#Poliedrico
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primepaginequotidiani · 5 months ago
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PRIMA PAGINA Unita di Oggi venerdì, 25 ottobre 2024
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zibaldone-di-pensieri · 6 months ago
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Poliedricità
Mi piace la poliedricità nelle persone e nelle cose, in qualsiasi contesto, in qualsiasi settore, reale o immaginario
Molti dei miei idoli o delle persone e figure e personaggi che apprezzo particolarmente, hanno quel tocco di poliedricità
Che sia un calciatore come Müller o Darmian che riesce ad adattarsi a qualsiasi ruolo in campo in attacco o in difesa risultando sempre efficiente
Che sia un musicista come Dave Grohl o Mike Shinoda che sa suonare qualsiasi strumento e cantare stili di canzoni molto diversi tra loro
Che sia un personaggio dei fumetti come Batman che pur essendo un super eroe senza super poteri, ha sempre grandi capacità e risorse e inventiva per ogni situazione
Oppure che sia una canzone, o un altro media da guardare, che ha tanti stili, affronta tanti temi, si evolve nel tempo, cambia tono più volte, pur rimanendo una singola opera
Spesso e volentieri le mie persone, cose o personaggi preferiti sono proprio questi, dotati di una certa poliedricità
In sostanza credo che il mondo abbia bisogno di maggiore poliedricità, anche se ognuno di noi eccelle particolarmente in una singola specifica cosa, ma dovremmo attenzionare maggiormente chi o cosa cerca di applicarsi su più lati, su più sfumature e riesce a produrre un ottimo risultato, perché l'umanità in fondo è molto complessa e pluricapace, dovremmo tutti sforzarci di dare il massimo su più fronti.
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campadailyblog · 9 months ago
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Leonardo da Vinci: Ingegno e Arte senza Tempo
Leonardo di ser Piero da Vinci nacque nel 1452 e morì nel 1519. Era uno scienziato, inventore e artista italiano. È considerato uno dei più grandi geni dell’umanità. Esprimeva lo spirito del Rinascimento in molti campi. Questi includono la pittura, la scultura, l’architettura, l’ingegneria, l’anatomia e la botanica. Le sue opere d’arte, i suoi studi scientifici e le sue invenzioni sono ancora…
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federicodimarco · 1 year ago
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Serie A | Inter vs Empoli
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diceriadelluntore · 15 days ago
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Storia Di Musica #368 - Lynyrd Skynyrd, Second Helping, 1974
Nel continuare i dischi che hanno un legame con il numero 3, oggi l'aggancio me lo dà questo disco, che nacque da un esigenza pratica: un bassista fondatore della band si deve assentare, viene sostituito da un altro, quando torna il bassista titolare il secondo, quasi per caso, viene spostato alla terza chitarra, e nasce così uno dei motivi più famosi del suono unico ed emozionante dei Lynyrd Skynyrd. La grande band del southern rock deve il suo fantasioso nome alla storpiatura di Leonard Skinner, il professore di ginnastica del loro liceo di Jacksonville, Florida, che non amava tanto i capelloni scalmanati. La band inizia a suonare insieme in un posto nelle campagne di Jacksonville, chiamato Hell House per il caldo infernale nelle giornate estive. Furono notati dal mitico Al Kooper, che li vide suonare in un locale di Atlante dal nome Funocchio's, e li presentò alla MCA, producendo il loro primo leggendario disco: (Pronounced 'Lĕh-'nérd 'Skin-'nérd) del 1973. È proprio durante le registrazioni di questo disco che Ed King, proveniente dagli Strawberry Alarm Clock, è chiamato a sostituire Leon Wilkenson. King è un bassista non eccelso, ma se la cava, però è un grande personaggio che è simpatico a tutti, quindi al ritorno di Wilkenson viene spostato alla terza chitarra con Gary Rossinton e Allen Collins, che formano il più famoso three guitars army. Nella storia della musica non è una novità, anche gli Allman Brothers Band, gli Eagles, i Moby Grape e anche Crosby, Stills, Nash & Young usavano le tre chitarre, ma nessuna di queste formazioni le ha esaltate così tanto, da creare un suono distintivo, caldo e vibrante come il loro carattere schietto, emotivo e perfino un po' folle (leggendarie le scazzottate sul palco tra loro, ogni tanto). Dopo il disco di debutto, fanno da spalla ai The Who in un tour negli Stati Uniti, con la fama crescente: la band inglese presentava il suo Quadrophenia, ma alla serata del Cow Palace di Daly City California (passata alla storia anche perchè Keith Moon stravolto dalla droga non finì il concerto, sostituito da un groupie della band, Scot Halpin, alla batteria) si rifiuta in un primo momento di suonare perchè il pubblico a gran voce reclama più minuti per i Lynyrd Skynyrd.
