#Morti 26 gennaio
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26 gennaio … ricordiamo …
26 gennaio … ricordiamo … #semprevivineiricordi #nomidaricordare #personaggiimportanti #perfettamentechic
2023: Sal Mistretta, Salvatore Vincent Mistretta, attore statunitense. Mistretta esordì sulle scene nel 1971. Dopo aver recitato accanto a Yul Brynner nel tour di The King and I e con Lauren Bacall nella tournée statunitense di Wonderful Town, nel 1976 Mistretta fece il suo debutto a Broadway. Durante gli anni settanta, ottanta e novanta Mistretta tornò ripetutamente a recitare e cantare a…
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L'attore Gene Hackman e la moglie Betsy Arakawa trovati morti in casa
E’ ben gradito un’applauso!!! Grazie Giovedì 27 febbraio 2025 L’attore Gene Hackman e la moglie Betsy Arakawa trovati morti in casa Gene Hackman con la moglie Betsy Arakawa Eugene Allen Hackman, detto Gene (San Bernardino, 30 gennaio 1930 – Santa Fe, 26 febbraio 2025), è stato un attore e scrittore statunitense. Vincitore di due Oscar su cinque candidature, quattro Golden Globe (di cui uno…

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"L'UNICA CHE NON SIETE RIUSCITI A BATTERE "..
"Nel '44 i Russi entrarono in Polonia e in un campo di concentramento trovarono il Generale Reverberi. Il comandante di un'armata russa lo mandò a chiamare.
"È lei", chiese, "il comandante della famosa Tridentina?".
"Sì, generale. Perché?".
"È stata l'unica divisione del settore Centro-Sud che ci è sfuggita. Volevo conoscerne il comandante".
"No", rettificò Reverberi, "non vi è sfuggita. È stata l'unica che non siete riusciti a battere".
… l'unica che non siete riusciti a battere...ricordo le parole che il Generale Reverberi mi disse qualche tempo prima di morire : "Ma quanto ci è costato?" Qualcuno ci aveva detto di andare oltre ma il nostro cuore ci ha portati qua. Si avanzava per andare a baita. Allora sì che abbiamo lottato per la nostra Italia, per le nostre valli, i nostri campi, le nostre donne.
Ci hanno detto che fummo meravigliosi. Forse sarà vero ma una lunga strada è stata segnata : ossa, zaini, scarponi, armi e sangue. Ora su queste cose il vento dondola i grani.
Il piombo russo, rimbalza sulle rotaie.
Arriva l’ordine: “Baionetta!”.
C’è di tutto lì in mezzo, il Generale Reverberi conta i suoi, gli servono tutti anche quelli senza munizioni.
Li conta, li guarda, sono bambini, Cristo Santo, ma non c’è speranza, se si vuol tornare a baita, di qua si deve passare.
Ma son più quelli che non ci sono che quelli che ci sono :
“Vestone, quanti siete?”.
Troppi pochi.
Val Chiese, Tirano, Edolo, ci siete?
Morbegno, dov’è il Morbegno?
Non c’è il Morbegno, non c’è più, è rimasto indietro.
E gli altri, dove sono? La Julia, la Vicenza, la Cuneense? La Julia c’è, è là : 4000 son rimasti appena ma gli altri dove sono?
Non ci sono.
Radunarsi, allora, munizioni, baionette, e i feriti? Anche loro, anche i feriti servono.
Tutti quelli che camminano, tutti quelli che possono sparare, tutti.
E così, sono le 15.30 in quel villaggio dimenticato da Dio, che nasce l’ultimo ordine del Generale Reverberi: “TUTTI I VIVI ALL’ASSALTO!”.
Chi va davanti ?”
“Vado io Signor Generale”.
Reverberi lo guarda, è il Colonnello Martinat, Capo di Stato Maggiore di Corpo, vuole andare in testa con l’Edolo.
È già ferito, se va all’assalto non ne esce vivo, ma lui vuole andare perché vuole morire in testa all’Edolo, perché era con l’Edolo che aveva iniziato la carriera.
Li raduna, li guarda.
“Io oggi muoio, ma voi no.
Coraggio, ragazzi, di là c’è l’Italia”.
Muore così Giulio Martinat rotolando grida: “Avanti, Edolo! Viva l’Italia!”.
Più a destra parte il Battaglione Vestone, Rigoni e Moreschi avanti con una mitraglia pesante entrano per primi a Nikolajewka con un solo ufficiale chiamato Danda, comincia a coprire l’attacco ma, ormai, pochi camminano.
Muore Raul, il primo che ho conosciuto sotto le armi, muore Marangoni, dietro il costone della ferrovia, e muore anche Guanì : “Sergentmagiù... me törne piö a baita”.
Ghe tornerem Giuaní, un di perché baita nostra non è su questa terra.
