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Silver Housing in Italia: un nuovo modello abitativo per rispondere all'invecchiamento della popolazione
Innovazione, servizi e inclusione per una longevità in buona salute
Innovazione, servizi e inclusione per una longevità in buona salute Il silver housing: un’opportunità per il futuro del welfare abitativo In un’Italia che vede crescere il tasso di invecchiamento, con gli over 65 che rappresentano il 24% della popolazione nel 2024, il silver housing innovativo emerge come una soluzione abitativa capace di coniugare indipendenza, assistenza e socialità. Questo…
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Ettore Sottsass
Carlton, 1981
Garage Bentivoglio
La luce artificiale con la sua pervasiva diffusione nelle abitazioni rappresenta forse uno dei cambiamenti sociali più dirompenti. Se la suddivisone spaziale degli ambienti domestici non ha subito considerevoli variazioni dall’epoca romana, basti confrontare la pianta di una domus repubblicana con un qualsiasi appartamento moderno, la comparsa della luce artificiale, fissa e costante, ha sicuramente cambiato la percezione che abbiamo degli spazi e degli oggetti che quotidianamente ci circondano. L’arte è poi il campo in cui le sperimentazioni tecnologiche hanno influito maggiormente sul nostro sguardo, consegnandoci statue e quadri illuminati in modo perfetto e omogeneo. Opere che per secoli avevano conosciuto l’ombra, finiscono così per trovarsi all’interno delle bianche sale museali, senza più la possibilità di mutare insieme al percorso del sole.Le stanze di Palazzo Bentivoglio, spesso illuminate durante la giornata dalla sola luce che entra dalle finestre sul giardino, permettono ancora di guardare opere e arredi immersi nella penombra, di far disegnare sui muri il vago contorno delle sagome proiettate. Sembra quasi che qui Prometeo debba ancora rubare il fuoco agli dei per consegnarlo agli uomini.L’ombra è all’origine della pittura, come racconta Plinio il Vecchio: Calliroe traccia sul muro il profilo del suo amato in procinto di partire, grazie all’ombra ottenuta da una lampada. A questa storia si può poi affiancare uno dei testi cardine della filosofia occidentale, ovvero il mito della caverna, con tutte le implicazioni ontologiche che da quel momento l’ombra si porta dietro.La Carlton di Ettore Sottsass è uno degli oggetti di design più rappresentativi del XX secolo e, come tutti i mobili di Memphis, ha la caratteristica di essere egoica, di convogliare verso di sé tutti gli sguardi e non volere altro accanto, “come i monumenti nelle piazze”.Poggiante su una base in Bacterio, l’inconfondibile pattern disegnato dallo stesso Sottsass, la libreria si staglia sul muro con la sua silhouette totemica e attesta la prevalenza della forma sulla funzione, aprendo la strada ad innumerevoli librerie che hanno fatto del dato estetico la componente fondamentale, come la Bookworm (1994) di Ron Arad per Kartell.Così, grazie a un semplice gioco di luci, una miniatura da collezione della Carlton si proietta sul muro a dimensione umana, portandoci a fissare l’ombra, a farcela sembrare per un attimo reale, come succedeva ai prigionieri nella mitica caverna di Platone.
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Carlo Colombo Architect
testi di Francesca B.Filippi
Mondadori Electa, Milano 2012, 199 pagine, 24 x 31 cm, ISBN 9788837087449
euro 40,00
email if you want to buy [email protected]
Colombo è oggi il volto emergente del design made in Italy. Ha realizzato centinaia di progetti per i brand principali e la monografia ripercorre la sua ricerca attraverso progetti selezionati suddivisi in sezioni: Design (con oltre 60 progetti), Interiors (con 12 progetti) e Architettura (con 6 progetti). Carlo Colombo si esprime con uno stile fatto di forme pure, con una preferenza dichiarata per materiali semplici ma anche sempre nuovi e all'avanguardia per le soluzioni tecnologiche. Progetta con coerenza abitazioni, allestimenti, esposizioni, show room. Tutto nel suo modo personale di fare design, improntato al rigore e alla qualità del dettaglio. Il volume mostra tutto il suo talento, riconosciuto anche nelle prefazioni di Giulio Cappellini e Gilda Bojardi.
08/05/23
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Domotica per la disabilità : un passo verso una vita autonoma e sicura
La domotica sta cambiando il modo in cui gli anziani e le persone con disabilità vivono nelle loro case, offrendo loro l’opportunità di mantenere l’indipendenza, la sicurezza e la comodità senza dover necessariamente trasferirsi in strutture sanitarie. Grazie all’evoluzione della tecnologia, è oggi possibile implementare sistemi domotici che non solo migliorano la qualità della vita quotidiana, ma permettono anche il monitoraggio della salute e la gestione delle emergenze.
Il concetto di domotica per anziani e disabili si basa sull’integrazione di soluzioni tecnologiche avanzate che assistono nella vita quotidiana, fornendo una serie di servizi che spaziano dalla sicurezza, alla gestione degli elettrodomestici, fino al monitoraggio medico a distanza. Questa tecnologia, originariamente sviluppata per automatizzare le abitazioni, viene ora adattata per rispondere alle esigenze specifiche di chi affronta difficoltà motorie o di salute legate all’età.
Due approcci alla domotica per anziani e disabili
Nell’ambito della domotica, esistono due principali tipologie di sistemi che vengono utilizzati per assistere gli anziani e le persone con disabilità: i sistemi sanitari integrati e le reti sanitarie private. I sistemi sanitari integrati utilizzano sensori e microprocessori integrati in elettrodomestici, mobili e indumenti per raccogliere e analizzare dati sulla salute degli utenti. Questi dati possono essere utilizzati per diagnosticare malattie o identificare potenziali rischi, consentendo un intervento rapido. Le reti sanitarie private, d’altra parte, si concentrano sulla raccolta e l’archiviazione dei dati sanitari mediante dispositivi portatili e la loro trasmissione tramite tecnologie wireless a un database sanitario domestico.
Entrambi i tipi di sistemi domotici si rivelano particolarmente utili nell’ottica dell’invecchiamento della popolazione, in quanto offrono una soluzione pratica e sostenibile per mantenere l’indipendenza delle persone anziane, riducendo al contempo la necessità di trasferirsi in strutture assistenziali. La possibilità di monitorare la salute a distanza e di ricevere aiuto immediato in caso di emergenza rappresenta un grande vantaggio per coloro che vogliono vivere in sicurezza nel proprio ambiente domestico.
Implementazione della telemedicina nella domotica
La telemedicina è un altro elemento fondamentale nel panorama della domotica per anziani e disabili. Essa consente di fornire assistenza sanitaria a distanza, promuovendo la diagnosi e il trattamento a casa. Grazie ai dispositivi di telemonitoraggio, come sensori di pressione sanguigna o monitor glicemici, gli operatori sanitari possono monitorare i parametri vitali dei pazienti in tempo reale, intervenendo in caso di anomalie.
Per le persone con disabilità o limitazioni funzionali, la telemedicina rappresenta un’opzione preziosa per gestire la loro salute senza la necessità di recarsi in ospedale o dal medico. L’integrazione di questi dispositivi con i sistemi domotici permette inoltre ai familiari di tenere sotto controllo lo stato di salute dei propri cari da remoto, offrendo un ulteriore livello di sicurezza e tranquillità.
Soluzioni domotiche per la sicurezza e la gestione delle emergenze
Uno degli aspetti più importanti della domotica per anziani e disabili riguarda la sicurezza domestica e la gestione delle emergenze. I sistemi di sicurezza intelligenti possono includere sensori di movimento, telecamere di sorveglianza, serrature automatiche e sistemi di controllo remoto delle porte e delle finestre. Queste tecnologie offrono agli utenti la possibilità di mantenere la propria casa sicura, riducendo i rischi legati a intrusioni o incidenti domestici.
In caso di emergenza, i sistemi domotici possono inviare avvisi automatici a familiari o operatori sanitari, garantendo un intervento tempestivo. Ad esempio, un semplice dispositivo indossabile, come un braccialetto o un ciondolo, può essere utilizzato per attivare una richiesta di soccorso, permettendo alle persone con difficoltà motorie di chiedere aiuto senza dover raggiungere un telefono o un altro dispositivo.
L’importanza dei sistemi di promemoria nella domotica
Un altro importante beneficio offerto dalla domotica per anziani e disabili è rappresentato dai sistemi di promemoria. Questi sistemi possono ricordare agli utenti di assumere i farmaci, di seguire le terapie o di svolgere attività quotidiane come spegnere le luci o chiudere le porte. I promemoria possono essere personalizzati in base alle esigenze dell’utente e possono essere attivati automaticamente in determinati momenti della giornata o in base a specifici comportamenti.
Le sfide della domotica per anziani e disabili
Nonostante i numerosi vantaggi offerti dalla domotica, ci sono alcune sfide che devono essere affrontate per garantire un’efficace implementazione di queste tecnologie. Una delle principali preoccupazioni riguarda la facilità d’uso dei sistemi, soprattutto per gli anziani che possono avere difficoltà a utilizzare dispositivi tecnologici avanzati. È essenziale che i sistemi domotici siano progettati per essere intuitivi e accessibili, affinché possano essere utilizzati senza problemi anche dalle persone con limitazioni cognitive o motorie.
Inoltre, i costi di implementazione della domotica possono rappresentare un ostacolo per molte famiglie. Sebbene esistano alcune forme di supporto economico in alcuni paesi, in molti casi i costi iniziali dei sistemi e dei dispositivi possono essere elevati, limitando l’accesso a queste tecnologie per chi ne avrebbe maggiormente bisogno.
