voce rauca e tremante, accarezzandole uno zigomo con la punta delle dita. Il tocco leggero lo fece rabbrividire piacevolmente e un brivido le percorse la schiena. "Sì," sussurrò lei, la voce appena udibile.
I loro respiri si mescolarono, caldi e umidi, creando una nuvola tra le loro labbra. Ethan si avvicinò ancora, fino a sentire il calore del suo respiro sul viso di Lea. I loro occhi si incontrarono, pieni di un'intensità che la lasciò senza fiato. Poi, le loro labbra si sfiorarono in un bacio leggero, come una carezza, un'esplorazione timida e dolce. Era un bacio che prometteva mondi, un bacio che diceva ‘ci sono io, e ci sarò sempre’.
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Buon compleanno Heeseung, from an Italian Engene!
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Un insetto capovolto si trascina a fatica fuori della mia finestra. L’osservo un po’, ma penso a me. Alla rabbia che sento, quella che mi fa urlare pazzo invasato, quando mi mancano di rispetto, pretendendo tutto senza dare niente. Una volta ho spaccato una sedia per questo. Un bambino pestifero di nome Dachi aveva preso a infastidire una compagna, tirandole grumetti di colla nei capelli. Ripreso più volte, il birbone aveva continuato le sue pratiche vessatorie, ghignando strafottente, come se nulla fosse. All’ennesimo reclamo della povera Carlotta, mia intoccabile protetta, mi alzo, bollendo di sangue demonio e, raggiunto il banco a balzi, sferro un tracotante calcione all’incolpevole sedia accanto a Dachi, disintegrandola completamente. “La prossima volta al posto della sedia ci sarà la tua testa!” urlo odiandomi fuori di me. Dachi mi fissa morto in volto, silenzio ovunque intorno, ne godo la pace per un istante, sentendomi a pezzi come la sedia, so d’aver esagerato, fa sempre male cavar fuori il lupo. A fine serata, mi siedo accanto a Dachi e dico: “Mi dispiace per quello che è successo. Perché fai sempre il monello e mi fai arrabbiare? Ciò che è successo è una cosa brutta, te ne rendi conto, vero?” “Sì… le sedie costano” “Ma no, non c’entra la sedia, quella si ricompra. Usare la violenza non è mai bello. Non è una soluzione, capisci? Credi mi diverta spaccare sedie? Non serve a niente e fa solo male. Ed io non ti farei mai del male, lo sai, vero?” annuisce “Mi prometti che d’ora in poi mi ascolterai e farai il bravo?” annuisce ancora, prima di lasciarsi andare a un ghigno birichino. Una causa persa, ma rido anch’io, carezzandogli i capelli. La sedia avrei dovuto incorniciarla a monito perenne, invece ahimè, l'ho buttata.
Guardo fuori della finestra: l’insetto arranca ancora a testa in giù, verso la cieca sopravvivenza. Non posso fare nulla per salvarlo, mi dico, non sono Dio e non mi piace quando l’uomo interferisce con la natura, anche se a fin di bene, giocando alla somma divinità. Applico il distacco e penso alle guerre, Russia, Ucraina, Palestina, non posso farci niente, non è affar mio. Torno ai fatti miei, ai miei lividi, al lupo e alla rabbia, alle catene e alle ferite autoinflitte, mi perdo nel dolore, dopo qualche minuto torno alla finestra: arranca ancora, sempre più stanco, resiste ancora. Niente, basta, apro la finestra e con la punta di una matita m’avvento a raddrizzarlo, ma mentre lo volto smette di muoversi. Lo fisso per un po’, aspettandomi qualcosa, un movimento, la vita. Niente, lui resta lì, morto. Getto la matita e piango di sconforto, inutile, mi son deciso troppo tardi... Mi volgo alla finestra. Non c’è più. Se lo sarà portato, funebre, il vento? O m’ha preso in giro per furba tanatosi?
Spero la seconda, sarebbe più facile perdonarmi.
#da quel giorno la mia dipendente n.1 non mi ha più guardato allo stesso modo#non ti facevo così#me lo dicono sempre quando arrivano a conoscermi
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Capelli arruffati, pieni di fango e di nodi.
Mani amputate, dita mozzate, protesi d'argento.
Stracci insudiciati, abiti inadeguati, divise dimesse.
