#Per questo mi chiamo Giovanni
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Grande Anima ❤
"Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se la malattia mi porgesse, assieme al dolore, degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio… Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno, ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota?! Mi sono sentito mancare! Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti ad un pubblico di quindici, venti persone ed ero felicissimo! Oggi… dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a quindici persone. I numeri… non contano! Sembra paradossale detto da qui. Perché ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi, è unico, irripetibile e a suo modo infinito.
Un altro dono! La gratitudine nei confronti della bellezza del Creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze d'ospedale.
Un altro dono. La riconoscenza per il talento dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. Per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per l'affetto, la forza, l'esempio che ricevo dagli altri pazienti, i guerrieri, così li chiamo. E lo sono anche i loro familiari, e lo sono anche i genitori dei piccoli guerrieri. Quando tutto crolla e resta in piedi solo l'essenziale, il giudizio che riceviamo dall'esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant alla fine della Critica della Ragion Pratica, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c'è qualcosa che permane! Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo con questo pensiero. Se le cose stanno davvero così, cosa mai sarà un giudizio dall'esterno? Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell'ultimo concerto a Vienna, non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l'anima.
E Ancora: «Ho due vertebre fratturate, e tremore e formicolio alle dita. Nome tecnico: neuropatia. Proprio io che devo suonare il pianoforte. Ma non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l'anima».
E così fa, Giovanni Allevi. Dopo due anni, rimette le mani sul pianoforte. Ed emoziona l'Ariston. Il brano si intitola Tomorrow. Perché, dice, «domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello. più bello.
Giovanni Allevi🌻
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il 25 agosto alle 16:30 presso lo Spazio Europa a Bordighera presentazione di Fabiano Mossucca con il suo libro "Una vita d'oggi" in occasione del Bordighera Book Festival.
“ Erano passati quasi due mesi dall’arrivo di Nicola nel capoluogo di ponente, il periodo di ambientamento non fu semplicissimo per via della mentalità un po’ chiusa e riservata della città che difficilmente si apriva ad un estraneo, ma questo non lo turbò più di tanto, Nicola trovava molto somigliante Imperia con la sua Trieste, due città ai piedi del monte, le Alpi liguri che idealmente sostituivano il Carso triestino, l’avere una frontiera lontana pochi chilometri e soprattutto l’essere due città figlie del mare, quel mare azzurro e immenso che il ragazzo era solito osservare per liberarsi dai cattivi pensieri e da quel senso di malinconia che ogni tanto lo pervadeva, la brezza impregnata di salsedine aveva lo stesso odore se annusato dal Molo Audace o dal Molo Lungo di Oneglia, l’orizzonte si fondeva col cielo dando un senso di liberazione, di pace, ciò che il ragazzo voleva.”
Il romanzo giallo Una Vita… D’Oggi narra la storia di Nicola Lavrič, giovane ragazzo triestino dal passato familiare difficile che decide di lasciare la sua città natale per trasferirsi ad Imperia per lavorare presso la filiale di un importante istituto bancario.
La nuova vita di Nicola non è priva di difficoltà, il giovane si ritroverà infatti ad affrontare diverse complessità sia a livello lavorativo che affettivo.
La svolta inizierà dal momento in cui il giovane triestino conoscerà Giacomo, un cliente della sua filiale che, grazie all’ausilio della sua compagnia di amici aiuterà Nicola ad integrarsi nella città ponentina.
Durante la sera di San Giovanni patrono di Oneglia, Nicola incontra una ragazza bella e disinvolta della quale si innamora e con la quale passa la notte assieme, ben presto però scoprirà che quello sarà per lui un amore impossibile.
Non appena il ragazzo avrà iniziato ad integrarsi nella sua nuova città un messaggio lo sconvolgerà e lo obbligherà a rientrare a Trieste dove i fantasmi del suo passato inizieranno a tormentarlo.
Quale mistero si cela nella sua famiglia? Cosa lega il Ponente Ligure al Golfo di Trieste? Un romanzo a tinte gialle che saprà coinvolgervi fino all’epilogo.
Mi chiamo Fabiano Mossucca, sono nato a Bordighera il 01 gennaio 1989 e attualmente risiedo ad Arma di Taggia assieme a mia moglie e i miei figli.
Biografia dell’autore:
Lavoro come impiegato bancario e in passato per esigenze lavorative, ho vissuto in Francia, in Austria e in Germania.
Sono laureato in Scienze del Turismo, Impresa Cultura e Territorio presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi sul Turismo Letterario a Trieste.
Fin dai tempi delle superiori ho coltivato una passione per la letteratura triestina e soprattutto per lo scrittore Italo Svevo dal quale ho tratto la mia passione per la scrittura.
Il romanzo Una Vita…D’Oggi, edito dalla casa editrice Silele Edizioni è il mio romanzo d’esordio.
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Comitato di Difesa Esquilino Monti
Sabato 30 settembre dalle ore 11 alle ore 12,30 il Comitato Difesa Esquilino - Monti ha organizzato una protesta contro DEGRADO, INVASIONE ED ILLEGALITÀ insieme ad altri movimenti in VIA GIOLITTI ANGOLO DANIELE MANIN. Siete tutti invitati a partecipare per il futuro di Roma e dell"Italia.