Conclusioni
La domotica rappresenta una soluzione innovativa e sempre più diffusa per migliorare la qualità della vita degli anziani e delle persone con disabilità. Grazie a un’ampia gamma di dispositivi e sistemi, è possibile garantire maggiore sicurezza, autonomia e comfort, permettendo agli utenti di vivere in modo più indipendente nelle proprie case. Tuttavia, per massimizzare i benefici della domotica, è fondamentale continuare a sviluppare soluzioni personalizzate e accessibili, tenendo conto delle esigenze individuali e delle barriere economiche che possono limitare l’adozione di queste tecnologie.
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Team Voltron Heroes
Capitolo 4. Lotor
Mi dispiace, questo capitolo ci ha messo troppo...
Atlantide, anno 2134.
Atlantide sorgeva imponente e splendida come sempre, luminosa tra i bui e profondi abissi. Il castello sorgeva in mezzo alle tecnologiche abitazioni come un grande cristallo marino brillante, l’orgoglio più grande degli atlantidei. Il re Bandor, salito al trono dopo la prematura morte dei genitori, nuotava aggraziatamente per i corridoi al fianco della sua amata sorella, le guardie che li circondavano da tutti i lati.
“Quindi qualcuno ha attaccato Gotham e ucciso Acquaman…”: disse Romelle, giocando con il lembo del vestito attillato e elegante ma comunque comodo per nuotare, rimuginando sulla notizia di quello che era successo poche ore prima:” E vuoi davvero fidarti di lui? È uno sconosciuto, non sappiamo né il volto, né il nome.”
“E’ l’unico sopravvissuto, abbiamo bisogno di una protezione in qualche modo”: spiegò impulsivamente Bandor che, nonostante avesse dieci anni meno di lei, era il legittimo erede al trono.
“E se mentisse? Come puoi fidarti di lui?”: lei continuò, senza guardarlo negli occhi. La tragica e angosciante notizia di Gotham e di tutti i supereroi aveva distrutto tutto il mondo, Atlantide in particolare. Erano sempre stati diffidenti con il mondo in superficie, per cui erano terrorizzati che senza un eroe come Acquaman gli umani avrebbero continuato la loro guerra abbandonata da tempo. Non che Bandor avesse paura di non poterli combattere, anzi, lui voleva evitare i combattimenti a tutti i costi, e per farlo, avevano bisogno di una protezione comune.
“Mi fido, è così che si instaura un rapporto”: rispose seccamente:” E poi il nostro migliore combattente, anche se ha sposato una terrestre, è vecchio”
“Che mi dici di suo figlio? Lance è pronto!”: Romelle insistette, fermandosi in mezzo al corridoio e alzando il tono della voce.
“Lance? Il tipo che ti ha messo in pericolo tante volte quanti i pesci nei mari? No, non ci penso proprio!”: scosse la testa violentemente.
“Fidati di me! Lance è cambiato, è cresciuto!”: continuò, agitando le braccia:” Mi dispiace fratello mio, ma mi fido più di Lance che di uno sconosciuto che dice di essere l’unico sopravvissuto all’attacco!”
“Lo so… ti capisco, sorella mia…”: l’espressione di Bandor si addolcì quando lui le mise una mano sulla spalla:” Apprezzo che ti preoccupi per me e Atlantide, ma so quello che faccio…”
Lei annuì, lasciandosi sfuggire delle lacrime salate che si mischiarono con l’acqua marina. Il misterioso messaggero e salvatore, era arrivato ad Atlantide con uno strano sottomarino blu e viola; parlava di pace e fiducia ma non fece mai vedere né il volto né fece conoscere il nome. Diceva di essere l’unico sopravvissuto e che avrebbe accolto Atlantide sotto la sua protezione e suo fratello credeva ciecamente in lui, descrivendolo come un salvatore mandato dagli dei.
“Mi fido…”: annuì, ma prima di asciugarsi le lacrime, un forte colpo li spinse entrambi contro una parete. Attraverso la spaccatura del muro, dove proveniva il colpo, si vedeva quello stesso sottomarino viola e blu, i cannoni a plasma puntati su di loro, mentre all’orizzonte, gli stessi atlantidei loro sudditi, si scagliavano con armi improvvisate o rubate, insieme a delfini, squali o balene.
“Che succede?”: esclamò Romelle, mentre si alzava in piedi, vedendo tutte le guardie e i soldati combattere verso essi, le armi sguainate e sguardi determinati. Stavano combattendo contro loro stessi? Pietrificata dalla paura e dalla confusione, vide la navicella posizionarsi davanti a loro e modificare la rotta dei cannoni a plasma per un tiro migliore e preciso.
“Romelle, forza!”: esclamò Bandor, trascinando la sorella via in cerca di un nascondiglio, coprendosi la testa con le braccia e le mani, cercando in tutti i modi di calmarsi per non scoppiare a piangere. Gli spari non cessavano, rompendo le pareti e sfiorandoli per miracolo mentre nuotavano via. Un colpo molto vicino li fece entrambi cadere nuovamente, la donna riprese conoscenza in un attimo e vedendo il corpo immobile e debole del fratellino circondato dal sangue galleggiante, si precipitò subito a soccorrerlo. Si accorse troppo tardi che aveva un cannone proprio puntato su di lei e quando sentì lo sparo, chiuse gli occhi aspettandosi di trovare la morte, e invece sentì una spinta decisa e veloce. La bionda aprì timidamente e spaventata gli occhi, vedendo l’uomo castano dalla pelle abbronzata e gli occhi azzurri trascinarla via il più velocemente possibile.
“Lance!”: pianse quasi dalla felicità, abbracciandolo il più possibile, notando che nell’altro braccio teneva il re. Solo quando si nascosero dietro una foresta di alghe e coralli i colpi cessarono, vedendo lo strano sottomarino ritornare velocemente in superficie.
“Bandor!”: Romelle pianse, prendendo il fratello tra le braccia e notando l’enorme e brutta ferita al fianco, incurabile in quelle condizioni. Morì tra le sue braccia, le sue ultime parole qualcosa che lei non voleva mai sentire, non dopo la loro ultima conversazione.
“Mi dispiace”: Lance sussurrò, abbracciandola da dietro nel tentativo di confortarla. Lei si girò immediatamente, stringendolo forte e scoppiando in un forte pianto.
“Gli altri… loro…”
“Tutti morti… Persino mio padre…”: disse con un triste sospiro, notando il sangue che galleggiava fino alla superficie.
“Mi dispiace…”: lei rispose, asciugandosi le lacrime:” Ma ti devo ringraziare… per avermi salvato la vita…”
“E’ sempre stato il mio dovere…”: ammise, tossendo leggermente:” Cosa faremo ora? Seguiamo il bastardo?”
Romelle annuì, stringendo i pugni e superandolo, dirigendosi verso il castello quasi distrutto.
“Devo prendere una cosa prima”
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Gotham, anno 2134
Come tutti si erano aspettati, il viaggio dalla vecchia banca a villa Wayne è stato silenzioso e soffocante, se non fosse stato per la commuovente storia di Romelle. L’aria all’interno del van era diventata pesante, molto probabilmente le troppe persone facevano mancare l’ossigeno.
“Mi dispiace per Atlantide e i vostri famigliari…”: Matt, che nel mentre si era tolto la maschera fastidiosa, parlò per primo, interrompendo quel silenzio assordante.
“Grazie… tu sei gentile…”: Romelle sorrise dolcemente:” Non il tuo amico che sta guidando… E’ antipatico e cattivo…”
Keith alzò gli occhi cielo, appoggiando la testa sul volante, esausto, mentre entrava nel giardino della villa. Una nuvola di pioggia minacciava sopra la casa imponente, mentre si udiva qualche fulmine all’orizzonte. Lance amava la pioggia, ma in quel momento sentiva un senso di disagio e paura… una sensazione di qualcosa di sbagliato che doveva ancora verificarsi.
Keith era stato in silenzio per tutto il viaggio, scendendo dal van senza dire una parola ed entrando nervoso nella villa, dirigendosi da Takashi senza fermarsi o controllare se gli altri lo stavano seguendo.
“Davvero fai squadra con lui?”: sussurrò Lance, mentre aumentava il passo per non essere lasciato indietro, il tono infastidito.
“Sembra una barzelletta, ma lo conosco da stamattina…”: rispose Matt, anche lui sussurrando, quando entrarono nell’ascensore tutti insieme, stringendosi:” E mi ha salvato”
Lance sbuffò, non credendo alle sue ultime parole, ma non fece neanche in tempo a protestare che l’ascensore si bloccò e le porte si spalancarono, rivelando un’immensa caverna tecnologica.
“Non avrei mai immaginato che un giorno sarei potuta entrare nella batcaverna!”: esclamò Romelle, la bocca aperta dallo stupore e dalla meraviglia. Le emozioni di rimpianto e angoscia che aveva provato mentre raccontava sembravano essere nuovamente spazzate via dalla sua passione e a volte ossessione verso il mondo in superficie. Aveva sempre ammirato gli umani, ed essendo una delle poche atlatnidee che poteva respirare anche l’aria, migliore amica dell’unico mezzosangue che non sia Acquaman .
“Benvenuti”: Takashi li accolse con il solito aspetto elegante, ma il tono autoritario tanto quanto gentile che solo lui poteva avere, un sorriso dolce sul volto:” E’ bello avere degli atlantidei rimasti dalla nostra parte. Sono Takashi, il vecchio supereroe Shiro”
Entrambi gli strinsero la mano, ricambiando cordialmente e il saluto e il sorriso. Ovviamente avevano sentito parlare di Shiro, anni fa per settimane non si era smesso di sentire notizie del suo ritiro, soprattutto correlato all’attentato di Sendak a Gotham 3 anni or sono. Era quasi un enorme deja-vu per loro, solo che all’epoca Atlantide non era stata sicuramente presa di mira e si sapeva chi fosse il nemico. Stavolta non sapevano niente, nemmeno come fermarlo, e tutto il mondo era in pericolo, forse anche l’intero universo conosciuto.