Il TEMA DELLA VERGOGNA, nel mito e nelle fiabe, non viene quasi mai proclamato a gran voce, ma "fatto vivere", al lettore o a chi ascolta, attraverso un universo di simboli vorticanti, in un crescendo sempre più asfittico e insostenibile.
È a causa della Vergogna che alcuni di noi non rispondono alla Chiamata del Daimon, per rinchiudersi, a poco a poco, dentro la propria TORRE d'Isolamento.
NON PER TIMIDEZZA. E NEPPURE PER AUTOSVALUTAZIONE, ma per qualcosa di molto più profondo che risponde proprio alla Ferita della Vergogna.
Questo disagio può agire in due modi diametralmente diversi.
Costringendoci in questa sorta di autoesilio e impedendoci di fare tutti i "grandi passi" della nostra vita, oppure, CONTROFOBICAMENTE, spingendoci a confrontarci di continuo con situazioni che non ci favoriscono per niente, fuori dalla nostra portata.
Contesti del tutto incoerenti con il nostro Daimon che ci portano a fallire sistematicamente in modo clamoroso, aggiungendo così altra vergogna alla vergogna.
Impastoiati dentro l'archetipo del Brutto Anatroccolo, di Bridget Jones e di tutti coloro che, costantemente immersi in questo mal stare, vivono schiavi di un PROGRAMMA INCONSCIO che li porta a trovarsi quasi sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Dove ricevere giudizi sbagliati dalle persone sbagliate.
Alcuni di noi attraversano questa gogna da bambini, altri durante l'adolescenza.
Altri ancora attraverso l'automortificazione delle proprie scelte adulte.
Altri, infine, rispetto alla propria condizione, fisica o relazionale, della vecchiaia.
È IL FLUSSO SANGUIGNO, in genere, ad essere sospinto da questi maremoti psichici.
È il sangue che ci porta ad arrossire e impallidire tante di quelle volte da scatenare, nel tempo, seri problemi di rosacea.
È l'assenza di sangue che, ritiratosi dalla periferia del nostro corpo, barricatosi nella torre del cuore, può provocare geloni alle dita di mani e piedi e scatenare il Morbo di Raynaud.
Quando il sangue non scorre libero, può esserci un enorme blocco del ciclo mestruale, gravi ristagni ed edemi linfatici. Celluliti eterne anche in donne magrissime.
Vergogna su vergogna.
È il PUNGITOPO la pianta che, in casi come questi, può rappresentare una SVOLTA.
Il Pungitopo lavora sul "povero me" anche quando non abbiamo contatto alcuno con la nostra autocommiserazione. Non la avvertiamo, perché non stiamo neppure così male, all'interno del nostro habitat impeccabilmente studiato ad arte.
Ma non stiamo neppure bene.
Il Pungitopo ci pungola, ci strattona, ci consola e ci incita.
Il Pungitopo SA MUOVERCI IL SANGUE.
Ci aiuta a divenire più lucidi, come le sue foglie e le sue bacche.
Non ci porta a voler svettare a tutti i costi, a progettare chissà che cosa, a sognare l'impossibile.
Il suo carattere saturnino è molto più concreto.
Questo elisir inizia ad esprimere il suo effetto facendoci rendere conto, innanzitutto, che un cambiamento è necessario.
Il Pungitopo ci aiuta a capire che il senso perenne di Vergogna non è timidezza, ma qualcosa di molto più invalidante.
Che arriva quando, sulla nostra vita, IL SENSO DI AUTORITÀ è posto costantemente FUORI DA NOI.
Ci fa capire che, da troppo tempo, stiamo osservando il mondo da una prospettiva esterna: come potrebbero vederla gli altri, cosa potrebbero dire gli altri, chissà come mi giudicherebbero.
Gli Altri, gli altri, gli altri.
Un senso di separazione potentissimo. Gli Altri.
E poi, laggiù, in fondo in fondo, noi.
"Dovresti solo vergognarti". "Ma non ti vergogni?".
Un Sortilegio Nero, ancora più potente quando non ci è mai stato espresso così chiaramente, ma solo lasciato intendere.
Uccidere psichicamente chi ci ha ordinato di vergognarci prima di sciogliere il nodo rappresenta una delle tappe più feroci del Viaggio dell'Eroe.
