#Non ho bisogno d’altro
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“Non ho bisogno d’altro” di Laura Neri: una poesia tra amore e introspezione. Recensione di Alessandria today
Un viaggio tra sogno e realtà. “Non ho bisogno d’altro”, poesia di Laura Neri, è un’opera che esplora il sentimento dell’amore nella sua forma più pura e universale.
Un viaggio tra sogno e realtà. “Non ho bisogno d’altro”, poesia di Laura Neri, è un’opera che esplora il sentimento dell’amore nella sua forma più pura e universale. Attraverso immagini delicate e un linguaggio intimo, l’autrice descrive un legame profondo e misterioso, un punto di riferimento capace di dare senso alla vita e trasformare ogni momento in un canto d’amore. Biografia dell’autrice:…
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Io invece apprezzo che non pubblichi frasi preconfezionate (che poi sono quasi sempre cazzate atroci oppure ovvietà) ma che ci metti te stessa in quello che scrivi.
Sul discorso dei culi, che dire. Sarei un ipocrita se dicessi che non mi piace vedere un culo o un paio di tette, però alla fine qua sopra è come se ti assuefacessi, e hai bisogno anche d’altro.
Non sono, e non sarò mai, uno di quelli che dicono “la vera bellezza è solo quella interiore” e robe simili, semplicemente perché non è vero. La bellezza esteriore è fondamentale e chi lo nega è, indovina, ipocrita, come dicevo prima.
PERÒ, c’è un però grande come una casa, e cioè che la bellezza esteriore è come se avesse una soglia, nel senso che può portarti fino a un certo punto, poi se vuoi davvero sviluppare una connessione con una persona hai necessariamente bisogno anche di un’attrazione mentale.
L’essere umano, alla fine, ha bisogno secondo me di un equilibrio tra questi due tipi di bellezza, e snobbare o vituperare l’uno o l’altro significa non aver capito cosa sia davvero la bellezza.
Questo equilibrio ovviamente non significa pubblicare foto del culo su Tumblr aggiungendoci una frase poetica o filosofica come didascalia. No, quello è l’apice del cringe.
Per concludere, ho apprezzato il tuo discorso, perché hai lanciato una provocazione, senza necessariamente denigrare la bellezza esteriore, ma hai semplicemente dimostrato quanto sia piú difficile creare una connessione mentale piuttosto che fisica. Ed è una realtà innegabile.
Grazie tantissimo di aver capito, non potevi dirlo meglio
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Forse dovrei solo accettare che fino ad adesso ho sbagliato tutto. Ho 24 anni e nessuno vicino a me, ne un amico ne un fidanzato.
C’è stato un tempo in cui non mi mancava niente, poi però ho iniziato a selezionare quelle che erano semplicemente relazioni superficiali, ed eccomi qui, ormai sola. Prima c’era Andrea, l’unico sulla quale ho potuto in un certo senso fare affidamento, che nonostante i 400km di distanza mi è stato accanto, ma non è stato facile restare insieme, ma d’altro canto non è facile ora stare distanti. E ho riprovato ad andare avanti, prima da sola e poi con un altro, ma non è andata, non era la mia persona, non era Andrea.
Credo che se fosse destino, oggi sarei tornata con Andrea, io ci ho riprovato ma lui è la persona che più sta bene con se stessa, che non ha bisogno di altro. Quindi forse non è lui, anche se vorrei tanto che lo fosse, nonostante tutto.
Ad oggi non so più cosa fare, vorrei conoscere persone, fare amicizie e ritrovare l’amore, ma d’altro canto non mi do queste opportunità, vado a lavoro e torno a casa, non mi concedo un’uscita.
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Cap. Precedente: Cap. 1-1
#1-2_otogiri_tobi/ allucinazione borderline
Tobi era sdraiato sul letto nella sua stanza e guardava le pagine di un libro tascabile.
Il titolo del libro era 'Ma gli androidi sognano pecore elettriche?'. Sembrava essere la traduzione di un romanzo di fantascienza americano o di qualche altra parte.
Nella sala ricreativa della struttura c’erano tre scaffali in acciaio, dove erano allineati svariati libri donati dai residenti che avevano lasciato la struttura. I residenti potevano leggerli liberamente. C’era molta concorrenza per i libri che piacevano agli studenti delle scuole elementari e medie, quindi Tobi leggeva principalmente libri impopolari per ammazzare il tempo.
O almeno, pensava di star leggendo un libro. Quando trovava una parola che non conosceva la cercava sul dizionario. Grazie a questo, aveva memorizzato molti kanji, ma per qualche motivo non riusciva a ricordare gran parte del contenuto dei libri che leggeva. Di solito se ne dimenticava poco dopo aver finito di leggerli.
Tobi guardò il suo orologio da polso. Erano le 9:56 di sera.
Le luci nella struttura si spegnevano alle 10 di sera per gli studenti delle scuole medie, quindi mancavano solo 4 minuti. Se si forniva una motivazione valida, come ad esempio il bisogno di studiare, l’orario di spegnimento delle luci poteva essere posticipato. Questa era una mossa che molti residenti usavano regolarmente, ma Tobi non la usava.
“È l’ora della nanna, Tobi?”
Baku si trovava sul pavimento, fece hehe, e rise.
“Cosa intendi con nanna? Non sono più un marmocchio”
Tobi posò il libro tascabile sul cuscino. La sua stanza era originariamente una camera doppia, quindi c'erano due letti. Ma in realtà era diventata la stanza singola di Tobi.
Tobi non aveva mai chiesto di esser lasciato solo. Una volta venne usata come una camera doppia. Alla fine l'altra persona iniziò a odiarlo, e si lamentò con lo staff. Non sopportava di stare nella stessa stanza con Otogiri Tobi.
"Lascia che te lo dica, uno studente di seconda media è un marmocchio fra i marmocchi, non credi?"
Tobi tolse una gamba dal letto e calpestò leggermente Baku.
“Ahia! Smettila Tobi, bastardo d’un marmocchio”
“Baku, tu sei più giovane di me. Questo non ti rende più marmocchio di me?”
“Io sono un’eccezione. Si può dire che io sia speciale. Addirittura eccezionale. Anzi, piuttosto direi straordinario. Oi. Andiamo Tobi, non calpestarmi, così mi rovini la forma. Te lo dico eh. Ecco……”
Tobi si sentì soddisfatto dopo averlo preso a calci, quindi smise di calpestare Baku. Spense le luci della stanza e si sdraiò di nuovo sul letto.
Per gli studenti delle superiori, l'orario di spegnimento delle luci era alle 11 di sera, anche se alcuni residenti non dormivano fino a mezzanotte perché dicevano di star facendo i compiti o studiando. I muri e le porte non erano mai stati particolarmente spessi. Le notti della struttura erano tutt'altro che tranquille.
Tobi avvolse il corpo nelle coperte e si girò su un fianco.
"Stai pensando a quella donna, Tobi?"
"Non ci ho pensato affatto"
Tobi voleva schioccare la lingua.
"Non mi era nemmeno passata per la mente finchè tu, Baku, non l'hai nominata proprio ora"
"Ah davveeero? È sospetto"
"Sul serio"
Queste furono le parole che uscirono casualmente dalla sua bocca. Non erano uscite perché stava pensando a lei.
"......Per davvero"
Ripeté Tobi, e Baku fece huhuhu, e rise.
"È una strana donna"
"Non chiamarla donna"
"Perché, non è una donna?"
"Beh si, però……"
"Devi aver pensato a lei. Intendo, è sicuramente successa una cosa del genere. Ti sarai ovviamente incuriosito"
"Non mi interessa per niente"
“Sii onesto. Inoltre, anche se non interessa a te, a lei d’altro canto—“
“Ora vorrei dormire. Potresti stare zitto, per piacere?”
“Ho capito, Tobi. Spero tu non abbia una notte insonne”
Tobi chiuse gli occhi e fece finta di russare. Baku rise di nuovo. Era di grande aiuto. Tobi non aveva problemi a dormire. Riusciva ad addormentarsi velocemente. Non stava pensando a quella ragazza. Non voleva pensarci, ma non poté fare a meno di pensarci comunque.
“—C'è qualcosa che vorrei chiederti, Otogiri-kun, e vorrei cogliere questa opportunità"
Dopodiché, Shiratama Ryuuko tirò leggermente indietro il mento e parlò con un tono stranamente formale.
"Per favore, vorresti passare del tempo con me come amico?"
"......Eh?"
Prima di tutto, Tobi cercò di capire il significato di quella domanda. Era davvero una domanda? Non pensava fosse una domanda. Ad ogni modo, Shiratama voleva una risposta da Tobi. Questo era certo.
Però, cosa avrebbe dovuto rispondere?
Incapace di capirlo, Tobi continuava a ripetere cose come "eeeh", "aaah" e "hmmm".
"Ah"
Shiratama si mise la mano destra sulla bocca.
"È stata una richiesta improvvisa, mi dispiace se ti ho causato qualche problema. Non importa se non mi dai subito una risposta"
"Ah…… Quindi è così"
"Naturalmente, o se ti va anche adesso"
"No beh, ecco— Questa è……"
"Vuoi rispondere dopo?"
"......Forse?"
"Capisco"
Shiratama chiuse gli occhi, fiuuu, e prese fiato.
"Sono felice di averlo detto. Ero davvero nervosa"
Anche Tobi aveva le palpitazioni. Non poté fare a meno di sentirsi in una situazione difficile.
"Beh allora, Otogiri-kun, a domani"
Come se si fosse sentita sollevata dopo aver detto quello che aveva da dire, Shiratama salutò, si inchinò e si allontanò, veloce quanto un uccello che lascia un ramo.
Cos'è che ha, quella ragazza?
Nello stesso momento in cui Tobi pensò questo, Baku mormorò.
"Cosa diavolo era quella……?
Alla fine, quella notte non dormì molto bene.
Ovviamente, era colpa di Shiratama Ryuuko.
Aveva iniziato a parlargli all’improvviso e, appena si era chiesto cosa stesse succedendo, iniziò a dire qualcosa di strano.
‘Per favore, vorresti passare del tempo con me come amico?’
Tobi rimase confuso da quella richiesta a sorpresa. Altrimenti avrebbe dato una sorta di risposta sul posto, no? Lo pensò anche lui. Ad esempio, se uno sconosciuto ti chiedesse improvvisamente di ballare con lui, la risposta sarebbe NO. Rifiuteresti con uno schietto rifiuto.
Avrebbe dovuto rifiutare.
Dire di no.
Il motivo per cui Tobi non rifiutò immediatamente era perché era confuso.
Oltre a quello, anche il modo in cui Shiratama si esprimeva era un po’ strano.
‘Come amico’
Tutto bene finora. Era l’altra parte.
‘Per favore, vorresti passare del tempo con me’
C’è qualcosa che non va, no? O era Tobi lo strano a pensarlo? Forse stava pensando troppo. Se si diceva solo la prima parte, 'Per favore, vorresti passare del tempo con me', quel tempo con me assumeva un significato specifico. Però, non poteva far finta che l'altra parte non fosse mai stata detta. Shiratama aveva specificato 'come amico'. Se aveva detto così, le sue parole sarebbero dovute venir interpretate in quel modo.