Giuanì sei morto portandomi le munizioni della pesante.
E gli altri? Il Val Chiese, il Bergamo, il Valtellina, dove son rimasti?
Son là, al costone, lo sbarramento dei russi li ha bloccati, Cristo Santo, ci inchiodano di nuovo.
È finita?
No!
Ed è allora che tutti lo hanno visto.
Uno solo saltare su un semovente tedesco in piedi in mezzo alle raffiche incrociate.
Il rumore della battaglia si è fatto silenzio.
Il silenzio solenne che vede nascere una leggenda:
Reverberi in piedi grida:
“AVANTI, TRIDENTINA! AVANTI!”
E allora avanti!
Una massa di sbandati va incontro alla sua ora di gloria.
Si passa, si passa!
Attraversano Nikolajewka lastricandola di morti perché ci sono 48° sotto zero e se ti pigliano sei morto.
Alle 5 è tutto finito: ci contiamo, siamo qua, siamo vivi ma siam pochi.
Chi non è passato con la prima ondata non passerà mai più.
Persa la Cuneense, persa la Vicenza, persa buona parte della Julia, ma noi, noi ce l’abbiamo fatta.
Un giorno di gloria che ha dato valore ad una intera vita.
Questo fu il 26 gennaio 1943.
Questa fu la Battaglia di Nikolajewka
Mario Rigoni Stern
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Guerra in Palestina: la risposta dell'Università Federico II
La guerra in Palestina ha aperto un dibattito a livello internazionale di cui molte università, in Italia e nel mondo, sono protagoniste. Lo dimostrano le proteste degli studenti, i documenti ufficiali delle facoltà e le decisioni in merito ai bandi di collaborazione con Israele. In questo dibattito ha voluto inserirsi anche l'ateneo napoletano Federico II con un documento ufficiale che pubblichiamo integralmente. Guerra in Palestina: il testo dell'Università Federico II Il documento della Federico II si apre con la totale condanna dell'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Di contro, non può non considerare la risposta di Israele come eccessiva. Il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha causato la morte di 1200 civili, in gran parte giovani, donne e bambini, e il rapimento di oltre 250 israeliani, la gran parte dei quali, ormai, debbono annoverarsi tra le vittime. Un orrore! Il governo israeliano ha però risposto con una ancor più brutale serie di interventi armati e di bombardamenti a Gaza e in ampie zone della Cisgiordania che hanno prodotto, ad oggi, oltre 35.000 morti e quasi 74.000 feriti. Secondo l’ONU l’80% di queste vittime sono donne e minori. Il blocco degli aiuti umanitari e la totale distruzione delle infrastrutture civili che ne sono seguite – tra queste tutte quelle educative – ha causato una crisi umanitaria senza precedenti, in una delle zone più densamente abitate del Medio Oriente. L’Organizzazione delle Nazioni Unite e l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno più volte parlato di una situazione “fuori controllo”. La Corte internazionale di Giustizia sulla guerra in Palestina Il documento prosegue ricordando le misure adottate nei confronti di Israele dalla Corte internazionale di Giustizia. Con l'ordinanza n.192 del 26 gennaio 2024 la Corte internazionale di Giustizia ha adottato misure cautelari nei confronti dello stato di Israele sulla base del ricorso del Sud Africa, cui si è di recente unito anche l’Egitto, di violazioni della Convenzione contro il crimine di genocidio.Questi eventi debbono essere compresi, sebbene non giustificati, nel quadro di un conflitto di lungo periodo che ha visto fallire tutti i diversi piani di pace elaborati dalle istituzioni internazionali, e che vede disattese le oltre 69 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite concernenti la Palestina e/o Israele. Tra queste, la risoluzione n. 465 che condanna la politica di colonizzazione dei territori occupati da parte di Israele, chiedendo la cessazione della pianificazione di nuovi insediamenti e lo smantellamento di quelli esistenti. Finanche la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 25 marzo 2024 (n. 2728) che chiede il cessate il fuoco è stata ignorata. Assistiamo invece al rischio di una ulteriore escalation delle violenze, con l’operazione militare israeliana a Rafah, con l’inasprimento del conflitto in Libano meridionale, e in Iran e la sua estensione in altre aree del Medioriente. La guerra come mezzo di soluzione dei conflitti Non dimentichiamo, prosegue il testo, la guerra in atto in Palestina va ad aggiungersi a tanti altri conflitti che si stanno consumando in altre parti del mondo. Questo conflitto si affianca alla guerra in corso dal febbraio 2022 seguita all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e ai tanti altri che segnano il nostro presente. Di qui la crescente corsa al riarmo e all’aumento delle spese militari, che coinvolge anche i paesi europei, e tra questi il nostro. Nel solco dell’articolo 11 della nostra Costituzione, lo Statuto del nostro Ateneo all’art. 9. dichiara che “L'Università avversa l'utilizzo dei risultati delle proprie attività per applicazioni che perseguano scopi contrari ai principi