“Bene, ma al momento abbiamo cose più urgenti di cui discutere”: interruppe il momento Keith, brontolando e appoggiandosi alla postazione piena di schermi, una piccola spia accesa della difesa della villa si illuminava senza che nessuno ci facesse caso.
“Keith ha ragione, a quanto pare voi conoscete la persona che ha attaccato Gotham…”: l’uomo annuì, rimanendo fermo sul posto e composto come un leader capace.
“In realtà no. E’ venuto da noi, ci ha manipolati, ma non ci ha mai rivelato né il suo nome, né le sue intenzioni…”: spiegò la principessa, l’espressione che tramutava in una più triste. Non poteva dire loro che per un momento, anche solo un secondo, si era veramente fidata di quel mostro, ma le cose avevano iniziato a non quadrare ed era tutto troppo sospetto…
“Ha fatto qualcosa a tutti, ognuno una storia diversa ma allo stesso scopo, attaccare la famiglia reale…”: continuò Lance, vantandosi poi con un’aria fiera:” E io poi ho salvato la bellissima Romelle, principessa di Atlantide grazie alla mia maestosa velocità e determinazione!” Guardò Keith con un sorriso storto, mentre l’altro alzava gli occhi al cielo e Matt ridacchiava.
“Beh, è un bel problema. Come possiamo battere qualcuno di cui non sappiamo neanche il nome o la faccia?”: ragionò ad alta voce, toccandosi il mento e guardando per un momento il pavimento, ignorando le risatine di Matt mentre Keith e Lance litigavano e il ticchettio degli stivali eleganti di Romelle sul pavimento liscio e rumoroso. Possibile che non ci fosse nessuno a sapere di costui??
“Io posso aiutarvi”: una voce femminile sconosciuta parlò, rimbombando nelle pareti della batcaverna, una figura sbucava da un angolo. Tutti erano rimasti a bocca aperta, completamente immobili e increduli. La donna in questione, dotata di una bellezza sovrannaturale, camminava lentamente con postura e regalità fino a raggiungerli. Non sembrava pericolosa, anche se chissà come era entrata sotto gli occhi di tutti nella villa, senza nessun rumore o qualcosa che indicasse che era lì da quando.
“Momento! Momento! Momento!”: Lance esclamò, il volto completamente rosso quando un crostaceo, così diverso dalla solita carnagione abbronzata:” E lei chi è? Sto sognando o sono morto? Solo un angelo può essere così!”
La donna di colore lo ignorò momentaneamente:” Sono la principessa Allura di Altea, sono venuta qui per aiutarvi. Io conosco molto bene Lotor.”
“Lotor?”: Matt alzò un sopracciglio, avvicinandosi interessato:” Beh, almeno abbiamo un nome adesso”
“Anche il tuo pianeta è stato attaccato da lui”: chiese Keith, incrociando le braccia al petto:” Anzi, come puoi conoscerlo molto bene?”
“E’ una storia molto lunga…”: ammise lei, un sorriso regale sul volto:” Ma ora non è il momento di raccontarla… Il vostro pianeta e la vostra città sono in pericolo. Voi, soprattutto siete in pericolo. Avete bisogno del meglio di voi per poterlo battere.”
“Come scusa? Come fai a dirlo?”: Keith si sentì leggermente offeso da quello che lei ha detto, alzando un sopracciglio infastidito.
“Vi ho osservato. Siete distratti, emotivi e soprattutto divisi. Nessuno di voi può batterlo, ma insieme potete avere una possibilità”: spiegò determinata:” Lotor è forte, intelligente, manipola, combatte, uccide senza pietà, e sarà sempre un passo avanti a voi.”
“Adoro le stalker…”: Lance sognò, mille cuoricini che danzavano sopra la sua testa e sui suoi occhi. Si era sempre ritenuto un rubacuori, e ad Atlantide aveva acquisito una certa popolarità tra le ragazze, non solo per la sua immensa bravura a letto che si autoproclamava, ma semplicemente per il fatto di essere l’unico figlio, anche se mezzosangue, di quello che era l’ufficiale più alto.
“Era un discorso di incoraggiamento?”: Matt disse, la sua aria leggermente spaventata, e quando tutti lo guardarono alzò le braccia al cielo:” Chiedo, perché mi ha traumatizzato!”
Allura sospirò. Certo, quel gruppo era ancora agli inizi e non era molto, tuttavia era l’unica cosa a sua disposizione e doveva usufruirne. Sapeva benissimo di non poter battere Lotor da sola, né per intelletto né per capacità fisiche, tuttavia l’oscura verità era che dentro di lei si celava la paura di non riuscire veramente a scontrarsi con lui. Dopotutto erano cresciuti insieme; il solo minimo pensiero di dover lottare, rinchiuderlo o addirittura ucciderlo nel caso più estremo, la faceva stare male. Il suo tradimento era già stato un oltraggio che l’aveva demoralizzata, imprigionata nella sua astronave tra esami di coscienza e vortici di voci nella sua testa. Il flashback era troppo forte per fermarlo quando vide la sua immagine rannicchiata sotto le coperte come una bambina indifesa, singhiozzando e facendo fatica a respirare, il cuore a pezzi.
“Cosa pensi dobbiamo fare allora?”: la calma voce di Takashi la riportò fortunatamente alla realtà, rompendo quella bolla che si era formata momentaneamente. Riflettè un po’, valutando le diverse opzioni e le capacità della squadra che finora era riuscita a scovare. Da quello che aveva dedotto il vero leader era Takashi, che amministrava tutto da lontano, mentre il leader alternativo era quello orgoglioso con la triglia nera. Quello con il costume verde era un vero e proprio dilettante in missione, ma sentiva che le sue capacità logiche erano al di sopra della media. Sprecate, ha pensato, in quella posizione d’attacco. E poi c’erano gli atlantidei… La ragazza bionda sembrava impaurita, eppure nei suoi occhi poteva anche leggere una certa determinazione che pochi avevano, e il tipo dai capelli castani, che non aveva fatto altro che fissarla per tutto il tempo, sembrava testardo e anche un po’ imbranato, ma nella sua aurea sentiva delle grandi capacità…
Prima che potesse rispondere, si udì una forte vibrazione, come se tutta la caverna stesse crollando sopra le loro teste. Pian piano il soffitto diventava sempre più instabile, così come i detriti che cadevano erano sempre più grosse, pian piano tutti che perdevano coscienza, mentre Matt si affrettava alla console, toccandola, per poi sprofondare nel buio.
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Qualche minuto prima
Tre figure erano sul tetto dell’enorme villa, lampi e nuvole minacciosa all’orizzonte. Due di loro, quella più robusta e quella più alta, avevano sulla spalla un’enorme sacca di esplosivi mentre l’altra teneva tra le mani aveva delle mappe olografiche dell’abitazione proiettate dall’aggeggio sul polso.
“Dobbiamo muoverci o questa tempestaci farà esplodere gli esplosivi addosso!”: brontolò la prima, lasciando cadere i pesanti sacchi sul tetto, sentendosi finalmente la schiena libera e leggera. Iniziò a scrocchiarsela con piacere mentre la seconda faceva lo stesso.
“Zitte, la principessa e i nemici sono entrati. Non hanno ancora avvertito la nostra presenza”: rispose la terza, fin troppo calma per la situazione:” Non appena la principessa uscirà allo scoperto posizioneremo gli esplosivi e scapperemo, chiaro?”
“Non sei la nostra leader, Acxa…”: la seconda si lamentò, togliendosi il casco protettivo e rivelando la pelle rosa con segni viola e bianchi, la coda lunga che cadeva fino alle caviglie:” Lotor ci ha ripetuto bene il piano, sappiamo cosa succede…”
La frase si interruppe a metà, ma non c’era bisogno che continuasse. Tutte sapevano bene quello che intendeva…
“Io dico di attaccare e basta, così Lotor riconoscerà il nostro valore!”: esclamò la prima impulsivamente.
“Lo fa già, per questo siamo qui, Zethrid.”: la rimproverò Acxa, guardando nuovamente lo schermo.
“Ma non è lui ad avere dell’esplosivo in mano…”: fece notare la seconda: ”Avete almeno visto quello che ha fatto?”
Venne ignorata dalla terza, quindi quando si avvicinò a Zethrid gli disse i suoi sospetti. Fin ora aveva obbedito a Lotor con orgoglio, ma non appena aveva visto la brutalità, e l’indifferenza con la quale aveva tolto la vita a una loro più cara amica, alcuni sospetti erano ritornati alla mente. Forse per lui erano solo dei piccoli soldatini, altrimenti sarebbe stato al loro fianco in quell’importante missione. Tuttavia Allura era con loro, Allura era con il nemico, e il semplice ordine di piazzare delle bombe letali non quadrava.
Allura e Lotor non erano mai stati nemici e non avevano mai avuto combattimenti o disguidi, tutto era semplicemente così… strano.
“Non mi fido…”: ammise in un sussurro, sedendosi sullo scomodo tetto:” Non ha senso…”
“Non credi più in Lotor, Ezor?”: chese Zethrid, guardandola dall’alto.
“Non capisco il suo piano, dobbiamo davvero uccidere Allura?”: i suoi occhi erano confusi e indecisi. Il suo compito era solo eseguire gli ordini di Lotor, ma allo stesso tempo uccidere la principessa avrebbe causato un enorme tradimento verso Altea.
“I suoi ordini sono quelli”: ribattè, guardando nuovamente il cielo mentre qualche leggera goccia minacciava di cadere.