Alla fine, Shiratama gli aveva chiesto di diventare amici, semplicemente.
Il modo di parlare di Shiratama, però, era in qualche modo unico, poiché parlava con un linguaggio onorifico anche con un compagno di classe. Era comunque meglio non lasciarsi confondere da ciò. Shiratama voleva solamente essere amica di Tobi. Questo era il problema.
Fare amicizia con Otogiri Tobi?
Perché mai?
Poi c'era il problema più grande, probabilmente il più serio.
Shiratama Ryuuko poteva sentire la voce di Baku.
Quando arrivò a scuola senza aver dormito, un insegnante dalla montatura degli occhiali nera lo guardò male davanti al cancello scolastico. Questo insegnante indossava sempre un abito estremamente attillato.
Stamattina non voleva che l'insegnante dagli occhiali dalla montatura nera chiamasse il suo nome. Tobi prese l'iniziativa e chinò la testa.
"Buongiorno, Professore"
"......Oh, sì. Buongiorno"
L'insegnante dagli occhiali dalla montatura nera era chiaramente arrossito. Sin da quando era al primo anno veniva infastidito ogni mattina, ma bastava un saluto di Tobi e nulla succedeva. Aveva solamente detto buongiorno. Era questa la mossa giusta?
"Da dov'è che soffia questo vento?*"
*Detto giapponese che indica un cambiamento improvviso
Chiese Baku mentre cambiava le scarpe nell'armadietto delle scarpe.
"Boh. Credo non soffi alcun vento"
"Stai cambiando stato d'animo? Mi chiedo cosa lo abbia innescato"
"Esagerato……"
Le scarpe erano un po' strette. I suoi piedi erano diventati più grandi? Man mano che il suo corpo cresceva, i suoi vestiti iniziavano a non entrargli più. Sostituirli era però una spesa dolorosa.
Mentre si dirigeva verso la classe un po' triste, una studentessa dai capelli lunghi apparve da dietro la scarpiera. Tobi non poté fare a meno di fare un passo indietro.
"......Shi- Shiratama-san"
"Buongiorno, Otogiri-kun"
Era di nuovo quello sguardo. Shiratama stava fissando Tobi.
"......C-cosa?"
Tobi abbassò lo sguardo e si coprì la metà inferiore del viso con il braccio.
"C'è qualcosa che non va? È ancora mattina presto……"
"In realtà, ti ho fatto un’imboscata qui"
"Eh……Pe-perché?"
"Non te l'ho detto ieri?"
"……Aah"
"Voglio sentire la risposta"
"Quuu—"
"Qu?"
“ello……"
All’improvviso, le parole ‘rendere gli occhi bianchi e neri’ vennero in mente a Tobi. L’aveva trovata in un dizionario. Questo, in verità, non stava a significare che gli occhi diventassero bianchi o neri, ma piuttosto descriveva il modo in cui i bulbi oculari si muovevano violentemente. Gli occhi di Tobi erano, in quel momento, continuamente in movimento. Si sentiva come se gli girasse la vista.
Diversi studenti della loro stessa classe si avvicinarono alla scarpiera e sussurrarono qualcosa mentre si cambiavano le scarpe. I compagni di classe sembravano tenere d’occhio i movimenti di Shiratama e di Tobi. Staranno dicendo ‘Cosa c’è? Cosa stanno facendo?’ Sicuramente. A dire il vero, anche una fra le persone in questione, Tobi stesso, si chiedeva cosa stessero facendo.
“Oh”
Inoltre, un custode di passaggio li chiamò, rendendo la situazione ancora più complicata e caotica.
“Otogiri-kun, buongiorno. Shiratama-san, cosa ci fai lì?”
“Haizaki-san”
Shiratama si voltò per vedere il custode e si inchinò educatamente.
“Buongiorno a lei. Grazie per il suo duro lavoro fin dalle prime ore del mattino”
“Grazie”
Haizaki sorrise timidamente. Stava tenendo delle scatole di cartone. Cosa c’era dentro?
Poteva esserci dentro qualsiasi cosa. A Tobi non interessava.
Ma per Shiratama era diverso.
“Sembrano pesanti. Desidera un aiuto?”
“Ma no no, non ce n’è bisogno!”
Haizaki scosse la testa più volte. I suoi occhi a mandorla divennero rotondi.
“No, davvero. Questo è il mio lavoro dopotutto. Io vengo a scuola per lavorare, mentre Shiratama-san ci viene per studiare”
“Io sono abbastanza forte”
Shiratama sollevò il braccio destro e lo piegò ad angolo retto. Aveva il braccio sottile. Troppo sottile. Era veramente così forte? Tobi pensava di no. Aveva la sensazione che i racconti non fossero allineati. Ma se anche avesse avuto una forza sovrumana, non sarebbe stato importante. Haizaki trasportava bagagli come parte del suo lavoro. Una studentessa delle scuole medie come Shiratama non era obbligata a prestare la sua forza ad Haizaki. Questo era ciò che diceva Haizaki. Anche Tobi, a cui Baku aveva attribuito un disturbo della comunicazione, lo capiva.
Shiratama Ryuuko potrebbe essere una persona un po’ pericolosa.
Quella possibilità aveva attraversato brevemente la mente di Tobi la scorsa notte.
I normali studenti delle scuole medie non avrebbero chiesyo a un compagno di classe come Otogiri Tobi di diventare loro amico.
Tobi era anche consapevole di non essere il tipo di persona a cui gli altri si sentivano affini. Tobi non era brillante. Non era gentile. Nemmeno interessante. Aveva un passato difficile da spiegare. Poi portava sempre Baku in spalla, e solo lui poteva parlargli.
Inoltre, a quanto pare Tobi poteva vedere cose che gli altri umani non potevano vedere.
Cosa avrebbe pensato Tobi se ci fosse stato qualcun altro come lui?
Questa persona è pericolosa; avrebbe pensato questo, no?
Sicuramente Otogiri Tobi era visto dagli altri in questo modo, come una persona pericolosa.
Probabilmente anche Shiratama Ryuuko era una persona pericolosa se voleva essere amica di una persona del genere.
Voleva scappare. Voleva scappare furiosamente. Shiratama stava parlando con Haizaki. Non era questa una chance? Esatto. Adesso sarebbe scappato.
Tobi provò a lasciare la scena. Provò a svignarsela lentamente, ma lo notarono.
“Ah”
Shiratama afferrò il braccio destro di Tobi. Vicino al suo polso destro.
“Non ci provare. Non te ne andare, Otogiri-kun. Almeno rispondimi”
“……Eh?”
Il viso di Haizaki si contrasse, come se sembrasse imbarazzato.
“Vi ho per caso interrotti? Mi dispiace. Scusatemi. Beh, immagino che io debba venire preso a calci da un cavallo o qualcosa del genere……”
Perché ci dovrebbe essere un cavallo qui? Lo aveva letto in un qualche libro. Era sicuro esistesse un detto che avesse parole del genere.
‘Chiunque disturbi il percorso amoroso di qualcuno dovrebbe essere mangiato da un cane e morire’
La parte seguente, quella col cane, poteva essere sostituita con il venire uccisi a calci da un cavallo.
Sembrava che Haizaki avesse frainteso qualcosa. Avrebbe dovuto correggerlo? Importava davvero? Quello non era il momento. Shiratama era ancora attaccata al braccio di Tobi.
Ma mi vuoi lasciare andare?
Tobi provò a esprimersi con gli occhi.
Apparentemente non funzionava. Shiratama storse solo la testa meravigliata. Sarebbe dovuto essere lui quello meravigliato.
Non c’era nulla da fare. Tobi, facendo attenzione a non essere troppo violento, si tolse la mano di Shiratama di dosso.
“……Già. Riguardo quella storia, ehm, che ne dici di parlarne mentre camminiamo, tipo……”
Tobi glielo suggerì timidamente, Shiratama annuì. Dovrei seminarla a tutta velocità? Lo pensò per un attimo, ma poi decise di non farlo. Shiratama camminava accanto a Tobi alla sua sinistra.
“Mi piacerebbe sentire la tua risposta”
“……Di già? Non è presto?”
“Ci stai ancora pensando?”
“Eehmm…… Voglio dire, ci sto pensando, ceh, hmm……”
“È uno indeciso”
Baku disse sospirando.
“È una persona indecisa?”
Chiese Shiratama.
“Più che altro, non ha l’abitudine di esprimere correttamente a parole i suoi pensieri e sentimenti. Dal principio. Difficilmente parla con le persone”
“E tu invece?”
“Io sono diverso. E nonostante ciò, ci sono volte in cui mi dico di non fraintenderlo, di capirlo e basta”
"Ti chiede di respirare come A-un*?"
*Detto giapponese che vuol dire "capire qualcosa al volo"
“Immagino si dica così”
“……E basta”
Tobi si colpì la fronte con il pugno. La testa gli cominciò a far male.
“Potreste smetterla di parlare come se fosse normale, per favore? Per chiunque altro, probabilmente suonerebbe solo come se Shiratama-san stesse borbottando tra sé e sé……”
“Mi dispiace, l’ho fatto involontariamente”
Shiratama chinò leggermente la testa.
“Però, non potrebbero pensare che io stia parlando con te, Otogiri-kun? Oppure che ti sto parlando unilateralmente, Otogiri-kun”
“È comunque strano a modo suo”
“Allora parlami, per favore. Questo risolverà tutto”
“……non stiamo parlando?”
“A tal proposito, qual è la tua risposta alla mia domanda?”
“Come ti ho detto, è presto……”
Tobi notò che la sua postura stava peggiorando. Non poté fare a meno di pensare che stesse attirando l’attenzione degli studenti che attraversavano il corridoio.
“Innanzitutto……”
In effetti, stava sicuramente attirando l’attenzione. Era colpa di Shiratama. Era decisamente così.
“Perché?”
Chiese Tobi, mentre Shiratama sbatteva le palpebre.
“Perché, che intendi?”
“……Vorresti essere mia amica. È questa la ragione? Il motivo?”
“Questo perché Otogiri-kun è Otogiri-kun”
“Eh? Cosa intendi……?”
“Hai bisogno di una spiegazione?”
“Se possibile. Se potessi dirmelo così da farlo capire anche a me……”
“Farlo capire”
Shiratama annuì, poi aggrottò la fronte e pensò per un momento prima di fermarsi.
Erano a metà di una scala.
Tobi era dietro Shiratama e si fermò quando salì un altro gradino.
Shiratama stava guardando Tobi. Era quello stesso sguardo che lo teneva fermo e si rifiutava di lasciarlo andare.
“Potresti darmi un po’ del tuo tempo? Se non ti dispiace, posso farlo oggi durante la pausa pranzo. Non posso parlarne a meno che non mi trovi in un posto dove le persone non sono vicine a noi” Quello sguardo nei suoi occhi era il punto debole di Tobi. È difficile da ignorare. Non poteva distogliere lo sguardo.
“……Va bene. È uguale”
Non aveva altra scelta che rispondere. Cos’altro avrebbe dovuto fare?
