#Sarebbe un peccato che tutta quella fatica fosse per niente
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Non riesco a dormire e mettendo a posto la mia stanza ho ritrovato questa poesia in un vecchio quaderno del liceo. Il compito era di scrivere due ottave nello stile di Marino (non so cosa stesse passando per la testa alla nostra professoressa) e mi ricordo di aver sudato sangue per comporre qualcosa di decente. Il risultato mi fa sorridere, e siccome alla fine nessuno ha mai letto questo pastrocchio "barocco" ho pensato di condividerlo nella speranza di far sorridere anche voi.
@awed-frog, @maryshelleey and @yourobriensource, ecco a voi "OSTRICA E PERLA"
Là ove l'onda s'avvolge e si dipana
mai da gorgo turbata, o da corrente,
tu del tesoro di Nettun guardiana
artigiana instancabile, da sempre
bellezza crei con sapienza arcana.
Tu, nel ventre del mare picciol ventre,
generi dalla vil rena un tal tesoro
che in ombra pon le gemme tutte e l'oro;
è un astro ascoso in mar, e il ciel arazzo,
le stelle perle in esso trapuntate.
Persin la luna dall'infinito spazio
mira nel mar la celestial beltate
del frutto tuo, l'immenso occhio mai sazio.
Tra le tue valve aperte e disserrate
come la luna in ciel la perla luce
tra le stille del mar stilla di luce.
Che capolavoro, eh? ;)
#Prendetela come una parodia#Spero vi piaccia#Sarebbe un peccato che tutta quella fatica fosse per niente#Certo che razza di compito strano#Ostrica e perla#Mi sembrava il tema più barocco di tutti#My writing#Memories#Funny#Marino#Daily dose of poetry#It's good to laugh at yourself from time to time
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“io te lo dico, non ho intenzione di andarmene.”
A quanto pare ha avuto moodo di cambiarsi, lasciando che quella divisa ancora meno sopportabile del solito rimanga in Sala Comune a favore di un outfit total black, composto da una canottiera piuttosto leggera di un paio di taglie in più e pantaloncini corti che arrivano sopra il ginocchio, a dispetto del tempo scozzese. A dar sfoggio alle sue gambe e braccia nude pure i piedini sono lasciati liberi dalle scarpe, buttate lì da qualche parte insieme ai calzini.
Maegan fa quello che fa sempre quando è di cattivo umore, o almeno da quando è ad Hogwarts: sta andando alla Rimessa delle Barche. Entra e si aspetta una bella mattinata in solitudine. Si avvicina al Lago per mettersi seduta in un posto random e lo nota. Finalmente. «oh che bolidi!» e lo esclama decisa, perché lo ha pure riconosciuto: quello dell’articolo. Storce il nasino e nonostante tutto si siede «Io te lo dico, non ho intenzione di andarmene» Buongiorno insomma
Come reazione a quel tono di voce probabilmente troppo alto lui ha le dita della mano destra che vanno a massaggiare le palpebre socchiuse, il capo che va a chinarsi in quel lasciare una pausa dopo le parole altrui «basta che stai zitta.» lanciandole una breve occhiata, la voce bassa ma non per questo meno aggressiva - ben lontana dal sembrare accomodante.
E per un po’ sta veramente zitta e sembra quasi che quella convivenza sia fattibile. Alterna lo sguardo tra la pergamena e il Lago, manco cercasse ispirazione. Ma poi si sofferma anche su Sebastian a un certo punto e solo in quel momento si rende conto che è praticamente nudo e la lingua non viene fermata in tempo «ma come fai?» chiede, e se l’altro la guardasse le farebbe anche un cenno con la testa per fargli capire che gli ha chiesto come fa a non avere addosso almeno un maglione, claro
Al dire di lei va aggrottare le sopracciglia confuso, girando con estrema calma e lentezza il capo verso di lei, serrando le labbra prima di quel «non dovevi farti i ca**i tuoi?» con quel tono indolente che sottintende quella specie di "patto"
«Senti tipo» sì, l’ha chiamato tipo «non ti inca**are per una domanda eh» è un attimo confusa e il tono un po’ arrogantello è di casa quindi un po’ emerge «se hai bisogno di una caramella per non fare lo str»udel, ha detto strudel «ne ho una eh» e quindi afferra una caramella mou e gliela sventola.
«senti. Tu vieni qua, urli» cos «e fai domande.» gli occhi che vanno da capo a piedi di lei per poi tornare ad incrociarne lo sguardo «non mi devi rompere il gramo, mh?» intesi, bimba? «sto così perché ho caldo.»
«Ci voleva tanto?» a rispondere alla sua domanda, avrebbero evitato tutto quel teatrino. Quasi gliela sputa quella domanda. Però si azzittisce, e la caramella mou se la mangia lei. La bimba mette a posto la pergamena nella borsa, che tanto ora Sebastian le ha fatto passare pure l’ispirazione, si siede e si appoggia contro il muro di pietra e chiude gli occhi. E rimane lì. Non si muove. Se qualcuno deve andarsene non sarà lei, quello è il suo posto.
«come mai sei venuta qua?»
Maegan è lì seduta, con gli occhi chiusi e dopo minuti interi si è persa nella sua testa e nel filo di pensieri. Uno dei pochi momenti che si concede di perdersi è proprio quel luogo. si era pure dimenticata la presenza di Seb, e infatti quando lui le fa quella domanda apre gli occhi sorpresa. E lo guarda con gli occhi un attimo sgranati. «Vengo sempre qui» dice facendo spallucce. Il tono è semplice e tranquillo, come avesse dimenticato il fastidio e la confusione di cinque minuti prima. «per una pausa» e lo dice inumidendosi le labbra. Lo sguardo che fino a quel momento era su Sebastian si sposta sul Lago. «e tu invece?»
«è tranquillo.» e quindi ogni tanto gli piace, venirci.
Non le sembra di dover aggiungere altro, come se intuisse in qualche modo che quell’equilibrio tra loro due sia molto precario «vero» e quasi lo soffia e un piccolo sorriso le si forma sul volto. Se non lo fosse non sarebbe il suo posto. Magari è il posto anche di Sebastian. Sta zitta ancora qualche minuto a guardare la distesa d’acqua e poi sposterebbe lo sguardo verso Sebastian «Io ora faccio una cosa» dice con calma e con tono basso, sia mai che pensi che lo voglia disturbare «Ma non sono strana» e lo sottolinea. E poi si alza e si avvicina sempre di più al Lago, si toglie le scarpe con cura e un piccolo brivido le percorre la schiena, si arrotola i pantaloni fino a metà polpaccio e nonostante il freddo si siede sul bordo e mette i piedini a mollo, che in pochi secondi non sentirà nemmeno più.
Va a seguirla con lo sguardo - in modo non troppo insistente, sia chiaro - e la osserva togliere scarpe arrotolando pure i pantaloni, per immergere i piedi. E lui va ad alzarsi molto lentamente, piegando la schiena in avanti e contraendo gli addominali, le braccia in avanti così da tirarsi in piedi. La bacchetta ancora lungo il suo fianco mentre va ad avvicinarsi silenziosamente - complici i piedi nudi - alla Corvonero che se lo ritroverà lì affianco. Peccato lui rimanga in piedi «occhio agli avvincini eh» accennando un mezzo ghignetto divertito in sua direzione
«Speravo di attrarre qualche sirena malefica» gli dice con un ghignetto sul volto. Torna a guardare la distesa nera e poi aggiunge «Fallo anche tu» che suona quasi come un invito gentile, assurdo. «è liberatorio» da cosa non lo dice... «Io comunque sono Maegan». E non aggiunge MacGillivray. Questo è l’unico posto in cui i cognomi non esistono.
A quel "fallo anche tu" sembra ragionarci un po` sopra «perché non ci buttiamo direttamente dentro?» ehm wtf?
E invece le propone di buttarsi e lei fa svettare lo sguardo verso di lui. Le sopracciglia sono alzate e un grande sorriso malandrino le dipinge il volto «Sarebbe grinzafico». E nonostante il rischio di morte la bimba potrebbe farlo, ma pensa sia una battuta e quindi ridacchia
E lo fissa così insistentemente quel Lago che lascia ben poco spazio al dubbio, ed ad anticipare la sua volontà lui si inchina per mettere la bacchetta lì per terra tra lo spazio che intercorre tra i due; in precario equilibrio sui suoi piedi con le gambe piegate e il culetto appoggiato sui talloni va pure a sfilarsi la canottiera che semplicemente abbandona lì. Potrebbe quasi sembrare che stia per sedersi, peccato che i piedi siano pericolosamente al bordo del legno che sta prima del Lago Nero e come lei si presenta lui si lascia cadere in avanti in modo teatrale, allungando un po` le gambe così da non rischiare di sbattere la testa o chissà cosa. Un brivido intercorre lungo il suo corpo e quel calore va a contrastare l`acqua gelida del Lago Nero, con la pelle d`oca che va a coprire ogni centimetro del suo volto. Lui però non farsene minimamente un problema, lì che riemerge velocemente rigirandosi verso la Primina con i capelli ora appiattiti, la testa alzata e l`espressione tranquillissima - come se non stesse rischiando l`ipotermia, tipo. Allunga pure la mano in direzione della Primina per farsela stringere «Seb, piacere»
Scoppia semplicemente a ridere quando Sebastian riemerge dalle acque con tutti i capelli appiattiti. Una risata candida e rumorosa. Afferra con decisione la mano che le porge «Seb, tu sei tutto matto!». ma il tono è divertito e ammirato. E il sorriso malandrino che le si palesa sul volto ne è la prova tangibile.
Quella risata non pare infastidirlo perché a lui basta immergere la testolina fino alle orecchie per far sì che divenga più lieve. Gliela stringe con forza andando a sollevarsi e per un momento la tira pure a sé però niente, non vuole veramente che questa cada ed infatti non ci mette così tanta forza - solo uno scherzetto insomma per avvicinare la testa al corpo altrui e scuotere il capo come l`animale che è e bagnarla tutta (scusate). Il sorriso è così largo che mostra pure la sua dentatura mentre si lascia ricadere all`indietro allargando pure le braccia e lasciandosi ammirare in tutta la sua stupidità mentre sta gelando - ma tutto è meglio di quel caldo atroce di poco fa
E poi Sebastian scuote i capelli e gli schizzi gelati arrivano diretti su Maegan infradiciandola. E lei ride e basta. E un vero sorriso è tutto per Sebastian. Di quelli rari che rivolge a pochi eletti. E poi ci pensa veramente un attimo e quasi pensa di buttarsi, pure lei. Ma è incerta, un minimo di istinto di sopravvivenza ce l’ha. Però intanto si toglie il mantello e lo poggia al riparo dall’acqua. Un brivido le prende la schiena e inizia a battere un pochino i denti «secondo te…» può entrare anche lei.
Tiene gli occhi su di lei e come si toglie il mantello il sorriso si allarga ancora di più mentre con un paio di bracciate torna ai suoi piedi «mh?» secondo me cosa, eh? Ma no, non ti lascia nemmeno rispondere perché una mano va a tenersi al legno - proprio al fianco sinistro di Maegan, particolarmente vicino (se non proprio attaccato). E ciò anticipa solo di qualche secondo quel mettere i palmi sul legno e con un colpo di reni tentare di sollevarsi, con le gambe ad aiutarlo e un «ohw» per la fatica, ringraziando i muscoli di braccia e addome in tutto ciò. Va ad appoggiare il ginocchio ma è tutta una finta la sua, perché vuole solo stare abbastanza stabile da poter staccare entrambe le manine e passando la sinistra davanti a lei va a cingerle i fianchi saldamente e di nuovo va a buttarsi nell`acqua, questa volta all`indietro e portandosi dietro Maegan.