De Ficchy Giovanni Caratelli il presidente del Comitato di difesa Monti Esquilino La prima cosa che le chiedo è di presentarsi. Chi è, perché ha questo ruolo, che lavoro fa e di quali comitati si occupa? Io mi chiamo Augusto Caratelli e sono il presidente storico, dal 1998, del Comitato Difesa Esquilino-Monti-Castro Pretorio; poi, negli anni successivi, sono andato a insegnare, con altre…
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Quesito Caro Padre Angelo, Mi chiamo Valeriya, ho 20 anni, studio al serale, lavoro come oss di giorno, e al weekend in ristorante. Credo in Dio fin da quando sono piccola, e questa fiducia e amore si sono fatti più forti negli ultimi anni a seguito di due morti, di due persone molto importanti per me. È così che grazie a Dio ho ritrovato la luce, il senso di tutto ciò che succede attorno noi. Così è iniziata la mia fame di conoscenza, preghiera, confessioni, frequentazione di sacramenti, ed ho cambiato completamente il mio modo di vivere e di vedere le cose. Ma quello che mi trovo davanti è un mondo di chiesa, che non insegna assolutamente la via per noi giovani di come salvarci. Ho cercato e ricercato un prete che potesse aiutarmi in questo cammino, ma ancora nulla. Le volte che mi confesso spesso mi si dice che io dovrei essere più serena, che Dio è misericordioso. E questo non è che io non lo creda, ma vedo troppo buonismo e troppa superficialità nelle cose di Dio, se tutto fosse così facile non saremo tutti santi? Eppure siamo tutti peccatori… Spesso mi sono ritrovata incompresa in vari punti di ciò che Dio vuole da me, come la castità. E questa incomprensione dura fino ad ora. La mia stessa famiglia dice che è impossibile che a questi tempi io trovi qualcuno disposto veramente ad accettarlo, e padre, ultimamente è ciò che mi ritrovo a pensare anche io. Nessuno ormai crede con questa misura di fede. Io vengo vista esagerata e come colei che non si sposerà mai se farà così… Io mi affido alla volontà del Signore, eppure non so che più che fare… sono due anni che vivo in castità, certo a volte ci cado nelle “piccole cose”, ma poi ricorro sempre pentita alla confessione… Ho quasi paura ormai di addentrami dentro a qualche frequentazione, perché ogni volta mi riscontro con persone di poca fede. Per cui smuoverle dal loro fermo e convinto pensiero sembra sempre un’impresa molto ardua… Tutti mi dicono “ma certo aspettare sì, ma fino al matrimonio… è esagerato”; “è importante per capire se una persona ti piace”: Io cerco di spiegare ogni cosa, tutto ciò che mi ha portata a fare questa scelta, ma le spiegazioni non bastano. Mi sono ritrovata a pensare: “non puoi capire le cose del cielo, se vivi con i piedi nel fango e ti piace pure…”. Frequentando la chiesa invece trovo solo persone di una certa età, perciò… Cosa mi consiglia di fare? La ringrazio tanto Risposta del sacerdote Cara Valeriya, 1. mi dici che ti trovi davanti un mondo di Chiesa che non insegna la via della salvezza per i giovani perché cede al buonismo e ad accontentare nel proprio modo di vivere. Non posso darti torto del tutto. 2. San Giovanni Battista, il precursore di nostro Signore, ha iniziato la sua predicazione dicendo: “Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Si legge la stessa cosa a proposito di Nostro Signore: “Da allora cominciò a predicare e a dire: convertitevi perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). Anche a San Pietro, il principe degli apostoli, nella sua prima predica fatta nel giorno di Pentecoste, disse: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo (At 2,38). E poco più avanti: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,19). 3. Oggi si ha quasi paura a pronunciare questa parola: “Convertitevi!”. Molto probabilmente perché noi stessi, predicatori del Vangelo, non siamo come San Giovanni Battista e San Pietro che erano pienamente convertiti, sicché i nostri ascoltatori potrebbero dire: "Cominciate voi!". Tuttavia questo non esime dall’incarico che ci è stato dato: di predicare la conversione e di darne noi stessi per primi testimonianza. 4. Venendo a te, che ti trovi scoraggiata di fronte alla mentalità diffusa che disprezza la purezza prematrimoniale e che proprio per questo fatichi a trovare un ragazzo che abbia i tuoi medes
imi sentimenti, dico due cose. 5. La prima riguarda la fermezza che devi avere nel rimanere convertita e di non conformarti in nessuna maniera alla mentalità del mondo. Tanto più che proprio a motivo di questa condotta hai cominciato a “gustare la buona parola di Dio e le meraviglie della vita futura”, come dice la lettera agli ebrei (Eb 6,5). Pertanto non ascoltare chi ti dice di convertirti alla mentalità del mondo, che oggi è impossibile trovare i ragazzi che la pensino come te e che ti devi adattare perché diversamente non ti sposeresti mai. Sono certo che se chiedi al Signore questa fermezza, egli te la darà perché desidera soprattutto comunicare i beni di ordine spirituale. 6. La seconda cosa è quella di non cedere a quello che alcuni ragazzi ti possono dire: “Sì, è giusto aspettare, ma non fino al matrimonio”. Se rimani ferma e limpida su questo punto probabilmente alcuni si allontaneranno. Sarà meglio così, perché ti avrebbero fatto soffrire in seguito. Ma qualcuno forse rimarrà stupito e affascinato da quanto gli proponi in vista di una crescita della vita in Cristo. A questo proposito mi piace ricordare quanto scrive Santa Teresa d’Avila all’inizio della propria autobiografia. Teresa aveva circa vent’anni. C’era una persona consacrata che viveva in uno stato miserevole perché vittima di un maleficio o sortilegio fatto da una donna nei suoi confronti. Questa gli aveva gli aveva dato un amuleto da tenere sempre con sé. E per mezzo di questo amuleto esercitava su di lui un legame che lo teneva soggiogato. Santa Teresa aveva l’opportunità di frequentare quest’uomo con il quale faceva conversazioni spirituali e per questo stimava Teresa e aveva nei suoi confronti grande affetto. Scrive Santa Teresa: “Per farmi piacere mi consegnò l’amuleto che portava al collo e io lo feci gettare subito nel fiume. Appena ne fu liberato, a guisa di chi si sveglia da un grande sonno ricordò tutto quello che aveva fatto in quegli anni, e inorridendo di se stesso e della sua perdizione cominciò a detestarla” (Vita, V,6 ). 7. In seguito Santa Teresa farà questa considerazione: “Secondo me gli uomini si sentono maggiormente inclinati verso le donne che vedono più virtuose. Per le donne, poi, questo è l’unico mezzo per guadagnarsi il loro affetto” (Ib.). Come a dire: gli uomini saranno quello che saranno. Ma quando trovano una ragazza virtuosa sanno che su di lei possono contare per il proprio futuro. Mentre intuiscono subito che su una ragazza dalla condotta leggera non c’è nulla da sperare. Per questo, ti esorto ad avere fiducia: o il Signore ti farà trovare subito uno con i tuoi medesimi sentimenti oppure lo trasformerà, come è riuscita a fare Santa Teresa con quell’uomo. Con l’augurio che questo sia ciò che il Signore ha riservato per te, ti benedico e ti ricordo nella preghiera. Padre Angelo
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Claudio Stassi - Per questo mi chiamo Giovanni
Claudio Stassi – Per questo mi chiamo Giovanni
Un viaggio nella pittoresca Palermo, nei luoghi della vita di Giovanni Falcone, attraverso gli occhi di un bambino e di suo padre: l’educazione civica ed al civismo tra le piazze colorate e il mare di Mondello, passando per il tritolo di Capaci e il maxi processo nell’aula bunker. La graphic novel di Claudio Stassi, tratta dal romanzo di Luigi Garlando, è un prezioso volume per ricordare la vita…
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#Best Bur#Bur#Capaci#Claudio Stassi#Graphic novel#letteratura di viaggio#Libri da leggere#Libri di viaggio#Luigi Garlando#Palermo#Per questo mi chiamo Giovanni#Rizzoli
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Pizzo o Addiopizzo?