È sempre Al Kooper che li guida in questo secondo, magistrale Second Helping, del 1974. Disco meno prorompente del primo, ma più poliedrico, con una canzone passata alla storia. Perché è il disco di Sweet Home Alabama, una delle canzoni del rock americano. Nata in risposta a ad Alabama e Southern Man, due canzoni di Neil Young nelle quali egli aveva criticato l'Alabama (e tutto il sud degli Stati Uniti d'America in generale) per il perdurante razzismo nei confronti dei neri, la canzone dice esplicitamente: «spero che Neil Young lo ricordi, un uomo del sud non ha bisogno di lui». Tuttavia tra la band e Young non c'è mai stato astio, anzi Ronnie Van Zandt la cantava spesso indossando una maglietta con la scritta Neil Young, e fu Young ad autoaccusarsi di essere stato troppo "accusatorio e sussiegoso, non pienamente ponderato e troppo facile da fraintendere". Sweet Home Alabama è l' equivalente di Smoke On The Water del southern, verrà usata in decine di pellicole cinematografiche, telefilm, perfino nei cartoni animati. Ma il disco è pieno di canzoni che diventeranno classici: la dura e rabbiosa Workin’ For MCA, cavallo di battaglia sempreverde nei torridi concerti, è un atto di accusa nemmeno tanto velato sull'avidità del music business; gli slow blues I Need You e la splendida The Ballad Of Curtis Loew, altro episodio antirazzista, mostrano il loro animo più intimo e melodioso, Swamp Music è un altro manifesto di fierezza (gli swamp sono le zone paludose della Florida dove sono cresciuti). The Needle And The Spoon e la cover di J.J.Cale Call Me The Breeze, che diventerà molto più famosa dell'originale, sono altri esempi del perfetto amalgama tra blues ed hard rock, con le chitarre che ruggiscono selvagge in un turbine di riff e assoli travolgenti.
Un disco capolavoro, che li porta in vetta alle classifiche (disco d'oro in poche settimane), li porta in un estenuante tour, famoso anche per i numerosi episodi di violenza sopra e sotto il palco. Tutta questa tensione verrà fuori: Bob Burns, il batterista, se ne va a fine tour, la band torna in studio con Artimus Pyle a sostituirlo, ma dopo le registrazioni di Nuthin' Fancy (1975) e le prime date del Torture Tour, Ed King se ne va sbattendo la porta, "stufo di fare a pugni con quel pazzo di Ronnie". È l'inizio della fase più delicata della loro storia, che termina con il tragico e spaventoso incidente aereo del 20 ottobre 1977, tre giorni dopo l'uscita di Street Survivors, quando muoiono il chitarrista e cantante Steve Gaines, la corista Cassie Gaines, sorella di Steve, l'assistente all'organizzazione del tour Dean Kilpatrick, il pilota Walter McCreary e il co-pilota William Gray, il cantante Ronnie Van Zant, e furono feriti gravemente Allen Collins, Leon Wilkeson, Gary Rossington. La loro storia proseguirà, sulla scia della loro musica forte, infuocata e unica, anche per il loro suono a tre chitarre inimitabile e riconoscibile.
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fashionbooksmilano · 4 months ago
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L'avventura del design : Gavina
Davide Vercelloni, prefazione di Vittorio Sgarbi
Jaca Book, Milano 1987, Saggi di Architettura/Design, 256 pagine, 185 illustrazioni b/n, 15x23cm, ISBN 88-16-40 309-8
euro 100,00
email if you want to buy [email protected]
L’avventura straordinaria di Dino Gavina (1922 – 2007) ha inizio con l’apertura di un laboratorio di tappezzeria in Via Castiglione a Bologna. Qui nel dopoguerra si ritrova ad utilizzare materiali di recupero per forniture militari e ferroviarie e inizia a produrre e commercializzare i primi mobili.
Interessato ed appassionato di letteratura, arti visive e teatro; diremmo oggi, “viaggia ed incontra gente”, ma coglie in ciò il genio e l’opportunità di creare cose e personaggi: è questa la miscela creativa di Dino Gavina. Instancabile regista di persone, cose, fatti scaturiti dal suo immaginario, un vortice in continuo movimento che corona tutta la sua vita. Incontri con personaggi, che crea talvolta egli stesso. Con Lucio Fontana stringe una bellissima amicizia. Frequenta Milano e alla X Triennale conosce i fratelli Castiglioni; alla XI nel 1957 l’incontro con Kazuhide Takahama, che ha realizzato il Padiglione del Giappone; a Venezia incrocia Carlo Scarpa, che nel 1960 diventerà presidente della Gavina spa, dove verranno prodotti i primi pezzi di suo figlio Tobia… Una vita costellata da personaggi straordinari.
Il negozio Gavina realizzato da Carlo Scarpa in Via Altabella a Bologna, lo straordinario padiglione espositivo di San Lazzaro di Savena dei Castiglioni, moderne architetture che possiamo ancora ammirare, dove si svolsero le memorabili serate di Man Ray e Marcel Duchamp. Proprio a San Lazzaro nasce nel 1967 il Centro Duchamp, in suo omaggio, dove lavoreranno futuri artisti cinetici al fianco di grandi maestri, un progetto di arte fatta in serie per nuovi fruitori.
Lunghissima è la lista di artisti con cui ha collaborato, occupandosi di una miriade di mondi, questo è infatti il lato sfaccettato e poliedrico di Dino Gavina. Note le sue aziende Gavina, Flos, Simon, Sirrah, Paradisoterrestre: la passione di realizzare mobili, lampade, arredo per interno ed esterno, nella linea rigorosa del disegno industriale, che in parte deve a lui l’apertura di nuovi orizzonti.