Subito dopo l’ora della pausa pranzo, l’edificio dedicato alle aule speciali è deserto. Tobi decise di incontrarsi con Shiratama alla sua scala di emergenza esterna.
Mentre era seduto sul pianerottolo tra il secondo e il terzo piano in attesa, Shiratama aprì la porta e salì le scale.
Tobi si sentiva un po' strano. Questo perché Shiratama portava una borsa sulla spalla. Era diversa dallo zaino designato dalla scuola. Si chiama tipo pochette. Era una borsa più piccola.
"Ciao"
Shiratama si avvicinò al pianerottolo e salutò educatamente.
"Hey……"
Tobi annuì vagamente. Shiratama è così educata che rimaneva stupito.
"Quindi, qual è questo……motivo? La ragione per cui Shiratama-san vuole essere mia amica"
"Da molto tempo si dice che la prova è migliore della teoria"
"......Già, è così. Esiste qualcosa del genere, tipo un detto"
“Ecco perché l’ho portata”
“Portata……?”
Tobi fece una smorfia. A quanto pareva, Shiratama era sola. Non c’era nessuno con lei.
Shiratama alzò la pochette e la aprì.
“Vieni fuori, Chinurasha”
Shiratama ha chiamato qualcuno dalla pochette, per caso? Se fosse davvero così, sarebbe a dir poco una mossa piuttosto strana. Già pensava fosse strana, ma non avrebbe mai immaginato che lo fosse così tanto. Tobi stava davvero iniziando a preoccuparsi per Shiratama. In ogni caso, stava bene?
O forse c’era una specie di piccola creatura simile ad un animale all’interno della pochette. Questo sarebbe piuttosto un comportamento problematico e folle. Non si possono portare a scuola piccoli animali. Perfino Tobi lo sa. Però, sembra proprio che sia così.
Qualcosa strisciò fuori dalla pochette.
“Hmmm……”
Baku emise un piccolo suono.
Guarda.
Era un piccolo animale.
L’interno di quella pochette doveva essere estremamente angusto per quella creatura. Vista la sua taglia doveva essere stato davvero stretto là dentro. Tuttavia, era piuttosto soffice, quindi sarebbe riuscito a inserirsi in degli spazi che a prima vista sembravano non adattarsi.
Era un gatto? Forse un gattino? Probabilmente no. Anche dire ‘probabilmente’ è sbagliato.
Quella creatura aveva le corna. Naturalmente i gatti non hanno le corna.
Un piccolo animale, con due corna-
Esiste?
Una cosa così?
Non credeva che fosse elencato nell’enciclopedia degli animali della struttura. Tobi era stato diverse volte allo zoo della città per degli eventi della struttura. Non ricordava di aver mai visto un piccolo animale con le corna. Tuttavia, potrebbero esserci piccoli animali come quello che vivono da qualche parte nel vasto mondo di cui Tobi non è a conoscenza. O forse è il cucciolo di una creatura con le corna?
Non appena la creatura uscì dalla pochette, iniziò ad arrampicarsi sul corpo di Shiratama. Non si muoveva rapidamente, ma non era nemmeno lenta. Sembrava ci fosse abituato. Quando la creatura raggiunse la sommità della spalla destra di Shiratama, si voltò verso Tobi.
Gli occhi, li aveva oppure no? Non si riuscivano a vedere. Erano sepolti nella pelliccia?
Eppure, sentiva qualcosa come uno sguardo.
“Chinu, saluta”
Quando Shiratama la chiamò, la creatura inclinò la testa. Forse aveva chinato la testa di lato. Inoltre, una minuscola bocca spuntava dalla pelliccia.
Yuu—.
Uyuu—.
Kuchuu—.
Questo era ciò che sentiva Tobi. Era il grido di quella creatura?
“……Piacere”
Tobi non poté fare a meno di inchinarsi.
Shiratama accarezzò la parte inferiore del mento di Chinu o Chinurasha con la punta delle dita.
“Brava bimba”
“Oi, Tobi—“
Sussurrò Baku.
“Non posso credere che tu non l’abbia notato”
“……Eh. Cosa?”
“Quella roba non è normale”
“Beh, quella……sembra una creatura rara. Ha anche le corna”
“Non intendo questo”
Baku sembrava piuttosto seccato. A parte la possibilità di parlare con Tobi, Baku è fondamentalmente solo un grande zaino. Tuttavia, a volte si apre da solo quando si arrabbia. Era diverso da come quando la cerniera si apriva. Sembrava che nessuno tranne Tobi potesse vederlo, ma era come se la cerniera diventasse la sua bocca.
Proprio come adesso.
“Non capisci, Tobi?! Sei una persona così ottusa, dannazione!”
Baku parlò con la bocca aperta. Quello sembrava più turbamento che fastidio.
“Chinu è”
Shiratama alzò le spalle e appoggiò la guancia contro Chinu.
“un qualcosa che solo io posso vedere”
“……Ma—“
Poteva vederlo.
Tobi ci riusciva, chiaramente.
Chinu sembrava essere molto affezionato a Shiratama. Anche Chinu strofinò la testa contro la guancia di Shiratama, chiudendo gli occhi in maniera amichevole. Hyuruu, yuu, uu, era come se emettesse dei suoni a bassa frequenza, o meglio, era come se non riuscisse a trattenere quei suoni e questi fuoriuscissero. Le corna di Chinu colpivano Shiratama, ma non sembrava farle male. O almeno, Shiratama non stava soffrendo. Forse quelle corna non sono abbastanza dure da trafiggerla?
“È una mia simile!”
Disse Baku quasi sputandolo fuori. Sembrava molto riluttante. Oppure, non riusciva più a trattenersi.
“Tobi, solo tu potevi sentire la mia voce. E solamente Shiratama Ryuuko riusciva a vedere la figura di Chinurasha. Non posso dire che sia esattamente lo stesso, ma è simile!”
“……Quindi— Shiratama-san può sentire la voce di Baku, io posso vedere Chinu”
“Esatto”
“Hm?”
Le sopracciglia di Tobi si corrugarono. Si colpì la fronte con il pugno.
“Quindi, questo— che cosa significa? Eh……? Come è successo?”
“In realtà, è una novità anche per me”
Disse Shiratama con nonchalance.
"È da un po' che ho notato che tu, Otogiri-kun, parlavi con Baku-chan. Questo perché io sentivo la voce di Baku-chan. Apparentemente, io ero l'unica. La voce di Baku-chan può essere sentita solo da me e da te, Otogiri-kun. Ho pensato che dovesse essere qualcosa di speciale"
"......Speciale—"
Tobi scosse debolmente la testa.
"Oppure, è semplicemente una cosa anormale……"
"Io e te, Otogiri-kun, siamo gli unici a essere anormali?"
"Beh…… È più probabile del pensare che io e te, Shiratama-san, siamo sani di mente……"
"Aspetta un attimo, oi, Shiratama Ryuuko!"
Baku intervenne, questa volta con la dovuta riluttanza.
"Non chiamarmi con il chan"
Shiratama rimase immobile.
"Baku-chan?"
"È quello, quello! Mi dà il prurito. Non mi sembra giusto. È inquietante"
"Scusami"
Shiratama sembrò dispiaciuta e abbassò la testa con le sopracciglia all'ingiù*, Chinu fece la stessa posa.
*In giapponese scritto letteralmente come "A forma di otto", poiché il kanji del numero otto è simile a delle sopracciglia inarcuate all'ingiù (八)
Che carina.
—Tobi rimase scioccato nel ritrovarsi, per un momento, a pensarlo.
A proposito, pensava che solo Chinu fosse carina. Per essere più precisi, si riferiva al fenomeno che Shiratama e Chinu avessero fatto la stessa cosa contemporaneamente.
“Bene allora, Baku-san?”
Chiese Shiratama, e Baku fece “Aham” e si schiarì la gola.
“Non sono soddisfatto nemmeno dell’aggiunta di san. Che ne dici se mi chiami solamente Baku?”
“Perché sei così prepotente?……”
Tobi aveva voglia di buttare via Baku. Baku si oppose immediatamente.
“Cosa c’è di prepotente in ciò che ho detto? Ho solamente detto che era ok chiamarmi senza suffissi onorifici. Piuttosto, non è essere umile? O no, Shiratama Ryuuko?”
Shiratama annuì. Poi, anche Chinu.
“Ti inizierò a chiamare Baku allora”
“Esatto. Bene. Non mi piacciono le cose formali”
“Non mi dispiace nemmeno che tu, Baku, mi chiami Ryuuko”
“Naturalmente, sarà fatto. Anche qualcosa come Oryuu andrebbe bene. Sì. Non è male. Che ne pensi?”
“Non mi dispiace, quindi dipende da cosa preferisci tu, Baku”
“In tal caso, decido di usare Oryuu. Oryuu”
“Sì”
“……Vi state avvicinando sempre di più”
Forse Tobi dovrebbe spingere Baku contro Shiratama invece di buttarlo via.
“Ooh? Cooosa c’è? Sei geloso, Tobiii?”
Baku fece hehehe, e rise.
“Non preoccuparti. Solo perché è arrivata Oryuu non significa che il rapporto tra me e te cambierà”
“Il mio e di Baku……inseparabile rapporto marcio”
“Andiamo, non è marcio!”
“Allora, che tipo di relazione è?……”
“È un po’ scortese dirlo a parole, però. Se dovessi dirlo, ti definirei un partner?”
“Anche io e Chinurasha siamo come delle partner”
Shiratama sorrise, disse “Vero?” e guardò Chinu.
“Non può parlare come Baku, ma resta al mio fianco. Io e Chinu stiamo insieme da sempre”
“……Però ho un dubbio. Se non fossi stato in grado di vedere Chinu, Shiratama-san, cosa diavolo avresti fatto?”
“Se fosse successo questo, sicuramente—”
Shiratama increspò e incurvò le labbra, confidando leggermente le guance.
“Penso che saremmo stati in una situazione che poteva essere definita solo come strana. Una patetica studentessa delle scuole medie si comporta come se una piccola creatura che non può essere vista fosse effettivamente lì……”
“Meno male allora, io Chinu l’ho vista……”
“Ad essere onesti, è stata una scommessa. Però, pensavo che tu potessi vederla, Otogiri-kun”
“Il risultato è stato alright allora, non credi?”
Baku lo dice con nonchalance, ma se Tobi fosse stato al posto di Shiratama, non avrebbe corso un rischio del genere.
C’è qualcosa che non va in me?
Tobi se l’era chiesto molte volte. Essere in grado di parlare con uno zaino non è normale, non importa come la si guardi.
Sentiva suoni che le altre persone non potevano sentire.
Riusciva a vedere cose che non dovrebbero essere visibili.
Erano illusioni? C’era qualcosa che non andava nel suo cervello? Era una sorta di malattia mentale? Forse dovrebbe vedere un dottore, una volta. Ci aveva pensato così tante volte.
Tobi si sentiva debole. Si sentiva come se stesse per cadere dalla ringhiera. Perché era così esausto? C’era stato un momento memorabile effettivamente.
Non era solo lui. Tobi si sentì sollevato. Non era un’illusione.
Baku era lì.
Non era un’illusione creata da Tobi.
Esiste veramente.