Sono nata e cresciuta in Sicilia, la terra degli agrumi, dei fichi d’India, della contradanza, delle tradizioni e della mafia. Sì, la mafia, quella grande famiglia di “Uomini d’onore” che tra gli anni ’70 e gli anni ’90 ha compiuto delle vere e proprie carneficine.
Boris Giuliano, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tantissimi altri sono morti in attentati mafiosi. Di loro parla Luigi Garlando nel suo libro “Per questo mi chiamo Giovanni”. È la storia di un bambino che aveva un orsacchiotto con i piedi bruciati, unico superstite di un incendio che aveva completamente distrutto il negozio di giocattoli del padre. Già, perché era questo che succedeva fino a circa 20 anni fa a Palermo se ti rifiutavi di pagare il pizzo al boss di turno.
Per fortuna oggi le cose sono cambiate e sono anzi nate numerose associazioni di antimafia, tra cui Addiopizzo Store, un negozio online che si occupa della vendita di prodotti coltivati nei terreni confiscati alla mafia o venduti da commercianti che hanno detto di no al pizzo.
Store di Addiopizzo a Palermo - Foto di Dedda71 - Fonte: Wikipedia
Si tratta di un movimento antimafia Made in Sicily al 100%, nato dall’idea di 7 ragazzi di Palermo che nel 2004 volevano aprire un pub, ma senza pagare il pizzo. Il pub non lo aprirono, ma nacque Addiopizzo, un’associazione che dopo 15 anni conta 1.045 negozi e imprese, 13.161 consumatori che li sostengono e 184 scuole coinvolte nella formazione antiracket.
Che dire? È un’idea del tutto originale per combattere la mafia pur non abitando in Sicilia!
Il negozio online, infatti, promuove i prodotti legati all’associazione ma permette anche all’acquirente di scegliere un produttore che decide di non pagare il pizzo, sostenendo così un’economia pulita, che è il primo passo verso il cambiamento.
Tra i commercianti presenti sulla piattaforma vi sono Davide Grassi (figlio di Libero Grassi, imprenditore ucciso nel 1991 per essersi opposto ad una richiesta di pizzo), che dirige la fabbrica tessile della sua famiglia, la famiglia Scimeca (la prima che ha denunciato l’estorsione), che gestisce una pasticceria di prodotti tipici siciliani, Cotti in fragranza, un laboratorio di prodotti da forno situato all’interno di un Istituto Penale per Minorenni. Vi sono poi delle aziende agricole come Salamone e la cooperativa Valdibella, che si occupano della vendita di cibo biologico di qualità, e imprese che distribuiscono caffè della filiera del commercio equo e solidale “Madreterrà”.
Inoltre, dell’associazione fanno parte due etichette discografiche indipendenti che investono nella cultura a Palermo e un’agenzia di viaggi nata nel 2009 dal nome Addiopizzotravel, un tour operator che propone “turismo etico per chi dice di no alla mafia”, come si legge sul sito.
Logo di Addiopizzo - Fonte: Wikimedia Commons
A questo punto direi che la mafia non è soltanto un’”affare” dei siciliani. Anzi, proprio grazie alla Rivoluzione Digitale e all’iniziativa di questi giovani palermitani, chiunque, da qualsiasi parte dell’Europa, può dare il suo contributo per cercare di eliminare questa “piovra”, come viene definita nel libro di Garlando, che, purtroppo, ancora oggi spande i suoi tentacoli in Sicilia e nel resto del mondo.
Quindi, nell’era della Rivoluzione digitale, in cui i pensieri viaggiano senza confini, rimbocchiamoci le maniche e seguiamo l’esempio di Addiopizzo. Non importa se Giovanni, Paolo, Rocco e tutti gli altri non ci sono più, non importa perché restano le loro idee, “restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini” (Giovanni Falcone).
Gaia Spanò
#sicilia#giovanni falcone#paolo borsellino#rocco chinnici#boris giuliano#vittime della mafia#per questo mi chiamo giovanni#luigi garlando#addiopizzo#addiopizzotravel#rivoluzdigitale#no alla mafia
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Per questo mi chiamo Giovanni: Da un padre a un figlio il racconto della vita di Giovanni Falcone - Luigi Garlando https://ift.tt/2KVWg8q
#Per questo mi chiamo Giovanni: Da un padre a un figlio il racconto della vita di Giovanni Falcone -
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La lettera delle Marche alla Nazione.
CIAO ITALIA,
mi chiamo Marche!
Ti chiederai perché il mio nome è al plurale, rispetto alle tue altre 19 Regioni.
Ho una superficie di medio-piccola grandezza di 9694 kmq,
e sembro avere una forma di pentagono irregolare.
Mi trovo collocata al tuo centro/nord verso est ed
in me trovi di tutto:
il mare, la collina e la montagna.
Il mio mare che si trova ad est, è balneabile al 98,2% secondo il Ministero della Salute; le mie colline rappresentano il 69% del territorio, mentre per quello che riguarda i monti,
la mia cima più alta è il Monte Vettore, della catena dei Monti Sibillini.
Ti dice nulla questo nome?
Il mio (1.543.572 di abitanti ) è distribuito fra le zone del mio capoluogo che è Ancona e le mie province che da nord a sud sono: Pesaro Urbino , Ancona ,Macerata ,Fermo e Ascoli Piceno .
Sai, tra il mio Capoluogo e/o Provincie e città non è mai esistito un gran feeling:
animosità dettata per motivi territoriali o sportivi ..
Mah, questi miei figli!!
Eppure Patria mia, si trovano localizzati nel tuo gomito:
punto di contatto fra sud e nord..
Dal sud la mia gente ha mantenuto l'attaccamento alla terra, alla famiglia, alle sue tradizioni..
Dal nord ha assunto l'impegno e la costanza del lavoro,
di crescere e rimanere autonomi..
Testa del nord, cuore del sud, questi sono i miei figli!
Chiusi nel loro mondo?
Forse un po' si, perché da me si sta bene, sai Italia?
Da me non c'è per fortuna troppa criminalità,
non troppe cose fanno rumore particolare sui quotidiani locali..
Per questo i miei abitanti sono gelosi della loro terra:
hanno paura che venga sconvolto il loro equilibrio di pace,
ma non sono cattivi e neppure rustici, devono solo capire se si possono fidare..
Allora ti donano anche il cuore!
Sai nella mia terra sono nati molti personaggi illustri e/o famosi :
Raffaello Sanzio (pittore),
Gioacchino Rossini (compositore), Giacomo Leopardi (poeta),
Maria Montessori (conosciuta per il suo rivoluzionario metodo didattico nel mondo),
Giovanni Battista Pergolesi (celebre compositore),
Papa Pio IX (ultimo Papa Re e Santo), Diego Della Valle (noto imprenditore), Virna Lisi (nota attrice Italiana), Massimo Lopez (attore, comico e doppiatore),
Neri Marcore' (attore),
Roberto Mancini (mister e calciatore), Valentino Rossi (pilota motociclistico), Valentina Vezzali ed Elisa Di Francisca (campionesse di scherma )..