della dignità e libertà dell'uomo e della pacifica convivenza fra i popoli”. Proprio in momenti nei quali la guerra sembra tornata a essere strumento ordinario di risoluzione dei conflitti internazionali, e in cui la ricerca scientifica e tecnologica rischia di essere sempre più utilizzata a fini bellici, è necessario ribadire l’impegno del sistema Universitario, e del nostro Ateneo (il cui fondatore si rese protagonista nella prima metà del XIII secolo della cosiddetta “crociata della pace”), a favorire e sostenere una visione alternativa della politica, della società e della convivenza. A partire dalla regolamentazione delle ricerche o loro applicazioni dual use, tenuto conto della stessa Raccomandazione (UE) 2021/1700 della Commissione del 15 settembre 2021 sui programmi interni di conformità relativi ai controlli della ricerca riguardante prodotti a duplice uso. Il ritorno dei nazionalismi La libertà di espressione del pensiero, come afferma l'Università, rischia di essere completamente soffocata dall'emergere di nazionalismi e di pulsioni razziste. Viviamo ormai in un contesto di nazionalismi sempre più violenti, di crescenti e intollerabili pulsioni antisemite, antiarabe, xenofobe, e di preoccupante repressione del dissenso e di censura al dibattito pubblico – di sua militarizzazione – anche nelle democrazie ritenute più solide. Non è un caso che a più riprese il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, abbia richiamato tutte le istituzioni pubbliche, in particolare il Governo, a garantire il diritto di espressione “anche contro il potere” e il diritto al dissenso. Il nostro statuto, del resto, all’articolo 3 afferma che “L'Università garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, di associazione e di riunione, allo scopo di realizzare il pieno concorso di tutte le sue componenti alla vita democratica dell'Ateneo”. L'impegno dell'Università Federico II E' in questa cornice che vanno inquadrate le richieste degli Organi dell'Università federiciana al Rettore e agli organi di Governo dell'Ateneo. A partire da queste riflessioni; sollecitati anche dal recente intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in occasione della “Giornata del Laureato” presso la Sapienza di Roma, ha ribadito che “tutte le violazioni dei diritti umani vanno denunciate e contrastate. Tutte, ovunque, sempre”; e sulla base di principi già espressi dal nostro Statuto oltre che dalla Costituzione Italiana, chiediamo al Magnifico Rettore e agli organi di Governo dell’Ateneo di prendere una posizione pubblica sugli eventi in corso, facendo risaltare l’impegno dell’Ateneo: - a favore dell’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza e nei territori occupati; a sostegno di iniziative politiche e culturali di pace e di dialogo tra i popoli; - a favore dell’allargamento del confronto e del dibattito pubblico, nonché degli spazi di approfondimento e di analisi degli eventi in atto e delle loro radici storiche, economiche, culturali; - a favore di una riflessione sui principi etici e deontologici che devono orientare le attività di ricerca, didattica e di terza missione/impatto sociale e la stipula di accordi internazionali del nostro Ateneo; - a favore dell’attivazione di accordi bilaterali con le università palestinesi in modo da poter sostenere percorsi di studio di studentesse e studenti palestinesi anche tramite l’erogazione di borse di studio e corsi di didattica in remoto. In copertina foto da Depositphotos Read the full article
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27 gennaio, una data da non dimenticare per Fiume
Il 27 gennaio 2024 ricorre il centesimo anniversario di un avvenimento negletto dal secondo dopoguerra ad oggi, ma che all’epoca suscitò entusiasmo e manifestazioni di giubilo in tutta Italia. Veniva infatti firmato quel giorno il cosiddetto “Patto di Roma” con cui il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi-Croati-Sloveni (che divenne poi la futura Jugoslavia) si spartivano di comune accordo il territorio del minuscolo “Libero Stato di Fiume”.
Creato a seguito del trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 fu una creatura nata morta. Fiume, fino al 1918 Corpus separatum della corona di Santo Stefano (l’odierna Ungheria) era città prettamente italiana che si affacciava sulle rive del golfo del Quarnaro, circondata però da un entroterra a predominanza slava. Il trattato di Londra del 26 aprile 1915 con cui il regno d’Italia s’impegnava ad entrare in guerra contro le potenze centrali gli garantiva cospicui compensi territoriali ma improvvidamente il ministro degli esteri italiano Sidney Sonnino non aveva reputato di richiedere tra essi anche la città liburnica. Il 30 Ottobre 1918 il consiglio comunale in carica di Fiume, denominatosi “Consiglio Nazionale Italiano” proclamava all’unanimità (compresi i consiglieri eletti nelle liste del locale partito autonomista di Riccardo Zanella) l’unione della città alla madrepatria italiana.