Ma per fortuna e per grazia degli Dei, abbiamo il Pungitopo!
Esiste, uno Spirito lo incarna!
È lì per proteggere le nostre scorte interiori, i nostri granai di speranze, i nostri sogni di libertà.
Di rivincita.
A volte, SIMBOLICAMENTE, quando la vergogna si è radicata troppo in profondità, dobbiamo prepararci a morire anche noi, insieme a lei e insieme a chi ci ha instillato questo complesso.
Fosse anche tutto il mondo.
È quello che farà CATTARINETTA, la ragazza che verrà divorata da sua zia, la Strega Malvagia, PER POTER PAGARE PEGNO per aver fatto qualcosa di estremamente sporco e irrimediabile.
Questa stranissima Non-Eroina delle Fiabe ci insegna il potere degli Atti Simbolici DE-PROGRAMMANTI, gli unici così forti da sturare e disostruire finalmente i nostri circuiti emozionali.
In modo forte, grezzo. Inelegante, forse.
Ma vero.
Proprio come il Pungitopo. O Ruscus, da "rusticus", pianta delle campagne.
Di tutti quei boschi umili, mica delle Fate o attraversati da cavalieri sfavillanti.
Boschi Qualunque.
Ma, proprio in quanto tali, Straordinari.
Buona Luna Piena di Fine Novembre,
cari Amici ErboNarranti❤
Che ci porti a mostrarci senza più timori
perché consapevoli
da prima, da adesso e da poi,
di essere tutti
gira che ti rigira
dentro la stessa Fiaba,
dentro la stessa Pianta
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Il coraggio è DONNA! Vedete questa ragazza? Questa foto ha fatto letteralmente il giro del mondo! Sta cambiando il mondo!
Quella nella foto è una ragazza iraniana. Una studentessa di Teheran. La polizia l’aveva fermata perché non indossava il velo obbligatorio all’università. Perché sì nel suo paese le donne vivono in una prigione a cielo aperto: viene detto alle donne cosa fare, come vestirsi, cosa indossare, cosa pensare, chi possono amare. Le donne non sono libere!
E allora questa ragazza ha deciso di fare una cosa, una cosa semplicemente e pericolosissima: ha voluto ribellarsi. Ha voluto dire NO! Si è tolta il velo, si è tolta i vestiti, ha preso il suo corpo e l’ha sbattuto in faccia al regime: camminando a testa alta di fronte alle colleghe, al regime, al mondo intero. Non si è lasciata intimidire. Non si è lasciata intimorire. Non ha voluto piegarsi, in un paese dove una ciocca di capelli fuori posto può costarti la vita. Coloro che fanno la storia, coloro che hanno fatto la storia sono sempre quelli che hanno trovato dentro di loro il coraggio di dire di no!
E sapete cosa è successo dopo? L’hanno trascinata via a forza, e da allora nessuno l’ha più vista. Sparita! La versione ufficiale è che la giovane «soffrisse di problemi mentali». «Isterica», «pazza» sono le parole più usate per mettere a tacere una donna. Per silenziare la voce di una donna quando dice cose scomode. Quando fa cose scomode.
Non sappiamo chi sia questa ragazza, non conosciamo il suo nome. Io però oggi vorrei soltanto dire una cosa: questa ragazza merita un RISPETTO enorme! Ci si può solo inchinare di fronte a tanta forza e dignità. E sì la sua storia merita di essere ricordata! In un mondo che ha fatto e farà di tutto per metterla a tacere, noi possiamo fare una cosa: diamole voce!
Guendalina Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X
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A volte penso di essere strana, non sono attratta dalle cose che interessano gli altri, noto sempre particolari che le altre persone ignorano, ho delle fisse, ostinatamente cerco di non farmi ingabbiare dai pregiudizi, mi rifiuto di giudicare gli altri solo perché sono diversi da me. Mi ritrovo spesso a pensare di essere nel posto sbagliato, nel momento sbagliato.
Sono ipersensibile, mi fa male essere etichettata per una scelta, per un gusto, per una assenza; non mi interessano le apparenze, di nessun tipo, amo la sostanza.
Delle persone preferisco guardare il cuore, non il taglio dei capelli, non il vestito alla moda, non l'anello al dito.