“E Narti? Lui dice di volerci aiutare ma a membra di essere più un burattino…”: avvicinò le ginocchia al petto e si rannicchiò il più comodamente possibile:” A volte penso che qualcosa non quadra… Amo torturare la gente, ma fino a un certo punto! Esattamente cosa ci hanno fatto di male i terrestri? Perché siamo qui a galassie e anni luce di distanza da Altea quando questa viene attaccata da altri pianeti?”
“Non lo so, ma Lotor sa quello che sta facendo”: sospirò Zethrid e Ezor si rimise in piedi e composta quando Acxa iniziò a parlare.
“E’ il momento.”: disse fermamente:” Voi due iniziate da quella parte, è la più importante”
Le due obbedirono, dividendosi e spartendosi i carichi di esplosivo e bombe: in quei tre sacchi erano divisi almeno 34 kg di bombe e dinamite ciascuno, se le avessero piazzate e suddivise bene, nessuno sarebbe sopravvissuto. Ezor si fermò un attimo a pensare e poi, dopo un po’, mise alcuni esplosivi sparsi casualmente e il resto li lasciò nella sacca.
“Ezor, ma che fai?”: chiese Zethrid, finalmente notandola.
“Il mio lavoro. Lotor ha detto di bombardare la villa, ma non ha specificato di uccidere la principessa. Quindi non lo faremo”: rispose, gettando il sacco davanti alla villa in un punto a caso.
“Ma gli altri sono con lei, si salveranno”: fece notare.
“Gli altri non sono alteani. Non posso guarire come la principessa Allura”: rispose. L’aliena sospirò, annuendo.
“Acxa, abbiamo finito…”: disse, ma poco prima che finisse la frase, un enorme fulmine colpì il tetto della casa, facendo esplodere le bombe.
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È una scelta apparentemente semplice: o acconsenti alla scansione dell’iride, e accetti tutti i possibili rischi connessi alla sicurezza dei dati, o non acconsenti e perdi la tua richiesta di protezione e il tuo stato di rifugiato. Questa è l’amara realtà in molti campi profughi gestiti dall’UNHCR, nonché il modo in cui vengono sperimentate le nuove tecnologie nel sud del mondo prima che siano riconosciute come sicure e quindi adatte ai mercati occidentali.
Ariana Dongus ha analizzato queste strategie di digitalizzazione usate nei campi UNHCR all’interno del suo progetto di ricerca presso il KIM/Center for Critical Studies in Machine Intelligence (Karlsruhe). Insieme a Christina zur Nedden ha pubblicato un articolo sullo stesso argomento sul settimanale tedesco Die Zeit intitolato “Getestet an Millionen Unfreiwillingen” (“Testato su milioni di soggetti involontari”). Durante l’Ars electronica festival (7-8 settembre 2018) ha presentato una ricerca sul ricorso alla biometria come continuazione dei rapporti coloniali, nonché sulla produzione, da parte dei rifugiati, di una nuova forma di lavoro immateriale.
La presente intervista è stata rilasciata in occasione del ciclo di conferenze organizzate durante il festival.
Il titolo del tuo intervento all’interno del seminario “Falsità, responsabilità e strategie” è The camp as labo(u)ratory. Qual è il significato dietro questo gioco di parole?
Ariana Dongus: Mi riferisco all’uso della biometrica nei campi profughi dell’UNHCR. Le scansioni biometriche sui rifugiati sono diventate un elemento centrale nelle strategie di digitalizzazione sfruttate nei campi UNHCR di tutto il mondo. Nella mia ricerca una delle ipotesi avanzate è che questo tipo di campi siano una sorta di laboratorio all’interno del quale questo tipo di tecnologia viene testata su essere umani che non hanno, di fatto, nessuna libertà di scelta, per essere preparata alla commercializzazione. Quali sono le condizioni in cui uomini e donne, all’interno di questi campi, diventano una massa di cavie, e quali continuità si rilevano con logiche di fatto coloniali? Un secondo focus su cui mi sto concentrando sono invece le politiche economiche dei campi. Fino a che punto i profughi biometricamente registrati stanno producendo una nuova forma di lavoro immateriale e in quale misura i data prodotti hanno un valore? Personalmente ritengo che queste persone facciano parte di una catena di valore aggiunto di mercati che hanno elaborato un nuovo modo di sfruttare le minoranze e i poveri. I difensori di questi progetti li inquadrano come un “Banking the Unbanked”, un “Banking the Poor”, o li definiscono la quarta rivoluzione industriale.
Dalla fine della Guerra Fredda e in crescente risposta alle numerose crisi politiche, ecologiche ed economiche, nonché ai nuovi conflitti, l’UNHCR ha costruito campi profughi in tutto il mondo. Il campo profughi però rappresenta, in maniera allegorica, il prodotto della deregulation mondiale del 21esimo secolo. L’UNHCR è un’istituzione che opera a livello locale, nazionale e internazionale.
Prende decisioni che si ripercuotono sulla vita e sulla morte di milioni di persone e costringe alcune di queste nei propri campi, come hanno mostrato gli studi di Michel Agier. I cosiddetti accampamenti di queste persone – i loro “depositi”, come suggerisce la parola tedesca Lager – sono la diretta manifestazione di un perenne stato di emergenza.
Una porzione piuttosto significativa della popolazione mondiale vive ormai nei campi profughi; in molti ci hanno trascorso interi decenni. Il rapporto UNHCR del 2016 contava che le persone che avevano abbandonato le proprie abitazioni ammontavano a 65,6 milioni: si tratta di numeri mai visti prima. Il modo in cui la vita di queste persone viene trattata all’interno di questi campi è indicativo dell’organizzazione, amministrazione e sfruttamento produttivo da parte dell’UNHCR nei confronti di “persone non gradite”. In aggiunta, il fatto che l’UNHCR sia in possesso dei dati biometrici di milioni di persone crea un forte disequilibrio nei rapporti di forza.
I contesti di insicurezza, stato d’emergenza e urgenza rendono automaticamente ognuna delle azioni messe in atto dall’UNHCR un progetto sperimentale. Ciò nonostante, il ricorso a procedure sperimentali e a tecnologie come la biometrica all’interno di contesti tanto fragili è, esattamente per questo motivo, estremamente controverso. Le sperimentazioni tecnologiche vengono portate avanti e legittimate proprio in riferimento a quest’emergenza, che necessita di una risposta rapida e improrogabile. Nel mondo occidentale, le nuove tecnologie vengono testate sotto determinate condizioni prima di essere pronte per il mercato. In questo caso, invece, sono i campi profughi a fungere da laboratori e i rifugiati da cavie.
Tu e Christina zur Nedden avete di recente riportato di un campo in Giordania nel quale i rifugiati sono registrati tramite scansione dell’iride, che lo vogliano o meno. Qual è lo scopo di una scansione dell’iride? Cosa succede a coloro che si rifiutano?
Ariana Dongus: La scansione biometrica viene praticata su tutti i rifugiati nel momento in cui accedono per la prima volta a un campo. Senza la scansione dell’iride, perdono lo status di rifugiato e non ricevono alcun aiuto. Di conseguenza il rifiuto non è un’opzione.
A giustificare queste pratiche concorrono le necessità di un’organizzazione più efficiente e di prevenire doppie registrazioni. Questo genere di tecnologia viene definita doppelganger-safe ma, allo stesso tempo, credo che questo significhi uno scivolamento paradigmatico dell’immaginario sui rifugiati: sulle persone confluite all’interno di un campo UNHCR grava il sospetto diffuso e generalizzato che siano truffatoriinvece che, prima di ogni altra cosa, persone in cerca d’aiuto che dovrebbero ricevere sostegno. Potranno averne solo dopo essersi registrate.
Il ciclo di conferenze in cui compare il tuo intervento ha a che fare, tra le altre cose, con la responsabilità. Qual è il tuo giudizio sulla situazione nel campo giordano? Quali responsabilità si assume l’UNHCR nell’adottare un dispositivo come IrisGuard e, per converso, quali responsabilità avoca?
Ariana Dongus: IrisGuard è una compagnia che offre soluzioni end-to-end, il che significa che fornisce da sola l’hardware, il software e la piattaforma cloud in cui tutti i dati sono salvati. Questi ultimi vengono salvati anche in un database a Ginevra, in Svizzera, ma il cloud li rende contemporaneamente disponibili in tutto il mondo. Stando a IrisGuard, nessuno al di fuori dell’UNHCR ha accesso a quei dati. Al di là di ciò, non pochi interrogativi rimangono aperti – ad esempio come vengano impiegati i dati raccolti nei supermercati che, ovviamente, registrano chi ha comprato cosa, quando etc.
Perciò, in base alle dichiarazioni di IrisGuard, tutte le responsabilità spettano all’UNHCR.
Non è una cattiva mossa, dal punto di vista legale, dal momento che l’UNHCR non è legalmente perseguibile in caso, ad esempio, di un comprovato cattivo utilizzo dei data, fughe di notizie o misure inefficaci di protezione dell’accesso ai computer. Non saprei dire con certezza se si può parlare di un tentativo, da parte di entrambi i partner, di scaricare la responsabilità sull’altro, ma quel che a me sembra evidente è che, nel workflow che registra biometricamente milioni di persone, viene riposta grande fiducia nella tecnologia come strumento neutrale, privo di valore e quindi, forse, investito di eccessive responsabilità.
In generale, l’UNHCR sta lavorando sempre più, sul piano operativo, in partnership pubblico-private e un’ampia fetta del processo di erogazione degli aiuti è esternalizzata al settore privato. All’interno di questo, la maggior parte è costituita da imprese commerciali con modelli imprenditoriali basati sui big data. Ormai anche gli amministratori delle organizzazioni umanitarie sembrano convinti del fatto che i dati raccolti su larga scala possano rivelare modelli di fisica sociale. Il tutto accade all’interno di un quadro in cui l’UNHCR promuove come proprio principio base un’attitudine in linea con quelle che si stanno affermando tra le startup statunitensi.