Perché dunque, fino ad agosto scorso, non hai mai parlato di me?
Per eventi simili avremmo preferito evitare le luci della ribalta...
Saremmo rimasti volentieri al silenzio nel nostro angolino tricolore..
Sai il mio grado di sismicità è pari al 97,3% del territorio,
che corrisponde a 230 comuni,
ed è stato sempre così ma non è stato fatto nulla!
E ora?
Ora piangiamo case distrutte,
vite spezzate, le persone sono schiacciate!
Ma sai cosa c'è di bello?
Che il Marchigiano non si arrende, tutti i miei figli da Pesaro Urbino ad Ascoli Piceno
e da Ancona a Fabriano,
si prendono per mano ed in questo momento dimostrano chi è il popolo Marchigiano!
Noi siamo un popolo fiero e risorgeremo dalle nostre macerie!
Scusa se ti ho disturbato Italia, ma la mia voce la volevo far sentire!
La Regione Marche
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Essere andato ieri sera all’aeroporto di Francoforte a prendere uno sconosciuto di ritorno dall’Egitto per riportarlo a casa mi ha fatto tornare alla mente l’unica volta che una persona abbia fatto qualcosa di simile per me.
Erano i tempi dell’Uni, all’epoca, nel gruppo di amici, uscivo con Lina, passavamo tanto tempo insieme, il più delle volte a parlare del fatto che nessuno ci cagasse, eravamo gli unici “senza partner” e quindi convinti di essere vittime di amori non corrisposti e che il mondo fosse contro di noi.
Una sera, riaccompagnandola a casa, resto un po’ giù da lei a parlare e lamentarci e a piangere insieme sul fatto di quanto il mondo e le persone fossero delle merde, lasciando però i fari della mia Clio accesi. All’una e mezza di notte, fatta ‘na certa, decisi di tornare a casa, ma la mia povera Clio, ormai allo stremo della fornitura elettrica, mi mandò affanculo a ragion veduta e diede forfait.
“E mo’ che cazzo faccio a quest’ora, come ci torno a casa?”, esclamai. Lina ci pensò un po’, e poi esclamò: “mo’ chiamo Giovanni” - “cazzo chiami Giovanni, starà dormendo poverino, son quasi le 2!” - “ma forse viene ...” - “ma tu nun staje bbuon, non lo chiamare, mo’ mi faccio venire un’idea”, insomma, tra una discussione e l’altra, chiamò Giovanni. Già dalla risposta al telefono si sentiva che il povero Gio era nel meglio del sonno, però non si lamentò, si vestì, mi venne a prendere, e con un occhio mezzo aperto e l’altro completamente chiuso mi riportò a casa, per poi tornarsene alla sua e rimettersi a letto.
A Giovanni non avevo mai fatto alcun favore, a differenza di tutti gli altri miei “amici”, anzi, nonostante gli volessi bene, lo sfiduciai pure alle votazioni del partito, essendo lui il segretario locale, quando il PdS prese la direzione dei DS (poi diventati Ulivi, Margherite, Gerani, Ciclamini e sa-il-cazzo-quale-altra-pianta), avendo già annusato all’epoca che ormai, se mai ci fosse stato “qualcosa di sinistra” in Italia, era bella che sepolta (non era colpa di Gio, per me rimane ancora uno dei pochi politici onesti e sinceri che io abbia mai conosciuto, ma la marmaglia che ormai frequentava non era più giustificabile). Eppure lui, nel momento del bisogno, non ci pensò due volte, quando chiunque altro avrebbe mandato a cagare Lina già per il fatto di aver telefonato.
Giova’, io non mi ricordo più ormai se ti ho mai ringraziato abbastanza per quella sera, al di là dell’incidente in sé, ma proprio per avermi aiutato così genuinamente, più di un fratello, quindi che questo post sia l’ennesimo grazie per un gesto di tantissimi anni fa, che tu manco ricordi ormai ma che io non ho mai dimenticato.
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«Mi chiamo Alberto Paolini, ho ottantotto anni. Ne ho passati quarantadue nel manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Sono entrato che avevo quindici anni e ho rivisto la città nell’anno dei mondiali, il 1990. Ho subito per tre volte l’elettrochoc perché avevano scambiato i miei silenzi per una malattia.
Ma io non parlavo perché stavo male.
Cominciamo dall’inizio, come in tutte le storie che si rispettino. Vivevo con la mia famiglia a Via Piave 15, nel quartiere Pinciano di Roma. Papà faceva il portiere e per arrotondare riparava le scarpe del vicinato. Mia madre lavorava a mezzo servizio. Era una donna dura, severa. Comandava tutto lei, una mamma “padrona”. Era sempre nervosa, urlava. A mia sorella voleva bene, a me no. Mi brontolava sempre, mi picchiava. A casa nostra nessuno dei parenti si avvicinava più, la temevano.
Papà è morto quando io avevo cinque anni. Stava bene. Una sera si è portato le mani al cuore e ha cominciato a rantolare. Mia sorella ed io ci siamo tanto spaventati. Mamma ha detto poi che era stata una “sincope” a portarlo via da noi. Da quel momento tutto è precipitato. Mia madre non ce la faceva più a sostenerci, abbiamo dovuto lasciare la casa e ci ha messo in due collegi differenti, lontani. Poi, qualche anno dopo, anche lei è morta e ci siamo trovati completamente soli al mondo.
Nel mio collegio le suore erano cattive, non ci trattavano bene, spesso ci picchiavano. Insegnavano a stare zitti e obbedire senza discutere. In collegio era obbligatorio il silenzio, se parlavi eri punito. Tutti sembravano volere solo una cosa, quando ero bambino: che non parlassi. E io obbedivo, non parlavo.
Le suore non erano caritatevoli, stava cominciando la guerra, tutti avevano fame, tutti avevano paura. A 12 anni vengo mandato in un collegio di salesiani. Anche loro erano duri, severi. Anche loro picchiavano per un nonnulla. Io che, va bene, ero silenzioso e timido, subivo tante cattiverie dagli altri ragazzi.