Non penso mai di essere io quella "giusta", anzi tendo sempre a vedermi come un'isola, lontana dalle terre conosciute e sicure, persa in mezzo al mare. Un mare di incertezze, di pensieri, di domande per ora senza risposte certe.
Ho come l'impressione, in alcuni momenti, di risultare incomprensibile ma con gli anni ho capito che non bisogna ostinarsi, ci si ritrova alla fine, si riconosce chi è simile, si seleziona in maniera naturale.
Spesso mi sento al margine, giusto un metro fuori dal confine della "normalità" , mi sento un po' sola alcune sere, mi sento infinitamente piccola.
Piccolissima sì ma brillante, in mezzo ad un enorme nulla.
Laura Messina (2021)
🍀
#smokingago
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" È fondamentale interrogarci su quanto la paura stia deformando la nostra vita e le nostre scelte, e se quel che temiamo di perdere valga veramente la pena che proviamo nel chinare la testa, nel rinunciare a seguire quello che crediamo giusto o che desideriamo. Il personaggio principale di Storia di un impiegato, l’album di Fabrizio De André dedicato ai movimenti giovanili che dal ’68 alla fine degli anni settanta hanno scosso la vita politica italiana, è un uomo che si pone queste domande in ritardo. L’album è uscito [il 2 ottobre] 1973, ed è stato il primo in cui De André abbia dichiarato il proprio orientamento politico; prima di allora le sue canzoni erano uno splendido riflesso del cantautorato francese, elegante e popolare allo stesso tempo. Adesso l’autore genovese affronta direttamente il tema della rivoluzione giovanile, della lotta al sistema: il protagonista dell’album è un uomo ordinario, che non si trova a vivere la sua vita dove vuole che sia, ma dove la pista della proprietà e dei ruoli l’ha portato. È la paura ad aver costruito le sue scelte, e nulla di quello che vive è realmente frutto di una sua decisione. È un uomo realmente così distante dalle nostre esistenze? In quale rigagnolo galleggia la realtà di questo trentenne e fin dove tiene nascosta la faccia, a rischio d’annegare?
Da quanti anni il suo e il nostro mondo s’è ristretto nel bugigattolo dell’ufficio, tra la scrivania ingombra e il muro dall’intonaco ingrigito? Con quanta cura, la mattina, scivola fuori dal letto per non svegliare la compagna? (E una sveglia non gli serve da anni: ormai è la ripetizione di ogni cosa a farlo alzare puntuale.) Quante volte ha fissato il suo volto allo specchio, controllato la rasatura, indossato la camicia stirata la sera precedente, la solita giacca, il solito nodo alla cravatta? Potremmo essere noi. Fuori il Maggio francese non vuole smettere di riscaldare l’aria: da tempo le donne hanno strani monili tra i capelli, sorridono con tranquillità e guardano negli occhi gli uomini. L’impiegato di De André le osserva sulla metropolitana, tiene le mani raccolte tra le cosce, le spalle curve, conta gli anni che lo distanziano da quel mondo: e non ne trova molti, ma ne trova abbastanza. «Eppure i miei trent’anni sono pochi più dei loro», pensa, e questo non gli dà alcun sollievo. L’ufficio è ancora al suo posto, nello stesso quartiere di sempre, allo stesso piano del medesimo edificio. Sarà così anche negli anni successivi, per ogni singolo giorno della sua giovinezza, inoltrandosi nella maturità, fino a costeggiare la vecchiaia: allora la gita sarà finita ed ecco il momento di scendere al molo. Avrà una buona, sicura vecchiaia. È questo che si dice salendo le scale e incrociando gli sguardi dei colleghi. Qualcosa da condividere con i figli, quando ne vorrà avere. Ha ottenuto un buon posto di lavoro. L’ha ottenuto molto presto. Di che dovrebbe lamentarsi? Mentre regola l’altezza della sedia e dispone le pratiche sulla scrivania, mentre comincia a «contare i denti ai francobolli», sente cantare in strada, oltre la finestra dell’ufficio. Un corteo, colori, slogan e intorno la cinta scura della polizia, gli scudi e i manganelli sollevati, le spalle affiancate e i fumogeni. Guarda i manifestanti e pensa che soprattutto le donne, coraggiose e indipendenti, sono bellissime. Prova a immaginarsi in mezzo a loro, e si sente ridicolo: in piazza dietro la muraglia di caschi, schiacciato dai corpi di chi fugge alle cariche. Sarebbe letteralmente «fuori luogo». Nessuno tra quei ragazzi lo conosce e poi, come dovrebbe vestirsi? In mezzo al corteo sembrerebbe un infiltrato della Digos. Ovviamente verrebbe licenziato: come fare a lasciare il posto di lavoro per un motivo simile? E come spiegarsi, più tardi, con la compagna? "
Salvatore La Porta, Less is more. Sull’arte di non avere niente, Il Saggiatore (collana La Cultura, n° 1134), 2018¹. [Libro elettronico]
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immaginatemi in un posto molto prestigioso a scrivere la tesi mentre, pur sembrando da fuori assai professionale, sto ascoltando capelli d’argento
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Io e te mentre il mondo sta morendo
1890
contea di Marvalia, Inghilterra nella camera del principe Wilder.