“……La voce di Baku che io sento, può essere sentita anche da Shiratama-san. Shiratama-san può vedere Chinu, che anch’io posso vedere. Qualcosa che le altre persone non possono vedere—“
Se era così, anche quelli?
Tobi fece il grande passo e lo chiese a Shiratama.
“Allora…… Anche tu, Shiratama-san, li vedi? A volte le persone le portano, quelle strane creature……”
Shiratama stabilì un contatto visivo con Tobi, assicurandosi di fare incrociare i loro sguardi.
Poi, annuii leggermente.
Cap. Successivo: Cap. 1-3
#inochi no tabekata#light novel#manga#anime and manga#anime#tobi otogiri#e ve utaite#e ve#italiano#traduzione italiana
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È da troppo che non ricevo un abbraccio
Gonzalo è sempre stato un muro di ghiaccio
Che ha solo bisogno di essere sciolto
D’altro canto non sono di aiuto
Però però però in questi anni ho davvero imparato molto
Sono molto contento ❤️❤️❤️
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L’antidesign
Design, parola straniera usata in italiano con un unico senso. La traduzione letterale è progetto ma, con la genuflessione acritica nei confronti della lingua anglosassone, nella nostra ha assunto quasi esclusivamente un solo significato specifico: progetto finalizzato alla produzione di oggetti d’uso. Antidesign, da me usato da tempo, ha anch’esso un unico senso: la produzione di oggetti “d’uso e d’incanto”, come suggeriva Pierre Restany nei lontani anni 80.
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FDL, Aracne, poltroncina 1987, legno e rete
L’antidesign ha le sue velleità e la principale è quella di ridurre al minimo la schiavitù delle persone che concorrono alla produzione degli oggetti di cui sopra. Per schiavitù intendo quella che per ragioni di pagnotta costringe milioni di malcapitati a star dietro a macchine di produzione di serie, da quelle semplici per fare una vite a quelle più complesse chiamate pantografi a cinque vie o robotiche (la nuova frontiera della tecnica, che tende a eliminare il lavoro meccanico dei malcapitati - ma anche il lavoro tout court): li avete mai incontrati alle catene di montaggio delle piccole e grandi aziende della produzione industriale? L’immensa tristezza di questi giovani malpagati è di casa. Insomma per tornare alla velleità, se puoi riduci le viti o eliminale del tutto (ci siamo intesi).
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FDL, Ballerina, Tavolo da pranzo in tubi e vetro, 1977
Tagliando corto: mi interessa ridurre la schiavitù senza intaccare il volume della produzione: la prima è ridimensionabile affidando la seconda anche al consumatore: se sono in grado di fare il mio tavolo da pranzo, perché acquistarne uno? Ma non siamo così utopici e teniamo conto dei vecchi, degli andicappati, delle casalinghe di Voghera e dei pigri perché la fatica rende me schiavo dell’esecuzione. Magari però ci prendo gusto a menar le mani! Certo, ma devo avere gli strumenti, almeno elementari se non complessi, strumenti che producono altri, allargando così la schiera dei malcapitati non robotici. Insomma l’antidesign si porta dietro un sacco di contraddizioni, senza contare che l’umanità negli ultimi 50 anni è passata da 3 a 8 miliardi di individui che hanno bisogno di tavoli e non di discorsi utopici.
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FDL, Orma, tavolino da salotto in scarti di forgeria e vetro, 1987
Io non ho l’assurda pretesa di una soluzione all’arduo problema della schiavitù, neanche di sfuggita. Dotato di un minimo di manualità, sottolineo minimo (mia madre, visto che non studiavo, in terza media mi mandò a fare l’apprendista d’un falegname), suggerisco però di prendere in considerazione che esiste la concreta possibilità di costruirsi i propri oggetti d’uso (se non d’incanto) necessari a sedersi in convivio, conversare in salotto, magari seduti su una poltroncina, illuminare il proprio libro con un’abatjour o lampada d’altro tipo, riporre lo stesso in una libreria economica ecc. Suggerisco, non impongo. Anzi faccio seguire il suggerimento da alcuni consigli pratici che impegnano al minimo le abilità manuali, consigli visivi.
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FDL, Pasifae, Tavolo di sole 4 pelli di 1/2 vacca intere, 1986
Tranquilli, non c’è nessun copyright (altra contraddizione, l’uso dell’odiato inglese): il suggerimento può essere seguito da chiunque senza problemi. Però bisogna saper guardare: i miei oggetti, cioè quelli prodotti per arredare casa mia e quella di pochi ammiratori (troppo pochi per fare l’eroe – citazione da Carver) sono molto semplici e copiabili da qualsiasi casalinga. Basta avere un minimo di ottimismo.
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FDL, Libra, libreria in assi di scarto di cantiere e tubi Innocenti, 1975
Naturalmente devono piacere i suggerimenti, ma il materiale che allego al progetto (ohibò, design) sono dei più economici e dei più comuni: niente plastica, marmo di ravaneto, legno già usato o recuperato in qualsiasi discarica, ferro di scarto di forgeria, residui della produzione di neon ecc. Insomma una vera pattumiera. Ma chi non ha una pattumiera disponibile?
FDL
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FDL, Cinderella, lampada ozonizzatrice in solo vetro e scarti di neon, 1990
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disturbi alimentari: “il corpo era la mia vergogna” testimonianza: Sono certa di essere amata dalla mia famiglia, tutto il dolore che ho vissuto non è stato per mancanza d’amore, è figlio d’altro. Ci sono state incomprensioni, gesti fatti con le migliori delle intenzioni e le malattie dei miei genitori.
Scrivo qui dalla casa in cui sono cresciuta e mi rendo conto che questa malattia è dentro di me da molti anni, latente; infatti da piccolina soffrivo, sentivo già il dolore forte, si manifestava nel pianto al tramonto, a momenti in cui mi sono guardata nelle foto e mi sono vista grassa e brutta.
Sentivo che mia mamma non mi voleva, la cercavo in tutti i modi, facendola arrabbiare, giocando, consolandola come potevo.
La sua malattia era come uno scudo tra lei e il resto del mondo e per arrivare a lei ho imparato il linguaggio malato dei disturbi alimentari. Non mi tolgo dalla testa quei momenti in cui la vedevo buttare di nascosto il cibo, i giorni in cui la disperazione esplodeva e come una bomba io e mia sorella ci riempivamo di schegge di un dolore infinito. Mio padre cercava di proteggerci, ma la malattia dominava la nostra vita.
Da piccola adoravo mio padre, ridevo e giocavo con lui, mi sentivo sempre al centro del suo mondo e ne avevo un bisogno incredibile. Credo di aver avuto paura di non esistere e di essere sbagliata.
Alle elementari mi piaceva studiare ma provavo una frustrazione incredibile nello studio, facevo delle sceneggiate, i miei dovevano considerarmi. Ero molto diretta, dicevo quello che mi dava fastidio, se un bambino diceva qualcosa che non mi andava bene rispondevo subito. Non mi sentivo però mai del tutto integrata.
Lo spettro della solitudine mi faceva compagnia e alterava ogni situazione. Mi sentivo molto sola.
Poi un pomeriggio, quando avevo 7 anni, in cui stavo giocando e divertendomi tanto, i miei genitori sono venuti a prendere me e mia sorella perché dovevano parlarci. Mio padre aveva un aneurisma e la situazione era molto grave. Dopo poco è stato ricoverato....
continua: https://www.chiarasole.com/disturbi-alimentari-il-corpo-era-la-mia-vergogna-testimonianza/
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Stradivari
Ieri sera ricamavo pensieri.
E nello svolgersi incoerente delle appannate e sconclusionate elucubrazioni che precedono il sonno, mi è capitato di ricordare questa frase che, con ogni probabilità, in mille modi, ho già altrimenti confuso, scomposto e rappezzato in qualche forma, con chissà quali altre e peggiori parole:
"Discorsi o idee intelligenti si possono esporre soltanto a una società intelligente; nella comune invece riescono odiosi poiché per piacere a questa è assolutamente necessario essere superficiali e di cervello limitato" (A.S)
L'uomo esigente, pensavo, rigoroso nel chiedere a se stesso lo sforzo costante del miglioramento (o quello, altrettanto arduo, del non-peggioramento), è dunque inevitabilmente destinato a scontrarsi con le difficoltà di un contesto che – pur riconoscendola – schiva l’intelligenza, di qualunque tipo, sotto qualunque forma, sia essa intellettiva o emotiva, sociale o speculativa: consista nell’educazione o nel senso della misura, nel rispetto o nell’apertura mentale, nella sensibilità o nella coerenza: come se una qualche capacità di approfondimento, articolazione, ragionamento, introspezione e costruzione del pensiero o del sentimento risultasse ai più come un costante e chirurgico tentativo di irretire, confondere, imbrogliare; come se saper parlare, mangiare, comportarsi e discutere fosse un espediente per affabulare, circuire, complicare.
L’intelligenza come vezzo snob, strumento di inganno, abbaglio, superbo contromano; l’amore come spunto egoistico, mezzo di circuizione, fumo, infida arma.La fiducia come strategia.
Nell’operare questo curioso stravolgimento della realtà, questi paladini del terra-terra – altrimenti incapaci di garantirsi un posto al sole – si sperticano nel veicolare la bislacca idea che la pochezza di intenti, sentimenti, forma e spirito corrisponda ad un qualche valore oggettivo, un merito, una qualità. Li vedi dunque ostentare una presunta genuinità, sbandierandola come forma di sincerità assoluta e perfetta, basilare, istintuale: se devo dire una cosa, la dico come mi esce dalla bocca; se parlo, parlo come mangio e, quando mangio, mangio come viene. Se dico, dico per dire.
Eppure, direi, la forza di un valore non risiede esclusivamente nella sua semplicità istintiva: trovo anzi che il mezzo migliore per renderlo concretamente fruibile a se stessi e agli altri sia saperlo metabolizzare per capirne il senso, accarezzarne il nocciolo, scomporne il fine. Per fare questo non serve essere intelligenti, certo: ma serve non essere superficiali. La semplificazione di argomenti e sentimenti, di fatto, credo sia il primo e più decisivo impedimento al percorso dell’intelligenza o della fiducia, della consapevolezza di sé e degli altri, della capacità d’amare davvero. D’altro canto, penso anche che la banalizzazione operi come il cattivo gusto: aiuta chi ne ha (gusto) a scegliere altro rispetto a quel che vede, pungolandolo alla reazione, stimolandolo alla ricerca dell'eccellenza, di una matrice condivisa che – essa sola – riesce a imprimere una comunione di intenti, idee e prospettive capaci di gratificare l'essenza del valore stesso, magnificandone le peculiarità.
Prendete un’idea, ad esempio.