11/12/24
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gonagaiworld · 19 days ago
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Hideaki Anno e le sue molteplici sceneggiature: un genio instancabile tra passato e futuro Un autore poliedrico al lavoro su cinque progetti, con un sesto in attesa. Read more:--> https://www.gonagaiworld.com/hideaki-anno-e-le-sue-molteplici-sceneggiature-un-genio-instancabile-tra-passato-e-futuro/?feed_id=22932&_unique_id=67daedfc218ee #HideakiAnno #ShinKamenRider
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hopefulwizardcupcake · 2 months ago
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New York Sapevi che questa bellissima città ha 5 distretti. 1: Manhattan-Il lato più turistico. Sebbene sia il più conosciuto dei cinque, è il più piccolo. Qui trovi le principali icone della città come l'Empire State, Central Park, Times Square, tra gli altri. Quest'isola, circondata dai fiumi Hudson, East e Harlem, è divisa in 3 zone: Downtown, midtown e uptown. 2: Brooklyn-Il lato poliedrico. È il quartiere più popolato e il quarto più grande del Nord America, uno dei più belli e artistici. Rimarrai stupito dall'imponente ponte di Brooklyn, dal parco divertimenti di Coney Island e dal bellissimo Prospect Park. 3: Queens-Il lato diverso. Essendo il più grande dei quartieri, ha una convergenza di oltre 150 culture, rendendolo un luogo diverso e multiculturale. Qui ci sono gli aeroporti JFK e La Guardia, si tiene il Tennis Open, trovi il bellissimo giardino botanico ed è qui che puoi assistere a una partita di baseball dei Mets. 4: Il Bronx-Il lato versatile. Culla dell'hip hop e del rap, patria degli Yankees e tela di bellissimi graffiti, dove si trovano il bellissimo giardino botanico di New York, il più grande zoo urbano degli Stati Uniti, l'umile casa di Edgar Allan Poe e una Little Italy più autentica nel quartiere di Belmont. 5: Staten Island-Il lato sconosciuto. Potresti aver sentito parlare di questo quartiere per via del famoso traghetto gratuito dove puoi vedere da vicino la Statua della Libertà e il magnifico skyline di Manhattan, ma Staten Island è molto più di questo. Crediti: negozio Dandy.
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jazzandother-blog · 2 months ago
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Goodbye Pork Pie Hat listen here live at Montreux (1975)
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(English / Español / Italiano)
Few of the most important names in the history of jazz have the same importance as composers, instrumentalists and bandleaders: Duke Ellington, Charlie Parker, Thelonious Monk, Miles Davis or John Coltrane, for example, are equally relevant from whichever angle you look at them. The same is true of Charles Mingus, a musician as personal and influential as an instrumentalist, as brilliant as a composer, or as a reference among the great ideologues and leaders of formation in the history of the genre. Mingus was a genius, one of the few jazzmen to whom such a heavy label can be attached without fear of it being too big for him. Today, 46 years after his death, it is as necessary as ever to vindicate his figure, beyond his biography and his classic albums; beyond Mingus the activist, the visionary composer, the reference of self-publishing, the irate character, the portentous instrumentalist… Beyond all of them is Mingus, a multifaceted genius whose legacy is, without a doubt, one of the richest in 20th century music.
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Pocos nombres entre los más importantes de la historia del jazz tienen la misma importancia como compositores, como instrumentistas y como líderes de banda: Duke Ellington, Charlie Parker, Thelonious Monk, Miles Davis o John Coltrane, por ejemplo, son igualmente relevantes sea cual sea el ángulo desde el que se los mire. Lo mismo ocurre con Charles Mingus, un músico tan personal e influyente como instrumentista, como genial en su faceta de compositor, o referencial entre los grandes ideólogos y líderes de formación en la historia del género. Mingus era un genio, uno de los pocos jazzistas a quienes se les puede colgar tan pesada etiqueta sin miedo a que esta le quede grande. Hoy, cumplidos 46 años desde su muerte, reivindicar su figura es tan necesario como siempre, más allá de su biografía y sus álbumes clásicos; más allá de Mingus el activista, el compositor visionario, el referente de la autoedición, el personaje iracundo, el instrumentista portentoso… Más allá de todos ellos está Mingus, un genio poliédrico cuyo legado es, sin duda, uno de los más ricos de la música del siglo XX.
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Pochi dei nomi più importanti della storia del jazz hanno la stessa importanza come compositori, strumentisti e bandleader: Duke Ellington, Charlie Parker, Thelonious Monk, Miles Davis o John Coltrane, ad esempio, sono ugualmente rilevanti da qualsiasi angolazione li si guardi. Lo stesso vale per Charles Mingus, musicista tanto personale e influente come strumentista, quanto geniale come compositore, o come riferimento tra i grandi ideologi e leader della formazione nella storia del genere. Mingus era un genio, uno dei pochi jazzisti a cui si può affibbiare un'etichetta così pesante senza temere che sia troppo grande per lui. Oggi, a 46 anni dalla sua morte, è quanto mai necessario rivendicare la sua figura, al di là della sua biografia e dei suoi album classici; al di là del Mingus attivista, del compositore visionario, del riferimento dell'autopubblicazione, del personaggio irascibile, dello strumentista portentoso… Al di là di tutto questo c'è Mingus, un genio poliedrico la cui eredità è, senza dubbio, una delle più ricche della musica del XX secolo.