"Mio signore dovrei dire forse così?" se la rideva il lancillotto, prendendosi gioco della pompositá del titolo di Wilder.
"Sono il tuo signore in effetti" rispose Wilder mentre giocava con i suoi capelli, i due erano stesi a letto intenti a coccolarsi.
Si amavano e vedersi in segreto sapendo di star andando contro l'etichetta e tutto ciò che odiavano, li appagava e faceva sentire vivi.
"Ma tu stai per sposare la principessa Kassandra quindi noi..." lo fermò l'altro
"Beh non é anche il matrimonio una costruzione sociale? io non potrei essere più moralmente sposato a te mio servitore".
Lancillotto si sentiva onorato da quelle parole, i suoi occhi brillavano nel sentirle pronunciare.
"Io non voglio perderti Wilder, sei la cosa più bella che mi sia mai capitata" il principe aveva la pelle d'oca.
Wilder iniziò a baciarlo per poi scendere sul collo travolto dalla passione, il compagno si sbottonava la camicia quando ad un tratto iniziò a sentirsi osservato.
"Wilder fermati! c'è qualcuno là fuori"
"Potrebbero scoprirci, elettrizzante" continuava il principe non fermando i baci,
"Ci uccideranno" si allarmó a gran voce.
Dietro la porta appena socchiusa Kassandra, quel ragazzo infatti doveva morire.
Oggi
"Dominick, Dominickk" ripeteva con seccatura l'incantatore a tavola,
"Scusami ero assorto nei miei pensieri" disse con preoccupazione.
L'uomo abbassò la testa infastidito
"Te ne prego non scusarti mai piú di niente"
"Oh giusto, dimentico che é una cosa che ti da fastidio".
La figura continuava
"Sei un ragazzo consapevole non é cosí?"
"Si é cosí"
"Questo é tutto ciò di cui ho bisogno, che tu mi dica cosa vuoi"
"Io..io sono enormemente dispiaciuto di aver dubitato di te e della tua integrità",
"Non c'é problema sono io stesso a volte a dubitare della mia, ma promettimi che d'ora in poi ti fiderai di me".
Il ragazzo lo seguiva con attenzione e si preoccupó di rispondergli immediatamente
"Lo prometto"
"Sappi che se non sarà cosí allora mi avrai deluso veramente".
Dominick non l'avrebbe fatto, avrebbe preferito morire lá fuori piuttosto.
Anche se si chiedeva perché dovesse dubitare della sua integrità, ecco si sentiva già colpevole, aveva quasi paura che i suoi pensieri gli si potessero leggere in faccia o peggio ancora che lui riuscisse proprio a leggerli.
Aveva ancora le fitte alla pancia, non riusciva a spiegarsi come facesse ad avere provviste di cibo, per di più solo di carne a quanto pare e per come lo faceva sentire doveva essere avariata.
Insomma non usciva di casa, quindi dovevano portargliela ma sembrava che nessuno arrivasse mai alla sua porta.
Sembrava isolato dal mondo, non c'era una televisione o qualcosa di vagamente dei nostri tempi.
"Dominick domani é giovedí e come ogni giovedì daró una soirée, volevo che lo sapessi"
"Soi cosa?" chiese perplesso
"Credo di amarti"
il ragazzo arrosí mentre sentiva un formicolio dentro lo stomaco, questa volta era piacevole.
"Io..non so cosa significhi ecco.."
"Vedi una festa elegante notturna, ricordi quegli aristocratici di cui ti parlavo.."