La città nel novembre 1918 fu raggiunta dalle truppe del regio esercito ma contemporaneamente la Francia, che mirava ad usare la città come base navale, vi insediò un contingente di truppe coloniali annamite. Il presidente americano Woodrow Wilson si palesò subito fermamente contrario a concedere Fiume all’Italia per motivi di ritorno elettorale (puntava molto per essere rieletto sul voto degli immigrati slavi negli USA ) e anche per un certo arrogante manicheismo, decisamente ingenuo e fuori luogo nel contesto della conferenza di pace di Versailles, dove aveva visto e permesso a Francia ed Inghilterra di tutto e di più. Ben presto scoppiarono disordini tra i cittadini fiumani, spalleggiati dai Granatieri di Sardegna, e le truppe francesi: nel luglio 1919 scontri provocati dai soldati francesi portarono all’uccisione di alcuni soldati dell’esercito transalpino. I granatieri furono allontanati dalla città e sostituiti con altre truppe meno “solidali” con i fiumani.
Il 12 settembre 1919 Gabriele d’Annunzio, il poeta soldato, alla guida di un reggimento dei granatieri ed altre truppe raccolse il grido di dolore dell’infelice città e vi si insediò tenendo alta la fiaccola dell’italianità fiumana fino al “Natale di sangue” 1920 quando fu scacciato dal regio esercito in ottemperanza appunto al trattato di Rapallo. Insediatosi nel 1921 il governo zanelliano il nuovo staterello fu subito e continuamente scosso da feroci scontri tra i cittadini che volevano l’annessione all’Italia ed i sostenitori di Zanella. Nel 1922, dopo ulteriori feroci scontri con morti e feriti, Zanella abbandonava la città rifugiandosi nella vicina Sussak, sotto l’ala protettrice di Belgrado.
Vennero alfine intavolate trattative che portarono alla divisione del territorio conteso: la città a maggioranza italiana passava al Regno d’Italia, cui era unita da una stretto corridoio che andava da Volosca a Borgomarina, nei sobborghi occidentali della città; l’entroterra con il Delta (posto tra l’Eneo e la Fiumara, ad est della città, ove erano posti i magazzini maggiori del porto e il binario della ferrovia che univa Fiume all’entroterra mitteleuropeo) e porto Bàross (per gli italiani porto Nazario Sauro, foraneo al porto principale di Fiume) passavano al regno serbo-croato-sloveno.

Il 16 marzo 1924 l’annessione veniva sancita dalla visita in città del Re Vittorio Emanuele III di Savoia: veniva così coronato, purtroppo solo temporaneamente ed in modo incompleto, il sogno dei cittadini della “città olocausta”, come la definì d’Annunzio.
Franco Pizzini Sezione di Venezia dell’Associazione Nazionale Alpini Capogruppo alpini di Fiume d’Italia
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Israele-Hamas, media: "Raggiunta un'intesa di massima sulla liberazione degli ostaggi"
26 gennaio 2024 00:13 TEMPO REALE Secondo quanto riporta Haaretz l’accordo durerà 35 giorni: verranno rilasciati tutti gli ostaggi israeliani e Israele libererà i prigionieri palestinesi. Aiuti umanitari a Gaza. Resta il nodo sul cessate il fuoco 26 gen 01:18 Gaza, media: 11 morti in raid Israele su campo Nuseirat 26 gen 00:39 Media: “Raggiunta un’intesa di massima sulla liberazione degli…
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17 gen 2024 18:26
“SONO CONTRARIO A QUALUNQUE FORMA DI SANZIONE PENALE NEI CONFRONTI DI CHI SI ESERCITI NEL SALUTO ROMANO” – LO STRAORDINARIO ARTICOLO DI LUIGI MANCONI PER ‘REPUBBLICA’: “RESTA IMPREGIUDICATA LA PIENA LIBERTÀ DI PENSIERO QUANDO SI TRATTI DI MERA ESPRESSIONE DI IDEE, COMPRESE LE PIÙ IGNOBILI” -L’ATTO DI ACCUSA ALLA SINISTRA CHE HA DIMENTICATO DI COMMEMORARE I SUOI GIOVANI MORTI PER MANO DEI TERRORISTI NERI – “È IL RISULTATO DI UNA CERTA TENDENZA ALLA SMEMORATEZZA DA PARTE DELLA CULTURA E DEL SENSO COMUNE DI SINISTRA, RESI FRAGILI DA UNA ROVINOSA CRISI DI IDENTITÀ” -
Luigi Manconi per La Repubblica - Estratti
Nei giorni successivi alla manifestazione neofascista dello scorso 7 gennaio ho avvertito forte la tentazione di replicare come segue: e allora Valerio Verbano? Il 22 febbraio del 1980, il diciannovenne Verbano venne ucciso, nella propria abitazione, da un commando di tre uomini che, dopo aver legato e imbavagliato i genitori, attesero il suo ritorno da scuola.