Personalmente, sulla scorta di quanto detto, io definirei una strategia coloniale il fatto che uno slogan della Silicon Valley, «fallisci in fretta, spesso e presto», sia diventato il principio-guida che i vertici manageriali dell’UNHCR applicano a questo tipo di partnership e che traspongono, quasi fosse un mantra basato sulla fede, al terreno inesplorato dei campi profughi. In particolare, la promozione di tecnologie presumibilmente neutrali e apolitiche, destinate a sostituire l’azione politica, dimostra un aggressivo utopismo tecnologico che sposta le responsabilità di quest’acuta emergenza sulle spalle dei rifugiati stessi.
Per quanto mi riguarda sono dell’idea che tutto questo concorra a creare una situazione precaria – il miglioramento della quale rimane la missione dell’UNHCR – e diffonda un clima di diffidenza a scapito dei rifugiati. Dal 2016 ad oggi, la registrazione biometrica di tutti i profughi è stata parte della strategia di base dell’UNHCR per organizzare la gestione dell’identità e istituzionalizzare la distribuzione di contanti. In passato si usava distribuire le razioni di cibo, oggi invece, sempre più, viene elargito del denaro o si opta per un sistema di pagamento cashless, il che significa che nei supermercati dei campi il rifugiato paga battendo le palpebre!
Quali sono i rischi e i vantaggi di un simile sistema di riconoscimento biometrico?
Ariana Dongus: Personalmente temo che non sappiamo ancora, con certezza, cosa potrebbe succedere con l’utilizzo dei data, fondamentalmente perché si tratta di una realtà relativamente nuova. Al momento della registrazione, i rifugiati sono tenuti a firmare una liberatoria: abbiamo chiesto all’UNHCR di visionarla, ma la nostra richiesta è stata rifiutata. Insomma, è abbastanza dubbio che queste persone siano realmente informate su cosa verrà fatto dei loro data.
In Giordania, ad esempio, l’UNHCR inoltra i dati delle scansioni dell’iride alla Cairo Amman Bank. Le transazioni vengono coordinate da qui e alcune vengono effettuate usando cripto-valute come l’Ethereum. Non è affatto chiaro se queste persone ne siano al corrente, ed è ancora più dubbio se – e, in caso affermativo, in che misura – questa banca condivida questi dati con terze parti. Date le condizioni, credo sia altamente problematico che non venga offerta nessuna alternativa. Con chi vengono condivisi questi dati? Oltre 68.000 Rohingya, una minoranza musulmana perseguitata in Myanmar, sono fuggiti dall’orrore e dalle violenze entrando in Bangladesh. Le loro impronte digitali, i loro occhi e i loro visi sono stati registrati biometricamente e l’UNHCR ha condiviso i dati raccolti con il governo del Bangladesh. Nella scorsa primavera (ndt, 2018) il Bangladesh ha avviato delle negoziazioni con il governo del Myanmar per rispedire indietro queste persone, e insieme a loro i loro dati. Ora, consideriamo cosa può significare una cosa come questa per una minoranza perseguitata nel loro Paese d’origine a causa della loro identità. Questi database possono avere conseguenze sulla loro salvaguardia, se cadono nelle mani sbagliate! È un problema non da poco.
Un altro pericolo proviene poi da qualcosa che è strutturalmente insito in questa tecnologia, vale a dire la tendenza a discriminare. Queste tecnologie funzionano attraverso schemi generati automaticamente – viene scattata una fotografia dell’occhio o del viso di una persona e un algoritmo la converte in un codice a barre. Si tratta di un processo standardizzato che il ricercatore Joseph Pugliese ha definito “strutturalmente bianco”: il che significa che tutti gli occhi e le facce che si discostano dalla “norma” spesso non vengono riconosciuti o sono identificati erroneamente, il che può generare tutta un’altra serie di errori.
Credo che un trattare in modo responsabile questi dati debba sempre significare dare la massima priorità ai diritti e alla sicurezza degli esseri umani. L’elaborazione di approcci che mettano realmente al centro dell’attenzione le persone e le loro esigenze è una questione pressante all’interno delle discussioni attuali di molte ONG.
Insieme a Christina zur Nedden, ho intervistato Zara Rahman, attivista dell’ONG The Engine Room in collaborazione con la nostra ricerca. Seguono criticamente e attivamente il lavoro dell’UNHCR e stanno si stanno sforzando di mostrare in che modo attivisti e organizzazioni possono essere d’aiuto nella gestione responsabile e nell’uso dei data come agenti di cambiamento sociale.
In generale, è evidente che le applicazioni della biometrica costituiscano un mercato in rapida espansione. Non riguardano solo i campi profughi – l’iPhone X, con il suo software per il riconoscimento facciale, ne è un esempio. Ma è altrettanto chiaro che queste applicazioni possono essere considerate sicure per il mercato occidentale solo una volta testate nei Paesi del sud globale, come la sociologa Katja Lindskov Jacobsen ha presentato dettagliatamente nel suo studio.
Va da sé che, allo stesso tempo, nei mercati occidentali deve esserci interesse per questa tecnologia, ma c’è anche – e questa è una costante storica che affonda le proprie radici ancora prima del colonialismo – una storia segreta di sperimentazione delle tecnologie sui corpi delle minoranze in condizioni di insicurezza così da renderle sicure per i cittadini dei Paesi occidentali. Anche in questo caso ci si chiede che tipo di lavoro è questo…
Penso che questa possa essere definita una nuova prassi, operativa su scala mondiale, che dà assolutamente per scontato che il processo identitario implichi la registrazione dei tratti biologici e la misurazione del corpo umano per generare dati biometrici e genetici. Queste identità digitali sono archiviate in database che sono inclini all’errore, altamente problematici e di grande valore. L’autrice/regista Hito Steyerl lo ha riassunto così alcuni anni fa: «Identità è il nome della battaglia che si combatte sul tuo codice, sia esso genetico, informativo o visivo.
Traduzione di Anna Clara Basilicò dall’originale, pubblicato il 27 agosto 2018 su ars.electronica.art/
da GlobalProject
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Era difficile capire in che cosa consistesse esattamente il benessere nella grande città.
Le abitazioni erano parte di un sistema di costruzioni dall’architettura futuristica che ridefiniva l’orizzonte urbano proiettandolo verso l’alto a rappresentazione di aspettative sociali in costante evoluzione.
Al tempo stesso la progettazione degli spazi non poteva prescindere dal radicamento al terreno, inteso non solo come base solida delle costruzioni ma come fonte di sostentamento per la popolazione urbana. Vivere e lavorare in osmosi con la natura: questo l’imperativo da rispettare per poter stare “bene”. La vita in città divenne possibile solo nell’ambito di strutture sostenibili, grattaceli con orti, serre, giardini dove la vegetazione divenne tropicale mano a mano che il clima cambiava. Le palme sostituirono tigli, platani ed abeti.
Le persone si aggiravano negli spazi verdi dei loro complessi residenziali osservando la natura dalla quale erano circondati e respirando all’interno delle loro tecnologiche maschere per l’ossigeno. Ognuno, dalla propria piccola bolla, osservava il suo piccolo mondo con compiacimento e perplessità, non capendo come il desiderio di benessere, che aveva spinto a tali e importanti progressi, mal si conciliasse con i risultati raggiunti. Forse qualcuno percepiva che la vita in un luogo di contaminazione naturale non era uguale alla vita nella natura incontaminata. E forse qualcun altro si rendeva conto che la svolta green dell’umanità era stato un estremo tentativo di sopravvivenza messo in atto senza rinunciare allo stile di vita comodo ed esteticamente piacevole che tanto attrae e tanto porta avanti la logica del profitto. Ma nessuno osava davvero mettere in dubbio il nuovo sistema, evolutosi rispettando una logica di mercato che garantiva opportunità di profitto ai nuovi ecologisti, proprio coloro che fino a poco tempo prima erano stati i protagonisti della devastazione ambientale.
D’altra parte, quelle bolle di vetro ovattavano il pensiero. E se anche qualche percezione della verità c’era, erano davvero pochissimi quelli che ricordavano le parole di Chico Mendez: “L’ambientalismo senza lotta di classe si chiama giardinaggio”.
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La diversificazione delle Asset Class ridisegna lo scenario del nuovo ciclo immobiliare
Il cambiamento che il settore delle costruzioni e del real estate ha vissuto nel corso di questi anni ha portato alla configurazione di un nuovo contesto di mercato con l’emergere di asset class identificate in modo preciso e connotate da standard e requisiti ben definiti.
La storica segmentazione tra “edilizia civile privata”, “edilizia civile pubblica” e “infrastrutture” sembra, infatti, assumere connotati differenti.
Un tempo con il termine edilizia civile privata si andava a comprendere l’ampio catalogo degli edifici adibiti ad abitazioni ed uffici; l’edilizia civile pubblica comprendeva edifici come scuole, ospedali, stazioni e aeroporti per finire con le vere e proprie infrastrutture tipicamente rappresentate dalle strade e dalle autostrade che hanno rappresentato uno dei settori di eccellenza dell’industria nazionale delle costruzioni.
La città, in questo contesto, rappresentava esclusivamente il contenitore dove tutte queste realtà prendevano domicilio.
Nella categoria degli edifici residenziali convivevano abitualmente abitazioni e uffici senza distinzione tra funzioni, senza dimenticare che l’edilizia civile era finalizzata esclusivamente a dare un tetto ad una popolazione in incremento, soprattutto nelle grandi città del nord, dove i flussi migratori dal Sud hanno rappresentato una sorgente per la crescita demografica.