Un «AAAA» è ben udibile prima di finire quasi del tutto vestita dentro il Lago. L’impatto con l’acqua è devastante per la piccola. Il freddo le entra fin dentro le ossa e per un momento le sembra di non riuscire nemmeno a respirare. Ma poi con due colpi di braccia riesce a riemergere e cerca lo sguardo di Sebastian e un sorriso a trentadue denti le increspa le labbra «CHE FREDDOOO»
Va portarsi una mano instintivamente sulla tempia; ma vabbè, un movimento delle dita e uno stringere gli occhietti prima di tornare a concentrarsi sulla Corvonero, riacquistando quel ghignetto quando va a schizzarle l`acqua addosso con entrambe le mani.
Quando Sebastiana la schizza lei ride e di rimando lo schizza dando il via ad una guerra e la bambina non ha intenzione di arrendersi, avvicinandosi sempre di più al Primino per colpirlo con più forza e decisione. Probabilmente è tutto quell’entusiasmo a far sospendere il discorso freddo, o forse non sente più il proprio corpo e basta. Ma continua a ridere.
Finisce per "arrendersi" tornando con la testolina sott`acqua dopo una bella boccata d`aria. Probabilmente ancora alla ricerca di un sollievo per il visino va a trattenere nuovamente il respiro quanto può, gli occhi aperti - con rossore annesso - mentre individua i polsi altrui e va a stringerli così da compiere una piccola spinta in giù, staccando presto le mani dopo averla invitata in quella che vorrebbe essere una gara a chi trattiene di più il respire, dove i sorrisi non si sprecano, vabbè.
«Ti ho battu..» e no, non la finisce la frase che sente una manina che le prende i polsi, e ha giusto il tempo di prendere un respiro più ampio possibile che viene trascinata giù. Ha gli occhi spalancati e vede Sebastian che le sorride e lei cerca di fargli una faccia minacciosa (?), ma mica è molto credibile in realtà. La gara comunque la perde alla grande, perché dopo poco torna su. E non appena anche il Secondino torna su gli dice «ah ma quindi l’avvincino saresti tu?»
Tra guerra di schizzi e gare di respiro improvvisate non è importante chi vinca e chi no, finiscono solo per arrivare lì a guardarsi faccia a faccia «almeno non sono una sirenaaa»
«certo che non sei una sirena! Quelle sono bellissime» gli dice prendendolo in giro e scoppiando a ridere
Fa l`offeso portandosi una mano al petto «oooh ed io non sarei bellissimo?»
Meg non si fa prendere dal panico, arrossisce solo un pochino (ma super poco dato il freddo quindi bene così) e dopo un secondo di pausa dice «Non bello quanto me!»
La piccoletta comunque ancora sguazza, si immerge al di sotto della superficie e ci rimane il più tempo possibile per sentire tutti gli aghetti di gelo anche sulla faccia, ovviamente il tempo è molto poco che se no muore. Quando riemerge un altro sorriso a Sebastian e con due bracciate raggiungere la Rimessa.
Temporeggia un poco guardandola in quei tentativi per uscire «dai dai, aiutati con le gambe su» fa il coach, tipo «ti serve unaa manoo?» detto con un tono volto a prenderla in giro più che altro, seppur si avvicini ad essa con qualche bracciata
Seb non si fa mancare l’occasione per prenderla in giro «sta zitto tuu!» si gira pure verso di lui e gli fa una linguaccia. Però poi ammette un piccolo «sì» quando le chiede se ha bisogno di una mano. È gracilina.
Ridacchia a quella linguaccia ma nel mentre compie quell`abbracciate volte ad arrivarle vicino, fermarsi lì ed intrecciare le proprie manine che dovrebbero fare da scalino «appoggia il piede qua dai»
Poi finalmente ce la fa, e rimane lì tremante per un attimo per poi sedersi e raccogliere le gambe al petto cercando di riscaldarsi(?). e guarda il Secondino uscire con più agilità di lei e in poco puntarle anche la bacchetta contro.
Alza la mano destra puntando la bacchetta sull`altra, e potrebbe pure sembrare minaccioso se non fosse che pronuncia quel «arefacio» con un tono molto calmo e particolarmente preciso, concentrandosi appunto sul caldo della manina sinistra ancora appoggiata alla guancia.
dalla bacchetta esce solo un getto caldo e lei a quel contatto non può far altro che chiudere gli occhi e sorridere godendosene le sensazioni. E appena è asciutta un forte «etciù». Ma lei guarda Seb e un «Grazie» sincero e quasi sussurrato è quello che le esce dalla boccuccia che ha ripreso un po’ di colore. Si alza in piedi decisamente più asciutta per recuperare tutto quello che ha lasciato al riparo dall’acqua. Si infila il cappello e la sciarpa in fretta e indossa il mantello, la felpa dei Tornados invece la tiene ancora in mano e guarda il Grifondoro con un’aria del tutto seria «Okay Seb. Io ti presto questa, perché fa freddo ora» come se prima invece fosse estate Meg ma okay «Però è la mia felpa del cuore. Quindi me la devi restituire a pranzo. Chiaro?»
La acchiappa al volo con quei riflessi da Mannaro prontissimi «ma tienila tu che hai già il raf-» si blocca, andando a sollevare la testolina per un piccolo «etciù» che lo vede mortare il capo di lato così da non starnutirle in faccia (?). La guarda serio e «noooo Megh» le lancia un`occhiata preoccupatissima da bravo attore «mi hai contagiato!» Una piccola smorfia in direzione di lei e un`occhiata alla felpa lì ancora in braccio «ed ora dovrò pure indossare questa felpaa!» indignatissimo proprio, che i Tornados fanno skyf.
«Hai iniziato tuu» cosa? «quindi ora ti becchi il raffreddore!» afferma convinta e incrociando anche le braccia al petto. Insomma sono pari (?). ma la felpa non sembra apprezzarla, e questo è un sacrilegio e infatti «COSA?!» è sconvolta poverina «ITornadossonoimigliori»
«Stai scherzando spero» e qua va a sgranare un po` gli occhi «i *wanderers* sono i migliori, volevi dire» piegando pure il capo come ad incoraggiarla, questo era ciò che volevi dire no?
«Ah! E mica la vorrai indossare quando sei tutto bagnato, no?» sì Maegan si preoccupa per la felpa «Non puoi fare anche a te quello che hai fatto a me?» cioè l’arefacio, lei mica lo sa fare sicuro. E lo guarda anche un attimo preoccupato, che poi altro che raffreddore se rimane tutto zuppo.
Va a sbuffare sonoramente «scusa, offri le felpe e poi ti lamenti?» con tanto di sopracciglia che vanno ad alzarsi, e questa volta è serio «te la lavo» lui proprio «se proprio ti schifa» il fatto che lui la mette tutto bagnato: è quello il motivo, no? «non mi va di farmi un arefacio» il tono severo che non ammette chissà quali repliche o domande, così come l`occhiata che le lancia. In tutto ciò la felpa giace ancora nelle mani che hanno iniziato a muoversi come agitate, riducendo l`indumento altrui ad una palla.
Però poi lui pure la maltratta quella felpa arrotolandosela e allora istintivamente si avvicina. Non maltrattare la piccola Seb!!! «Ma non ho detto che mi schifo eh» ed è ancora abbastanza distante «pensavo solo che avrebbe fatto bene anche a te un po’ di caldo?» e sì glielo chiede, perché quell’espressione l’ha resa dubbiosa sulla questione.
«no, non mi piace» detto in modo mooolto schietto, intendendo il farsi un po` di caldo.
È un attimo confusa quando le dice che il caldo non gli piace «ma quindi non ti piace nemmeno il the?»
Dire che lo confonda è il minimo «tu sei strana.» ma strana forte eh, il tono vagamente infantile come quell`occhiata che però non ha nulla di cattivo e si collega esclusivamente alle parole dette da lei prima
E ora si avvicina ancora toccando la felpa, ma non se la vuole prendere, ma solo farlo smettere di maltrattarla pikkola ancela. «Dai mettila Seb» e lo guarda anche negli occhi nonostante siano troppo vicini, ma lei non lo nota nemmeno in realtà. La sua felpa ha la priorità su tutto. proprio quella felpa che prova a spingere (?) verso il secondino per fargli capire che se non vuole arefaciarsi almeno si metta quella dannatissima felpa.
Continua a torturare la felpa finché Meg non va a toccare la felpa, e sfiorandogli le mani può sentire quel calore anormale del Mannaro. Non che duri poi molto visto che lui smette di maltrattarla, andando a rispondere con un «okay» molto - troppo, per i suoi standard - pacato, mentre semplicemente andrebbe ad indossarla e guardarsi abbassando la testolina «faccio schifo mh?» E seppur gli stia bene lui va ad alzare lo sguardo facendo una piccola smorfia piena di disapprovazione, tradita da quel distendere le labbra.
Gli fa uno scanner completo con gli occhi per distendersi in un grande sorriso «Ora sei bellissimo!». insomma tutti sono belli con la magica felpa.
Come risposta si becca un ghignetto soddisfatto con tanto di occhiolino che di malizioso però ha ben poco.
E finalmente si allontana dal Secondino. Che ormai quel ravvicinamento non ha più senso di esistere. E si dirige verso la borsa a tracolla, se la mette sulla spalla e «etciù», un altro forte. «Torniamo al castello?» con un piccolo sorrisetto.
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31.
Si, ero la campionessa regionale. Avrei rappresentato la Campania nel Campionato Italiano del 2018. Ero proprio io, e sentivo di essermela meritata quella vittoria!
Nessuno mai mi ha regalato nulla. Se c’è una cosa che i miei genitori mi hanno sempre detto è stata proprio questa.
Non sono figlia di nessuno. I miei sono due semplici operai, che non mi hanno mai fatto percorrere strade spianate, o scorciatoie. Mi hanno dato però sempre tutte le opportunità che potevano, i giusti strumenti per mettermi in gioco, scegliere un percorso e dedicargli tempo ed energia.
Nessuno mi aveva mai agevolata. Se avevo centrato l’obiettivo, dopo tutto quel tempo e quella fatica, era per merito.
Non c’è niente di più bello di un qualcosa costruito con le proprie mani, giorno dopo giorno.
Non so bene quando ho avuto piena consapevolezza di quello che avevo raggiunto, forse quando mi sono ritrovata al palazzetto di Lidio di Ostia, quella struttura a forma di astronave che da sempre ospita i Campionati Italiani di tutte le categorie di età, individuali e a squadre.
Non era la prima volta che entravo lì.
Ci ero già stata. Nell’autunno del 2015 ci ero entrata per la prima volta. Ero fidanzata all’epoca, e avevo deciso di accompagnare il mio ragazzo ad uno dei suoi campionati italiani. Ci allenavamo insieme già da 2 anni, eravamo una coppia da circa 8 mesi. Quell’anno io non mi ero qualificata, e questo aveva creato in me una delusione profonda, ma gli stetti accanto lo stesso. Appena lui si qualificò, iniziai ad incoraggiarlo, a supportarlo. Archiviai il mio dolore, lo accantonai in un angolo. Non avrei scaricato le mie emozioni sul mio ragazzo, che invece stava per giocarsi una grande occasione.