Source: Pasión por el Jazz y Blues. (by Yahvé M. de la Cavada. scherzo,es)
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primepaginequotidiani · 5 months ago
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PRIMA PAGINA Unita di Oggi giovedì, 24 ottobre 2024
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pikasus-artenews · 5 months ago
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GIANNI DOVA. Vita reale e magia cromatica
Artista poliedrico Gianni Dova attraversò le correnti artistiche del suo tempo, dall’Astrazione Geometrica, allo Spazialismo, alla Pittura Nucleare e al Surrealismo
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telefonamitra20anni · 1 year ago
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Mastrojanni uomo e attore. La "j" non è un caso.
C'è sempre stato confine sottile tra l'uomo e l'attore. Un filo invisibile che ha legato l'arte e la vita. I più conoscono Marcello come l'attore romano, talento e seduttività indolente, distintivo italiano di maschio latino, abile conquistatore e divo in divisa. Nella sua sconfinata carriera di attore, ha giocato a nascondino con l'uomo senza però tralasciare che, in qualche modo, ne fruisse della sua verità, che la svelasse e delineasse un profilo d'umanità. Mastrojanni attore era istintivo, propositivo, proattivo, poliedrico, instancabile, concentrato, adatto, misurato, minuziosamente attento alle indicazioni del regista, talentuosissimo, naturale, accomodante, abbastanza tollerante, quasi sindacale con un occhio ben attento alla spontaneità, ma soprattutto fruitore di verità. Un immagine amicale e familiare, Il baricentro perfetto tra neorealismo, commedia, cinema e teatro d'autore senza sopperirne in bravura. Marcello, suo modo, era la sintesi della sua professione, perché l'uomo non esclude l'attore e viceversa. Il mestiere d'attore lo ha allenato ad essere paziente, stimolato alla fantasia, ad avere una visione d'insieme di psicologie atte alla costruzione del personaggio ed alla sua più opportuna ricerca. Alla base di tutto questo, però c'era l'uomo, caratterista di se stesso, che alimentava il vissuto, ricercando in se il pregio e il difetto da raccontare, l'elemento perdente da rendere vincente. Un dualismo sinergico e sostanziale, che lo liberava, lo stimolava alla conoscenza di sé. Marcello era bellezza e assolutezza, l'uomo docile e schivo, il padre premuroso, il marito fallibile, il compagno da accogliere, l'amico fedele, e talvolta la sua stessa antitesi. Se l'attore era istinto, l'uomo era ambivalenza tra quest'ultimo e il raziocinio. Lui era pigrizia opportuna, fedeltà non convenzionale, carisma e convivialità. Tutto un mondo racchiuso e raccontato dentro il suo nome e cognome, ed una "j" messa lì, per fare quella distinzione tra l'uomo e l'attore, sebbene basti chiamarlo Marcello perché sia sufficiente per collocare un epoca, un uomo e la sua storia.
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rideretremando · 1 year ago
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KANT
di Sebastiano Maffettone
Domani, 22 aprile, Immanuel Kant compie 300 anni (1724-2024). Ho usato il tempo presente non a caso. Perché, che lo si sappia o no, Kant vive ancora in mezzo a noi. Meglio, le sue idee e le sue teorie sono parte integrante del nostro patrimonio intellettuale. Lo si vede chiaramente dalla nostra comune ideologia, dalle più rilevanti ipotesi filosofiche che hanno popolato il secolo ventesimo e l’inizio del nostro, e in sostanza dal nostro modo di pensare nel suo complesso. Non è facile argomentare decentemente una tesi come questa. Certo, si può dire che Kant era un genio assoluto, si può sostenere che ha messo insieme profonde intuizioni sul suo tempo con una tecnicalità filosofica perfettamente compiuta, oppure ancora che egli ha incarnato come nessuno lo spirito della modernità di cui siamo ancora – volenti o nolenti – figli riluttanti. Tutto vero, beninteso.
Ma, non appena si cerca di sostenere qualcosa di simile alla luce dei suoi scritti, interpretazioni generali come questa mostrano la corda. E per varie ragioni. La prima è banale e ineliminabile: leggere Kant è complicato, quasi impossibile senza una guida. Non puoi, intendo, prendere i suoi testi più importanti e, pur armato di buona volontà, sperare da solo di capire ciò che il filosofo sostiene. Innanzitutto, perché il nostro tratta problema estremamente astratti e complessi, del tipo di come sia possibile la conoscenza e che cosa vuol dire essere liberi. In secondo luogo, perché Kant non aveva il dono di una scrittura persuasiva e gradevole, come per esempio lo sono quella di Rousseau e quella di Hume. Certo, la sua prosa è ardua perché, come detto, si arrampica su cime abissali, ma è difficile negare che l’autore ci metta del suo. Il tedesco di Kant è indubbiamente ostico, come del resto i suoi primi lettori non esitarono ad affermare.
Kant, diciamo la verità, era un tipo strano. Metodico fino all’esasperazione e prussiano nell’animo, così lontano non solo dalla mia immaginazione mediterranea ma anche dalle esperienze di vita degli altri filosofi della modernità. Cartesio, Hobbes, Spinoza, Locke e compagnia avevano avuto vite movimentate, ed erano stati costretti all’esilio per ragioni diciamo così ideologiche. Kant, invece, come molti sanno, non si era mai mosso dalla sua Königsberg, ai suoi tempi cittadina mercantile fiorente nella Prussia Orientale ora – con il nome sovietico di Kaliningrad (sic!) – centro di un exclave russo sul Baltico che rischia di essere un pericoloso corridoio bellico nel prossimo futuro. La sua vita era scandita da ritmi sempre uguali. Lo svegliava il fedele servitore Lampe prima delle 5, poi studiava e preparava le lezioni che avrebbe tenuto all’Università Albertina di Königsberg, dopo di che consumava l’unico pasto del giorno (talvolta in compagnia), e nel tardo pomeriggio faceva la famosa passeggiata quotidiana rigorosamente in solitario (quella su cui si dice i locali regolassero l’orologio). Al ritorno, leggeva fino a quando arrivava l’ora di andare a dormire. Era genericamente stimato dai suoi concittadini anche se la sua carriera accademica era stata lenta e faticosa, ed era finito a 80 anni nel 1804 dopo una vecchiaia fertile di studi e pubblicazioni.