In questo contesto, in via generale e con le dovute distinzioni veniva prestata meno attenzione ai requisiti estetici o di qualità degli edifici, elementi che sembrano invece rappresentare attualmente uno dei driver fondamentale per la diffusione sul mercato del bene immobiliare.
Nell’attuale scenario le asset class sono delle più svariate:
Il segmento residenziale, sia sotto forma tradizionale che differenziato per tipologia, abitudini e necessità degli utenti finali (senior housing, student housing, co-housing)
Il segmento direzionale, che vive di esigenze di flessibilità e modularità (co-working);
Il settore commerciale che nel suo contesto di grande distribuzione organizzata e vede il prevalere di strutture polivalenti che ospitano diverse realtà e non solo tristi contenitori di piccole realtà commerciali;
Gli spazi di high street invece rispondono ad una logica sartoriale e di attenzione ai desiderata del committente che richiedono una progettazione e una costruzione ad hoc;
Le strutture sportive e dedicate al leisure vanno via via assumendo un ruolo sempre più centrale nella rigenerazione delle città. Non si parla più solo di spazi dove trascorrere il tempo di una competizione sportiva o svolgere una sessione di sport, bensì spazi dove trascorrere del tempo anche al di fuori della specifica funzione che necessitano di dotazioni tecnologiche e di impiantistica importanti;
La logistica va via assumendo sempre di più una connotazione legata agli impianti e la componente tecnologica divenuta parte integrante dell’infrastruttura logistica sia essa legata al food e al non food;
Il settore dell’hotellerie riconosciuto a livello internazionale come asset class di riferimento per gli investitori internazionali;
Ultimo ma non per questo meno importante il settore dell’heritage che incrementa il proprio peso tre le asset class di investimento e spesso è legato a doppio filo con il settore del turismo.
Il fil rouge che lega tutti questi settori di attività può essere identificato nella modalità con cui la tecnologia e l’innovazione vanno sempre più permeando il settore e come l’impatto della tecnologia sul prodotto finale consente di “cucire” il prodotto immobiliare addosso al cliente finale adeguandosi alle sue necessità e desiderata.
Il tutto nel contesto di una città che è profondamente cambiata che diventa sempre più vivace e vitale e che ha preso di nuovo coscienza del proprio ruolo di luogo di incontro e di condivisione.
#asset class#real estate#immobiliare#senior housing#student housing#co-housing#co-working#high street#hotellerie#heritage
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OSCURANTISMO RETROGADO ROMA - Quello che non è successo a Uber adesso capita agli home restaurant, arriva infatti i primo sì della Camera alla disciplina dell’attività di ristorazione in abitazione privata. Il testo, approvato a Montecitorio con 326 voti a favore (compreso l’M5S), 23 contrari (i gruppi Lega e Cor) e 27 astenuti, passa ora al Senato. (...) In tutto, secondo un’indagine della Fiepet Confesercenti, già nel 2014 si contavano 7mila cuochi in attività con circa 37mila eventi realizzati un anno ed un incasso medio 198 euro. Cene prenotate utilizzando Facebook, WhatsApp oppure una delle tante piattaforme web nate in questi anni, da Gnammo a Le Cesarine, da Vizeat a Eatwith. Tutto tracciato La legge si compone di sette articoli (...) Stabilisce che tutte le attività classificate come «home restaurant» si debbano avvalere di piattaforme tecnologiche che possono prevedere commissioni sul compenso di servizi erogati e su cui vigilerà il ministero dell’Economia. Occorre registrarsi almeno 30 minuti prima di fruire del pasto e pure la cancellazione del servizio prima della sua fruizione deve rimane tracciata. Idem i pagamenti, ammessi esclusivamente attraverso sistemi elettronici (carta di credito o bancomat). Va da se che le abitazioni private utilizzate per le cene devono possedere tutti i requisiti igienico sanitari previsti da leggi e regolamenti ma non è previsto un cambio di destinazione d’uso dei locali. Rispetto al testo iniziale la Camera, accogliendo un emendamento del Pd, ha cancellato l’obbligo per i cuochi di conseguire un attestato HACCP sulla gestione dei rischi legati all’igiene dei prodotti alimentari. Spetterà però al ministero della Salute definire le «buone pratiche di lavorazione e di igiene, nonchè le misure dirette». Cancellata, per effetto di un altro emendamento sempre del Pd, anche la comunicazione al proprio comune di residenza della Segnalazione certificata di inizio attività (Scia). In questo caso saranno invece direttamente le piattaforme web che raccolgono le prenotazioni a comunicare ai comuni per via digitale le unità immobiliari registrate dalla piattaforma presso le quali si svolgono le attività di ristorazione. Resta invece confermato l’obbligo di dotarsi di una assicurazione per la responsabilità civile verso terzi. Un altro vincolo riguarda la dimensione di questo tipo di attività: è infatti fissato un tetto massimo di coperti (non oltre 500 in un anno) ed un tetto per i compensi, che non possano superare i 5mila euro all’anno, importo sul quale trattandosi di attività saltuaria non si pagano tasse. (...) Cancellato invece dal testo finale il tetto di 10 coperti previsti per un singolo evento. Confedilzia protesta «E’ vero che il mondo va avanti e la sharing economy non si può fermare, però tutti devono rispettare il principio che se si opera nello stesso mercato tutti devono rispettare le stesse regole» spiega Lino Enrico Stoppani, presidente della Fipe Confcommercio. «In gioco non c’è solo la tutela degli interessi degli imprenditori - spiega - ma anche la tutela dei consumatori, perché col cibo non si può certo scherzare. Quindi ben venga la nuova legge». (...). A chi opera nel settore invece la nuova legge va stretta. Protestano molti operatori del settore e protesta in particolare la Confedilizia: «La Camera dei deputati ha varato una normativa che, anzichè “Disciplina dell’attività di ristorazione in abitazione privata”, dovrebbe essere più propriamente intitolata “Ostacoli all’attività di ristorazione in abitazione privata”». (...) «Ancora una volta - conclude Confedilizia - la furia regolatoria del legislatore italiano si avventa sulla libera iniziativa privata, pretendendo di determinarne ogni singolo aspetto ma finendo per affossarla o condannarla al sommerso. Non ci resta che sperare nel Senato».
http://www.lastampa.it/2017/01/17/italia/cronache/arriva-la-stretta-anti-evasione-sui-ristoranti-fatti-in-casa-RHy9Wkx7so6eooN9GgCU2K/pagina.html
Le rrregole, ci vogliono le rrregole, sante rrregole, bisogna por fine al faruest (che era il posto dove tutti correvano per cambiar vita in meglio, ndr): é il solito MEDIEVALISMO STATALISTA ARRETRATO da Paese conservatore nel senso deteriore dle termine, cioè ignorante provinciale tagliato fuori dal progresso. Nota bene, sul rimanere indietro c’è l’accordo di tutti, m5s incluso che sarebeb il cosiddetto nuovo “che avanza” (nel senso che andrebbe buttato, il dubbio è se vada con l’umido o il non riciclabile).
(Tra le rregole, fantastica era quella dell’attestato HACCP, dove solerti dipendenti sindacali pagati col voucher, avrebbero illustrato ai cuochi amatoriali paganti, come si indossa il caschetto e i guanti da cantiere).
PS.: notato la regolettina ina ina: “tutti i pagamenti van tracciati (eh si, tracciamo tutto qui, Equitalia prima che Feisbuk), quindi SIANO SOLO ELETTRONICI” (con tanto di prenotazione elettronica obbligatoria preventiva)? Via il contante, mi piaci di più “nature”. Guarda caso si parte a implementare il NO CASH dagli scambi più piccoli e insignificanti: COME IN INDIA (risultato: centinaia di suicidi, assalti alle banche, polizia che spara sulla folla etc.etc.). Col plauso di quei coglioni dei Masterchef evasori Pro, ooops volevo dire degli operatori Pro, che non si rendono conto del significato “progressivo” dell’esperimento. PREPARATEVI.
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Focus
https://aedic.eu/investire-in-africa/?page_id=10119
Focus
Focus sulle opportunità e sugli investimenti in Africa Centrale
AEDIC in Camerun è il partner per le aziende italiane per conquistare i mercati emergenti dell’Africa sub-sahariana
L’Africa sub-sahariana è la grande opportunità per il business nei prossimi 15/20 anni.
Dopo il “ventennio perduto” degli anni ‘80 e ‘90, gli Stati africani hanno segnato risultati di sviluppo con una velocità ed una portata visti poche altre volte nella storia. Oggi 6 delle 10 economie a maggiore crescita nel mondo sono in quest’area (Angola, Nigeria, Etiopia, Ciad, Mozambico e Ruanda) e la Banca Mondiale prevede che tra il 2020 e il 2030 la sua classe media raddoppierà, superando quella indiana.
Si tratta dunque di un intero continente in “movimento” di quasi 1 miliardo di persone che richiederà cibo (la FAO stima che la domanda alimentare dell’area crescerà del 3% all’anno), prodotti e beni di consumo (con standard qualitativi superiori agli attuali), servizi, abitazioni (al 2020 oltre il 50% della popolazione – quasi 700 milioni – vivrà nelle città), ecc.
Per rispondere alla nuova domanda, tutti i principali Paesi sub-sahariani stanno promuovendo investimenti ad ampio raggio: infrastrutture, energia, edilizia, reti di comunicazione, sistemi idrici. Secondo la Banca Africana di Sviluppo il divario da colmare vale 200 trilioni di Dollari all’anno.