Quell’anno vinse il titolo, la medaglia d’oro. Stupì tutti.
Aveva battuto due degli atleti più forti, tra cui il campione d’Europa.
Era arrivato sul tetto d’Italia.
C’ero anche io, ero al suo fianco quel giorno. Ma soprattutto ero stata presente nei retroscena.
C’ero stata in centinaia di momenti, di occasioni, ad affrontare difficoltà e problemi, a gestire la stanchezza e lo stress. Lo accompagnavo in quel percorso, senza chiedere nulla in cambio. Avevamo affrontato di tutto insieme. Avevo assistito a tutto il suo percorso. Avevo visto quanto era stato complicato, faticoso, a tratti scoraggiante. C’ero nei suoi momenti peggiori, e sapevo delle sue qualità. Ho sempre pensato che doveva soltanto aspettare il suo momento. Di qualità, di esperienza, ne aveva senza dubbio. Tuttavia si ritrovava ad affrontare una categoria di peso affollata, numerosa, dove c’erano gli atleti più promettenti del panorama nazionale. Non è facile distinguersi quando ti confronti con i migliori. Ci ho sempre creduto in lui, forse in alcuni momenti anche più di quanto lo facesse lui stesso.
Prima di gareggiare, quella mattina, mi disse che ce l’avrebbe messa tutta.
Dopo la gara, ricordo che con quella medaglia al collo corse ad abbracciarmi, e mi disse “Amore, te lo avevo promesso!”
Fui felice come se avessi vinto io!
Gli dissi.
“ Non conta da quanto punti in alto, ma da quanto in basso arrivi! La forza sta in chi cade e si rialza!”
Quella non fu l’unica occasione in cui misi piede in quel palazzetto.
Ci ritornammo anche a gennaio del 2016. Lui era stato convocato dalla squadra regionale; la qualificazione gli spettava di diritto, dato che era il campione italiano in carica.
Anche in quell’occasione, a causa di vicende poco chiare, la mia convocazione non era arrivata.
Ancora una volta, misi da parte me e le mie emozioni e decisi di essere al suo fianco.
Stare insieme è esserci, e supportarsi, peccato che tutto ciò non fosse reciproco. Ma io ero troppo innamorata per rendermene conto!
Quello fu solo l’inizio. L’inizio di un lungo periodo in cui fu al massimo! Era nella sua forma migliore. Aveva vinto il titolo di Campione Italiano, ed era stata una grande scoperta tanto da ricevere riconoscimenti pubblici, e un articolo di giornale dedicato a lui. Era membro della squadra giovanile Campana, e atleta di interesse nazionale. In palestra era il modello da seguire, la giusta fonte di ispirazione per i più piccoli, e il più forte con cui confrontarsi per noi atleti suoi coetani.
Ero contentissima per lui, per me era una gioia immensa vederlo crescere così tanto! Era il suo sogno, ed era diventato realtà.
In realtà di una cosa non ero molto contenta; essere identificata come “la fidanzata del Campione”.
Era così che mi chiamavano.
C’era il campione, e poi c’ero io. Come se io fossi un’accessorio.
Del resto, lui eri al massimo, sotto gli occhi di tutti. Io invece, non ero nessuno. Collezionavo sconfitte e delusioni, gare perse e occasioni mancate. Ecco cosa vedeva da fuori la gente.
Purtroppo però era anche quello che pensava lui. E’ come se la sua carriera fosse stata sempre più importante della mia. Il suo percorso non poteva essere ostacolato. Dopo ogni litigio mi sentivo dire che ero responsabile se la gara qualche settimana dopo sarebbe andata male, se non avesse reso al massimo al successivo raduno con la nazionale. Era colpa mia, che non gli permettevo di essere tranquillo, e lo distraevo. Era quello che è uscito dalla bocca di tutti, e forse era anche dovuto a come si poneva lui all’esterno.
Io rappresentavo una distrazione, e un ostacolo. Nessuno mai però, ha menzionato l’ipotesi che quella che ci rimetteva fossi io.
Per anni siamo stati insieme, ed io non ho avuto pace.
Sono stati gli anni più complicati forse, dove la mia mente era continuamente affollata da problemi, bugie da dire, lividi da coprire. Non avevo la giusta tranquillità per poter dedicarmi davvero all’agonismo in modo sereno.
Quel periodo però era finito. Non era più così.
Non avevo più nessun peso che mi trattenesse e mi impedisse di volare.
Ero libera, ed ero la nuova campionessa regionale.
Non ero la fidanzata di nessuno. La campionessa ero io, e me lo meritavo!
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Punto domenicale della situa:
Visto che la strizza di essere querelate per lo schifo che dite sembra esservi passato e avete ricominciato con le solite storie - proprio storie, di finzione, che se ‘sto talento lo impiegaste nelle fanfiction verrebbero fuori dei best seller - che mostrano solo quanto vi rode (ma le mirabolanti rivelazioni della figlia del discografico? Da più di un anno che le aspetto, s’è fatta ‘na certa), mettiamo in chiaro una cosetta o due: state rigirando penosamente la frittata.
Il drama sulla mascherina è partito da voi (con la partecipazione straordinaria di altri sottogruppi). Avete messo il broncio perché avete visto Ermal e Chiara abbracciati (dopo mesi di “dice che stanno insieme ma non la abbraccia/bacia mai nelle foto, questo prova che è tutta finzione!”) e dovevate trovare un pretesto per attaccare almeno lui (per lei bastano le solite accuse disgustose ed infondate di meretricio e infedeltà, suppongo). Cerca cerca...oh! Non ha la mascherina! Forse l’ha solo tolta per i pochi secondi necessari a fare la foto, come facciamo tutti, ma chi se ne importa! Dagli all’untore! Sta portando il Covid in Grecia! Ma quanto siete tristi?
Come faccio a dire che è un pretesto? Facile. Mi tocca mio malgrado tirare in ballo Fabrizio che poverino non c’entra niente con le vostre infantili gelosie: la sera prima del mascherinagate anche lui ha pubblicato foto in un luogo pubblico con perfetti estranei senza mascherina. Sicuramente anche lui l’avrà tolta solo un momento, o potrebbe anche essersela dimenticata, capita, non implica che ci sia intenzione di sottrarsi alle regole. Ma su di lui nessun tweet indignato (o così pochi da non aver avuto nessuna risonanza), nessun post infervorato qui su Tumblr, silenzio tombale. Chissà se c’entra il fatto che lui era a cena con amici di sesso maschile e i due figli? Nessuna donna presente. Umh.
Archiviata la questione, parliamo pure dell’equivoco sulla gravidanza, che in parte ha influito sul dramma di cui sopra fornendo un altro facile pretesto per avercela con Ermal, siccome finora erano pochi. Ci hanno pensato tante persone. Ci ho pensato anch’io, lo dico apertamente. Certo non mi sarebbe mai neanche passato per l’anticamera del cervello di andare a scrivere a Rinald “bella zio, non è che per caso tua cognata è incinta? Voglio i confetti del battesimo!”, ma ho pensato che potesse esserci un significato dietro la scelta di quella posa particolare. Che punizione mi spetta per tale orrendo psicocrimine? Dieci scudisciate? Venti? Trenta? Che poi la smentita ha fatto comodo a voi (e ad altre, che mica ci siete solo voi, io qua parlo a voi perché mamme oche e lupe gelosine non ne stanno, il pubblico è ristretto alle complottiste - no, non vi chiamo shipper perché non lo siete), mica a lui, lui voleva solo evitare che continuassero a rompere i coglioni pure a suo fratello. Retwittandola a manetta vi siete tranquillizzate su un sospetto che, si fosse rivelato fondato, avrebbe fatto risuonare il Dies Irae; ed avete pensato di umiliare chi ci aveva pensato tanto quanto ci avete pensato voi, ma aveva espresso felicità di fronte a quella possibilità, come è giusto e umano che sia (peccato per voi che non abbiate umiliato nessuno perché nessuno aveva avanzato pretese in merito o affermato che fosse indubitabilmente vero, e come potevano?). Ma mi dite cosa ci sarebbe stato di male, nel caso? La sapete trovare una risposta che sotto sotto non sia “mi darebbe fastidio perché non è quello che voglio io”? No, perché con voi è TUTTO un me, me, mio, sempre.
Flashnews: nessuno vi deve niente. Tanto meno un uomo che non sa nemmeno chi siete - e non sa nemmeno chi sono io, se è per questo. Quindi no, Ermal non mi porterà un souvenir dalla Grecia come premio per quello che sto scrivendo, e tranquille che non gli mando lo screenshot di questo post. Se avessi voluto mandargli degli screenshot ci sarebbero state cose assai più gravi tra cui scegliere negli ultimi mesi. E lo sapete tutte, benissimo. Avete cancellato tutto, ma le tracce restano. Ce n’era pure per Fabrizio, tanto per essere eque. Tumblr è una piattaforma pubblica, ve lo ripeto. Non serve neanche essere registrati per leggere determinate cose. Chiunque può passare e fare screenshot. Ricordatevelo sempre, perché ve lo state scordando di nuovo.
Ma perché non fate lo sforzo di abbandonare il pretesto della ship, che tanto non ve ne importa niente e si vede, ed ufficializzate la vostra posizione di hater di Ermal? Fareste meno fatica. E sareste più oneste.
P.S. per oggi siete tutte sbloccate, fatta una sola eccezione che tanto legge comunque. Così non servono indirettini, che fanno troppo Twitter e non sono di classe.
#Ermal Meta#Fabrizio Moro#metamoro#ci stavo quasi sperando che l'era delle diffamazioni fosse finita#ma niente
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Il miglior momento è subito
Ciao, benvenuti nel mio piccolo progetto condiviso. Sono una ragazza curiosa e con tanta voglia di migliorasi. Credo fermamente che la vita sia un viaggio e che non sia mai tardi per diventare le persone che vorremmo essere.
Tranquilli, ci sarà tempo per spiegare tutto, se vi va. Ma ora iniziamo!
Da quando ho cominciato a percorrere la via del lavoro su me stessa ho imparato a comprendere diversi concetti. Uno è che se esiste qualcosa di certo nelle nostre vite è che cambieremo: con o senza il nostro permesso, che lo vogliamo o no, noi cambieremo.
Una delle interessanti implicazioni di questo concetto chiave è che è molto probabile che siamo qui sulla Terra proprio per cambiare. E dato che cambiare è uno dei maggiori scopi della nostra esistenza, credo che sia mille volte più pratico, persino più facile, dare una mano attiva a questo processo. Accogliere, cioè, il cambiamento che sboccia dentro di noi e agevolare il suo progredire.
Non vale la pena ostacolare qualcosa che comunque accadrà combattendola a tutti i costi, siete d’accordo? E poi, parliamoci chiaro: la fatica e la mole di energia impiegate per sbarrare la strada al cambiamento sono immense e sfibranti; tutta l’energia che risparmieremmo la potremmo usare in altri ambiti della nostra vita, come la creatività, la meditazione, le ricerche e… i cambiamenti, appunto. Perché un cambiamento può essere una necessità, come dicevo prima, o semplicemente una nostra volontà. Anche se avevo sempre creduto che di semplice, nelle questioni di volontà, ci fosse poco o niente (mi sbagliavo in parte).