Come forma semplice, si presenta perfetta: pulita, istintiva, conclusiva, circoscrive l’uomo e lo qualifica, ne definisce i limiti o ne amplia gli orizzonti. Ugualmente, quando è frutto di ragionamento, introspezione, ricerca personale, costruzione, cognizione, essa è capace di motivare l’inconsapevole e intrigare il saggio, illuminare il negligente ed oscurare il frivolo. Eppure, ed invece – ecco il giro di boa – la sua banalizzazione (cioè il ridurla a mero strumento di contrapposizione, nascondendosi meschinamente dietro l’affermazione apodittica della sua ragione, contestando, urlando, ricollegandola ad ogni e qualsiasi sciocchezza, senza motivazione, fondamento, struttura, come scusa per la propria pochezza, pretesto per la propria violenza o bisogno di conferma personale) la svilisce fino a mortificarne inesorabilmente la caratura. Eppure, quanto grande e forte può essere se veicolata nel modo opportuno, masticata, fatta voce, carne e sangue.
Prendete l’amore, poi.
Come forma semplice, si presenta anch’esso altrettanto perfetto: lineare, fatale, straripante, coglie l’uomo impreparato e lo stravolge, lo eleva, lo fa crescere e lo fa tornare bambino. Ugualmente, quando è frutto di interiorizzazione dell’evento, riflessione, maturazione emotiva, scelta, comprensione, consapevolezza, esso è ugualmente capace di circonfondere e guarire il disincantato, risvegliare l’apatico, far ricredere il cinico: quanto potente e inesorabile può essere quando mira al cuore. Eppure, e invece, eccoci ancora al punto, la sua banalizzazione – dunque il ridurlo a mero patto o tappa sociale, l’appicciarlo maldestramente ad ogni e qualsiasi rapporto, al sesso, alle cotte estive, alla pulsione, al bisogno o al fabbisogno, sciupandolo quale antidoto alla solitudine, necessità di conferma personale o dovere di ruolo – lo svilisce fino ad annichilirne inesorabilmente la forza.
Prendete le persone, ora.
Come entità semplice, ciascuno di noi è capace di esprimere una sua qualche intelligenza, può vantare o millantare idee e di certo può riempirsi la bocca con la parola “amore”; ognuno, a suo modo, può diventare centro e periferia di ogni cosa, oggetto e soggetto.
Ma solo alcune persone sono capaci di darci la giusta lente con cui guardare le cose, stimolarci verso il miglioramento e regalarci la sensazione netta e chirurgica che nulla sia mai effettivamente scontato: non le attenzioni e le parole, che troppo spesso versiamo in contenitori vuoti o bucati o finiamo per considerare ovvie appena si supera la soglia della confidenza; non le passioni e le tensioni, che aneliamo fino a idealizzarle o sprechiamo fino ad estinguere, guardandole raffreddarsi piano, sotto il peso del quotidiano, della vita che ti rincorre, delle scadenze e del fine mese; non la fiducia e l’onestà, che sovente regaliamo alle persone sbagliate, incapaci di capirle o restituirle, buone solo per mortificarle, annichilirle. Non lo sono le immagini accartocciate sul fondo degli occhi all’alba né i pensieri sparsi sul pavimento del cuore al tramonto, quando rientri a casa e vedi in controluce il fantasma di chi vorresti, l’ombra di chi hai perso o ritrovato, che ti aspetta seduta sul divano, con i piedi scalzi e i pugni chiusi.
Così, infine, mi è venuto in mente un violino (prendete un violino):
e ho capito che per averne uno qualsiasi, bastano anche (solo) mille trucioli sbagliati, superficiali, distratti, dozzinali; ma per ottenere uno Stradivari, ne saranno decisivi solo due o tre, probabilmente uno soltanto: quello giusto, il più ragionato e calibrato, quello che sembra sfuggirti dalle mani e poi ti ritrovi fra le dita, direi perfetto, come la sola persona con cui l’uomo esigente decide di (e può) condividere intelligenza, idee e fiducia.
Ecco, che pensieri ricamavo: che l’amore è uno Stradivari, tu sei quel truciolo e io un uomo esigente.
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Almeno ho controllato il meteo e quando parto per salire dal mio ragazzo da lui ci sarà il diluvio universale e io non avevo bisogno d’altro
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«Vuoi che vada via?»
Solo sul principio di quell`ultimo domandare altrui fa guizzare le pupille, ricercando il viso della coetanea e mostrandole apertamente l`alzata di una delle sopracciglia. « No » non c`è bisogno di essere tanto drastici « Almeno che non sia tu a voler rimanere da sola. » Allora può farlo, andarsene, non sarà lui a levare le tende per primo.
«No.» Si ritrova a rispondere. Non vuole stare sola, stranamente. Eppure, s’è vestita ed è scivolata via dal castello proprio con quelle intenzioni, individuando nella rimessa uno dei luoghi più tranquilli e solitari in cui rifugiarsi. Quindi, sembra proprio che rimarrà lì, seduta sulla banchina appena al riparo dalla pioggia, a fare compagnia a Lionel. Perché dubita che lui possa farne a lei. «Che hai fatto in questi giorni?» Visto che sono lì, non le pare il caso di starsene in silenzio. E per questo si diletta nel porre domande frivole e quasi stupide, con l’unico scopo di provare a farlo parlare e stare zitta senza sentirsi a disagio.
« Niente » ecco cos`ha fatto. Alla noia di fondo, accompagna un sospiro attraverso le narici, forse la causa principale della nota poco più aguzza che si insinua nell`accento musicale. « In certi casi invece, le convenzioni sembrano un po` ridicole » nel momento in cui si volta — gesto che si ferma circa a tre quarti, catturando la coetanea solamente con la coda dell`occhio — il sorriso vago che gli stira le labbra è ancora lì, visibile, ma non del tutto « No? » Come in procinto di interrogarla, ma la velocità con cui torna al Lago Nero pare suggerire tutt`altro: retorica. « Ma vogliamo parlare di me, o... ? » C`è un guizzo di palpebre, prima che gli occhi d`ossidiana vadano finalmente a posarsi dritti sulla Roberts. « Si vede, sai? »
«È così strano vedermi tranquilla?» E quindi senza offrire biscotti, o saltellare in giro piena di brillantini in viso? Torna a mordicchiarsi il labbro, cercando di scacciare dalla sua mente ricordi particolarmente imbarazzanti e dolorosi di quel venerdì pomeriggio, prima di stropicciarsi gli occhi, in un gesto sconsolato più che effettivamente stanco. «Probabilmente tutti hanno dei periodi “no”.»
By the way, le labbra del terzino rimangono sigillate, rilassate in una linea dritta e carnosa che non dà alcun indizio su cosa gli stia passando per la testa, né su una rimostranza imminente delle sue alte doti da giudice. Per un po’, almeno, finché i polmoni non buttano fuori un sospiro d’aria calda, portando le spalle a distendersi e la schiena ad incurvarsi in avanti. « Non ci sarebbe niente di così grottesco se questo– » le parole giuste per descrivere il comportamento altrui evidentemente gli mancano, perché si limita ad indicarla con la destra, spalancata e col palmo rivolto verso l’alto « … » il taglio dello sguardo che si assottiglia leggermente « Sei strana, hai iniziato a fare così di punto in bianco. » Just saying, sintetico e diretto come sa essere, in un guizzo rapido di sopracciglia e lo schioccare della lingua contro il palato.
«Io...» Inizia, bloccandosi con la stessa rapidità con la quale ha intrapreso il discorso. Torna a mordicchiarsi il labbro, stavolta non imbarazzata, ma stranamente a disagio. «Non ho mai negato che ci sia qualcosa che non va.» Si decide a confessare, ma non troppo tranquillamente, visto lo sguardo che vaga dal lago nero al Serpeverde, quasi timorosa che possa giudicarla. D’altro canto, starsene in silenzio e senza neanche un sorrisetto non è da lei. E probabilmente non le si addice neanche. «C’è qualcosa di sbagliato?» Gli chiede, di punto in bianco. «Nel fatto che le persone non siano sempre felici.»
Lo sguardo d'ossidiana non è giudicante, non quello volto e fermo sulla Corvonero balbettante, è invece piuttosto rilassato, insondabile e distante. Lontano, ma in qualche modo stranamente gentile nel modo in cui la sfiora — discreto, per niente insistente, con le sopracciglia che vanno distendendosi anche quando l'attenzione torna a farsi altalenante, rimbalzando fra le tracce delle gocce di pioggia che baciano le acque del Lago e le tasche del proprio mantello, in cui incomincia a frugare. « Farlo capire e ammetterlo sono due cose molto diverse. » Non le dedica alcun'altra occhiata, ormai già con il capo basso e l'espressione perplessa di chi sta cercando un che di ignoto che non riesce a trovare, o che non ricorda in quale delle tasche del mantello è stato messo. Persino la voce ha perso il suo scherno solito, rimanendo priva di particolari inflessioni, sebbene morbida, addolcita anche — o anche solo — da quell'accento di terre lontane. « No » tutto il contrario « Però le persone che non sono felici possono parlarne, almeno che non ci sia un altro statuto di segretezza. » Ora sì che va a scandagliare il volto della Bronzo–blu, prima di muovere il braccio e stendere la destra, il palmo rivolto verso l'alto per rivelare il motivo di tanta distrazione: un pacchetto di « Merlino's. » Gli angoli delle labbra che si allungano all'insù, in un sorriso un po' maligno, smaliziato, il quale si allarga nuovamente quando con un rapido movimento del pollice ne solleva la linguetta, consentendo all'altra l'accesso ad uno dei preziosi cilindretti magici. « Vuoi provare? »
«Non c’è nessuno statuto di segretezza...» Mormora piano, mentre si raddrizza. Il corpo si scosta, voltandosi completamente verso di lui. E anche le gambe cambiano di posizione, incrociandosi semplicemente in terra. «Diciamo che...» Inizia, con tono di voce incerto. «... Mio padre potrebbe non essere mio padre.» Dirlo ad alta voce le fa sembrare la situazione ancora più assurda, ed è forse per questo che mette su un mezzo sorriso divertito. «Me lo ha detto mamma l’ultima volta che siamo stati ad Hogsmade. È che, sai... Con tutta questa storia del decreto...» lei, per Pembroke, risulta una mezzosangue. Ad ogni modo, allunga una mano verso di lui, per dire che «Sì.» Ne vuole una. Anche se non fuma, e probabilmente rischierà di morire per la tosse.
Posa anche una guancia sulla manica, indirizzando il campo visivo laddove può includere Cheryl, in una posizione che esprime apertura. Accoglienza nei confronti delle confessioni che arrivano subito dopo, sicuramente pesanti, inaspettate, ma che non causano niente più di un battito di ciglia. Lo sforzo infatti sta tutto nel tentativo di decifrarle, ed è lì che la testa va a piegarsi di qualche grado, insieme alle sopracciglia. « Non saresti più... pura? » Parla con cautela, cercando di estraniare anche quella sfumatura ambigua che riaffiora vagamente nel tentativo di rivelare l'arcano, a lui che poi è estraneo ai meccanismi a cui il nuovo decreto ha iniziato le famiglie britanniche. Esula da commenti o opinioni — in fondo, le ha soltanto proposto una valvola di sfogo, non qualche monologo di risposta. Nel mentre aspetta che la terzina accetti l’offerta, per avvisarla che « Accendo » ecco perché la bacchetta viene impugnata — niente paura, gli Avvincini domani — e stesa verso la direzione opposta, o almeno, questo nel momento in cui la sigaretta arriva in vista delle labbra altrui. « Flamòra » la cima del catalizzatore sfiora gentilmente l'offerta, con l'intento di richiamare il calore e permettere alla miscela di accendersi, adempiendo la sua funzione.