Il sistema-Italia non è però presente in questa “corsa”, se non con un ristretto numero di aziende tipicamente operanti nelle grandi opere infrastrutturali, nell’energia e in un piccolo segmento del Food. Le ragioni sono la “distanza” culturale, la difficoltà ad orientarsi su mercati più rischiosi, l’organizzazione non adeguata e la mancanza di iniziative coordinate con altri attori di filiera e locali
Il rinnovato impegno del Governo e delle istituzioni italiane verso questa parte del mondo con la missione dell’ ex Primo Ministro Renzi e ora con il governo Conte sono un segnale di una inversione di tendenza; occorre però un ulteriore salto dell’azione dell’Italia.
Il Camerun è un partner chiave per questo processo. I “fondamentali” sono almeno tre.
In primo luogo è la più importante economia dell’area (oltre il 30% del PIL sub-sahariano) e, a differenza della Nigeria – l’altro hub economico regionale – ha una diversificazione del tessuto economico produttivo con un settore manifatturiero che rappresenta oltre il 12 % del PIL ed un sistema normativo-regolamentare in grado di garantire le condizioni di sicurezza per l’operatività delle imprese (nella classifica della Banca Mondiale sulla qualità dell’ambiente dibusiness è alla 41° posizione; l’Italia alla 65°).
Inoltre il suo sistema bancario e finanziario – le 5 più grandi banche africane sono sudafricane e la Borsa di Johannesburg è la più grande del continente – non solo è un settore centrale (produce il 10% del PIL e occupa oltre 150mila persone), ma è anche un elemento fondamentale per il supporto alle imprese che possono trovare piena copertura per tutte le loro esigenze.
Anche le infrastrutture – il Sudafrica ha la rete più sviluppata del continente – garantiscono accessibilità e connettività e una distribuzione efficiente su scala regionale, a partire dai 15 Paesi della Southern African Development Community (SADC) – una comunità integrata di 300 milioni di persone con una spesa aggregata di oltre 500 miliardi di Dollari.
Il Sudafrica è dunque una piattaforma ideale per poter programmare l’ingresso in altri mercati africani e un partner produttivo privilegiato, potenzialmente in grado di offrire prodotti di buona qualità a prezzi allineati ai poteri d’acquisto locali.
Il sistema economico-industriale italiano ha caratteristiche di complementarietà in termini di prodotti, dimensione organizzativa e specializzazioni tecnologiche per realizzare joint venture con aziende sudafricane e sfruttare le molteplici opportunità offerte dalla crescita dell’Africa sub-sahariana:
nei settori “primari”, connessi in particolare alla filiera agroindustriale (produzione e trasformazione), delle costruzioni e dell’edilizia (infrastrutture, servizi per i sistemi urbani, ecc.);
nei beni di consumo durevoli, come elettrodomestici, abbigliamento, arredamento e illuminazione e automobili (di cui il Sud Africa è l’ hub per l’assemblaggio dell’Africa).
nei beni di consumo e grande distribuzione, in cui le opportunità – anche nelretailing – sono notevoli grazie ad una domanda crescente e alla presenza di partner locali in grado di gestire attività chiave (ad esempio la catena del freddo per la distribuzione alimentare);
nei settori innovativi ad alto contenuto tecnologico, alla luce dei programmi nazionali per orientare investimenti e attrarre aziende estere in settori quali le energie rinnovabili, l’aerospaziale, il nucleare e i nuovi materiali.
L’Italia può dunque giocare la partita africana – una delle più promettenti dei decenni a venire – con un ruolo ancora più importante di quanto fatto ad oggi e rafforzare la relazione con il Sudafrica è una chiave di volta strategica.
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L’Africa sub-sahariana è la grande opportunità per il business nei prossimi 15/20 anni.
Dopo il “ventennio perduto” degli anni ‘80 e ‘90, gli Stati africani hanno segnato risultati di sviluppo con una velocità ed una portata visti poche altre volte nella storia. Oggi 6 delle 10 economie a maggiore crescita nel mondo sono in quest’area (Angola, Nigeria, Etiopia, Ciad, Mozambico e Ruanda) e la Banca Mondiale prevede che tra il 2020 e il 2030 la sua classe media raddoppierà, superando quella indiana.
Si tratta dunque di un intero continente in “movimento” di quasi 1 miliardo di persone che richiederà cibo (la FAO stima che la domanda alimentare dell’area crescerà del 3% all’anno), prodotti e beni di consumo (con standard qualitativi superiori agli attuali), servizi, abitazioni (al 2020 oltre il 50% della popolazione – quasi 700 milioni – vivrà nelle città), ecc.
Per rispondere alla nuova domanda, tutti i principali Paesi sub-sahariani stanno promuovendo investimenti ad ampio raggio: infrastrutture, energia, edilizia, reti di comunicazione, sistemi idrici. Secondo la Banca Africana di Sviluppo il divario da colmare vale 200 trilioni di Dollari all’anno.
Il sistema-Italia non è però presente in questa “corsa”, se non con un ristretto numero di aziende tipicamente operanti nelle grandi opere infrastrutturali, nell’energia e in un piccolo segmento del Food. Le ragioni sono la “distanza” culturale, la difficoltà ad orientarsi su mercati più rischiosi, l’organizzazione non adeguata e la mancanza di iniziative coordinate con altri attori di filiera e locali
Il rinnovato impegno del Governo e delle istituzioni italiane verso questa parte del mondo con la missione dell’ ex Primo Ministro Renzi e ora con il governo Conte sono un segnale di una inversione di tendenza; occorre però un ulteriore salto dell’azione dell’Italia.
Il Camerun è un partner chiave per questo processo. I “fondamentali” sono almeno tre.
In primo luogo è la più importante economia dell’area (oltre il 30% del PIL sub-sahariano) e, a differenza della Nigeria – l’altro hub economico regionale – ha una diversificazione del tessuto economico produttivo con un settore manifatturiero che rappresenta oltre il 12 % del PIL ed un sistema normativo-regolamentare in grado di garantire le condizioni di sicurezza per l’operatività delle imprese (nella classifica della Banca Mondiale sulla qualità dell’ambiente dibusiness è alla 41° posizione; l’Italia alla 65°).
Inoltre il suo sistema bancario e finanziario – le 5 più grandi banche africane sono sudafricane e la Borsa di Johannesburg è la più grande del continente – non solo è un settore centrale (produce il 10% del PIL e occupa oltre 150mila persone), ma è anche un elemento fondamentale per il supporto alle imprese che possono trovare piena copertura per tutte le loro esigenze.
Anche le infrastrutture – il Sudafrica ha la rete più sviluppata del continente – garantiscono accessibilità e connettività e una distribuzione efficiente su scala regionale, a partire dai 15 Paesi della Southern African Development Community (SADC) – una comunità integrata di 300 milioni di persone con una spesa aggregata di oltre 500 miliardi di Dollari.
Il Sudafrica è dunque una piattaforma ideale per poter programmare l’ingresso in altri mercati africani e un partner produttivo privilegiato, potenzialmente in grado di offrire prodotti di buona qualità a prezzi allineati ai poteri d’acquisto locali.
Il sistema economico-industriale italiano ha caratteristiche di complementarietà in termini di prodotti, dimensione organizzativa e specializzazioni tecnologiche per realizzare joint venture con aziende sudafricane e sfruttare le molteplici opportunità offerte dalla crescita dell’Africa sub-sahariana:
nei settori “primari”, connessi in particolare alla filiera agroindustriale (produzione e trasformazione), delle costruzioni e dell’edilizia (infrastrutture, servizi per i sistemi urbani, ecc.);
nei beni di consumo durevoli, come elettrodomestici, abbigliamento, arredamento e illuminazione e automobili (di cui il Sud Africa è l’ hub per l’assemblaggio dell’Africa).
nei beni di consumo e grande distribuzione, in cui le opportunità – anche nelretailing – sono notevoli grazie ad una domanda crescente e alla presenza di partner locali in grado di gestire attività chiave (ad esempio la catena del freddo per la distribuzione alimentare);
nei settori innovativi ad alto contenuto tecnologico, alla luce dei programmi nazionali per orientare investimenti e attrarre aziende estere in settori quali le energie rinnovabili, l’aerospaziale, il nucleare e i nuovi materiali.
L’Italia può dunque giocare la partita africana – una delle più promettenti dei decenni a venire – con un ruolo ancora più importante di quanto fatto ad oggi e rafforzare la relazione con il Sudafrica è una chiave di volta strategica.
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Juniper Networks: un programma su inviti per accelerare verso l'enterprise
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Juniper Networks: un programma su inviti per accelerare verso l'enterprise
Per accelerare la sua scalata verso il segmento enterprise Juniper Networks lancia nuovo programma di canale su inviti chiamato Enterprise+. “Abbiamo tutta l’intenzione di crescere in market share nel segmento Enterprise networking, abbiamo i numeri e abbiamo spazio visto che stiamo parlando di un mercato da 44 billion”. E’ questo quanto ha dichiarato Mario Manfredoni, country manager Italia di Juniper Networks, in un certo senso riconfermandoci quando aveva sottolineato in una precedente intervista presentandoci l’acquisizione di Mist Systems, pioniere delle reti wireless gestite via cloud e alimentate da sistemi di intelligenza artificiale.
Il Covid-19 ha rallentato l’attività ma ha anche portato a un nuovo modo di lavorare e di fare business. “Abbiamo fatto un abuso di video e corsi di formazione online su Mist al canale e abbiamo portato avanti una serie di webinar per l’area vendita e per l’area tecnica, delle certificazioni sia a livello italiano sia worldwide. L’integrazione del canale Mist in quello di Juniper è avvenuto bene e ci ha già portato storie di successo”.