È proprio un cambiamento che mi porta a iniziare questo progetto. Un cambiamento messo in pratica con l’impiego della volontà, come poi spiegherò.
Anzi, lo spiego subito. Fa parte anche questo del mio progetto.
Immagino che, come me, anche voi vi troviate spesso a pensare cose del tipo: “ok, wow, questa idea che ho avuto è davvero bella e sarebbe fantastico metterla in pratica” e appena finito di formulare nella vostra mente questa frase avere un pensiero successivo di questo genere: “sì, bella idea però non ho tempo per occuparmene” o anche ”magari avessi il tempo, povera me…” oppure “di tempo ne avrei ma non ne sarei mai capace”, “sono una frana in questo, quello e quell’altro” e così via.
Quello che vorrei descrivere è un comunissimo esercizio di volontà: prendiamo ad esempio questo blog.
Per prima cosa ho avuto l’idea di aprirlo per parlare della mia strada di evoluzione interiore (un po’ pretenzioso forse?). Stop! Primo tentativo di autosabotaggio. La cosa che sarebbe meglio dire è: “i blog sono fatti apposta perché le persone che li aprono parlino di loro stesse”. “Benissimo! Posso farlo anche io allora!”. Ecco, molto meglio. Una volta riconosciuto e superato il primo ostacolo si può andare avanti.
Ho aperto il blog su una piattaforma gratis (perfetto, così anche se non vado oltre il primo post non ci avrò smenato dei soldi). Eh no! Ci risiamo! “Ehm, giusto… così sarà un passatempo senza impegno che avrò ancora più voglia di continuare”. Vedi che quando ti ci metti ce la fai benissimo? (Grazie).
La fase successiva è anche la più attiva, e quella che mi è piaciuta di più: ho creato la grafica per il mio blog e ho iniziato a fantasticare su cosa avrei scritto nel mio primo post (chissà quando lo scriverò poi…). Insomma! Avevi cominciato bene ma ora non ci siamo proprio! “Volevo dire che ci ho messo un po’ più del previsto per decidere cosa scrivere ma adesso lo sto facendo”. Così suona molto meglio.
Ormai avrete afferrato il punto. Siamo noi ad avere le belle idee e siamo sempre noi a demolirle pezzo per pezzo. Ma cosa succederebbe se accettassimo il meccanismo psicologico e agissimo consapevolmente per smontarlo?
Nel mio caso la consapevolezza di questo meccanismo mi ha portata qui in questo momento, a battere sulla mia tastiera e scrivere una cosa a cui tengo molto: tanti ostacoli ci possono sembrare insormontabili quando sono ancora nella nostra mente, ma basta farli uscire e portarli nella materia e saranno magicamente gestibili. L’importante è non lasciare che la paura di non riuscire ci impedisca di giocare. Sarebbe un vero peccato.
Questa è solo una piccola storia di un piccolo cambiamento, ma è applicabile a tantissime altre situazioni, anche ben più importanti. Provate. Io intanto continuo il blog e la mia strada di cambiamento.
C.
RICAPITOLANDO...
Scriviamo una lista delle idee che vogliamo mettere in pratica
Scegliamo fra queste quella a cui teniamo di più, l’amore farà ciò che la mente spesso si rifiuta
Facciamo almeno un’azione per cominciare ad agire nella direzione di questa idea
Facciamolo subito
Non c’è miglior momento di adesso per iniziare qualcosa
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. 📽️ 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐯𝐞 𝗁𝗈𝗀𝗐𝖺𝗋𝗍𝗌 𝗇𝗈𝗏𝖾𝗆𝖻𝖾𝗋 𝟢𝟣, 𝟤𝟢𝟤𝟥 #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀 ⤸ « Hei, sono qui. » Pur sapendo che sarebbe arrivata, la voce di Lysistrate (ovattata dalla pesante porta che le divide) fa sobbalzare la serpeverde, intenta ad annusare i detersivi di scorta appartenenti a Gazza, forse con la speranza di perdere quell'olfatto messo a dura prova dall'olezzo dello stretto sgabuzzino. « Hai seguito la mia scia fino ad arrivare a me? » «Ho chiesto al tuo perfetto migliore amico, che a quanto pare sa della mia licantropia, dove tu fossi, molto più semplice e meno dispendioso di energie, sarebbe stato un guaio se mi avessi percepita stanca e svilita, no? » 𝘍𝘰𝘳𝘴𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘢𝘷𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘥𝘰𝘷𝘶𝘵𝘰 𝘥𝘪𝘳𝘨𝘭𝘪𝘦𝘭𝘰, 𝘰𝘱𝘴. « Quante parole in pochi secondi, stai cercando di farmi concorrenza? » « No, la lingua la muovi più velocemente tu e di questo sono molto grata a Salazar e anche ai tuoi genitori, sempre che sia genetico. » « È tutta abilità mia, frutto di fortuna, talento e profondo esercizio. Mi dispiace per la storia della licantropia, comunque. » ed è sincera, ché per qualche strana ragione era convinta fosse di dominio pubblico. Probabilmente a Lorcan lo avrebbe detto comunque, ma questa è un'altra storia. « Non importa, potevo immaginarlo. Lo vuoi il muffin? �� « Il giorno in cui rifiuterò del cibo, dovrai farmi ricoverare. » « Apri, io mi sposto. » « Il muffin me lo lanci? » « Lo appoggio a terra, è incartato. » « Peccato, sarebbe stato divertente. Non essere troppo bella oppure ho la tentazione di avvicinarmi, ok? » « Ma io sono bellissima sempre, Octavia. » « Oh no, hai usato / il / nome. » ha aperto la porta, per ora è solo un occhietto verde quello che sbuca. « E hai proprio ragione. » « Ciao. », sussurra appena, il tono tremendamente dolce alla sola vista dello spiraglio aperto. « Ciao. » ha aperto totalmente la porta e le ha rivelato così un brillante sorriso, tuttavia bloccato pochi secondi dopo da un leggero capogiro. « Tu hai mangiato? » La osserva e vorrebbe correre verso di lei, Lysistrate, ma si limita ad allungare lievemente una mano e ritrarla subito. « Ho mangiato. » mente con il sorriso sulle labbra. « Sei proprio in condizioni pessime, ma sei carina, sai? », ché se qualcuno qualche mese prima le avesse raccontato quella scena mai avrebbe creduto alla dolcezza delle parole appena utilizzate. « Guarda che la percepisco la "paura" che io scopra che stai mentendo. » percepisce pure la voglia di avvicinarsi e toccarsi, pur senza capire dove finiscano i sentimenti di Lysistrate e dove inizino i propri. Si china e scarta il muffin, che divide in due esatte metà: diventa difficile incartare quella rimanente con quella destinata a se stessa in mano, ma riesce e poco dopo è di nuovo in piedi, soltanto mangiucchiante. « La senti la puzza di Gazza? Non me la toglierò mai di dosso. Ho trovato una cosa interessante, però. » La guarda, la grifondoro, e riesce solo a pensare a quanto sia bella e quanta voglia abbia di proteggerla dal mondo intero e, forse, anche da se stessa. « Ho altri due muffin qui, mangerò anche quello di Lorcan, magari così mi starà più simpatico. », perché tanto non ha senso mentire. « Sì, maledetto fiuto da lupo, te la sentirò addosso per giorni interi. Uh, cos'hai trovato? » Senza rendersene conto un passo verso di lei lo fa, poi si blocca, tremendamente spaventata dall'idea di aver esagerato. « Mi vuoi dire che io ho compiuto la missione impossibile di dividere il muffin a metà e tu ne avevi altri due a portata di mano? I miei talenti impiegati per l'inutilità. » passa il dito sull'angolo delle labbra per togliere di lì qualche briciola birichina. Nota il passo avanti e resta ferma, nonostante il capogiro venga enfatizzato da quel gesto. « Un tamburello. » il tono le esce appena provato, sebbene abbia cercato in tutti i modi di concentrarsi soltanto su se stessa e di respirare profondamente. « Credo che lo ruberò. » « Te l'ho anche detto prima, non mi presti abbastanza attenzione, signorina. » ride e non può fare a meno di restare incantata dal movimento delle sue falangi sulle labbra. Nota la fatica di Eden e si allontana ancora. « Scusami, non volevo, dimmi ─ dimmi cosa posso ─ cosa devo fare. » « Veramente me lo hai detto prima? » è sconvolta, sul serio non ricorda niente e per una che ama vantarsi della propria memoria è, beh, terribile. Ma mai quanto la sensazione che sta provando. « Temo di dover chiudere nuovamente la porta. » e sbuffa, arrabbiata con se stessa e l'incapacità del momento. « Veramente. », le risponde con tono morbido e si allontana ancora. Una volta che la porta si richiude Lysistrate si allontana ancora, quanto le basta per odiarsi per qualche secondo, riprendere a respirare piano e poi tornare verso la porta. Si siede con la schiena aderente al legno. « Sei la creatura più forte che io conosca e io credo di 𝐚𝐦𝐚𝐫𝐭𝐢 con tutta me stessa e te lo dico dietro una porta, da codarda, perché è inutile che stia zitta, tanto te ne accorgeresti lo stesso e ─ giuro che se lo userai contro di me dirò a tutti che sei una finta bionda.» e si lascia scappare una risatina di liberazione. Poggiata al legno spesso con la nuca, Eden si concede di chiudere gli occhi, ché magari così regolarizzare il respiro sarebbe risultato un po' più semplice e utile al fine di tranquillizzarsi. Di norma gestire le emozioni di una sola persona sarebbe stato spontaneo, eppure il 𝘣𝘰𝘰𝘮 improvviso del pomeriggio l'ha devastata al punto di compromettere pure quella gestione tanto semplice. Spera che il tutto si risolva quanto prima, altrimenti sì che sarebbero stati giancarli senza zucchero. Sente il rumore di Lysistrate che si siede, allora la imita e pian piano scivola col sedere sul pavimento inquietante, le gambe necessariamente piegate in una posizione scomoda a causa del poco spazio. Se lo sarebbe dovuta scegliere decisamente meglio, il nascondiglio. Così come avrebbe voluto ribattere che no, lei non è forte nemmeno la metà della Tsopei (lo pensa davvero, non è per cortesia!), se soltanto la ragazza non avesse poi continuato a parlare. Buffo modo di dichiarare il proprio amore, senza ombra di dubbio. « Però hai detto "credo". » puntualizza, un sorriso che un tempo sarebbe stata una smorfia di terrore subito seguita da una fuga (chissà dove, poi, intrappolata come un sorcio com'è). Ha ancora un po' il terrore di tali parole e dichiarazioni importanti, ma sta scendendo sempre più a patti con la consapevolezza che, beh, Lysistrate valga il rischio e l'impegno, addirittura qualche attimo melenso. « E ti devi trovare un'altra minaccia, ormai tutti lo sanno. » Sorride chiudendo gli occhi contro la porta e sentendo le parole della maggiore. Il cuore le batte in una maniera spropositata, che non serve nemmeno l'abilità di Eden o l'udito da lupo per percepirlo in quel momento. « Sei una cretina. » e ride, spontaneamente ed in modo così sincero che nemmeno lei ci crede. « Sai, esimia testa di cazzo, non ho mai avuto idea di cosa fosse l'amore, poi c'è stata Thus, lei ha curato le mie ferite, mi ha amata, non ha mai avuto paura di me. Mai. Mi ha insegnato cosa sia l'amore di una famiglia e a fidarmi, per la prima volta, di