Si faceva l’avviamento professionale e io stavo studiando in un laboratorio di sartoria. Ma quelli più grandi mi prendevano di mira. Io ero piccolo, anche fisicamente, e poi non parlavo, o parlavo poco. Mi facevano scherzi di tutti i tipi. Al laboratorio c’erano, di norma, un capo e un maestro. Il capo però era tornato al suo paese e un giorno il maestro si assentò. Al ritorno trovò una gran confusione e volle sapere di chi era la colpa. Tutti dissero che ero stato io. Ma non era vero. Un’altra volta mi spinsero fuori dalla classe e mi lasciarono in corridoio. Quando arrivò il maestro mi punì. Io non ci volevo più entrare, in quel laboratorio. Cercavo di richiamare l’attenzione del direttore che era più buono, ma non ci riuscii.
A un certo punto vennero due benefattori, due persone ricche che avevano un locale, forse un caffè, in Piazza di Spagna. Ci andava il bel mondo romano e, visto che eravamo alla fine della guerra, anche gli ufficiali americani. La signora, credo fosse svizzera, ho saputo più avanti che aveva fatto un voto. Suo figlio, durante la guerra, si era imboscato e i nazisti lo cercavano per fucilarlo. Lei si era rivolta alla Madonna garantendo che se si fosse salvato, lei avrebbe adottato un bambino in un collegio. Quel bambino fui io. Ma non venni adottato. Stetti a casa loro per un po’ e poi loro mi seguirono nel tempo. Ma da lontano. Perché a un certo punto anche loro pensarono che stessi male. Ero poco esuberante, per essere un bambino. E parlavo poco. Ma che volevano da me? Era quello che tutti, da mia madre al collegio delle suore fino ai salesiani, mi avevano imposto di fare.
D’accordo con i salesiani mi portarono alla clinica neuropsichiatrica dell’Università. C’era un giovane professore di guardia che si chiamava Giovanni Bollea. Lui disse che spesso i bambini strappati dalla famiglia o abbandonati che finiscono in collegio, hanno queste reazioni. E che dovevo solo stare sereno, stare fuori, conoscere la città e la vita. Per un po’ fu così. Ma io ero rotto dentro e le parole non mi uscivano facilmente.
Così i benefattori e i salesiani decisero di farmi ricoverare alla clinica dell’Università. Lì mi facevano tante domande, scrivevano dei moduli, mi fecero la puntura lombare che era molto dolorosa. Fui sottoposto a vari test psicologici, tra i quali quello delle macchie di Rorschach. Il dottor Finzi disse che ero un caso interessante e mi tennero lì cinque mesi.
Poi questo tempo finì e dovevo uscire. I medici dicevano che non avevo patologie, ero solamente stato troppo vessato da un’educazione repressiva.
Ma i benefattori non volevano o non potevano accogliermi e il collegio si rifiutò di riprendermi. Avevo una zia, lo scoprii allora, ma anche lei non mi volle, perché i suoi due figli erano contrari.
Non sapevano dove mettermi. Era il dopoguerra, c’era tanta fame. E allora decisero tutti insieme di ricoverarmi al Santa Maria della Pietà.
Lì mi trovai nel reparto dei bambini, anche se avrei dovuto stare con i grandi perché il limite era quattordici anni. Io ero piccolo, mingherlino e allora mi tennero con i ragazzi. Ho fatto amicizia con un bambino che si chiamava Franco. Lui era il contrario di me, faceva scherzi, si burlava di tutti e in particolare di Italia, un’infermiera che aveva paura dei piccoli insetti con i quali lui, immancabilmente, le riempiva le tasche. D’altra parte in quei tempi erano i ragni o le lucertole i nostri compagni di giochi preferiti. Non avevamo altro. Franco stava bene di testa, aveva però delle crisi epilettiche e per quello lo avevano chiuso lì. Il primo mese giocammo sempre insieme. Scaduto quel periodo, detto di osservazione, o qualcuno ti veniva a prendere oppure il tuo destino era in un padiglione di internamento. Lui fu portato al 22 e io mi sono ritrovato di nuovo solo.
Dopo altre due settimane toccò a me. E qui la storia prende un carattere che non so descrivere. Potrei dirla così: sono finito all’elettrochoc per un equivoco. C’era un giovane medico, non il primario, che mi fece un mucchio di domande. A un certo punto mi chiese se io sentivo ogni tanto delle voci che mi chiamavano senza che ci fosse nessuno vicino. Io risposi candidamente di sì, ma volevo solo dire che ogni tanto qualcuno mi chiamava dal corridoio, insomma che ci sentivo bene. Io ero nuovo lì, non sapevo che l’espressione “sentire le voci” corrispondesse alle allucinazioni. Ho risposto di sì perché volevo dire che non avevo problemi di udito. Quando mi sono accorto dell’equivoco, o del tranello, ho cercato di correggere ma il dottore mi incalzava, era un incubo, e io ero confuso anche perché non ero abituato a parlare, non sapevo rispondere perché, da piccolo, non dovevo rispondere.
Io ho cercato di farmi capire ma lui ha scritto sul verbale che io non ero capace di spiegare la ragione per la quale sentivo le voci. Alla fine lui ha scritto qualcosa sulla cartella clinica: avevo uno “stato depressivo” il che mi rendeva, chissà perché, “una persona pericolosa”. La suora ha chiesto dove mi dovessero mandare. Lui ha risposto gelido: “Al padiglione sei a fare l’elettrochoc”.
Io mi sono subito spaventato. Quando ero con i bambini avevo visto applicare quella tecnica a un ragazzino, Claudio, e lui, a ogni scossa, era come se si alzasse in volo, se levitasse. Lo dovevano tenere per evitare che cadesse dal lettino. E poi faceva la bava alla bocca, mi aveva molto impressionato.
Tornando nella mia camerata ho chiesto a un’infermiera, si chiamava Teresa, se davvero lo avrebbero fatto anche a me. Lei mi rispose “Ma no, stai tranquillo. È per quelli che non capiscono.”. Mi rassicurò.
Ma poi mi chiamarono e mi ritrovai in una fila, tutti erano silenziosi più che disperati, gli avevano detto che dopo la cura sarebbero tornati a casa.
Arrivò il mio turno. Io volevo scappare. Avevo sentito che l’elettrochoc non si poteva fare agli anziani, ai malati di epilessia e a quelli con problemi al cuore. Allora, una volta entrato, dissi al medico che avevo male al cuore, sperando di farla franca. Lui mi appoggiò un istante lo stetoscopio al petto e disse che non avevo nulla e si poteva procedere. E procedettero. In quattro mi tennero mentre la suora mi inumidiva le tempie con un batuffolo bagnato di acqua e sale e mi appoggiava due elettrodi alle tempie. Io piangevo invocando la mamma che non avevo.
Il medico ha chiesto: “È pronto?”. La suora ha risposto: “Sì, è pronto”.
Poi non ho sentito più nulla. Mi sono risvegliato in una corsia piccola, con una sensazione penosa, non sapevo dove fossi e cosa stessi facendo, mi sentivo con la testa con la nebbia, i nervi del corpo tutti tesi.