Se si dovesse scegliere una frase tra le tante che Kant ha lasciato impresse nella nostra memoria, direi di partire da quella che ci invita a prendere in considerazione due fondamentali universi quello del «cielo stellato sopra di noi» e quello della «legge morale dentro di noi». Dal complesso rapporto tra di loro, discende il nucleo dell’opus kantiano. Quest’ultimo è senza dubbio costituito in primo luogo dalle tre Critiche, Critica della ragion pura (1781, seconda edizione rivista 1787), Critica della ragion pratica (1788), Critica del Giudizio (1790). Ciò, anche se Kant era un genio poliedrico, in grado di esprimersi ad alti livelli su temi di fisica, matematica, diritto, astronomia, antropologia, geografia, teologia e via di seguito. E anche se –oltre alle Critiche – Kant ha scritto molti altri lavori di enorme importanza filosofica, tra cui quelli dedicati alla politica e alla religione.
Nelle sue opere, emerge – come mai altrove – lo spirito dell’Illuminismo, con la sua fede nel progresso e la fiducia nella scienza (a cominciare dalla fisica di Newton), ma col passare del tempo anche la pacata consapevolezza dei suoi limiti e un’apertura al clima culturale che sarebbe seguito. Se, in tutto ciò, un concetto dovesse farci da guida direi che è quello di «autonomia». L’autonomia kantiana riguarda sia la conoscenza teoretica che la vita pratica ed è il vero faro che illumina il percorso della modernità.
Nella Critica della ragion pura si trova l’essenziale della filosofia teoretica di Kant, che riguarda il mondo come è. Nella Critica della ragion pratica – ma anche nella tarda Metafisica della morale (1797) - il nucleo della filosofia pratica di Kant che riguarda il mondo come dovrebbe essere. In entrambi i casi, sia pure in maniera diversa, il soggetto dà leggi a sé stesso, cosa che poi corrisponde al concetto di autonomia di cui si diceva. Nella Ragion pura il nucleo del ragionamento kantiano coincide con la cosiddetta «rivoluzione copernicana», che fornisce la riposta alla fondamentale domanda sul come possiamo conoscere a priori la struttura del mondo sensibile. La risposta suggerisce che il mondo sensibile, o mondo delle apparenze, è in fin dei conti costruito dalla mente umana tramite una complessa interazione di materia che riceviamo dall’esterno e di forme apriori che derivano dalle nostre capacità cognitive innate. Si tratta di una nuova visione costruttivista dell’esperienza, che costituisce davvero una rivoluzione nel campo del pensiero (come quella di Copernico a suo tempo). Lo strumento analitico principale in questo tour de force è costituito dall’idealismo trascendentale, che all’osso è la dottrina secondo cui noi facciamo esperienza solo delle apparenze attraverso le forme a priori di spazio e tempo, mentre le cose in sé restano inconoscibili. In questo modo, Kant toglieva certamente autorità alla metafisica, ma – come ebbe a dire lui che aveva avuto una profonda educazione religiosa ispirata al pietismo – lasciava al tempo stesso più spazio alla fede.
Se la filosofia teoretica di Kant concepisce l’autonomia come capacità squisitamente umana di fornire l’apparato a priori che consente l’esperienza, la stessa autonomia gioca un ruolo ancora più centrale nella filosofia morale di Kant. La legge morale è – come ci hanno raccontato a scuola – basata sull’imperativo categorico, ed è fondata sul lavoro della ragione là dove la conoscenza poggia sull’intelletto. Anche qui, sullo sfondo c’è l’idealismo trascendentale, ma in questo caso non ci accontentiamo delle apparenze ma entriamo nell’ambito delle cose in sé. Se non altro perché la natura è altro da noi, mentre la moralità è squisitamente umana. La ragion pratica così concepita aiuta a comprendere la fondamentale libertà che abbiamo avuto in sorte. Naturalmente, di ciò non possiamo avere una pura consapevolezza teoretica, ma dobbiamo partire da un profondo sentire che consente a ognuno di noi di avvertire la legge morale, secondo la dottrina detta del «fatto della ragione».
A questo punto, il disegno complessivo della critica sembra essere inevitabilmente condannato a un dualismo, che non può che stridere con la mentalità sistematica di Kant. Da un lato c’è il determinismo della natura, dall’altro la libertà dell’essere umano. Scopo della Critica del Giudizio, è proprio il tentativo di superare questo dualismo tra teoria della conoscenza e il dominio della pratica. L’unità del progetto viene raggiunta, in quest’opera, introducendo una terza opzione cognitiva, che fa capo alla capacità riflessiva del giudizio. Tramite tale capacità noi concepiamo la natura nel suo complesso come dotata di scopo. Il giudizio estetico, la scoperta cioè del bello e del sublime nell’arte e nella natura, rivela un’armonia ultima tra il gioco dell’immaginazione e il creato. Consentendo, così, di pensare la natura come frutto di un disegno intelligente e come coerente con i nostri scopi. Soprattutto, sono gli organismi viventi che suggeriscono una finalità intrinseca all’esistenza e alla realtà.