qualcuno. Però, prima di te, non avevo idea di cosa fosse l'amore romantico, che forse alla nostra età è anche giusto che sia così, ma tu hai stravolto tutto. E ti odio. E mi fai essere così gelosa e poi melensa e ─ mi sento ridicola e a volte ho paura, ma quello che provo per te abbatte tutto. E, credimi, quando ti dico che tu sei la creatura più forte che io conosca, credimi, Eden, ti prego. » Una mano sul pavimento, che si attacca alla porta, perché vorrebbe solo sfiorare la sua. « Se mi dici che sono una cretina in questo modo, mi viene difficile crederci. » le fanno male le guance per quanto sia prolungato il sorriso, ma non per questo smette: ascolta il suo monologo senza interromperla (ed è molto difficile, considerato quanto le prema sulla lingua il desiderio di una qualsiasi battuta in merito a Dario Cassini, un comico che ha per intercalare proprio 𝘦𝘴𝘪𝘮𝘪𝘢 𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘤𝘢𝘻𝘻𝘰 che le ha attribuito), le dita che alla fine, da sole e inconsapevoli di essere specchio di quelle di Lysistrate, seguono l'istinto di attaccarsi alla porta. « E comunque lo sei davvero. Ridicola, intendo. » il tono non riesce a celare la tenerezza che prova, forse il primo sentimento totalmente suo che percepisce dal 𝘵𝘦𝘳𝘳𝘪𝘣𝘪𝘭𝘦 𝘣𝘰𝘰𝘮. « Perché adesso questo momento non sarà coronato da un super bacio come accade nelle migliori commedie adolescenziali. Ti sembra giusto? » scherza, uno sbuffo di risata a riempire l'attimo di pausa che prende. « 𝐆𝐫𝐚𝐳𝐢𝐞. Potrebbe sembrare il remake della dichiarazione di Marissa a Ryan, ma in realtà sento di dovertelo dire perché so quanto sia difficile per te ammettere queste cose a voce alta e già soltanto questa intenzione mi fa capire quanto ciò che dici sia vero. » Segue un po' di silenzio, il rumore del corpo di Eden che prova a girarsi affinché adesso sia la bocca vicina al legno, quasi come volesse confidare un segreto nell'orecchio di Lysistrate. « Appena recupero la barriera, ti faccio vedere io quanta forza ho. » tono marcatamente sensuale, forse persino seguito da un piccolo ringhio: non ce la fa mai ad essere seria per troppo, del resto. «D'accordo, d'accordo, studierò attentamente altri modi per dirtelo, mia cara.», una live inflessione sul "mia cara", ride, anche se potrà sembrare un'idiota a ridere e dichiararsi da sola in un corridoio, ma da quando in questa relazione vi è qualcosa di convenzionale? Muove la mano sul legno, Merlino solo sa quanto vorrebbe sfiorarla e accarezzarla in quel momento, un po' si odia per non essere in grado di proteggerla. Il tono tenero con cui Eden le si rivolge la fa sorridere ancora, teme in una futura paralisi facciale di questo passo. « Me ne rendo conto, ci lavorerò su, prometto.» Rimane in silenzio, poi, non si aspetta una dichiarazione a sua volta, da Eden, non è per questo che ha detto ciò che ha detto, ma solo perché si sentiva di farlo. « Beh, ricordiamoci la fine che ha fatto Marissa, vorrei evitare di essere totalmente il suo remake, grazie.» ride e scuote il capo, ché Eden lo sa che quelle parole in realtà hanno tutt'altro valore. Ascolta i rumori dietro la porta e si gira anche lei, come se volesse passare attraverso il legno e andare a baciarla e stringerla a sè. « Ouch, dovrò aspettare molto? Sai la tua audacia mi eccita molto, ora sono curiosa di sapere che effetto avrà su di me tutta questa tua forza. » Non ha dovuto aspettare molto, 𝘮𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 è 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘢 𝘶𝘯'𝘢𝘭𝘵𝘳𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘶ò 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘦 ��𝘶𝘪 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘰𝘯𝘵𝘢𝘵𝘢.
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📍 hogwarts 📅 nov. 01, 2023 🔗 #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀 ・・・ « Hei, sono qui. » Pur sapendo che sarebbe arrivata, la voce di Lysistrate (ovattata dalla pesante porta che le divide) fa sobbalzare la serpeverde, intenta ad annusare i detersivi di scorta appartenenti a Gazza, forse con la speranza di perdere quell'olfatto messo a dura prova dall'olezzo dello stretto sgabuzzino. « Hai seguito la mia scia fino ad arrivare a me? » «Ho chiesto al tuo perfetto migliore amico, che a quanto pare sa della mia licantropia, dove tu fossi, molto più semplice e meno dispendioso di energie, sarebbe stato un guaio se mi avessi percepita stanca e svilita, no? » 𝘍𝘰𝘳𝘴𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘢𝘷𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘥𝘰𝘷𝘶𝘵𝘰 𝘥𝘪𝘳𝘨𝘭𝘪𝘦𝘭𝘰, 𝘰𝘱𝘴. « Quante parole in pochi secondi, stai cercando di farmi concorrenza? » « No, la lingua la muovi più velocemente tu e di questo sono molto grata a Salazar e anche ai tuoi genitori, sempre che sia genetico. » « È tutta abilità mia, frutto di fortuna, talento e profondo esercizio. Mi dispiace per la storia della licantropia, comunque. » ed è sincera, ché per qualche strana ragione era convinta fosse di dominio pubblico. Probabilmente a Lorcan lo avrebbe detto comunque, ma questa è un'altra storia. « Non importa, potevo immaginarlo. Lo vuoi il muffin? » « Il giorno in cui rifiuterò del cibo, dovrai farmi ricoverare. » « Apri, io mi sposto. » « Il muffin me lo lanci? » « Lo appoggio a terra, è incartato. » « Peccato, sarebbe stato divertente. Non essere troppo bella oppure ho la tentazione di avvicinarmi, ok? » « Ma io sono bellissima sempre, Octavia. » « Oh no, hai usato / il / nome. » ha aperto la porta, per ora è solo un occhietto verde quello che sbuca. « E hai proprio ragione. » « Ciao. », sussurra appena, il tono tremendamente dolce alla sola vista dello spiraglio aperto. « Ciao. » ha aperto totalmente la porta e le ha rivelato così un brillante sorriso, tuttavia bloccato pochi secondi dopo da un leggero capogiro. « Tu hai mangiato? » La osserva e vorrebbe correre verso di lei, Lysistrate, ma si limita ad allungare lievemente una mano e ritrarla subito. « Ho mangiato. » mente con il sorriso sulle labbra. « Sei proprio in condizioni pessime, ma sei carina, sai? », ché se qualcuno qualche mese prima le avesse raccontato quella scena mai avrebbe creduto alla dolcezza delle parole appena utilizzate. « Guarda che la percepisco la "paura" che io scopra che stai mentendo. » percepisce pure la voglia di avvicinarsi e toccarsi, pur senza capire dove finiscano i sentimenti di Lysistrate e dove inizino i propri. Si china e scarta il muffin, che divide in due esatte metà: diventa difficile incartare quella rimanente con quella destinata a se stessa in mano, ma riesce e poco dopo è di nuovo in piedi, soltanto mangiucchiante. « La senti la puzza di Gazza? Non me la toglierò mai di dosso. Ho trovato una cosa interessante, però. » La guarda, la grifondoro, e riesce solo a pensare a quanto sia bella e quanta voglia abbia di proteggerla dal mondo intero e, forse, anche da se stessa. « Ho altri due muffin qui, mangerò anche quello di Lorcan, magari così mi starà più simpatico. », perché tanto non ha senso mentire. « Sì, maledetto fiuto da lupo, te la sentirò addosso per giorni interi. Uh, cos'hai trovato? » Senza rendersene conto un passo verso di lei lo fa, poi si blocca, tremendamente spaventata dall'idea di aver esagerato. « Mi vuoi dire che io ho compiuto la missione impossibile di dividere il muffin a metà e tu ne avevi altri due a portata di mano? I miei talenti impiegati per l'inutilità. » passa il dito sull'angolo delle labbra per togliere di lì qualche briciola birichina. Nota il passo avanti e resta ferma, nonostante il capogiro venga enfatizzato da quel gesto. « Un tamburello. » il tono le esce appena provato, sebbene abbia cercato in tutti i modi di concentrarsi soltanto su se stessa e di respirare profondamente. « Credo che lo ruberò. » « Te l'ho anche detto prima, non mi presti abbastanza attenzione, signorina. » ride e non può fare a meno di restare incantata dal movimento delle sue falangi sulle labbra. Nota la fatica di Eden e si allontana ancora. « Scusami, non volevo, dimmi ─ dimmi cosa posso ─ cosa devo fare. » « Veramente me lo hai detto prima? » è sconvolta, sul serio non ricorda niente e per una che ama vantarsi della propria memoria è, beh, terribile. Ma mai quanto la sensazione che sta provando. « Temo di dover chiudere nuovamente la porta. » e sbuffa, arrabbiata con se stessa e l'incapacità del momento. « Veramente. », le risponde con tono morbido e si allontana ancora. Una volta che la porta si richiude Lysistrate si allontana ancora, quanto le basta per odiarsi per qualche secondo, riprendere a respirare piano e poi tornare verso la porta. Si siede con la schiena aderente al legno. « Sei la creatura più forte che io conosca e io credo di 𝐚𝐦𝐚𝐫𝐭𝐢 con tutta me stessa e te lo dico dietro una porta, da codarda, perché è inutile che stia zitta, tanto te ne accorgeresti lo stesso e ─ giuro che se lo userai contro di me dirò a tutti che sei una finta bionda.» e si lascia scappare una risatina di liberazione. Poggiata al legno spesso con la nuca, Eden si concede di chiudere gli occhi, ché magari così regolarizzare il respiro sarebbe risultato un po' più semplice e utile al fine di tranquillizzarsi. Di norma gestire le emozioni di una sola persona sarebbe stato spontaneo, eppure il 𝘣𝘰𝘰𝘮 improvviso del pomeriggio l'ha devastata al punto di compromettere pure quella gestione tanto semplice. Spera che il tutto si risolva quanto prima, altrimenti sì che sarebbero stati giancarli senza zucchero. Sente il rumore di Lysistrate che si siede, allora la imita e pian piano scivola col sedere sul pavimento inquietante, le gambe necessariamente piegate in una posizione scomoda a causa del poco spazio. Se lo sarebbe dovuta scegliere decisamente meglio, il nascondiglio. Così come avrebbe voluto ribattere che no, lei non è forte nemmeno la metà della Tsopei (lo pensa davvero, non è per cortesia!), se soltanto la ragazza non avesse poi continuato a parlare. Buffo modo di dichiarare il proprio amore, senza ombra di dubbio. « Però hai detto "credo". » puntualizza, un sorriso che un tempo sarebbe stata una smorfia di terrore subito seguita da una fuga (chissà dove, poi, intrappolata come un sorcio com'è). Ha ancora un po' il terrore di tali parole e dichiarazioni importanti, ma sta scendendo sempre più a patti con la consapevolezza che, beh, Lysistrate valga il rischio e l'impegno, addirittura qualche attimo melenso. « E ti devi trovare un'altra minaccia, ormai tutti lo sanno. » Sorride chiudendo gli occhi contro la porta e sentendo le