«A quanto pare mio... Padre, credo, non è puro da abbastanza generazioni.» Non sa neanche perché glielo stia effettivamente dicendo, però lo trova stranamente semplice. Sarà la situazione, il fare sorprendentemente gentile del LaLaurie? Proprio non le interessa, ma adesso che s’è sfogata sembra essere molto più tranquilla. Porta la Merlino’s fra le labbra, dubbiosa, lasciandola lì a penzolare, mentre Lionel prende la bacchetta. Piega leggermente il busto in avanti, per agevolare il compito del Serpeverde e quando lui la accende, Cheryl prova a fare un tiro, e... Un violento colpo di tosse la scuote completamente, mentre lei s’affretta a sfilare la sigaretta dalle labbra. Viene avvolta da un fumo viola e lillà, mentre tossisce, con una mano posata sul petto. «Non ho mai fumato.»
C'è silenzio quindi, un silenzio prolungato e poi ribaltato dall'offerta di una sigaretta, che culmina nel suono di una risata misurata quando quell'altra viene assalita dai colpi di tosse. « Sì, è abbastanza evidente » che quella sia la prima Merlino's, e glielo fa presente con una punta di ironia — proprio lui (!) — la bocca atteggiata in un sorrisetto irritante, pur senza lasciarsi sfuggire la colorazione degli sprazzi di fumo. Lancia uno sguardo al pacchetto giusto prima di lasciarlo ricadere in tasca, come se nulla fosse, una distrazione che tenta di giustificarsi nel solo sforzo di evitare di far cadere il malloppo giù dal pontile.
«Ma perché è tutto colorato?» Lei ovviamente non sa che rispecchiano le emozioni provate al momento, però «È del mio colore preferito.» È già un buon inizio.
Le tiene compagnia anche nel fare esperienza della prima sigaretta, imbarazzo che non stenta ad aumentare con quella risata che gli sfugge, perché dopotutto è il LaLaurie di sempre — irritante e indolente, una boccata di normalità. « Sono sigarette magiche, ci sarà qualcosa dentro per farlo apparire così » con i gomiti ancora ancorati sulle ginocchia e le mani libere, tende una di queste verso la bionda, per porle una richiesta non detta: posso? Condividi?
«E... Come fanno a sapere quale è il nostro colore preferito?» Perché lei a questo lo ha collegato, il fumo violaceo. Quando Lionel tende una mano verso di lei per chiederle la sigaretta, prende un veloce ultimo tiro. Allunga poi la mano verso di lui, passandogli quindi quanto richiesto.
Inumidisce le labbra, traendo quel lungo sospiro che lo riporta direttamente con l’attenzione sul bacino liquido — dopo l’atto del passamano, che lo vede semplicemente racchiudere la sigaretta nella pressione fra indice e dito medio. Abbozza una mezza smorfia, avvicinando la Merlino’s alle labbra per prendere una oculata boccata di fumo, la medesima che restituisce all’aria frizzante nell’atto di riprendere parola, senza grossi scompensi e con una densa sfumatura blu. « Non lo sanno, infatti » quale sia il loro colore preferito, e lei non gli ha chiesto che cosa significhi il viola, piuttosto che un giallo o un verde bottiglia, giusto? « Tieni » liquida infine, facendo un secondo ed ultimo tiro prima di restituire il malloppo alla sua nuova, legittima proprietaria « Riprova, andrà meglio. »
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Il femminismo comodo: adatto a indolenti e persone a cui va bene tutto, finché semplicemente non è più così
Il Femminismo non è una malattia nonostante l’alta carica virale. Fin dagli albori della sua storia, il movimento Femminista è stato continuamente frainteso: il movimento dell’uguaglianza spacciato come quello della supremazia femminile. La sua evoluzione ha rimediato anche alle mancanze di una prima ideologia chiusa e ristretta, legata unicamente ai diritti delle donne bianche e dunque poco inclusiva. Siamo passati ad una visione differente e aperta. Il Femminismo moderno non esclude nessuno, si batte per i diritti di ogni essere umano e tiene un occhio di riguardo su questioni ambientali. Dopo cinquanta anni d’intersezionalismo tuttavia i problemi non sono finiti. Per una donna non è facile essere femminista, per un uomo invece è come bere un bicchier d’acqua. Un uomo che si definisce femminista è lodato poiché comprensivo e sensibile a problematiche che comunemente gravano meno sul proprio sesso. Annessi e connessi. Il che non è scorretto. Ma se mai verrà discriminato per credere nella parità, gli insulti non si sprecheranno e al limite verrà chiamato femminuccia. Un terribile insulto per un uomo che considera le donne sul suo stesso piano.Vorrei centrare il mio focus: per loro è un po’ più semplice. Talvolta sono lodati per aver fatto o detto il minimo sindacale. Con ciò, non voglio sminuire la problematica dell’intolleranza di pensiero che riguarda ogni persona, indipendentemente da sesso e non-sesso. Dall’altra parte invece si potrebbe fornire una quantità infinita di esempi riguardo luoghi comuni sulle donne femministe e situazioni in cui la parola “femminista” viene utilizzata come insulto. Le femministe non si lavano, sono aggressive e odiano gli uomini! In tutta franchezza non trovo nulla di male in queste cose, ciononostante le parole hanno un peso. Non andrebbero dette senza intenderle. Per prima, ammetto che nel mio caso questi luoghi comuni sono stati a lungo un deterrente dal definirmi tale. Non credo di essere l’unica ragazza accusata di essere isterica e aggressiva per non aver voluto che la propria opinione venisse screditata o perché si è arrabbiata. In altre occasioni mi fu detto: “non sarai mica femminista?”, come se ci fosse qualcosa di male. Allora ho negato perché a nessuno piace un’adolescente isterica e suscettibile. Questo tipo di comportamento non è una questione geografica, o meglio è un retaggio con diffusione globale. Ad esempio Chimamanda Ngozi Adichie, un’autrice e attivista nigeriana, apre il suo saggio “Dovremmo essere tutti femministi” con una situazione simile. Il suo breve ma brillante scritto comincia con il racconto di una serata passata con il suo amico d’infanzia Okoloma. Okoloma era un bravissimo ragazzo, rispettava le donne e amava sua madre. L’autrice lo definisce perfino un ottimo amico. Eppure esordì con la medesima frase durante una discussione per sedarla. Una Chimamanda quattordicenne non seppe cosa rispondere. Non poteva saperlo perchè lei quella parola, femminista, nemmeno la conosceva. Neanche Okoloma evidentemente. Il saggio, un libricino di meno di sessanta pagine, prosegue con riflessioni tanto illuminanti quanto condivisibili. Non è necessario leggere un glorificato manifesto per essere femministi (ad ogni modo consiglio la lettura del suddetto saggio). Allo stesso tempo è esasperantemente facile sapere di cosa si tratti, ma ciò non significa che sia altrettanto semplice comprenderlo. Viviamo in una società (cit.) intrisa di cultura maschilista. Una cultura che contempla la ragione della parte maschile su una qualsiasi controparte. Quella è la normalità. Nessuno ragiona su di essa, dato che per definizione ciò che è normale non è ne giusto ne sbagliato. É difficile mettere finalmente a fuoco cose che su cui non ci si è mai soffermati. Per caso avete mai notato come il nipote preferito delle nonne spesso sia un maschio? Non è una questione di intelligenza o di bontà, tantomeno intenzionale. Non conta se ai pranzi di famiglia il loro maggior contributo è grattarsi la pancia mentre le nipoti sgobbano e aiutano con tutto il resto. D’altronde cosa si ricaverebbe nel riconoscere cose scomode? Tante volte mi sono detta che non potevo pretendere da un essere di sesso maschile di afferrare questioni legate strettamente al mio essere donna. É ragionevole: siamo diversi. Personalmente sono sempre stata incuriosita dalle questioni “dei ragazzi”, facendo domande e ascoltando le loro risposte. Incredibile ma vero non posso dire di aver incontrato più di un manipolo di persone che reciprocasse il mio interesse. A riprova di questo, una di quelle volte, discutevo con un amico riguardo un mio desiderio: uscire da sola la sera tardi. Dire che ne rimase stupito è un eufemismo. “Perchè non lo fai?” mi chiese. Per un ragazzo qualsiasi uscire con il buio è banale, scontato. Egli non ha mai avuto la necessità di suddividere gli orari in più o meno sicuri. D’altro canto, io stessa, ero altrettanto stupita dal fatto che ci fosse il bisogno di spiegarglielo. Gli risposi che era pericoloso soprattutto per una ragazzina. Insisteva sul fatto che non ci fosse problema e se anche ci fosse stato, sarebbe stato pericoloso allo stesso modo per entrambi. Potrei essere violentata. Statisticamente v’è una maggiore possibilità, perfino nel caso fossimo stati insieme, che io venissi stuprata e lui pestato (sono al corrente delle statistiche sulle violenze sessuali sugli uomini: non nego il fenomeno). All’epoca non ebbi il coraggio di dirlo, ma nemmeno il fiato o la forza. Cambiare l’opinione di chi è convinto di avere ragione è un esercizio sfiancante. Lascai cadere l’argomento. Lo stesso ragazzo si definisce femminista però resta di questa idea. Questo che racconto è un episodio come tanti, la morale è ovvia. Oppure no? Approfondiamo. In un’ennesima occasione un personaggio pubblico, femminista auto-dichiarato, si espresse, durante una conferenza, sulla questione di una famosa giornalista sportiva. Quest’ultima, stanca delle continue molestie verbali che riceveva, non solo in rete, annunciò di averne abbastanza. Al che, questo signore disse che mentre lei aveva accettato il ruolo e l’oggettificazione sessuale per comodità, altre giornaliste che lui aveva conosciuto non si erano vendute in questo modo. “Se lei ha accettato di essere messa a bordo campo con dei vestiti così, con un corpo come quello…”. Quanta severità etica, ho pensato. Quando lui stesso, pochi minuti prima, aveva detto che non poteva recriminare qualcuno per aver deciso di rivestire un abito comodo invece di quello più scomodo. Ammesso che sia così per la nostra giornalista. Con tutta probabilità, ciò che intendeva dire, era che una donna del genere minava la credibilità di sue colleghe diciamo più modeste e così non le aiutava. In breve se l’era cercata e magari aveva il diritto di lamentarsi, ma senza urlare. Non è possibile dire con certezza cosa intendesse poiché non terminò il suo ragionamento. “Non voglio essere attaccato ne frainteso” si è giustificato. Il femminismo però non mina gli individui, non regola un dress-code, chiede umanità e non un rigido codice etico non pratico alla vita. Il ragionamento non era necessario a prescindere. Mi è capitato spesso di sentire uomini e donne dire che l’utilizzo del corpo per lavoro è degradante. Tuttavia non li ho mai sentiti fare lo stesso discorso per un attore, un modello o un muratore. Solamente parlando di professioni come la prostituta, la cubista o l’utero in affitto, che sono impregnati di pregiudizi negativi. Ogni lavoro possiede una sua dignità. Lo sfruttamento e l’impiego regolare non sono la stessa cosa. Nella testa di queste persone finché la donna si comporta come un uomo è cosa buona e giusta ma quando una donna fa quello che vuole in quanto donna, è giunto l’Anticristo.