Tutto ciò, oltre a essere complicato per chi non sa e semplicistico per chi sa, ha l’ovvio difetto di apparire scolastico. Kant può risultare, letto in questo modo, come un continuatore particolarmente sofisticato del razionalismo illuministico dei Leibniz e dei Wolff, capace di temperarlo con il lascito dell’empirismo britannico di Locke e Hume. Per capire che non è così, basta guardare alla differenza tra la filosofia che lo precede e quella che lo segue, a cominciare da Hegel e Marx. Per non parlare dell’eredità enorme lasciata da Kant nella filosofia del secolo ventesimo, un secolo in cui tutte le grandi scuole di pensiero – dalla fenomenologia all’esistenzialismo e al positivismo logico – sono in fin dei conti derive dell’opus kantiano. Ma non basta, perché la filosofia del linguaggio dopo Wittgenstein, la filosofia sociale e politica di Habermas e Rawls e la riflessione sul postmoderno non sarebbero neppure immaginabili senza partire dalla rivoluzione del pensiero apportata dal genio di Königsberg.
Dirò di più, credo sia impossibile per noi eredi del progetto incompleto della modernità trovare il bandolo delle nostre idee senza tornare a Kant. Con il compito, direi ovvio, di doverci confrontare con un mondo sociale mutato in cui certi passaggi razzisti, sessisti e classisti di Kant che pure ci sono, non hanno (o non dovrebbero avere?) più cittadinanza. E con una realtà ontologicamente trasformata dalla condizione digitale in cui siamo immersi, dalle guerre (da rileggere ora il saggio kantiano del 1795 su La pace perpetua) e con un pianeta in cui l’Occidente, di cui il nostro era chiara espressione, non rappresenta più l’avanguardia della civiltà. Ma anche per questo compito futuro il lascito di Kant resta fondamentale, un punto di partenza filosofico senza il quale sarebbe impossibile capire il nostro essere nel mondo.
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cinquecolonnemagazine · 10 months ago
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Eduardo De Filippo: gigante del teatro italiano
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Eduardo De Filippo, nato a Napoli il 26 maggio 1900 (anche se per molti anni si è creduto che la sua data di nascita fosse il 24), è stato un drammaturgo, attore, regista, sceneggiatore e poeta italiano, considerato uno dei più grandi esponenti del teatro del Novecento. Figlio naturale dell'attore e commediografo Eduardo Scarpetta e della sarta teatrale Luisa De Filippo, crebbe in un ambiente artistico fin dalla tenera età. Gli esordi e la compagnia "Teatro Umoristico I De Filippo" Iniziò a recitare giovanissimo, dapprima nella compagnia del padre e poi con i fratelli Titina e Peppino. Nel 1931 fondò con loro la compagnia "Teatro Umoristico I De Filippo", che riscosse un grande successo in tutta Italia grazie a commedie come "Questi fantasmi!" (1946), "Sik-Sik" (1929) e "Napoli milionaria" (1945). Il teatro di Eduardo: tra umorismo e riflessione Le opere di Eduardo De Filippo si caratterizzano per un umorismo profondo e mai banale, spesso intrecciato a riflessioni sociali e filosofiche. I suoi personaggi, spesso maschere tipiche della tradizione napoletana, rappresentano le debolezze e le contraddizioni dell'essere umano con grande realismo e commozione. Tra le sue commedie più celebri ricordiamo "Filumena Marturano" (1946) e "Sabato, domenica e lunedì" (1959). Attività cinematografica e televisiva Oltre al teatro, De Filippo si dedicò anche al cinema e alla televisione. Tra i suoi film più noti ricordiamo "L'oro di Napoli" (1954) di Vittorio De Sica e "Ferdinando, I° re di Napoli" (1959) di Peppino De Filippo, suo fratello. In televisione, invece, fu protagonista di diverse serie di grande successo, come "Le voci di dentro" (1974) e "Il sindaco del Rione Sanità" (1960). Eredità Eduardo De Filippo è scomparso a Roma il 31 ottobre 1984, lasciando un'eredità artistica immensa. Le sue opere continuano ad essere rappresentate con grande successo in tutto il mondo e sono considerate dei capolavori del teatro italiano. La sua figura di artista completo e poliedrico rappresenta un punto di riferimento fondamentale per la cultura italiana del Novecento. Foto di Gerd Altmann da Pixabay Read the full article
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seoul-italybts · 11 months ago
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[✎ ITA] Weverse Magazine : Recensione : Le Canzoni, il Ballo e la Strada di j-hope | 04.05.24⠸
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🌟 Weverse Magazine 🗞
Le Canzoni, il Ballo e la Strada di j-hope
__ Una recensione di HOPE ON THE STREET VOL.1  __
__ di KANG ILKWON | 04. 05. 2024
Twitter  |  Orig. KOR 
Nonostante la sua ascesa al successo da superstar globale insieme ai BTS, l'identità di j-hope continua fondamentalmente a gravitare attorno la street dance. L'ultimo album dell'artista, HOPE ON THE STREET VOL.1, è testimonianza dell'incrollabile connessione che ancora lo lega al mondo del ballo. Il rilascio di questo progetto è pubblicizzato come “special album (album speciale)” e la scelta del format in cui si presenta non poteva essere più azzeccata. L'album comprende sia nuove tracce che nuove versioni di alcune delle canzoni più amate tra quelle già rilasciate, come la versione solista di “on the street”—che era, in origine, una collaborazione con J. Cole—ed un remix di “what if…”
Per gli estimatori sia di nuove versioni e remix di brani pubblicati in precedenza che di tracce nuove di zecca, quest'album presenta la tracklist perfetta.