"Certo che ricordo"
dovevano essere loro ad omaggiargli alimenti.
Una fitta fortissima gli prese lo stomaco, si portò le mani dove gli faceva male e nel mentre fece uno scatto brusco e si rovesciò il calice di vino addosso sporcandosi la camicia.
"Che sciocco, non so proprio a cosa stessi pensando" lo sapeva ma era ancora troppo educato per lamentarsi del cibo,
"Non preoccuparti sei bello anche ricoperto di vino" fu pronto a rispondere.
"Ti do una mano" intervenne poi alzandosi e raggiungendo il suo posto,
"Non ce n'è bisogno, vado a cambiarla" e si diresse verso quella che ormai era la sua stanza.
L'incantatore lo seguí e rimase alla porta mentre il ragazzo si adoperò a togliere la camicia, nel mentre guardava l'uomo sperando che seguisse i movimenti con lo sguardo, quasi come se fosse lui a farlo.
Lo faceva lentamente così che lui potesse vedere, sentiva che per la prima volta aveva del potere su di lui.
L'incantatore era frastornato, il corpo di quel ragazzo era statuario ma al contempo naturale tanto da sembrare disegnato.
Sugli addominali ancora del vino, aveva poi delle spalle grandi e le braccia abbastanza muscolose.
L'incantatore si sentiva stregato, era un corpo cosí virile ma al contempo cosí dolce che non sembrava terreno.
Si mosse verso di lui con un asciugamano che aveva recuperato dal bagno spostandosi e finí di pulirlo, per poi baciarlo scendendo sul collo ma qualcosa li fermò.
"Hai sentito?" disse Dominick che aveva percepito qualcosa muoversi,
"Non c'é nulla smettila" rispose scocciato.
Dominick era sicuro di aver sentito qualcosa ma non voleva preoccuparsene.
"Ci pensi che siamo solo io e te mentre il mondo sta morendo?"
"Sará meglio renderlo un tempo prezioso".
Dominick andó a sciaquarsi in bagno, l'incantatore si trattenne dal seguirlo.
Il ragazzo si fece una doccia e poco dopo tornó in camera a cambiarsi, quando trovò una donna.
"Ohh! mi scusi ma lei chi é?" le chiese spaventato,
"Sono la governante"
doveva essere lei a occuparsi del cibo.
"Ragazzo mio tu sei in pericolo"
"Da cosa?"
"Da quell'uomo non devi credere a niente di quel che ti dice"
"Ma io gliel'ho promesso e mi fido di lui, non mi nasconde niente!".
La donna aveva da dissentire e così incalzó
"Perché allora non rimani con lui tutta la notte domani?"
"Ma domani ha una serata con i suoi amici"
"Sei sicuro siano solo suoi amici? Se é così non avrà niente da nasconderti"
"Lo credo anch'io".
La figura femminile si spazientí
"Tu rimani a guardare, quell'uomo ti ucciderà!" e non appena il ragazzo abbassò lo sguardo e lo riportó sú questa non c'era già più.
Il ragazzo venne chiamato a finire di cenare con l'uomo, gli avrebbe parlato della soirée.
"Domani sera voglio esserci anch'io" pretese
"Piú passa il tempo e più mi piaci",
"Per fidarmi di te devo sapere cosa succede"
"Ma questo implica che già non ti fidi di me".
Il ragazzo aveva paura di mostrarsi così fermo, ma sapeva che era la cosa giusta da fare con lui.
"Non importa lo capisco e mi hai già dimostrato tanto così, faremo come vuoi e ti prego non ringraziarmi!"
"Ah comunque ho trovato la governante in camera.."
"Uccidila"
al ragazzo prese un colpo al cuore,
"Come hai detto?"
"Ho detto uccidila" non voleva spiegare di più ma sapeva che avrebbe dovuto farlo.
"Io non capisco"
"Dominick...non c'è nessuna governante"
e al ragazzo si geló il sangue nelle vene,
"Non c'è nessuno che vive con me ricordi?
Quindi se c'è una sconosciuta in questa casa, beh uccidila!"
Come poteva parlare così?
Cos'era vero e cos'era falso? A chi doveva credere? Forse lo aveva drogato ed era per questo che stava sempre male dopo aver mangiato, doveva avere le allucinazioni.