parole della maggiore. Il cuore le batte in una maniera spropositata, che non serve nemmeno l'abilità di Eden o l'udito da lupo per percepirlo in quel momento. « Sei una cretina. » e ride, spontaneamente ed in modo così sincero che nemmeno lei ci crede. « Sai, esimia testa di cazzo, non ho mai avuto idea di cosa fosse l'amore, poi c'è stata Thus, lei ha curato le mie ferite, mi ha amata, non ha mai avuto paura di me. Mai. Mi ha insegnato cosa sia l'amore di una famiglia e a fidarmi, per la prima volta, di qualcuno. Però, prima di te, non avevo idea di cosa fosse l'amore romantico, che forse alla nostra età è anche giusto che sia così, ma tu hai stravolto tutto. E ti odio. E mi fai essere così gelosa e poi melensa e ─ mi sento ridicola e a volte ho paura, ma quello che provo per te abbatte tutto. E, credimi, quando ti dico che tu sei la creatura più forte che io conosca, credimi, Eden, ti prego. » Una mano sul pavimento, che si attacca alla porta, perché vorrebbe solo sfiorare la sua. « Se mi dici che sono una cretina in questo modo, mi viene difficile crederci. » le fanno male le guance per quanto sia prolungato il sorriso, ma non per questo smette: ascolta il suo monologo senza interromperla (ed è molto difficile, considerato quanto le prema sulla lingua il desiderio di una qualsiasi battuta in merito a Dario Cassini, un comico che ha per intercalare proprio 𝘦𝘴𝘪𝘮𝘪𝘢 𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘤𝘢𝘻𝘻𝘰 che le ha attribuito), le dita che alla fine, da sole e inconsapevoli di essere specchio di quelle di Lysistrate, seguono l'istinto di attaccarsi alla porta. « E comunque lo sei davvero. Ridicola, intendo. » il tono non riesce a celare la tenerezza che prova, forse il primo sentimento totalmente suo che percepisce dal 𝘵𝘦𝘳𝘳𝘪𝘣𝘪𝘭𝘦 𝘣𝘰𝘰𝘮. « Perché adesso questo momento non sarà coronato da un super bacio come accade nelle migliori commedie adolescenziali. Ti sembra giusto? » scherza, uno sbuffo di risata a riempire l'attimo di pausa che prende. « 𝐆𝐫𝐚𝐳𝐢𝐞. Potrebbe sembrare il remake della dichiarazione di Marissa a Ryan, ma in realtà sento di dovertelo dire perché so quanto sia difficile per te ammettere queste cose a voce alta e già soltanto questa intenzione mi fa capire quanto ciò che dici sia vero. » Segue un po' di silenzio, il rumore del corpo di Eden che prova a girarsi affinché adesso sia la bocca vicina al legno, quasi come volesse confidare un segreto nell'orecchio di Lysistrate. « Appena recupero la barriera, ti faccio vedere io quanta forza ho. » tono marcatamente sensuale, forse persino seguito da un piccolo ringhio: non ce la fa mai ad essere seria per troppo, del resto. «D'accordo, d'accordo, studierò attentamente altri modi per dirtelo, mia cara.», una live inflessione sul "mia cara", ride, anche se potrà sembrare un'idiota a ridere e dichiararsi da sola in un corridoio, ma da quando in questa relazione vi è qualcosa di convenzionale? Muove la mano sul legno, Merlino solo sa quanto vorrebbe sfiorarla e accarezzarla in quel momento, un po' si odia per non essere in grado di proteggerla. Il tono tenero con cui Eden le si rivolge la fa sorridere ancora, teme in una futura paralisi facciale di questo passo. « Me ne rendo conto, ci lavorerò su, prometto.» Rimane in silenzio, poi, non si aspetta una dichiarazione a sua volta, da Eden, non è per questo che ha detto ciò che ha detto, ma solo perché si sentiva di farlo. « Beh, ricordiamoci la fine che ha fatto Marissa, vorrei evitare di essere totalmente il suo remake, grazie.» ride e scuote il capo, ché Eden lo sa che quelle parole in realtà hanno tutt'altro valore. Ascolta i rumori dietro la porta e si gira anche lei, come se volesse passare attraverso il legno e andare a baciarla e stringerla a sè. « Ouch, dovrò aspettare molto? Sai la tua audacia mi eccita molto, ora sono curiosa di sapere che effetto avrà su di me tutta questa tua forza. » Non ha dovuto aspettare molto, 𝘮𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 è 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘢 𝘶𝘯'𝘢𝘭𝘵𝘳𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘶ò 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘦 𝘲𝘶𝘪 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘰𝘯𝘵𝘢𝘵𝘢.
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6 ottobre 2017 Anche questo mese, per il new book club, un disegno e un racconto. - Mi sto annoiando a morte, posso venire con te? - Disse Giulia - Non sai nemmeno dove sto andando. - Ok dove stai andando? - Sto andando qui al museo a chiedere quali posti storici si possono visitare. - Non c’è bisogno. Sono preparatissima, ci sono Villa Giulia, le Cisterne Romane, il carcere dell’isola di Santo Stefano. Ci pensai un attimo: - Il carcere, voglio vedere il carcere. - Ok ti faccio io da guida, - disse Giulia guardando l’orologio - vieni, corri, c’è una barca che parte alle dieci giù al porto. # La barca ci lasciò al piccolo porto dell’isola di Santo Stefano. Era uno sputo di roccia lavica. Circolare. Del diametro di 500 metri. Ogni lato che riuscivo a vedere, era a picco sul mare. Niente spiaggia. - Vedete quella scalinata? Fatela tutta, in cima ci sarà la guida, - disse l’uomo al timone. Sulla scalinata si bolliva, sentivo il calore della pietra attraversare le suole delle scarpe. Già dopo pochi scalini i rivoli di sudore mi solleticavano la schiena. Giulia era dieci metri più in alto quando si chinò su un cespuglio. Iniziò a gesticolare indicando qualcosa. E così continuai a fingere di non far fatica su per i gradini finché la raggiunsi insieme al gruppo degli ultimi. - Guarda un cardo, - disse Giulia indicando il cespuglio. - E sì, fa caldo, molto caldo, - disse un uomo sulla sessantina mentre ci stava superando. Trattenni le risa a stento. Giulia, dopo qualche singhiozzo convulso, scoppiò a ridere in un modo sconsiderato. Misi una mano sulla sua bocca, ma non servì a niente. Quel uomo mi guardò malissimo. Mi asciugai il sudore. Giulia si tamponò le lacrime con la manica. Colse un fiore. Lo infilò nei miei capelli e disse: - Che bel ragazzo “accardato” che sei, - e riprese a ridere. - Andiamo, guarda che distacco che ci hanno già dato. Adesso quel signore mi guarderà male per tutta la gita. Poi non ho capito perché ha guardato male solo me, - mi lamentai pensando al pezzo di salita che mancava. La guida era lì, nella piazza all’ombra di grandi alberi tra un edificio rettangolare, la dimora del direttore del carcere e l’ingresso del carcere stesso. Sembrava la piazza di un paese abbandonato. Dopo una breve introduzione ricca di cenni storici, la guida ci fece entrare in quel luogo di antiche sofferenze. L’isola era disabitata da tempo. Il carcere era a forma di ferro di cavallo con celle larghe tre passi per quattro passi di lunghezza circa, disposte su tre piani. Se ci fosse stata una finestra sulla parete esterna la vista sarebbe stata incredibile. Invece c’era una sola finestra, sopra la porta, che dava sul cortile interno. Una torre posta in centro al cortile con un unico colpo d’occhio vedeva, in stile grande fratello di Orwell, tutte le celle. In realtà la torre centrale era una chiesa che simboleggiava la redenzione e l’occhio di Dio che tutto vede, ma questa era un’altra storia. Vi racconto uno spaccato di com’era la vita nel carcere nel 1957, otto anni prima che fosse definitivamente chiuso. In quel anno, Stefano di Filippo venne assunto dal ministero di grazia e giustizia come maestro. Arrivò ad ottobre con il “vapore” la barca che collegava Ventotene con Santo Stefano. C’era circa un centinaio di carcerati sull’isola. Tutti “Fine pena mai” una forma poetica per indicare la pena dell’ergastolo. Le lezioni di scuola ai carcerati iniziavano alle 7.30 fino alle 11:00 per poi proseguire nel pomeriggio. Gli appartamenti del Direttore del carcere erano riservati alle famiglie delle guardie. Le guardie scapole utilizzavano alcune celle come camera da letto. Così al nostro maestro diedero una cella vuota. Sua moglie, anche lei maestra, insegnava e viveva a Ventotene. Stefano di Filippo dava lezioni di italiano, matematica, storia e geografia. Gli alunni erano tutte persone con reati che andavano dall’omicidio alla strage. Tra questi vi erano tre componenti della banda Giuliano. Il maestro li notò subito perché erano persone “scafate” (ben istruite). Con il vice di Giuliano, Terranova e Don Pisciotta ci faceva discorsi alti. I detenuti istruiti andavano comunque a scuola per impegnare il loro tempo. Avevano materiale scolastico e giornali. Passavano ore a discutere anche su temi attuali come i russi che in quell’anno andarono in orbita con lo Sputnik 1. In classe c’era una guardia per proteggere il Maestro. Secondo Stefano non era necessario. L’ambiente era tranquillo. I detenuti giravano liberi. Ognuno aveva un compito. C’era chi lavorava nel laboratorio tessile, chi faceva opere di muratura, chi aggiustava scarpe. Altri lavoravano nella casa colonica fuori dal carcere. Coltivavano lenticchie. Per questi lavori ricevevano la “Mercede”: soldi che per buona parte spedivano alle famiglie. Un giorno un uomo della banda Giuliano chiamò la guardia usando un soprannome. Quando il Maestro gli chiese il motivo lui rispose che i carcerati venivano chiamati con un numero e lui li ripagava usando un contranome. Il segretario del direttore era un ergastolano. Tra i suoi compiti c’era quello di ricevere le persone quando il direttore era impegnato. Praticamente era il suo uomo di fiducia. Il direttore stesso lo aveva scelto. Ora vi starete chiedendo cosa ha fatto questo bravo uomo per prendere l’ergastolo. Faceva l’alunno d’ordine delle ferrovie. Una sera decise di scassinare la cassaforte della stazione dei treni e scappare con i soldi. Sfortunatamente il capostazione lo scoprì e lui lo uccise. Durante la permanenza del Maestro non c’erano detenuti politici. Anni prima durante il fascismo il carcere era pieno di uomini dell’opposizione. Antifascisti. Tra questi c’era il politico Settembrini. Il maestro, le guardie e i detenuti mangiavano insieme. Pasta e polvere di piselli o di fave. Secondo il maestro non si mangiava bene. Nemmeno allo spaccio. Le celle erano aperte. I detenuti giravano liberi. I veri carcerati erano le donne delle famiglie delle guardie che per sicurezza rimanevano chiuse in casa. I detenuti non parlavano mai dei reati commessi dagli altri, al massimo parlavano dei propri. Lo facevano quasi per giustificarsi. Quelli della banda Giuliano invece non parlavano mai dei loro reati. Lungo la passeggiata verso il cimitero