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La traccia che probabilmente susciterà più interesse è “NEURON”, in collaborazione con i talentuosissimi artisti hip hop coreani, Gaeko e yoonmirae i quali aggiungono un ulteriore, allettante strato di rap al brano. J-hope apre la traccia con il suo roco rap, catturando immediatamente l'attenzione di chi ascolta, con punte maestrali da parte di Gaeko - con la sua flow fitta e tagliente – ed il rap euforizzante di yoonmirae, in chiusura.
Il titolo, “NEURON”, è un triplo gioco di parole che allude 1) ai neuroni, le cellule del sistema nervoso, 2) al nome della crew di ballo di cui faceva parte j-hope e, 3) alle parole “New run” che troviamo nel testo – a loro volta allusione ad un nuovo inizio.
La produzione del brano ha un che di mozzafiato. In apparenza, è simile a “on the street”, ma l'arrangiamento, più ricco, riesce a distinguerla con il suo connubio di sound boom bap – tipico dell'hip hop della East Coast degli anni '90 e 2000 – e pop rap melodico. Nel ritornello troviamo anche la talk box, un sound comunemente tipico dell'hip hop della West Coast. Non mancano poi intriganti variazioni ritmiche e di flow nei versi che precedono il rap di yoonmirae. Grazie a questi e molti altri accenti coinvolgenti – come i riff di tastiera che, a cascata, scivolano via dal ritornello pop accompagnando il passaggio ad un nuovo beat - questo singolo è un'impareggiabile lettera d'amore di j-hope per l'hip hop.
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“i wonder…”, in cui troviamo anche il collega dei BTS, JungKook, è un magistrale mix di funk ed electro-pop. Supportati da una produzione ed un sound allegri e ritmati, il rap cantato in autotune da j-hope e la voce melodiosa di JungKook esprimono con risolutezza il loro amore e la loro fiducia per le/i fan, nonché – rafforzato dal viaggio musicale affrontato insieme, l'affetto per il gruppo, in quello che è un tributo particolarmente toccante a tuttə coloro che li hanno seguiti finora.
Subito dopo questa traccia, troviamo “lock / unlock” (with benny blanco and Nile Rodgers) e la sua disposizione nella tracklist è un vero colpo di genio perché tale collocazione enfatizza la base funk che caratterizza i due brani.
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Sebbene “lock / unlock” sia più ballabile, nonché più vicina a ciò che comunemente viene definito funk, le due tracce trovano un punto di incontro nell'orchestrazione delle sezioni ritmiche, le quali riescono a dare l'impressione che i due brani non siano altro se non due parti di una stessa canzone, tratteggiando però atmosfere diverse attraverso ritmi differenti.
La voce del poliedrico artista Benny Blanco e la chitarra di Nile Rodgers, leggenda vivente del soul/funk, complementano perfettamente il cantato di j-hope, rendendo la traccia particolarmente adrenalinica. Queste due canzoni, collocate una di seguito all'altra, contribuiscono ad incrementare gradualmente il ritmo dell'album, fino a culminare nel brano successivo, “i don’t know” with HUH YUNJIN of LE SSERAFIM. La patinata perfomance deep house di j-jope e l'incantevole monologo francese nonché voce di HUH YUNJIN sono splendidi.
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Le nuove versioni incluse in quest'album regalano agli ascoltatori scelte sonore che solo un progetto come questo – così diverso dai soliti album in studio—poteva presentare.
La versione solista di on the street” che troviamo nel VOL.1 vede j-hope colmare la strofa di J. Cole con nuovi, geniali versi rap, i quali permettono all'artista di amplificare ancor più il suo messaggio. La versione solista è un omaggio alla street dance, ovvero le radici di j-hope in quanto idol, le tappe superate lungo il percorso, l'ispirazione che continua a spingerlo verso nuovi obiettivi, nonché un omaggio alla strada in quanto maestra di vita; tutto questo confezionato in una nuova versione che dà così alle/i fan l'opportunità di ri-sperimentare un brano cui hanno già dimostrato tanto amore. Il verso più eccezionale ci è offerto proprio da quelle nuove parti di testo: “Conoscere il cammino e percorrerlo è diverso”. A volte, nel corso della nostra vita, pensiamo di sapere come raggiungere ciò che vogliamo—come realizzare i nostri sogni—ma, di fatto, mettere in pratica quei progetti è tutta un'altra storia. È un verso molto breve, ma rimane nel cuore.