Dominick si era appena lasciato andare, ma stava iniziando a credere che quell'uomo potesse ucciderlo veramente.
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Cosa ho davanti, non riesco più a parlare
Dimmi cosa ti piace, non riesco a capire, dove vorresti andare
Vuoi andare a dormire
Quanti capelli che hai, non si riesce a contare
Sposta la bottiglia e lasciami guardare
Se di tanti capelli, ci si può fidare
Conosco un posto nel mio cuore
Dove tira sempre il vento
Per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento
Non c'è niente da capire, basta sedersi ed ascoltare
Perché ho scritto una canzone per ogni pentimento
E debbo stare attento a non cadere nel vino
O finir dentro ai tuoi occhi, se mi vieni più vicino
La notte ha il suo profumo e puoi cascarci dentro
Che non ti vede nessuno
Ma per uno come me, poveretto, che voleva prenderti per mano
E cascare dentro un letto
Che pena che nostalgia
Non guardarti negli occhi e dirti un'altra bugia
Almeno non ti avessi incontrato
Io che qui sto morendo e tu che mangi il gelato
Tu corri dietro al vento e sembri una farfalla
E con quanto sentimento ti blocchi e guardi la mia spalla
Se hai paura a andar lontano, puoi volarmi nella mano
Ma so già cosa pensi, tu vorresti partire
Come se andare lontano fosse uguale a morire
E non c'è niente di strano ma non posso venire
Così come una farfalla ti sei alzata per scappare
Ma ricorda che a quel muro ti avrei potuta inchiodare
Se non fossi uscito fuori per provare anch'io a volare
E la notte cominciava a gelare la mia pelle
Una notte madre che cercava di contare le sue stelle
Io li sotto ero uno sputo e ho detto "Olé" sono perduto
La notte sta morendo
Ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo
Ma per uno come me l'ho già detto
Che voleva prenderti per mano e volare sopra un tetto
Lontano si ferma un treno
Ma che bella mattina, il cielo è sereno
Buonanotte, anima mia
Adesso spengo la luce e così sia
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Trovate qualcuno che vi faccia venire voglia di cucinare anche se odiate farlo, che vi faccia ritirare fuori dall'armadio quel vestito che vi metteva in imbarazzo soltanto per la felicità che proverete nel sentirvi dire "sei bellissima". Trovate qualcuno che vi faccia passare la voglia di dormire se non abbracciati, che vi faccia rivalutare tutto. Dai progetti, alle convinzioni più fondate, alle aspettative. Che vi faccia chiedere perché mai c'è voluto così tanto. Che in pochissimo tempo vi faccia ricredere sull'amore, sui baci, sul sesso, sulle parole, sugli occhi e sulle mani. Che vi faccia venire voglia di abbattere quella muraglia che vi siete costruite intorno. Trovate qualcuno con cui sentirvi belle anche struccate, stanche, tristi. Qualcuno che vi metta al primo posto. Che vi faccia sentire giuste e che vi convinca che il vostro modo di amare non é sbagliato, e che anzi é esattamente quello che cercava. Qualcuno che non perda occasione per toccarvi il sedere ad ogni scalinata e che si inventi la più sciocca delle scuse per spostarvi i capelli dal viso. Trovate qualcuno di cui avete fame, una fame insaziabile, e che abbia la stessa fame di voi. Trovate degli occhi in cui perdervi come quando guardate il mare. Qualcuno che vi vuole felici, che non fa leva sui vostri punti deboli, che non usa le crepe della vostra anima per intensificare il dolore bensì per alleviarlo. Trovate qualcuno disposto a difendere la vostra dignità, la vostra persona; e non perché voi non siate in grado di farlo ma perché non c'è niente di più bello che sapere che qualcuno ha sempre una buona parola per noi. Qualcuno che vi faccia dimenticare il mondo con in abbraccio. Qualcuno che vi faccia avere meno paura di cadere perché, dovesse succedere, vi aiuterebbe a rialzarvi. Trovate qualcuno che vi faccia ridere fino ad avere male alle guance e che vi faccia venire, perché quello è importante, dio se lo é. Trovate qualcuno da amare, ma da amare "da vivere", non da morire. Che d'amore non si dovrebbe mai morire.
Altrimenti state sole, perché non val la pena.
Giugno 2019
Isabella,
L'Incazzata Sociale.
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