Me ne hanno fatti tre, così. La cura prevedeva tre cicli di quindici applicazioni. Quarantacinque scosse alla tempia.
Ma poi anche io ho avuto una fortuna. Un giorno è venuta a trovarmi la benefattrice. L’aspettavo da tanto, mi aveva promesso che sarebbe venuta a trovarmi ma era passato più di un mese e non si era visto nessuno. Ero disperato, pensavo che mi avessero abbandonato tutti. Avevo quindici anni. Quando la signora è entrata e mi ha visto in quello stato, in quel padiglione, si è arrabbiata moltissimo. Non era quello che aveva concordato al momento del mio ricovero. Le dissero che c’era stato un disguido e mi mandarono subito al padiglione dei lavoratori. E lì sono rimasto fino al 1990.
Si sono avvicendati, nel tempo, vari direttori. Chi apriva i cancelli dei padiglioni, chi li chiudeva. Un direttore, Buonfiglio, diceva che i pazienti non erano dei reclusi, che dovevano muoversi, dovevano distrarsi. Organizzava feste, spettacoli, veniva spesso Claudio Villa. E anche gite. Vabbé solo una volta all’anno, ma erano bellissime. Ci si poteva anche incontrare con le donne, nascevano degli strani fidanzamenti. Ci si facevano i regalini, che so, un fazzoletto ricamato o cose così. Io avevo conosciuto una ragazza, avevamo fatto amicizia, stavo bene con lei. Ma dopo un mese è uscita e non l’ho più rivista.
Ho lavorato, per trent’anni, in tipografia, all’ufficio statistica e poi in biblioteca. Era per i medici, con testi specializzati, ma c’era un armadio con libri vari. E io li leggevo. Un infermiere una volta mi portò in regalo un pacco di riviste. Ne ero ghiotto. Mi piaceva lo sport, tifavo Venezia perché c’erano Loik e Valentino Mazzola. Poi il mio cuore lasciò posto al Grande Torino, dove giocavano i miei eroi. Di Superga seppi dalla radio e fu un dolore acuto, inconsolabile.
Un giorno vennero a dirmi che sarei uscito, avrei avuto un appartamento con altri al quartiere Ottavia. Stavo al Santa Maria della Pietà dal 1947 e ora eravamo nel 1990, la città fremeva per i mondiali. Ero entrato bambino e ora avevo quasi sessant’anni. Non sapevo cosa ci fosse fuori, in fondo stavo bene lì, tutti mi volevano bene. Quasi mi dispiaceva uscire. Quando nel quartiere seppero che stavamo per venire a vivere qui ci fu una rivolta, non ci volevano. “Questi arrivano dal manicomio, saranno pericolosi”. Hanno fatto pure manifestazioni. Poi, piano piano...
Per me era un’esperienza nuova. Solo quando ero piccolo avevo dormito da solo a casa. Dopo ero sempre in camerate insieme agli altri. Ora avevo una stanza tutta per me e una casa da condividere con altri come me. Avevo un po’ paura.
In manicomio ci ho lasciato un po’ di vita, tanta, e un po’ di cuore, tanto. Ho tanti ricordi.
Per esempio quando, attorno al 1968, vennero dei ragazzi a manifestare perché si aprissero le porte del manicomio. Avevano cartelli, bandiere, i capelli lunghi, esponevano le loro idee, idee di libertà. Parlavano di un professore che si chiamava Basaglia. Occuparono un padiglione. La polizia voleva mandarli via ma loro resistettero. Misero uno striscione con scritto “Centro sociale”. Ci facevano andare per corsi di ceramica, di lavorazione del cuoio. C’era anche un laboratorio di scrittura, che frequentai con passione.
Ed è lì che forse io, Alberto Paolini, ho finalmente imparato a parlare, a parlare con gli altri».
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Una riflessione in cui chiamo in causa anche gli/le anon: mi sono chiesta perché questa gelosia di Marti sia venuta fuori nella S4, mentre nella S3 non sembrava voler star sempre appiccicato a Niccolò (la festa a cui è andato senza Nico, lasciar andare Nico in spiaggia da solo con amici suoi e non di Marti) e mi son risposta che questa S4 è anche una nuova fase della vita di Nico (l'Uni) in cui Marti si sente tagliato fuori. La storia con Luai ha un pessimo tempismo insomma 😂 Tu che ne pensi?
Anche secondo me il fatto di essere ancora al liceo mentre Nico ha iniziato una fase nuova della sua vita in cui sicuramente può incontrare persone che hanno i suoi stessi interessi non ha aiutato Martino nelle sue insicurezze.
Io non li immagino come una coppia ossessiva, e comunque nella prima parte di stagione vediamo che al di là di qualche battuta - sicuramente mirata a farci capire che Marti è un po' un Otello 🤣- hanno delle dinamiche sane: Marti ai cento giorni è tranquillo e sereno, al contrario di Giovanni, anche se Nico non è lì, e al Barretto scherzano complici.
Però non appena sente che Niccolò non è del tutto trasparente su una cosa alza le antenne e entra in modalità paranoica: chissà se in questo anno che non abbiamo visto abbia dovuto affrontare più di una volta gente random che ci prova col suo ragazzo.
Io un po' immagino di sì, e, con l'aggravante di quella frase buttata là da Maddalena che ora sappiamo non essersi mai dimenticato, ha raggiunto il punto di rottura.