Quegli assassini non furono mai individuati. Poi, alla mia mente sono tornati i nomi di Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli e quelli di Walter Rossi, Roberto Scialabba, Claudio Varalli, Alceste Campanile, Francesco Mangiameli e altri ancora. Tutti militanti di sinistra uccisi da neofascisti, in genere rimasti impuniti.
Mi rendo conto che la mia è una reazione umorale e regressiva: ripropone ancora una volta una cupa aritmetica delle vittime, che dovrebbe portare a sancire il primato dei morti di una parte rispetto ai morti della parte avversa. Ragionando in questo modo non si fa altro che riprodurre una logica perversa che rinnova il risentimento e ripropone una inesausta pulsione di vendetta. E, invece, penso che una simile spirale debba essere interrotta il prima possibile.
Non mi sembra che vadano in questa direzione le parole di Francesco Storace che, intervistato dal Corriere della Sera, non esprime alcun sentimento di compassione verso le vittime uccise dai militanti della sua parte politica; e racconta che anche oggi «per noi di destra la vita è ancora complicata»: ennesima manifestazione del vittimismo dei privilegiati. E, invece, gente come noi, passata attraverso esperienze di violenta contrapposizione e ormai anziana, dovrebbe svolgere un ruolo di mediazione e di “disarmo” mentale, senza ammiccamenti e retropensieri, sfuggendo alla conta efferata di chi ha più morti. E rispettando le vittime della violenza politica dell’uno e dell’altro fronte, allora nemici e oggi — ci si augura — solo avversari: anche irriducibili e acerrimi avversari.
Ma torniamo ai fatti di Acca Larentia.
Sono risolutamente contrario a qualunque forma di sanzione penale nei confronti di chi si eserciti nel saluto romano in quelle circostanze: e proprio perché quel saluto assume la forma di un rituale funebre in omaggio a persone delle quali si condividono l’identità politica e i valori. Insomma, non penso che si debba promuovere l’azione repressiva contro una cerimonia che ha tutti i connotati di una commemorazione. Certo, anche di natura politica ma, ancorché pubblica, piegata al proprio interno e all’interno della propria comunità.
E carente, dunque, di quella valenza istigativa o di quel rischio emulativo che ne giustifica la sanzione penale, nel rispetto dei principi di materialità e offensività delle norme incriminatrici. Penso che diversamente vada valutato il ricorso al saluto romano quando sia collegato all’uso della violenza o quando si riveli strumento di istigazione alla commissione di reati. A quel punto il nesso tra parole e gesti e atti criminali va considerato sotto il possibile profilo penale.
E sono altrettanto contrario allo scioglimento d’autorità di organizzazioni come CasaPound (diverso è il caso di Forza Nuova, che sembra non estranea ad attività terroristiche), in quanto ritengo che una eventuale sua “clandestinizzazione” risulterebbe ancora più pericolosa per la vita democratica.
Resta impregiudicata la piena libertà di pensiero quando si tratti di mera espressione di idee, comprese le più ignobili. Ma il discorso non si ferma qui.
(...)
Non avviene altrettanto a sinistra. Con pochissime eccezioni le vittime della violenza neofascista sono state consegnate all’oblio. È il risultato di una certa tendenza alla smemoratezza da parte della cultura e del senso comune di sinistra, resi fragili da una rovinosa crisi di identità. Da qui l’incapacità di fare, di quei lutti, un calendario civile delle ricorrenze.
All’opposto, il minoritarismo neofascista conserva una sua vitalità (non solo criminale) e trova nel suo inveterato culto della morte un ulteriore motivo per la sua vocazione funeraria e martirologica. È questa impossibilità di elaborare il lutto di quegli anni di “guerra civile simulata” che rende insidiosa la coreografia fascistica, in quanto alimenta il rancore e il revanscismo. E impedisce che la ferita possa suturarsi.
Sono trascorsi decenni e se non saremo capaci di collocare storicamente quelle morti, consegnandole a un passato che non dovrà mai più ripetersi e a una memoria senza vendetta, quella crudele vicenda rischia di non avere mai fine.