c’era un’immagine, vicino al muro, detta l’incompiuta. Due detenuti, bravi a dipingere, avevano ottenuto il permesso dal direttore per fare questa opera. Il vero obiettivo era un altro. Dopo poco tempo i due scapparono. Nuotarono fino a Ventotene. Rubarono una barca e furono catturati mentre andavano verso Ischia. Peccato, il dipinto rimase incompiuto. Il cimitero era chiuso ai carcerati. sul cancello c’era la scritta “Qui finisce la giustizia umana, qui comincia la giustizia divina”. A detta del maestro il posto era bello, tranquillo. Ci si stava bene. Dopo tre mesi prese il tifo, lasciò il carcere e il suo incarico. Torniamo alla gita guidata, dopo aver visitato la cella di Sandro Pertini, uscimmo dal carcere per una passeggiata sull’altro versante dell’isola. Arrivammo su un promontorio con una dozzina di tombe, ormai niente più che cumuli di terra con una croce di legno. Mi adagiai su una roccia. Lo sguardo fisso sul mare tra le croci di legno. Giulia si mise a sedere al mio fianco: - che bella vista che c’è. Non mi ero nemmeno accorto di lei. - C’è qualcosa che non va? - Mi disse. - Tutto ok. - Dico sul serio, cosa c’è? - Vuoi veramente conoscere i miei Demoni? Giulia annuì. - Anni fa ho conosciuto questa ragazza Sara. - E com’era questa Sara? - Era incredibile. Una giraffa. Sottile. Agile, capelli lunghi e lisci. Occhi oceano. Non avevo speranza con Sara. Questo, un giorno, mi diede il coraggio di parlarle. Così diventammo amici. Amava i libri. - Tipo? - John Fante, Jerome David Salinger, Charles Bukowski. Passavamo ore a discutere su chi fosse il migliore. Non ne venivamo mai a capo. - Hai fatto anche a lei un ritratto? - Non sapevo ancora disegnare, ma Dio mio quanto avrei voluto fargliene uno. Non ero mai stato a Ventotene. Sono venuto qui con lei la prima volta. Questa è la seconda. Non sai che fatica ho fatto a ritornarci. Giulia cominciò a intuire che la storia non sarebbe finita bene. - Quella è stata anche l’ultima volta che l’ho vista viva. Non le ho mai detto quello che provavo e a volte, come sto facendo adesso, mi chiedo se le cose sarebbero potute andare diversamente. - Io penso che il destino… cazzo dov’è la guida? dove sono gli altri? Vieni corri. - Urlò Giulia Coprimmo a ritroso tutto il sentiero fino al carcere e poi giù per la scalinata che termina al porticciolo. Io arrivai per ultimo. Vidi Giulia sdraiata a pancia in su. La barca non c’era. Cedetti sulle mie ginocchia, cercando di recuperare un po’ di ossigeno, poi mi arresi indietro sulla schiena. Respiravamo tutti e due intensamente. Non c’era il fiato per parlare. Nemmeno per dirsi che eravamo rimasti da soli sull’isola. Restammo lì, per diversi minuti a guardare le nuvole e a respirare. - Secondo me è il signore del “Cardo”, - dissi. - Cosa? - Chiese Giulia. - Sì è stato lui, per vendetta ha detto alla guida di andare che non mancava più nessuno. Giulia cominciò a ridere sotto voce. Cercando di trattenersi. - Cosa ridi, cazzo, siamo probabilmente gli unici due pirla nella storia di questo posto ad aver perso la barca del rientro. - Dissi. La guardai sorpreso. E anche la mia bocca si spalancò. Ridevamo, sempre più forte. Ridevamo e guardavamo le nuvole passare sopra di noi. Sembravamo due folli.
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La bella e la bestia - capitolo 2
Indice dei capitoli: La bella e la bestia
Tom Dupain gemette, aprendo gli occhi avvertendo immediatamente una fitta di dolore che gli attraversò la testa, costringendo a serrare nuovamente le palpebre: cosa era successo? Dove si trovava? Ignorando il dolore più persistente, con fatica si issò a sedere e osservò l’ambiente in cui si trovava: le mura scure erano composte da mattoni grezzi e una lieve patina di umido le ricopriva, in vero l’intero posto sembrava aver ceduto al tempo e alla vegetazione, visto che alcuni rampicanti entravano dalla finestra e si allungavano all’interno della stanza: «Dove mi trovo?» si domandò l’uomo, alzandosi e barcollando leggermente. Ricordava la tempesta, che aveva fatto imbizzarrire i cavalli e lo aveva condotto su una strada diversa, lontano dal suo percorso abituale per tornare a casa. Ricordava di aver intravisto un’abitazione e di aver cercato un qualche accesso e poi… Poi il nulla. La sua mente era totalmente oscura. Come era finito lì? Perché era lì? Chi ce lo aveva portato? Erano tutte domande senza risposta e che lo agitavano: il cuore batteva veloce e il respiro era affannato, mentre continuava a guardarsi attorno, alla ricerca di un qualche indizio che spiegasse la sua presenza in quella stanza. Cella, si corresse immediatamente, osservando la porta di legno e che aveva una piccola apertura in alto, attraversata da sbarre di metallo: chi lo aveva catturato? Perché? Non era ricco, era un semplice mercante che faceva la spola tra Parigi e Tours, non aveva nulla da offrire a dei rapitori. Anche i suoi abiti, che avevano visto giorni migliori, erano un indice di quanto non fosse benestante… Quindi perché catturarlo? Un rumore lieve, al di là della porta, lo fece sobbalzare: «Il padrone non sarà contento di saperci qua…» mugugnò una voce metallica, che provocò in Tom un nuovo brivido: una volta, sua figlia, gli aveva mostrato un libro dove c’era la figura di un uomo che, per metà del corpo, era fatto di metallo. Possibile che, dall’altra parte, ce ne fosse uno simile? «Sai quanta paura mi fa quel ragazzino» commentò una seconda voce, con tono sbrigativo: «Cosa potrebbe farmi? Ruggirmi contro? Sgranocchiarmi un po’?» Ruggire? Sgranocchiare? Dove era finito? E se fossero stati dei cannibali? E se… «Ma perché vuoi vederlo?» «Perché sento che quell’uomo è…è…non so dirtelo, ma vedo in lui la soluzione al nostro piccolo problemino.» Lo avrebbero ucciso. Ora ne aveva la conferma. «Vi…vi…prego, n-non u-uccidetemi.» mormorò, allontanandosi dalla porta e osservandola, come se da un momento all’altro si fosse spalancata e i suoi carcerieri sarebbero entrati per portarlo verso morte certa. «Oh. E’ sveglio!» «Perché ci ha chiesto di non ucciderlo? Plagg, cosa hai combinato?» «Assolutamente niente.» «E allora…» «Forse ci ha sentiti…» mormorò l’uomo che rispondeva al nome di Plagg: «Buon uomo, stia tranquillo! Con noi può dormire sogni tranquilli…beh, per quanto si possa dormire lì dentro, l’avevo detto al nostro signore che una stanza più confortevole sarebbe stata adeguata, Tikki aveva anche preparato quella blu nell’ala est…» si fermò, lasciando andare un enorme sospiro: «Ma quel moccioso è testardo come un mulo.» «Vi, prego. Lasciatemi andare. Io non sono nessuno, sono solo un umile mercante…» mormorò Tom, sperando di far leva sull’umanità dei due: «Vi prego, mia moglie e mia figlia mi aspettano a casa.» «Lei ha una figlia?» «S-sì.» «Sentito, Wayzz! L’avevo detto che era la soluzione al nostro problema.» «Non vedo come il fatto che abbia una figlia possa aiutarci.» «Co-cosa volete fare a mia figlia?» «Assolutamente niente, buon uomo!» sentenziò Plagg, cercando di tranquillizzarlo: «Giusto una domandina innocente: che rapporto ha sua figlia con il pelo?» «Voilà!» Marinette sorrise orgogliosa, togliendo il lenzuolo dalla sua creazione e mostrandola al padrone delle bottega: «La macchina taglia e arriccia, Theo.» dichiarò, facendosi da parte e osservando il barbiere avvicinarsi per studiarla: «Ti semplificherà il lavoro: basta che la imposti, tramite questa semplice manopola qua e voilà! Taglia, arriccia e imbelletta. E per farla funzionare, devi semplicemente rifornirla di vapore…» «E’…è…» «Incredibile, vero?» esclamò la ragazza, battendo le mani e sorridendo: «Purtroppo ho potuto impostare solo quattro tagli base, i più comuni. L’ho testata su alcuni manichini, i bracci si muovono ed è stata perfetta. Beh, nella maggior parte dei casi.» «Marinette, ti ringrazio veramente…» «Ma…» «Cosa?» «Dalla tua frase sembrava che ci fosse un ma?» «Ecco, è quella ‘maggior parte dei casi’ che mi costringe a rifiutare la tua invenzione.» dichiarò Theo, posandole le mani sulle spalle e sorridendole comprensivo: «La gente viene qui per farsi tagliare la barba, non per rischiare di venire sgozzato.» «Ma funziona!» «Ne sono certo, Marinette, però mi spiace. Non posso accettarla.» «Te la faccio vedere in funzione, d’accordo?» esclamò la ragazza, sgusciando dalla presa dell’uomo, andando a recuperare il manichino che aveva lasciato fuori dalla porta del negozio: «Ti presento monsieur Mannequin!» «Perché ha un taglio sulla faccia?» «Incidente di percorso.» bofonchiò sbrigativa la mora, sistemando con un po’ di fatica il manichino sulla poltrona, sorridendo poi al barbiere: «Monsieur Mannequin vuole un taglio Chevron per i suoi baffi.» spiegò, armeggiando con la borsa che teneva in vita e recuperando un paio di baffi posticci, appiccicandoli in faccia al fantoccio: «Quindi, giro questa manopola qua, apro il vapore e…» la ragazza si allontanò, osservando soddisfatta i bracci della macchina avvicinarsi al volto del manichino e iniziando a tagliare: «…voilà! Mentre ti occupi di un altro cliente, la macchina…» Un fischio lungo e acuto zittì Marinette che, riportando l’attenzione, sulla macchina notò come questa stava tremando e aveva iniziato a muovere i bracci in maniera sconclusionata, sfregiando il volto di monsieur Mannequin e portandolo alla prematura morte per decapitazione: «Ah…» «L’ha…l’ha…» «Succede quando è fredda, deve solo riscaldarsi. Sistemo la testa a…» «Marinette, domani viene a prendila e riportala a casa tua.» «Sì, d’accordo.» mormorò mesta la ragazza, osservando l’uomo, togliere il tubo del vapore e spingere la sedia in un angolo del suo negozio: «Theo, io…» «Domani, Marinette.» La giovane annuì, uscendo dal negozio e sospirando, calcandosi poi il berretto sulla testa: «Anche stavolta è stato uno schifo» borbottò, osservando alcune ragazze camminare dalla parte opposta della strada: i vestiti lindi e femminili erano l’esatto opposto della maglia logora e della corta gonne a balze che indossava lei. Era stata contenta quando, dall’odiata Inghilterra, era giunta la moda delle gonne corte: le permettevano un’ampia mobilità e non facevano gridare sua madre, come succedeva ogni volta che provava a indossare dei pantaloni. Si portò una mano all’altezza del petto, giocherellando con il ciondolo a forma di coccinella, l’ultimo regalo che suo padre le aveva portato da Tours e incamminandosi verso casa. La data del ritorno del genitore era passata da una settimana, eppure dell’uomo non c’era ancora segno, non che questo la preoccupasse, poiché