Per fortuna hanno risolto anche se ora ho questo headcanon dei Contrabbandieri che non gliela faranno mai passare liscia prendendolo in giro fino alla fine dei suoi giorni (quando l'atmosfera è tranquilla, ovviamente)
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Quesito Salve padre Bellon, mi chiamo Francesca (…). Volevo farvi una domanda e ho trovato questo contatto sul blog amici domenicani. Una mia amica mi ha chiesto se c’è una qualche connessione tra il misticismo di Santa Teresa e il RNS (rinnovamento nello spirito), perché per alcune persone la vera forma di preghiera è quella di S Teresa e affermano che, chi fa parte di un gruppo di preghiera tipica carmelitana non può far parte anche del rinnovamento dello spirito. Riguardo alle fonti storiche potrei citare San Giovanni Paolo II che ha appoggiato tantissimo il RNS, Papa Francesco e l’associazione CHARIS che comprende tutte le associazioni carismatiche esistenti e i discorsi di Papa Francesco sull’unità nella diversità. Mi piacerebbe partire dalle congruenze spirituali comuni perché sia in Santa Teresa e sia nel RNS agisce la Trinità (perché sappiamo che dove si trova una persona lì ci sono anche le altre 3 e dove c’è il Padre, troviamo anche la sua corte celeste) per poi far capire che i carismi nella chiesa sono tanti e infatti esistono tante associazioni che sottolineano di più un aspetto ( magari sono più legati ad un sacramento del cristianesimo) senza però perdersi gli altri aspetti del cristianesimo e la forma di preghiera non ci rende più o meno fedeli, ma tutti: carmelitani, RNS, domenicani, neocatecumenali….hanno un modo di pregare che li differenzia, ma hanno lo stesso scopo, quello di essere sempre più vicini allo stesso Dio e di mostrarne la gloria. Come posso trovare il nesso mistico tra S Teresa d’Avila (con il suo castello interiore) e il RNS? Quali esempi o esperienze di santi posso riportare? Grazie mille e resto in attesa di una sua risposta. Buona giornata Francesca Risposta del sacerdote Cara Francesca, 1. è necessario distinguere tra la natura (e lo sviluppo) della preghiera e i carismi che la possono accompagnare. 2. Ciò che Santa Teresa d'Avila ha descritto nel Castello interiore corrisponde alla natura e allo sviluppo della vita di preghiera. Posso dire che questo è immutabile, sebbene nelle varie spiritualità si possa accentuare un aspetto oppure un altro. 3. Mentre ciò che avviene nell'RNS appartiene ai carismi, e cioè ad alcuni doni particolari che accompagnano la preghiera. Questi carismi vengono dati da Dio indipendentemente dal perfezionamento spirituale del soggetto. Sono gratiae gratis datae e non appartengono all'organismo soprannaturale. Il Signore li dà a chi vuole a titolo di incoraggiamento oppure di attestazione di una preghiera profonda. Non sono legati pertanto alla santità di vita. Possono essere dati anche a chi è in peccato mortale. 4. Invece l'evoluzione della preghiera secondo le mansioni o le tappe descritte da Santa Teresa è intimamente legata ad una vita di preghiera che si perfeziona e che si accompagna con la santità della vita. 5. Ecco ad esempio la prima delle sette mansioni descritte da Santa Teresa d’Avila: “Mi diceva ultimamente un gran teologo che le anime senza orazione (vale a dire: contemplazione) sono come un corpo storpiato o paralitico che ha mani e piedi, ma non li può muovere… Sono tante le anime che si limitano a stare solo nei dintorni, là dove stanno le guardie, senza curarsi di andare più innanzi, né sapere cosa si racchiuda in quella splendida dimora, né chi l’abiti e quali siano i suoi appartamenti. E se queste anime non cercano di capire e di porre rimedio alla loro grande miseria resteranno come statue di sale proprio come la moglie di Lot che voltò il capo all'indietro invece di cercare di guardarsi dentro” (Castello interiore, I,6). “Per quanto io ne capisca, la porta per entrare in questo castello è l'orazione e la meditazione. Non sto più per la mentale che per la vocale, perché dove si ha orazione occorre che vi sia pure meditazione. Non chiamo infatti orazione quella di colui che non considera con chi parla, chi è che parla, cosa domanda e a chi domanda, benché muova molto le labbra” (Ib., I,7). La porta dell’orazione si trova solo se si
è liberi dal peccato mortale. “Prima di andare innanzi, vi prego di considerare come si trasformi questo castello meraviglioso e risplendente, questa perla orientale, quest'albero di vita piantato nelle stesse acque vive della vita che è Dio, quando s'imbratti di peccato mortale. Non vi sono tenebre così dense, né cose tanto tetre e buie, che non ne siano superate e di molto” (Ib., II,1). “Non dovete figurarvi queste mansioni le une dopo le altre, come una fuga di stanze. Portate il vostro sguardo al centro, dove è situato l'appartamento o il palazzo del Re” (Ib., II,8). “Perciò, figliuole, fissiamo gli occhi in Cristo nostro bene e nei suoi santi, e vi impareremo la vera umiltà... Questa mansione, benché sia la prima, è così eccellente e preziosa che se l'anima sa sottrarsi agli animali che l'ingombrano, non lascerà di andare innanzi” (Ib., II,11). “Eppure per entrare nelle seconde mansioni bisogna che si disbrighi da tutte le cure ed affari che non siano indispensabili, sia pure in conformità al suo stato. Ciò è di tanta importanza che se non comincia subito a farlo, non solo non arriverà alla mansione principale, ma sarà pure impossibile che, senza grande pericolo, rimanga nella mansione che occupa, benché già nel castello” (Ib.). Ti auguro ogni bene, ti benedico e ti ricordo nella preghiera. Padre Angelo
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DIARIO DI UNA QUARANTENA
• GIORNO 3
Manteniamo le distanze in una vita d’istanti.
Le regole del nuovo Dcpm, acronimo di Domani Chiunque Può Morire, emanato dal Governo cominciano a influenzare (ma quanto è spiritoso l’autore? ndr) le nostre vite da condomini reclusi nelle nostre scale.
Questa mattina ci siamo trovati nella sala condominiale per discutere di come mettere in pratica le normative volute dal Governo centrale.
Per organizzarci al meglio è stata aperta un “cìat” su “Uozzap” di condominio, che logicamente si chiama con il nome del condominio: Condominio Bellavista di Via dei Ciechi.
La chat è stata creata da Filippo Lupini, il figlio del Rag. Carlo Lupini del secondo piano, esperto in informatica e da sempre nerd di primo livello. Introverso fino al midollo Filippo Lupini è la versione in carne e ossa di Milhouse Van Houten il miglior amico di Burt Simpson, è talmente tecnologico e sempre collegato alla rete che suo padre ha sposato la teoria che a renderlo così fu il parto pilotato. Mi raccontò un giorno che per farlo partorire dalla moglie esausta dal travaglio non usarono medicinali, nossignore, ma un raggio laser. Come quelli per far giocare i gatti, fecero la stessa cosa, lo puntarono sulla vagina e il piccolo Filippo seguì il pallino del laser. Mah.
Un giorno rientrando a casa con mio figlio lo incontrammo Filippo lungo le scale, rarità, nel breve incontro il mio rampollo mi disse: - Sai papà che Filippo ha Facebook, Twitter, Instagram e WhatsApp? -, io guardai il ragazzo e gli dissi: - Ma tu ce l’hai una vita? -, Filippo mi guardò stranito e mi rispose: - No, ma posso sempre provare a collegarmi mi può passare il link?”. Mah e boh.