Mario Manfredoni, country manager Italia di Juniper Networks
Il programma Enterprise+
Dunque un ampliamento del programma standard di canale di Juniper che coinvolge anche Mist e va sotto il nome di Enterprise+ e, ovviamente, strizza l’occhio al mondo enterprise, quello che a Juniper interessa scalare. Enterprise+ è un programma su invito che si affianca al programma standard di Juniper, ideato per facilitare la vendita collaborativa tra il team di vendita interno di Juniper e i partner di canale, specificamente per affrontare il segmento enterprise. Un programma che tocca i partner Juniper ma coinvolge solo 100 di loro a livello globale e l’Italia vede la sua presenza grazie alla selezione di realtà come Lutech, Texor e Vista Technology.
Juniper Networks offre formazione e supporto interno tramite la struttura di Inside Sales o quelli che oggi chiamiamo Virtual Sales Executive e quindi risorse localizzate ad Amsterdam che risultano il centro focale di supporto per i partner Enterprise+. E’ prevista un’attività di demand generation in sincrono con le caratteristiche di ogni reseller. Inoltre, ci aspettiamo delle extra revenue su tre specifici pilastri: il primo Mist, il secondo è l’SD Branch, la capacità di fornire connettività flessibile intelligente e sicura e/o la Z Center practices, quindi il Data center.
Cosa è successo durante il Covid-19?
Juniper Networks scala il mercato dei service provider da 20 anni a questa parte. “Nel mondo dell’enterprise ci siamo entrati da poco e abbiamo circa 4% di market share su un volume di mercato di 44 billion. Possiamo crescere – dice Manfredoni – abbiamo fatto assunzioni nell’ambito del canale, assunzioni in ambito enterprise. Tra i nostri programmi c’era e c’è quello di investire e di diventare rilevanti anche nel settore enterprise. Il covid ha rallentato il mondo dei service provider ma i primi due trimestri dell’anno sono andati bene grazie al fatto che durante il periodo della pandemia abbiamo modificato i profili di traffico passando dalle aziende alle abitazioni e, molti service provider, hanno dovuto potenziare le loro reti e accelerare i loro piani di budget per poter gestire questo incremento di traffico corporate e traffico video”.
Mist espande la sua influenza nel portafoglio enterprise di Juniper integrandosi, grazie al proprio motore di intelligenza artificiale, all’area wired, dato che l’area switching è già all’interno della piattaforma intelligente di Mist, diventando sempre più centrica per il mondo enterprise.
Occhi aperti sulle novità tecnologiche del mercato
Per Juniper, il percorso di ampliamento per acquisizioni non è ancora finito. Manfredoni sottolinea la solidità finanziaria della società come base sufficientemente tranquilla per osservare il mercato e scrutarne le occasioni tecnologiche di mercato e poter puntare o a sviluppi interni o crescita inorganica con acquisizioni. “E non solo in ambito Enterprise – dice – ma anche nell’ambito service provider perché bisogna continuamente essere pronti a rispondere ai cambiamenti tecnologici o alle esigenze di mercato”. Ma quali cambiamenti tecnologici principali vede, Manfredoni, in questo momento? “Il mondo della virtualizzazione si sta sempre più avvicinando al mondo dei container quindi del kubernetes; l’evoluzione in preparazione al 5G; abbiamo abbracciato il concetto di virtualizzazione portando avanti soluzioni nell’ambito del software-defined security XX per cui a Juniper viene naturale guardare e capire cosa si possa fare per essere innovativi, anche sul 5G”.
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di Stefania Mezzina
MONTEPRANDONE – Nell’ultima seduta del 2019, il Consiglio comunale di Monteprandone ha approvato all’unanimità due delibere in tema ambientale, a tutela della salute pubblica in cui dice “no” alla sperimentazione della tecnologia 5G su tutto il territorio comunale, fornendo nuove regole per l’installazione delle antenne per la telefonia mobile.
Per quanto riguarda il 5G, il Consiglio comunale, nello specifico, ha espresso parere negativo riguardo l’estensione sul territorio comunale della nuova tecnologia, promuovendo al tempo stesso soluzioni tecnologiche sicure e a basso impatto ambientale e sanitario, quali il cablaggio al posto del wireless, cominciando dai luoghi maggiormente sensibili come scuole e uffici pubblici.
Nel testo proposto dal consigliere con delega all’ambiente Sergio Calvaresi, applicando il principio di precauzione sancito dall’Unione Europea, il Comune di Monteprandone si astiene per il futuro dall’autorizzare, “asseverare e dare esecuzione a progetti relativi a nuove tecnologie come il 5G, che possano condurre ad un aggravamento delle lamentate condizioni di insalubrità. Il tutto in attesa che studi scientifici indipendenti dimostrino la non pericolosità del 5G per la salute delle persone e per la tutela dell’ambiente”.
In merito alle nuove norme per l’installazione e l’esercizio di stazioni base per telefonia mobile e per la minimizzazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici, nel regolamento si vieta di installare impianti su immobili considerati beni culturali e paesaggistici, su scuole di ogni ordine e grado, su asili nido, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi, ospedali e case di cura e lontano dalla abitazioni civili.
“Il regolamento è corredato da una mappatura che riporta la localizzazione delle antenne attualmente presenti sul territorio comunale – spiega il consigliere Sergio Calvaresi – entro 12 mesi si procederà, attraverso un monitoraggio strumentale, all’individuazione delle aree idonee all’eventuale installazione di nuovi impianti o allo spostamento di quelli già esistenti che non rispettano il nuovo regolamento. E’ un gesto di civiltà il fatto che tutto il Consiglio comunale abbia approvato all’unanimità le due delibere condividendo così valori importanti come la tutela della salute pubblica”.
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HOTEL Y RESTAURANTE ROMA. Ogni angolo della città rigurgita vita: maleodorante, sotto forma di spazzatura e calcinacci. La vita per le strade de La Habana è così. Ti fagocita. Ti urta, con le sue oscenità, le sue sboccataggini, i suoi eccessi. Ti casca addosso, travolge. Come i sottili vetri in frantumi delle finestre e certi soffitti sgretolati. Si vivacchia, e tra un domino e un rum ci si arrangia e ci si reinventa nei modi più sorprendenti per scucire un paio di pesos a qualche turista. Intanto, tempo, pioggia e sole si portano via l’intonaco dalle facciate. Le mattonelle che rivestono le ripide scalinate in marmo tutte sbeccate vanno in frantumi, e brandelli di legno marcito sdrucciolano da pesanti portoni intarsiati, sempre semi aperti sulla strada. Ma quello stesso tempo ingrato, in certi angoli di strada, sembra non essere mai passato. Palazzi in stile liberty, barocco, art Deco, ormai decadenti, trasudano ancora la maestosità del loro passato. I loro ingressi, animati dal rumoroso via vai di persone in continuo brulichio, sono finestre su un mondo senza e fuori dal tempo. É così, su calle Aguacate, che l’anima dell’antico splendore de l’Hotel Restaurante Roma, sopravvive al tempo, dal 1926. La gabbia aperta in ferro battuto del suo ascensore originale, continua implacabile a scalare i suoi 5 piani. Da oltre cinquant’anni però, il portiere non veste più completo e cravatta e non sono più facoltosi e selezionati clienti a salire verso le proprie camere. Gente comune abita ora il palazzo, che è stato ripartito e suddiviso in viviendas (abitazioni), per diventare a tutti gli effetti un altro condominio popular in uno dei tanti barrios de La Habana. Una laconica signora dall’aria affabile siede sempre all’ingresso. Bigodini in testa e infradito. Che siano nuovi avventori o consueti visitatori, basta un cenno per scrollarla dalla seggiola. Entra dopo di loro, trascinandosi, nel cigolante ascensore. Chiude la gabbia arrugginita e con sicuri e sapienti gesti automatici aziona il motore. Le funi iniziano a scorrere e insieme ai suoi passeggeri scompare dal piano terra. Dopo qualche minuto riappare la gabbia in discesa, e di nuovo, con aria annoiata, riprende posizione sulla sua seggiola nell’androne. Fino al prossimo avventore. Qualcuno entra e sale le scale senza rivolgerle nemmeno uno sguardo, e lei, impassibile, ricambia l’indifferenza. La lanterna adiacente, sempre accesa, crea un’atmosfera magnetica. Sotto la tettoia in ferro battuto e una piccola vetrata liberty, la pittoresca insegna cita ancora ROMA. Le bugìe in ferro che ancora sporgono fanno immaginare quando erano, chissà, i lumi a farla risplendere, insieme al mosaico sul pavimento d’ingresso in graniglia. Sembrano questi gli ultimi fregi rimasti a ricordare il passato di questo raffinato e suggestivo Hotel nel cuore de La Habana Vieja. Ma qualcosa di altrettanto magico è neonato ai piani alti del Roma. Il Capitolio si staglia su un panorama di tetti fatiscenti e fa da cornice a un’ampia terrazza che svetta sulla città. Un lungo bancone e una consolle improvvisata, diventano i nuovi protagonisti del Roma. É in questo solar, che un altro capitolo di storia senza precedenti ha inizio. Il panorama musicale di Cuba per ragioni prima politiche, poi soprattutto di risorse economiche e tecnologiche, non ha offerto terreno fertile per la musica alternativa. Tutt’ora ascoltare generi musicali diversi da quelli tradizionali è impresa ardua. Alain Medina Naranjo, alias DJ Alain Dark, nato e cresciuto nel Roma, è l’ideatore e proprietario di quello che ha battezzato Bar Roma, nonché primo e più in auge locale di musica elettronica de La Habana, che ospita a rotazione dj di fama internazionale. Il sole tramonta sulla città, e a suon di musica elettronica il panorama e le luci del Roma si fondono in una atmosfera unica. I fantasmi e le tracce di un passato nobile e illustre come quello che fu dell’Hotel Roma, convivono ora con il presente ambienti così intrisi di storia e nostalgia.
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