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La Signora delle Dodici Notti, protettrice delle campagne

Con la notte tra il 25 e il 26 dicembre iniziano nel Nord Italia quelle che sono dette come le notti della Redodesa, dette anche le dodici notti. Per rispetto della Redodesa, in queste sere è proibito filare, e dopo il tramonto si deve rincasare molto presto, oppure ci sarà ruzzolone o scivolata sulla diàc, cioè ghiaccio, provocata dalla Signora, che richiedere che in questo periodo le famiglie riflettano sulla nascita di Nostro Signore e preghino insieme. La Redodesa è uno spirito femminile coperto da un lungo mantello nero che ne nasconde il volto, noto anche come la signora delle dodici notti tra Nadàl (Natale, il 25 dicembre) e la“Festa de i Trèi Redi (Epifania, il 6 gennaio). In queste notti, e soprattutto con le vigilia dell’Epifania, lo spirito controlla che nelle case le donne siano delle brave massaie, e che la dimora domestica sia in perfetto stato di pulizia, soprattutto per la festa dell’Epifania. Inoltre la donna viene accompagnata ogni anno nell’ultima delle sue notti, quella fra il 5 e il 6 gennaio, dai dodici Rodesegoti, che altro non sarebbero che le personificazioni dei mesi dell’anno, ma anche il simbolo dei bambini morti prematuramente che la Redodesa porta nel suo giardino. Attraversando con loro, fiumi, torrenti e rivi, le acque magicamente si fermano al passeggio del corteo e, una volta che si ritirano, nascono dei fiori bellissimi e rari vicino al fiume. La Redodesa è anche appunto, nelle valli tirolesi, nota come la signora dei bambini morti, delegata a raccogliere le anime dei fanciulli morti prematuramente, fenomeno che un tempo era molto presente, e a portarle nel suo bel giardino. Questa credenza si lega all’antico mito della dea nordica Frigga o Frida, moglie del dio Odino che nel folclore germanico, con la cristianizzazione, venne trasformata in Frau Holle” o “Frau Brechta, spirito dei monti, regina delle nevi e protettrice dei neonati, al punto che ne muore uno lo reclama per portarlo nel giardino. In area ladina e romanza questa figura è divenuta la Redodesa, la cui protezione, con un filo di nebbia, viene data ai campi nelle prime notte d’inverno. Read the full article
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Migranti, la strage non si ferma: 289 bambini sono morti nel Mediterraneo finora quest’anno
DIRETTA TV News su migranti e sbarchi in Italia 15 Luglio 2023 L’Unicef stima che da gennaio a giugno 2023, nel Mediterraneo siano morti 289 bambini che cercavano di raggiungere l’Europa. Sono 11 a settimana. Il ritmo degli arrivi non accenna a rallentare – sono 75mila in Italia dall’inizio dell’anno – e così salgono anche in morti in mare. 2 CONDIVISIONI immagine della strage di Cutro, 26…

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Quesito Salve Padre Angelo, intanto la ringrazio per la disponibilità che ha nel rispondere ai quesiti che le vengono posti, leggo molte sue risposte sul portale di ‘amici domenicani’. Sono Riccardo, un ragazzo di 26 anni. Fin da bambino i miei genitori mi hanno trasmesso il valore della fede e ho sempre frequentato il convento del mio paese. Dall'età adolescenziale fino ai 20 anni mi sono allontanato da Dio. Quando capitava l’occasione commettevo atti impuri, grazie a Dio non ho perso la castità. Ero arrogante, presuntuoso, vendicativo, rancoroso, ribelle, vanitoso. Non conoscevo il valore della preghiera, difatti non pregavo mai. (…). Nel gennaio del 2016 leggendo “per caso�� un articolo su Medjugorje ho sentito nel mio cuore una voce che mi diceva “Sei felice? Se vivrai in questo modo non sarai mai felice e ti perderai. Sii coerente con i tuoi valori. Non temere”. Lì è iniziata la mia conversione, con un pianto di gioia. Da quel momento ho iniziato a confessarmi settimanalmente, a fare la comunione, ad andare ogni domenica a messa, a praticare la castità prematrimoniale, a pregare, a migliorare diversi lati del mio carattere. La mia ragazza notava questo cambiamento e, anche se non mi ha mai detto niente, intuivo che non le andava bene, difatti mi ha lasciato. A causa della conversione ho perso amici e nello stesso tempo ne ho trovati altri, alcuni mi hanno giudicato, altri deriso del fatto che volessi conservare la castità, ma a me non importa perché sono felice di seguire Gesù e Maria. Ho avuto diverse frequentazioni con diverse ragazze, ma non ho trovato in loro dei valori su cui costruire una relazione, ho parlato della mia fede e della castità prematrimoniale, ma non ho avuto da loro un riscontro positivo. Mi sono laureato da poco in ingegneria civile, vorrei poter trovare un lavoro e una ragazza con cui iniziare a costruire un progetto di famiglia. Nel rosario metto quest’intenzione, chiedo alla Madonna di aiutarmi, tuttavia Padre Angelo sono un po’ scoraggiato, perché vedo intorno a me un vuoto di valori e temo di non riuscire a trovare una ragazza con cui condividere un amore casto e un progetto di famiglia. La ricordo nella preghiera del Santo Rosario, Dio la benedica. Con affetto, Riccardo Risposta del sacerdote Caro Riccardo, 1. purtroppo non posso negare la constatazione che attorno a te vedi un vuoto di valori. Tale vuoto dipende dal fatto che non è presente Dio nella vita di molte persone. Giovanni Paolo II disse oggi si assiste ad una apostasia di massa e che la gente vive senza pensare al proprio destino eterno. 