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L'amatissima “What if…”, già rilasciata nel 2022 nell'album Jack In The Box, trova qui nuova vita sotto forma di dance mix grazie alla ri-masterizzazione dell'iconico sample “Shimmy Shimmy Ya” di Ol’ Dirty Bastard in un botta e risposta giocato tra hip hop in stile New Yorkese ed elettronica sopra le righe, senza tuttavia discostarsi dall'alta tensione offerta dalla traccia originale. La novità, in questo remix, è rappresentata dal contributo del cantautore e produttore JINBO, le cui aggiunte sono sì di supporto alla visione creativa di j-hope, ma rappresentano anche un a-parte fresco ed inedito. Ma prendiamoci qaualche istante per approfondire un po' di più la conoscenza di JINBO. Quest'ultimo è uno dei pochissimi artisti coreani che ha davvero saputo cogliere ed interpretare il neo soul e l'hip hop e che ha saputo trarne il massimo, incorporandoli in una carriera musicale costantemente a cavallo tra hip hop/R&B e K-pop. La sua voce, morbida e ricca di sentimento, serve ad alleggerire la parte conclusiva di una canzone fino a quel momento caratterizzata dai velocissimi rap di j-hope e da un beat grintoso e graffiante.
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HOPE ON THE STREET VOL.1 è un esempio magistrale di come sia possibile arrivare ad un pubblico di massa pur esplorando a fondo generi solitamente più di nicchia.
I messaggi che l'ambizioso j-hope ha voluto trasmetterci attraverso quest'album sono fondamentalmente semplici, testimonianza della sua sincerità— l'eterno amore per le sue radici nella street dance, l'orgoglio per il suo status di ballerino, il rispetto e la dedizione per il rap/hip hop nonché il profondo affetto nutrito per le/i fan che l'hanno sempre supportato—Ne è, infatti, intrisa ogni nota in ognuna delle canzoni contenute nell'album, forti di quelle sue umili aspirazioni.
E subito ci torna in mente Bong Joon Ho, quella volta che, notoriamente, ha citato Martin Scorsese durante gli Oscar: “Più una cosa è personale più sarà creativa.” L'intenzione di j-hope non è ostentare il suo apprezzamento per la street dance o l'hip hop, ma l'artista non dimentica mai quali sono le sue origini e non fa che ricordare a se stesso—gioiosamente, apertamente e in tutta onestà—qual è il tipo di percorso che sta affrontando.
⠸ ita : © Seoul_ItalyBTS ⠸
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fashionbooksmilano · 11 months ago
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Jean Cocteau La rivincita del giocoliere
Peggy Guggenheim Collection
Kenneth E.Silver, saggio di Blake Oetting
Marsilio Arte, Venezia 2024 , 176 pagine, 20,5x26,8cm, ISBN 978124631676
euro 40,00
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«L’opera di Cocteau ci lascia una sensazione perdurante di felicità, non perché escluda la sofferenza, ma perché in essa nulla è rifiutato, rimpianto o crea rancore. La felicità è un segno di saggezza, più affidabile di quanto si creda, e forse lui ne ha più di altri…» Wystan Hugh Auden, poeta
Brillante, sorprendente e poliedrico. È Jean Cocteau (1889-1963), artista francese che ha lasciato un segno come disegnatore, regista, scenografo, muralista, designer di gioielli e di abiti. La poesia, tratto fondante del suo inconfondibile stile, è caratterizzata da atmosfere mitologiche e circensi e da una scrittura spiazzante che accompagnerà sempre la sua infinità di creazioni nei campi più disparati. In occasione della prima retrospettiva in Italia dedicata all’artista, allestita alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, esce per Marsilio Arte il libro Jean Cocteau. La rivincita del giocoliere di Kenneth E. Silver, con un saggio di Blake Oetting (Orfeo, due e più volte: i riverberi queer di Jean Cocteau). Lo spazio espositivo è anche un omaggio all’amicizia che legò l’artista a Peggy Guggenheim. Fu lui, infatti, a incoraggiare la giovane collezionista ad aprire nel 1938 la galleria londinese Guggenheim Jeune. Guggenheim ricambiò il sostegno ospitando più opere di Cocteau, all’epoca amico e consulente artistico di Marcel Duchamp. Da quel momento l’artista iniziò a frequentare la casa della mecenate newyorchese a Venezia, a Palazzo Vernier dei Leoni, innamorandosi della città. Guggenheim ribadì più volte che la parola era un mezzo di espressione che Cocteau utilizzava con virtuosismo da acrobata. La rivincita del giocoliere è un richiamo alla sua abilità di riuscire ad attraversare gli ambiti più disparati con uno sguardo trasversale, capace di cogliere e mettere in relazione l’estetica e la storia. Nel suo primo libro, La spaccata, lo stesso Cocteau si dice affascinato dagli artisti delle giostre e del circo, tanto che più avanti, a carriera avviata, inserirà due acrobati e un prestigiatore cinese nel libretto del balletto Parade, e il mago Merlino in I cavalieri della tavola rotonda. Fonte inesauribile di creatività e visioni, il genio di Cocteau si manifesta nei romanzi, tra cui Il libro bianco, in film come Il sangue di un poeta, con Lee Miller nei panni di una statura greca che prende vita, e nella Macchina infernale, rivisitazione dell’Edipo Re, solo per citare alcuni dei suoi capolavori. Cocteau stesso si racconta definendosi «una menzogna che dice sempre la verità»: nella sua opera si serve regolarmente del mito per presentare una storia e allo stesso tempo «riempirla di codici, costringendo il pubblico ad andare alla ricerca di ciò che è nascosto, come giocasse a nascondino».
05/05/24
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