Questo genere di ideologia, lo chiamo femminismo comodo. Nel titolo scrivo che è adatto a persone a cui tutto va bene finché lo vogliono. É l’ideologia di chi è inflessibile nel non considerare la dimensione altrui. Ciò che differenzia il Femminismo comodo da quello vero è una quasi voluta ignoranza di ciò che non accettiamo. Come negare l’evidenza di problemi e differenze sociali non renderà concreta la parità. Il Femminismo è personale perché riguarda tutti. Ma non è cieco: è consapevole e comprensivo. Non è dunque contro le regole la libertà dei particolari né nega quelli altrui.
Infine si può concordare che una delle più grandi misconcezioni del grande pubblico è che il Femminismo non sia attuale. Inizialmente, i primi moti femministi del secolo scorso avevano sì lo scopo di ottenere il diritto di suffragio per le donne ma anche di reclamare una tanto anelata parità tra i sessi. Attualmente solo buona parte delle donne ha diritto di voto e dinanzi alla legge gode degli stessi diritti di un uomo. Quindi adesso basta, no? No. La parità di cui parlavamo non è stata davvero raggiunta. Una buona parte non equivale all’intera popolazione mondiale; innegabile questione matematica. Avere gli stessi diritti di ogni altro essere vivente dovrebbe essere innato. Se ci si pensa: è ridicolo pensare che si sia dovuto lottare per ottenerli. Avere ancora da chiedere per una pari dignità e considerazione dovrebbe essere fuori dal mondo. Se il buon lettore non crede che sia così, ho già precisato che comprendo pienamente il perché non lo abbia notato in precedenza. Lungi da me incolpare e discolpare chiunque, questo non è un tribunale e io non mi assumo il ruolo di giudice.
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Ciao vita mia, sai che giorno è oggi? O meglio, ricordi un anno fa dov’eravamo?
È passato un anno dal nostro primo bacio, dalla mia gelosia nei tuoi confronti ancor prima di sapere cosa saresti diventato, cosa saremmo diventati. Sembra ieri, ma con te sto talmente bene che il tempo scorre senza che me ne accorga, è bastato che tu mi prendessi la mano per non lasciartela più andare. Però credimi, tornassi indietro rifarei tutto come se fosse la prima volta. Sarò pazza, è vero, però non ho potuto fare a meno di te e del tuo sorriso sin dal primo giorno, ho iniziato ad amarti e non ho più smesso, e sai qual è la cosa che più ho amato di te aldilà del tuo aspetto fisico? Il fatto che tu mi dicessi ti amo senza mai parlare, con i tuoi modi di fare e quel tuo prenderti cura di me. Ci sono volte in cui, mi basta guardarti per sentirmi bene e capire che sono al sicuro, e non ho bisogno d’altro. Ci sono ricordi nostri, difficili da spiegare, perché le emozioni e le sensazioni di quel momento sono state talmente forti che le parole non basterebbero; ricordi come la prima volta che abbiamo fatto l’amore, quando sostenevi ti guardassi con gli occhi a cuore, e forse un po’ è vero, ma che potevo farci? Avevo già perso la testa. Ho fatto l’amore con te anche quando seduti al pub, parlando ci siamo scoperti le menti iniziando a conoscere un'intimità diversa, solo nostra. Faccio l'amore con te ogni volta che mi giro a guardarti e il tuo sguardo è già su di me mentre tenti di farmi una foto. Ti ricordi la prima volta che ti ho scritto ti amo? Bene, avrei voluto dirtelo di presenza, ma con te mi sono sempre sentita impacciata, con la perenne paura di non piacerti abbastanza, e guardarti negli occhi significava per me crollare, venivano fuori le mie fragilità, le mie paure, non riuscivo mai a dirti ciò che provavo e preferivo stringerti a me. È già passato un anno, e si, abbiamo corso abbastanza da pensare ad un futuro, un futuro che comprenda te nella mia vita e me nella tua, un futuro che comporti avere una famiglia, una casa solo nostra, un futuro insieme, anche perché io un futuro senza te accanto non lo vedo. C’è poco da spiegare, perché noi, le nostre emozioni e tutto ciò che ci riguarda non ha bisogno di essere spiegato. Come quelle volte in cui tu ti addormenti avvinghiato a me, ed io, non avendo sonno, passo il tempo baciandoti quel sorriso che ti spunta solo sfiorandoti, e penso che di momenti come questi non ne avrò mai abbastanza. O quando ti basta uno sguardo per capire il mio malumore, o anche per il più stupido dei litigi, cerchi in tutti i modi di fare pace, con i tuoi abbracci stretti e i tuoi occhi colmi di amore. Come si spiega una felicità così immensa che ti scoppia dentro al petto? Questa pandemia ci ha aiutato tanto, non é stato facile affrontarla ma grazie a te che mi hai teso la mano anche da lontano e mi hai amato così forte, é stata quasi una passeggiata. Forse è vero, non ci ferma più nessuno adesso, ne siamo usciti illesi e più uniti, più forti, più sicuri del fatto che questo amore possa durare a lungo, tipo per tutta la vita. Perché tu davvero sei l'uomo della mia vita e ciò che di più bello ho vissuto, io l’ho vissuto insieme a te. Per me sei quotidianità, mi hai dato ciò di cui avevo più bisogno: essere presente sempre.
@im-perfect-wonder
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Vagone Prefetti;
« Hanno detto che è questo, no?, il vagone dei favolosi? » sbatte un po’ le palpebre per guardare l’interno del famoso “vagone prefetti” uno dei vagoni in cui non ha mai avuto accesso fino ad ora, ma spoiler: è uguale agli altri se non fosse per la dicitura sulla porta.
«a quanto pare siamo tutte facce conosciute» con un piccolo cenno di sorriso «e se siete qui, vuol dire che il preside e il corpo docente ha pensato che siete adatti per ricoprire questo ruolo» e lancia un’occhiata dubbiosa a XAXA che però nasconde benissimo dietro a una maschera tranquilla «penso che sappiate i compiti che vi attendono, ma è meglio ricordare che siete coloro che devono essere il punto di riferimento per i propri concasati e non» e qui non ci dovrebbero essere problemi «il vostro dovere odierno è quello di pattugliare i corridoi del treno per evitare eventuali disordino e di fornire indicazioni ai nuovi arrivati una volta arrivati a Hogwarts» semplice come bere un bicchiere d’acqua. Ma poi si volta proprio verso XAVIER che dovrebbe dire essere partecipe in quella prima parte della mattinata «vuoi continuare tu?» gli domanda che è anche un invito a dire la sua, visto che è un ex prefetto. Siamo tutte orecchie, dear.
« Uff ma dai, non c’è bisogno di fare subito i seriosi con queste cose da bolidi addosso.. E poi c’abbiamo da salutare prima tutti gli amici, poi semmai si fa anche la ronda del treno eccetera, no? Tra l’altro non ci sono ancora nemmeno i tuoi sottoposti, non li avrai già messi a lavoro, tipo. » guardando ALYCE che subito parte in quarta con tutti gli obblighi, doveri, rogne varie che da adesso in poi, con quella spilla appuntata sul petto, parlando comunque dei prefetti di Grifondoro. « Ce l’avrai anche tu gli amici, tipo, no? » glielo chiede tranquilla, ma potrebbe essere anche un commento cattivo, chi può dirlo, Charlotte d’altro canto le sorride come fa sempre con tutti, perciò… sta alla malizia degli altri.
Non che commenti, no, lascia fare agli altri e a LOTTIE, che dopo quell’ultima domanda, qualunque fosse la sua intenzione iniziale, se lo ritroverà abbastanza vicino per sussurrarle all’orecchio un`unica parola, nella sua intenzione appena udibile dagli altri. « fa-vo-lo-sa » ecco.
«non ho detto che non potete salutare i vostri amici» precisa con tranquillità «e non ti preoccupare, non appena si faranno vedere i miei….. sottoposti» ripete la sua stessa parola di lei «farò loro lo stesso discorso che ho fatto a voi» quindi, tranquilla che nessuno sfugge da Alyce «si, ho degli amici» e istintivamente conduce lo sguardo su JEREMY piegando le labbra in leggero sorriso «che ovviamente saluterò per bene al termine del nostro incontro» ma rimane vaga con la risposta in quanto è sempre stata un pochino criptica. E in attesa di ascoltare la voce di XAVIER, lei riprende a parlare «ho solo un’ultima raccomandazione voglio farvi prima di essere schiantata da voi» tira un profondo respiro «cercate di non abusare mai del vostro ruolo…. non siamo solo coloro che mettono in punizione in caso di infrazione delle regole» e arriccia il naso infastidita di essere sempre stata vista come colei che vuole togliere il divertimento «ma dovere anche essere coloro che si mettono a disposizione per aiutare il prossimo» e la sua indole altruista si palesa in tutta la sua chiarezza «e soprattutto cerchiamo di lasciare da parte le antipatie e le divergenze per collaborare per il bene della scuola» e li guarda tutti in viso.
« Cioè è giusto visto che tra noi non esistono capi, cioè, bene ricordare a tutti tutto. » arriccia il naso, piegando un pochino la testina di lato, per fare in modo poi che possa andare contro la spalla di TRISTAN. « Tranqui, non mi stai antipatico. » comunica a STAN con voce bassa, con un mezzo sorrisetto, per riprendere ironicamente il discorso di poc’anzi.
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“Del corpo si ma
di cosa s’innamora un cuore?
Gentilezza dolcezza
purezza tenerezza
della follia di un improvviso bacio...
di quando ti senti dire
prenditi i miei giorni...
non ho bisogno d’altro...”
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ma quindi se gli integratori sono inutili per chi ha una dieta varia e completa, vuol dire che la dieta vegana/vegetariana (che necessita di integratori) è, come dire, "contro natura"?
la cosa bella di Tumblr è che poi ti arrivano questi messaggi e tu ha l’opportunità di partire per la tangente e parlare di tutt’altro, quindi CARI ANON CONTINUATE A CHIEDERE, che mi date pure spunto per altri video.
Parliamo d’altro, più o meno
Va prima di tutto data una definizione di “naturale” e di “non naturale” o “contro natura”. Di primo acchito uno direbbe che naturale è tutto quello che esiste senza l’intervento umano. Quindi un frutto che nasce dall’albero è naturale, uno pneumatico che nasce dalla fabbrica non lo è. Chiaro, limpido, facile. E probabilmente sbagliato, ma qui si entra nel campo delle opinioni personali, della propria realtà, se così vogliamo metterla.
Ho detto che il frutto che nasce dall’albero è naturale, e probabilmente è così, perché l’essere umano non fa nulla per farlo accadere, è quello che fa l’albero da solo: fa i fiori e fa i frutti, è il suo lavoro. Ma siccome fa i frutti, è molto probabile che l’uomo l’abbia selezionato, l’abbia migliorato, l’abbia portato a produrre il frutto che a lui serve. Quindi anche quella pianta è frutto dell’essere umano. E così le galline, così i gatti, i cani, le pecore, i maiali... Insomma, l’uomo ha plasmato la realtà a suo uso e consumo. Faccio molta fatica a distinguere qualcosa che anche solo vagamente riguardi la vita dell’essere umano e non considerarla artificiale in qualche modo. E quindi contro natura.