La riunione nella sala condominiale dicevo, per rispettare le norme del Dcpm abbiamo deciso in chat di organizzarci in questo modo:
- Un rappresentante per famiglia - Che non superi i 65 anni per non rischiare la sua salute, in difetto delega a un vicino di casa - Accordo di avere rappresentanti di tutte le correnti politiche nel condominio, ovvero un membro del partito degli attici uniti, uno della colazione dei piani centrali e uno del movimento piano terra e seminterrato. - Esclusi perché destabilizzanti, i rappresentanti delle due correnti estremistiche: gli anarchici del pianerottolo e i disobbedienti dalla soffitta okkupata. - tenere la distanza di un metro e mezzo tra i presenti, se in litigio per questioni condominiali da pochi giorni due metri, da almeno sei mesi quattro metri, se le liti non si sono fermate alle parole ma sono passate anche ai fatti, si dovranno alternare in tempi di trenta minuti all’interno della sala condominiale.
Dalla riunione sono emerse le linee guida:
a) Assoluto divieto di prendere l’ascensore con più di due persone, quest’ultime dovranno essere accoppiate in questa maniera: una persona non deve avere altezza inferiore al metro e ottanta l’altra non superare il metro e cinquanta. Diversamente una persona deve stare in ginocchio e una sulle punte dei piedi. In quest’ultimo caso non coppie promiscue, perché le malelingue e i fraintendimenti sono all’ordine del giorno.
Nessuno lo ha dichiarato ufficialmente ma i riferimenti erano rivolti in particolare alla signorina Zibetta De Bortoli, la pettegola del condominio. Alcune indiscrezioni raccontano di una Zibetti furtiva che la sera sul tardi, approfittando del buio, si muove silenziosa per i piani cercando di carpire discussioni familiari utilizzando un bicchiere in cristallo che frappone tra il suo orecchio e la serratura dei portoncini d’ingresso agli appartamenti. Il vecchio Palmiro Tarelli sospetta che sia una del KGB, che riferisca tutto alla grande madre Russia, e che se non ci adeguiamo alle linee guida del Partito ne pagheremo tutti le conseguenze.
Non credo che la Zibetti avvisi il KGB, ma sono sicuro che mezzo quartiere venga tenuto aggiornato delle vicende familiari su molti di noi. Come quando sentì pronunciare al Giovanni Marchetti, detto Big Jim perché palestrato da paura, che in palestra si allenava con “le palle depilate”, salvo poi scoprire che intendeva le palle da pilate. Ma andiamo oltre…
b) Prima d'impegnare le scale condominiali avvisare dell’intenzione urlando nome, cognome e piano di appartenenza, valutare quindi le risposte di chi già sta usando le scale. Se per malinteso si incrociano due persone in senso opposto, colui che sale si ferma sul primo pianerottolo libero e, trattenendo il fiato, aspetterà che colui che scende lo faccia precipitevolmente. Anche rotolando va bene. basta che faccia veloce.
c) Uso del cortile. Le passeggiate per l’ora d’aria devono avvenire nello stesso senso di marcia, con distanze di almeno cinque metri. Alternando la respirazione tra coloro che sono in fila. Uno respira a sinistra e quello seguente a destra.
d) Per chi verrà scoperto non rispettare queste norme, per punizione, dovrà pulire i gradini pari delle scale condominiali e poi ricominciare coi gradini dispari.
Si è discusso anche del comportamento con i pony pizza. La soluzione adottata per ricevere le pizze d'asporto sarà quella di aprire il portone, indietreggiare nell’androne e farsi lanciare le pizze a mo’ di frisbee. Pagare il ragazzo delle pizze allungando il denaro con scope, bastoni per i selfie e altri mezzi di fortuna.
Il problema è la mozzarella che si appiccica al coperchio della scatola della pizza per l’effetto centrifuga durante il lancio. Comunque non demordiamo, meglio i pezzettini di cartone in bocca che il coronavirus in…
Mi chiamo Juri Quarantino e questo è il mio diario di quarantena.
Pagina 3 (to be continued)
#Libero De Mente#quarantena#covid19#coronavirus#ironia#racconto#Juri Quarantino#sarcasmo#battuta#divertente
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Benvenuti nel mio blog!
Ciao a tutti! Mi chiamo Gracie Pucci e questo è il mio blog sul mio viaggio in Italia! Nell'estate del 2018, io e la mia famiglia siamo andati in Italia per visitare la nostra famiglia. Siamo stati con la mia Zia Rosetta a Campora San Giovanni, ma abbiamo visitato tante altre piccole città. Finalmente, alla fine del nostro viaggio, abbiamo girato Roma per 1 giorno! Segui il mio blog per vedere molte foto, video e imparare tutto sul mio viaggio con la mia famiglia. <3
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Per questo mi chiamo Giovanni: Da un padre a un figlio il racconto della vita di Giovanni Falcone - Luigi Garlando https://ift.tt/ebyu4jA
#Per questo mi chiamo Giovanni: Da un padre a un figlio il racconto della vita di Giovanni Falcone -
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Emanuela Loi
Quando il cielo ha un colore pulito,
vedi il sole attraversarlo.
Forte.
Che gli occhi bruciano, provando a guardarlo.
Allora abbassi lo sguardo o ci riprovi.
Questo poi dipende dalla paura o dal coraggio.
Mi chiamo Emanuela e sono un agente di polizia
Che in questa Sicilia, combatte per la libertà.
Che a 25 anni, accompagna un magistrato che dice di essere consapevole di dover morire.
Ma:
Che non si arrende.
Sono Emanuela Loi e sono una degli "uomini" della scorta del giudice Paolo Borsellino.
Da piccola, non avrei voluto fare la principessa.
Volevo essere quella che sono.
Anche se entrare in questo gruppo, con la puzza addosso del giubotto antiproiettili ed il peso che ha, non lo avevo messo in preventivo.
Nemmeno di quanto potesse pesare il cuore,
In questa macchina che corre a sirene spiegate,
Sperando di non morire.
Ogni giorno.
Ci ho creduto ancora di più, in quello che facevo o che avevo deciso di fare,
dopo aver perso due grammi di anima e vita, colleghi e amici nell'uccisione del giudice Giovanni Falcone.
Su quel ponte.
In quell' esplosione che ha massacrato persone ed ideali.
Che ha ucciso dignità e speranza.
Però ho visto quelle stesse idee, continuare a vivere, in altre gambe forti che ho voluto proteggere e poi morirci insieme.
Non ho pensato un solo istante, di tirarmi indietro.
Nemmeno per un solo istante.
Mai.
Mi sono sposata consapevole che non sarebbe esistito il per sempre, per noi,
ma che sarebbe esistito il mio "fino alla fine".
Ed é questo che ho promesso.
Fino alla fine.
Ho lottato.
Fatelo anche voi, così come ho fatto io.
Credete in qualcosa, qualunque essa sia e poi...
Lottate fino alla fine.
Daniela Sasso
In memoria di Emanuela Loi
agente di Polizia, morta nella Strage di via D'Amelio
Il 19 Luglio 1992.
Fu la prima agente donna della Polizia di Stato a restare uccisa in servizio.
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