capitava molto spesso che tornasse con parecchi giorni di ritardo: ecco perché voleva a tutti costi costruire un dirigibile o comunque una macchina volante che facilitasse gli spostamenti del padre, peccato che servivano parecchi soldi e le sue invenzioni… «Oh. Ma guarda un po’ chi c’è» una sgradevole voce femminile le giunse alle orecchie, facendola sbuffare: «Marinette Dupain-Cheng. Chi hai cercato di uccidere oggi?» «Chloé Bourgeois» mormorò la ragazza, voltandosi e osservare la figlia del sindaco uscire dalla pasticceria, vicina al negozio di Theo: «Ti mescoli a noi comuni mortali oggi?» domandò, cercando di ignorare l’abito giallo e carico di nastri e fiocchi. Qualcuno doveva dire a quella ragazza che l’esagerazione non significava più eleganza. Dietro di lei, come al solito, arrancava Sabrina Raincomprix con le braccia cariche di pacchetti e l’espressione sofferente di chi sta portando un peso eccessivo rispetto alla propria forza; Marinette sorrise alla giovane, venendo ricambiata da un timido piegamento delle labbra. «Come al solito puzzi, eh Marinette?» «Come al solito sembri una merceria ambulante, eh Chloé?» «Almeno io non mi vesto da stracciona. Oh, ma cosa dico: tu se una stracciona.» dichiarò la figlia del sindaco, gettandosi indietro un boccolo biondo e sorridendo divertita; Marinette ringhiò, stringendo i pugni e osservando l’altra superarla: «Ricordalo, Marinette. Tu non sarai mai nient’altro che la tipa stramba che vive in fondo a questa via. Niente di più, niente di meno.» «Beh, sempre essere la tipa stramba che quella che è odiata tutta Parigi!» sentenziò la ragazza, osservando la bocca di Chloé spalancarsi in una O perfetta; sorrise, voltandosi e andandosene velocemente, prima che l’altra si riprendesse dall’affronto e le potesse dire altro. Corse velocemente per la strada, raggiungendo il palazzo ove viveva con i genitori e sorridendo alla vista del carro del padre: era tornato! Finalmente era di nuovo a casa! Entrò velocemente nella stalla, osservando la madre accudire i due cavalli dal manto pezzato: «Dov’è, papà?» domandò, attirando l’attenzione della donna, mentre lei si guardava intorno: suo padre non avrebbe mai lasciato le due bestie senza occuparsene, erano la sua priorità appena arrivava a casa. «Tuo padre non c’è.» «Cosa?» Sabine si avvicinò alla figlia, mostrandole una lettera con un sigillo in lacca: «Il carro è arrivato con solo la merce. E in cassetta c’erano questa lettera e uno strano candelabro.» dichiarò, indicando con un cenno del mento il calesse, fuori dalla stalla: «La lettera è per te, Marinette.» La ragazza annuì, uscendo e carezzando il legno del carro, sorridendo alla vista del candelabro: aveva una figura umana e sembrava fatto di ottone; lo prese in mano, facendo scivolare un polpastrello sulle forme del viso e poi riponendolo nuovamente in cassetta, dedicando tutta la sua attenzione alla lettera, osservando la grafia ordinata con cui era stato scritto il suo nome e notando subito che non era quella di suo padre. Che cosa era successo? Ruppe il sigillo di lacca e tirò fuori il biglietto all’interno della busta, leggendo le poche righe che vi erano state scritte:
Madamoiselle Marinette Dupain-Cheng, con la presente la informo che ho soccorso vostro padre lungo la strada che da Tours va a Parigi. Purtroppo non può muoversi e così ho mandato il carro a casa, sperando che voi potreste venire a recuperare il vostro genitore e riportarlo a casa. Sempre vostro, Adrien Agreste
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L’uomo che ha fotografato Woody Allen, Michael Jordan, Tinto Brass e il “solista del mitra”: dialogo con Alberto Bortoluzzi
Hai fotografato Woody Allen? Inizio così, vagamente curiosa e un tantino gelosa, il mio dialogo con il fotografo e giornalista Alberto Bortoluzzi. Naso leggermente aquilino, un pizzetto brizzolato, lo sguardo da ragazzino, divertito e originale. Una laurea in Scienza Geologiche nel 1987, poi la scelta di dedicarsi completamente alla fotografia. Ha collaborato con molte riviste nazionali, pubblicato diversi libri e ha realizzato mostre; tra le varie una a Palazzo Reale a Milano sul cinema, nel 2010.
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Ci diamo appuntamento al bar, la finestra si affaccia su un incrocio, un paio di semafori e le automobili che sfrecciano a tutta velocità, lui che si beve un’aranciata amara (una scelta d’altri tempi), io un caffè amaro, mentre osservo la sua felpa, rossa, Think Pink. Anche se oggi molti si dicono fotografi, per ora non ne conosco uno che possa dire di aver fotografato lui, il regista Woody Allen, uno dei mostri sacri viventi. Ma Bortoluzzi ne parla come se niente fosse, come un seduttore parla di una sua conquista importante, con lo stesso sguardo sornione, mentre accarezza il ricordo e lo racconta agli amici. Milano, Teatro degli Arcimboldi, qualche anno fa, il 2005 (tra l’altro, scopro che Allen si esibirà di nuovo lì a fine giugno: sono ancora in tempo). La sua orchestra si chiama New Orleans Jazz Band e lui suona il clarinetto.
Com’era? “Woody Allen era molto schivo, forse anche un po’ stronzo, almeno per noi che dovevamo ritrarlo. Gli organizzatori avevano dato il permesso di fotografarlo soltanto per i primi due pezzi e noi fotografi dovevamo rimanere ai lati del palco. Lui, per tutta la durata dei primi pezzi, teneva gli ‘occhi bassi’, una fatica bestiale riuscire a cavarne qualcosa”.
Come sei riuscito poi a immortalarlo? “Alla fine del primo pezzo, ho pensato: non ho niente da perdere, eludendo la security, mi sono buttato sotto il palco, a pochi metri da lui. Ad un certo punto, Woody Allen si è girato verso il musicista al suo fianco per chiedergli qualcosa ed è lì, in quell’istante, che è diventato mio”. Sei riuscito ad incontrarlo? “L’ho atteso davanti ad una porta secondaria, da dove sarebbe dovuto uscire, è arrivato anche l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, abbiamo atteso a lungo, invano, e poi abbiamo desistito”.
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Molte fotografie sono frutto del caso e di un pizzico di fortuna, Bortoluzzi spesso ha conquistato uno scatto in modo rocambolesco, come quando ha fotografato Michael Jordan, al Palatrussardi a Milano: “avevo con me una macchina Hasselblad 6×6, una follia, con rullo 120 in bianco e nero, quando già imperava il digitale. Intorno a Jordan c’erano guardie del corpo, dei neri a dir poco enormi (Alberto Bortoluzzi non è certo esile o di bassa statura, ndr). In più avevo un obiettivo corto (altra follia), tutti avevano scelto i teleobiettivi. I gorilla impedivano alla folla di fotografi di avvicinarsi a Michael Jordan. Anche questa volta un fotografo ha saltato le transenne e siamo scattati tutti verso di lui. Uno della security, che come stazza sembrava un giocatore di baseball americano, continuava a riempirmi di gomitate nello stomaco. Gli ho promesso che se la smetteva, non mi sarei più mosso da quel punto e finalmente ho ripreso a respirare. Pochi istanti e Jordan si è alzato per uscire dal campo; uno scatto a vuoto (mannaggia le macchine vecchie!) e poi il flash finalmente è partito, un piccolo miracolo, lo scatto di lui che saluta quando ormai non ci speravo più”.
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Faccio scorrere il dito sullo schermo del cellulare, mi sono collegata al suo sito (www.albertobortoluzzi.com), nella sezione Portaits, ci sono i ritratti, e dietro a ciascun volto, la storia di un incontro. Personaggi particolari, con un certo carattere, come il celebre alpinista Reinhold Messner: “tutti questi personaggi hanno in comune un certo carisma, come Messner, con quel suo italiano ruvido che ho conosciuto al teatro Condominio di Gallarate, in occasione di una sua conferenza”. O ancora con Tinto Brass venuto a Varese per la proiezione di un suo film. “L’ho fotografato poi a casa mia. È bastato un attimo che una intera bottiglia di Prosecco fosse finita. Pensando a lui, mi ero procurato un manichino femminile completamente nudo”. Nella fotografia di Bortoluzzi, Tinto Brass, con sguardo compiaciuto e sigaro acceso, rimira la bella e calva modella senza veli.
I ritratti sono diversi, industriali come Saturnino De Cecco, tanti gli sportivi, artisti, giornalisti, Dan Peterson, Valentino Rossi, Giovanni Soldini, Gualtiero Marchesi, c’è anche Luciano Lutring che sussurra sh alla canna di una pistola, lui il “solista del mitra”. “Ho passato un intero pomeriggio a casa sua, dipingeva e scriveva libri noir. Non avevo paura. In qualche modo mi affascinava. Ricordo le sue mani, aveva mani che sembravano badili. Mi ha raccontato la storia della sua prima rapina, avvenuta per sbaglio. Adorava la nonna che lo mandava sempre a pagare le bollette. Un giorno, in un ufficio postale nessuno lo prendeva in considerazione, così ha sbattuto talmente forte il pugno sul tavolo che hanno pensato fosse una rapina, vedendo la pistola alla cintura. Ma la pistola era senza caricatore, la usava per fare il figo con le ragazze. Gli è sembrato così facile fare una rapina che, a questa, ne sono seguite molte decine. Gli hanno dato due ergastoli e poi l’amnistia. In cella, per tirare su quattro soldi, si era messo a disegnare fumetti porno, mi ha raccontato che il direttore del carcere ordinava di rastrellare le gabbie per leggersi l’ultima creazione di Lutring”.
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La magia della fotografia è quella di fermare il tempo e, come si dice, se si è bravi, di rubare l’anima. Così chiedo ad Alberto Bortoluzzi com’è andato l’incontro con Mike Bongiorno, a Mediaset. “Una persona gentilissima, un uomo d’altri tempi, un vero professionista. Una delle cose che più mi aveva colpito di lui, ormai molto vecchio, era vedere la sua trasformazione quando saliva in scena, era come se venisse alimentato dalla corrente, quando scendeva dal set, tutto di colpo, si spegneva e tornava semi-immobile. Riguardo al giallo del furto del suo cadavere? Chissà se poi l’hanno poi ritrovato. Mancano oggi figure di questo livello in qualsiasi ambito, e soprattutto così disponibili. Peccato!”.
Linda Terziroli
*Le fotografie in copertina e nel corpo dell’articolo sono pubblicate per gentile concessione di Alberto Bortoluzzi
L'articolo L’uomo che ha fotografato Woody Allen, Michael Jordan, Tinto Brass e il “solista del mitra”: dialogo con Alberto Bortoluzzi proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2RZ0llo
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