Poi pero...
Cavoli... l’essere umano stesso... è artificiale? Cioè... se andiamo a vedere la definizione che abbiamo dato, l’uomo esiste senza l’intervento umano, non c’è stato Adamo che ha detto “da qui in poi costruisco tanta gente come me”, piuttosto c’è stata una Eva (Lucy) che si è limitata a fare figli, come tutti gli altri animali del mondo. Mica l’ha fatto apposta a fare l’essere umano! Quindi l’essere umano... è naturale! Quindi eccoci al punto. Le api fanno gli alveari, e noi li consideriamo naturali, non perché crescano dagli alberi ma perché sono costruiti da un animale. Anche i nidi delle rondini sono naturali. Persino le dighe dei castori sono naturali. E allora perché la mia casa non è naturale? Sì, certo, ho inventato il cemento armato, ho inventato il mattone, ho inventato il vetro... ma tutte queste cose le ho sintetizzate da robe trovate nell’ambiente, non le ho certo create. L’intelligenza umana che mi permette di costruire una casa o fabbricare uno pneumatico è del tutto naturale. E perché il cartone del nido del calabrone è naturale mentre il cemento armato della mia casa non lo è?
Quindi eccoci al paradosso. Niente che riguardi anche solo vagamente l’uomo è naturale... ma allo stesso tempo tutto è naturale. In alimentazione, poi... praticamente niente di quello che portiamo nel piatto ha una vaga parvenza di naturalità, se lasciassimo le risaie abbandonate a loro stesse il riso scomparirebbe dal mondo, così come le pecore o le mucche. Sono robe artificiali! Ma allo stesso tempo, dato che sono create dall’uomo, che è un animale, sono naturali.
Da qui rispondo alla domanda
CERTO che la dieta vegetariana è contro natura! La dieta vegetariana è possibile solo nel nostro mondo civilizzato e siamo fortunati a poterla seguire, perché abbiamo le conoscenze intellettuali e tecnologiche necessarie per poter fare questa scelta.
Ma anche la dieta mediterranea è artificiale... senza aver inventato la cottura non esisterebbero i legumi nel piatto, o i cereali, quindi niente pasta e pane.
Per non parlare di altre diete che richiedono integratori, come la paleodieta o la chetogenica.
Tra parentesi, in una dieta onnivora non c’è bisogno di B12 perché la B12 è presa dagli animali di allevamento con il loro mangime, quindi l’onnivoro non prende B12, ma la prende il suo cibo. Non è che sia poi così tanto naturale pure questo... ops, è sicuramente naturale, dato che è fatto dall’uomo.
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«Che hai, LaLaurie? Allergico alle femmine?»
Chiede con naturalezza, visti i suoi modi di non accennare a sedersi, o almeno non lì. Strano? Sicuramente no, ma ogni scusa è buona. «Su, siediti.» Fa anche cenno col capo in direzione davanti a sé. «Mi servi come cavia per una cosa. Niente di traumatico.»
L: « Non direi » per ora, non gli hanno diagnosticato nessuna allergia al gentil sesso « Ma ai tuoi esperimenti probabilmente sì. » Solleva un sopracciglio, studiandola dall’alto della propria seduta, l’espressione perfettamente distesa e unimpressed. « Dunque, posso sapere di che si tratta? »
Dallo zainetto la Corvonero estrae un contenitore in stoffa scura in velluto, grande circa quanto la sua mano, e successivamente da questo prende un mazzo di carte, che poggia sulla superficie dinanzi a sè «Tarocchi.» Giusto per fare capire che no, no stava cercando qualcuno per giocare a poker. «Non ce li ho da molto ma non ho neppure capito se mi piacciono. Per farlo ho bisogno di qualcuno, però.» E questo dovrebbe essere scontato. «Quindi? Te la devi ancora tirare o ci stai?»
L: L’interesse rimbalza per un paio di volte dalla compagna al mazzo di tarocchi « Cosa devo fare? » Un pizzico di perplessità, prima di tornare ad osservarla da dietro il bordo della tazza, impegnato a lasciar scivolare il liquido lungo la gola.
Le dita affusolate e tempestate di anelli di vario tipo intanto iniziano a mescolare in maniera non propriamente rapida, ma neppure goffa, quelle carte dal retro che presenta un pentagono a simboleggiare i quattro elementi. Inizia a spiegargli mentre le osserva. «Beh, nulla di particolare. Tu mi fai una domanda e io interpreto le carte che ti chiederò di scegliere. Può essere di qualsiasi tipo, ma... è meglio se si tratti di un consiglio. Per esempio, come devi agire in un particolare contesto, come raggiungere un certo obiettivo...» Butta tutte le ipotesi che le vengono in mente, finchè poi con un gesto rapido non stende tutte le carte coperte in un piccolo semicerchio, in fila. «È meglio che tu sia chiaro nella tua domanda per un’interpretazione migliore, ma non è necessaria la precisione se vuoi rimanere riservato.» Fa spallucce, poi un segno di avvicinarsi al tavolo Corvonero. «Scegli le carte. Quante vuoi, a istinto.»
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L: Soltanto lo sguardo scuro rimane fedele al focus iniziale: la MacGillivray, ascoltandola nel pieno del suo spiegone sui tarocchi e di quello che dovrà andare a fare lui, di lì a pochi istanti. C’è un attimo di silenzio tombale nel mezzo, dove sono le carte distese ad occupare la scena, più un rapido frullare di pensieri — o così potrebbe sembrare, dal momento che le sopracciglia del LaLaurie si abbassano nella tipica espressione di chi sta rovistando mentalmente, alla ricerca di chissà che cosa. « … » Consigli, dice lei. Consigli. Suono di un veloce risucchio d’aria all’interno dei polmoni, e « Voglio sapere se lo str*nzo figlio di Morgana avrà quello che si merita. » Chiarezza sia, senza mezzi termini e, d’altro canto, neanche dettagli superflui, con la voce che si tinge di una nota più brusca, emotionless, che potrebbe facilmente significare una qualche irritazione. Niente commentini indesiderati a fare da siparietto, piuttosto vede di mettere da parte la tazza, posizionandola sul vassoio, e selezionare le carte da cui si sente più attratto, di getto, trascinandole giusto di qualche centimetro verso di sé, senza girarle. Le muove solamente, per un totale di quattro tarocchi.
Gli occhi color tempesta, che sotto quella poca luce sembrano proprio un grigio sporco, si posano pazienti sul terzino, attenti ad ogni suo cambio d’espressione. Et voilà, evidentemente qualcuno si deve vendicare. Ma il fatto che non abbia seguito i suoi suggerimenti le fa inclinare le sopracciglia in basso, corrucciate. «Mh.» E il Serpeverde poi si avvicina scegliendo quattro carte, che almeno non sono troppe. «Ammetto che un po’ sono curiosa.» Un po’, eh. «Ma se ti ho chiesto di formulare in un certo modo è perchè non si tratta esattamente di prevedere il futuro, piuttosto di mostrarti un possibile scenario. Non so se mi spiego.» Poi toglie di mezzo tutte le altre carte, lasciando solo le quattro scelte, che avvicina a sé. «Ma apprezzo il fatto che tu sia andato al punto.» Meglio di niente, insomma. Ed ecco qua: Dorothy gira la prima carta lentamente per visualizzarne il contenuto, e così poi fa con le successive. Rimane in silenzio per qualche istante, giusto in tempo per ricordarsi bene quei significati. «Duuunque» inizia lo show «La prima carta è un Cavaliere di Coppe al contrario, e potrebbe mostrarmi questa persona di cui mi stai parlando. Un’energia maschile, a contatto con la propria emotività così tanto da farsi coinvolgere negativamente, se non riesce a mantenere il controllo. In un certo senso partiamo bene.» E poi «La seconda carta invece è la Ruota della Fortuna, che sostanzialmente indica un ciclo che va avanti con i suoi cambiamenti e suggerisce che tutto ciò che arriva ritorna indietro, sia esso positivo o negativo. Quindi, se questa persona ti ha fatto del male c’è una buona possibilità che il karma lavori a tuo favore.» Continua a picchiettare contro la superficie, pensierosa, finchè non indica proprio la terza carta. «Questa è la Luna. Rappresenta le illusioni, ma anche l’intuizione. I tarocchi ti suggeriscono quindi di agire celato nel buio e non alla luce del sole, se vuoi fargliela pagare. Devi confondere i tuoi nemici camuffando le tue intenzioni, quindi fa il doppio giochista, cerca di mettere su un piano di vendetta coi fiocchi.» E siamo arrivati all’ultima carta. «Questo invece è il Tre di Denari. Il seme dei denari rappresenta la materialità, ma anche il duro lavoro. Dovrebbe essere la carta della.. collaborazione e del lavoro di squadra: se riuscirai a trovare qualcuno di fidato che ti aiuti nella tua vendetta, il processo sarà più rapido.» Adesso sguardo tutto per il Serpeverde. «Alla fine ti ho comunque dato un consiglio su cosa fare, ma ripeto: c`è una buona possibilità che questa persona abbia "ciò che si merita"» giusto per citarlo, mentre prende anche le quattro carte per infilarle insieme alle altre nel mazzo. «In qualsiasi modo si sviluppi la vicenda dammi un feedback in futuro. Così almeno capisco come sto andando, che ne dici?»
L: « Se non è per fare delle previsioni, a che bolide dovrebbe servire la Divinazione? » Wait, è di quella che parliamo, sì? Bene ma non benissimo, finché la osserva voltare le carte una dopo l’altra e concentrarsi — lui, tuttora appollaiato sul tavolo e fornito di sopracciglia aggrottate, quasi al punto da adombrare le iridi nero pece. By the way, non sembra propenso a volersi perdere una singola parola della lettura, e così il punto finisce per rimbalzare dai tarocchi al volto della Bronzo–blu, ancora una volta. Non apre bocca, tradito soltanto da qualche battito di palpebre vario ed eventuale, fino al termine dell’intero monologo, momento in cui con estrema nonchalance ripesca la sua tazza dal vassoio, consumando una sorsata di tea caldo. « Quindi » ricomincia poi, dopo aver inghiottito « La risposta è sì? » Che tutti questi consigli mica glieli ha chiesti, forse già un’interpretazione concisa gli sarebbe andata a genio « Non c’è bisogno che mi scomodi perché » piccolo gesto non pervenuto della mancina, vago « Ci pensa il destino? » Tanto per capire se ha compreso il messaggio, nonostante qualcosa nell’espressione trasmetta una scintilla di perplessità. « Ok. » Alzata di spalle finale, con leggerezza, culminante nel tintinnare delle porcellane di piattini. « Comunque c’è dell’altro tea, se ne vuoi » nevica « E’ ancora caldo. » Mica glielo versa però, per quello esistono gli Elfi.
#terzoanno #lionel #tarocchi #cucine
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