2. È proprio l'obiettivo della vita eterna ciò caratterizza il senso della vita presente. Se si eclissa questo obiettivo, crolla anche la morale, fatta eccezione di quella che si limita a non fare agli altri quello che non si vuole fatto a sé. San Paolo ricorda che se viene meno l'obiettivo ultimo della nostra esistenza è inevitabile che si viva alla ricerca di qualche piacere. Dice: “Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (1 Cor 15,32). 3. Ora, tra i piaceri sensibili, i più forti sono quelli legati alla sessualità. Questo di per sé non è un male, perché lo ha disposto Dio. Gli antichi teologi dicevano che Dio premia anche attraverso il piacere ciò che si fa per mantenere se stessi in vita e ciò che si fa per la sussistenza del genere umano. 4. Il problema è che oggi la sessualità viene sganciata dagli obiettivi intrinseci che Dio le ha fissato e che sono inerenti alla nostra stessa natura. L'esercizio della sessualità è finalizzato al dono sincero e totale di sé. Nel dono totale di sé è racchiusa in maniera ineliminabile la finalità procreativa. Ma oggi non ci si vuole impegnare nel dono totale di sé, che è di per se stesso esclusivo nei confronti dello sposo o della sposa. 5. È per questo che l’esercizio della sessualità oggi è sganciato sia dall'amore, a meno che non sia quello momentaneo, sia dalla procreazione. Ma q
uesto non è senza conseguenze. San Tommaso afferma che “a motivo del peccato di lussuria vediamo che l’uomo massimamente si allontana da Dio” (Commento in Giobbe, lez. 31, inizio) e che “dalla lussuria deriva la cecità della mente, che elimina quasi del tutto la conoscenza dei beni spirituali, mentre dalla gola deriva l’ottusità del senso, che rende l’uomo debole nella considerazione di questi beni. Al contrario le virtù opposte dell’astinenza e della castità dispongono l’uomo alla perfezione della vita spirituale. Per cui in Daniele si legge che ‘a questi giovani’, casti e astinenti, ‘Dio conferì scienza e cognizione in ogni specie di libro e di sapienza’ (Dan 1,17)” (Somma teologica, II-II, 15, 3). 6. Tuttavia non scoraggiarti perché abbiamo dei mezzi che possono aprire varchi insperati e toccare il cuore di tante persone. Alludo a quanto ha scritto Santa Teresa di Gesù bambino: “Ah, preghiera e sacrificio formano tutta la mia forza, sono le armi invincibili che Gesù mi ha date, toccano le anime ben più che i discorsi, ne ho fatto esperienza spesso” (Storia di un’anima, 315). E ancora: “Come è grande la potenza della preghiera! La si direbbe una regina la quale abbia ad ogni istante libero adito presso il re e possa ottenere tutto ciò che chiede” (Ib., 317). 7. A questo proposito ti raccomando la preghiera del Santo Rosario, che già fai. Impegnati a dirlo quotidianamente. Il beato Bartolo Longo nella sua novena alla Madonna del Rosario per ottenere qualunque grazia scrive: “Tu già promettesti a San Domenico che chi vuol grazie, con il tuo Rosario le ottiene; e io, con il tuo Rosario in mano, oso ricordarti, o Madre, le tue antiche promesse”. Vedrai che la Madonna, che Gesù ti ha dato per madre, non ti deluderà. Alla tua preghiera aggiungo volentieri la mia. Insieme con gli auguri di un sereno e Santo Natale, ti auguro ogni bene e ti benedico. Padre Angelo
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“ Le «vittime di Nord-Ost», come le chiamano oggi – cioè le famiglie che hanno perso qualcuno durante l’assalto [del teatro Dubrovka], e gli ostaggi che il 26 ottobre [2002] hanno riportato delle menomazioni –, hanno citato in giudizio per danni morali lo Stato, e il Comune di Mosca nella fattispecie. Le vittime sostengono che, per evitare dissapori con Putin e l’FSB, le autorità locali non avevano provveduto a organizzare un’assistenza medica adeguata e tempestiva. Le responsabilità si fanno ancora più gravi se si considera che il sindaco della capitale – nonché capo del potere esecutivo cittadino – Jurij Lužkov è stato tra i pochi a far pressione sul presidente affinché usasse le armi chimiche contro i suoi concittadini. Le prime denunce vennero presentate nel novembre del 2002 al tribunale Tverskoj di Mosca (un tribunale di distretto, lo scalino più basso della gerarchia). Il 17 gennaio del 2003, quando il giudice federale Marina Gorbačëva esaminò i primi tre casi, il numero delle denunce era salito a sessantuno e l’ammontare dei danni richiesti era l’equivalente in rubli di sessanta milioni di dollari: il prezzo della «menzogna di Stato» dichiarava la parte lesa. Quel che chiedevano, infatti, era di «conoscere le vere ragioni per cui i loro cari erano morti», una verità che non riuscivano a strappare in quanto l’FSB aveva segretato ogni informazione sul caso. Avendo essi chiamato in causa quell’FSB in cui anche Putin aveva prestato servizio e che il presidente continuava a tutelare, la vigilia delle udienze si svolse in un clima incandescente di propaganda sfrenata dei mass media ai danni dei querelanti. Le autorità li accusarono pubblicamente di voler svuotare le casse dello Stato, di voler «mettere le mani sui soldi dei pensionati e degli orfani» e di voler lucrare sulla morte dei propri cari. Igor’ Trunov, l’avvocato che aveva accettato di difendere le «vittime» (i nomi più altisonanti avevano rifiutato, temendo le ire del Cremlino), venne fatto oggetto di nefandezze di ogni sorta e accusato dei crimini peggiori. Insomma, le autorità fecero di tutto, usarono ogni potente mezzo a loro disposizione per intimidire i querelanti. Volevano passare per vittime. E invece erano carnefici. “
Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi (collana Gli Adelphi, n°639), 2022⁴; pp. 303-304.
[1ª Edizione originale: Putin’s Russia, The Harvill Press, London (UK), 2004]
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26 gennaio … ricordiamo …
26 gennaio … ricordiamo … #semprevivineiricordi #nomidaricordare #personaggiimportanti #perfettamentechic
2017: Barbara Hale, attrice statunitense. (n. 1922) 2016: Abe Vigoda, Abraham Charles Vigoda, è stato un attore statunitense, conosciuto soprattutto per il ruolo di Tessio nel film Il padrino. (n. 1921) 2011: Mario Scaccia, attore italiano di cinema e teatro. (n. 1919) 2011: John Herbert, John Herbert Buckup, è stato un attore, regista e produttore cinematografico brasiliano. Herbert fu…
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Piero Calamandrei, "Discorso sulla Costituzione agli studenti di Milano del 26 gennaio 1955"
L’articolo 34 dice “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
Eh! E se non hanno i mezzi?
Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo che è il più importante, il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo, impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi.
Dice così: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo dpiero calamandreiella persona umana. Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti. Dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questa formula corrisponderà alla realtà.
Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e studiare e trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa eguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una eguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale. Non è una democrazia in cui tutti i cittadini siano veramente messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro migliore contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società; e allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà; in parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinnanzi!...
Però vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove; perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. L’indifferentismo che è, non qui per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghi strati, in larghe categorie di giovani, un po’ una malattia dei giovani: l’indifferentismo. “La politica è una brutta cosa. Che me ne importa della politica?”
Ed io, quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: - Ma siamo in pericolo?- E questo dice- Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda -. Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice – Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda -. Quello dice – Che me n’importa? Unn���è mica mio!- Questo è l’indifferentismo alla politica.
E’ così bello, è così comodo, è vero? è così comodo! La libertà c’è, si vive in regime di libertà. C’è altre cose da fare che interessarsi di politica! Eh, lo so anche io, ci sono…Il mondo è così bello vero? Ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica!
E la politica non è una piacevole cosa: Però la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica…
Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra, metteteci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo, che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo.
Ora, vedete, io ho poco altro da dirvi. In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, tutte le nostre sciagure, le nostre glorie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane… E quando io leggo nell’art. 2 “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; o quando leggo nell’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle altre patrie…ma questo è Mazzini! Questa è la voce di Mazzini! O quando io leggo nell’art. 8: “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour! O quando io leggo nell’art. 5: “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo!; o quando nell’art. 53 io leggo a proposito delle forze armate: “l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, esercito di popolo; ma questo è Garibaldi! E quando leggo nell’art. 27: “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani…
Ma ci sono anche umili voci, voci recenti!
Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ad ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta,
Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.
#Calamandrei#Piero Calamandrei#costituzione#principi costituzionali#libertà#responsabilità#impegno#politica#risorgimento#partigiani#resistenza#uguaglianza
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WIKILEAKS E I SEGRETI DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN Negli “Afghan War Logs” rivelati dall’organizzazione di Julian Assange uno squarcio di verità senza precedenti sul conflitto afgano. Un estratto dal libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks” di Stefania Maurizi, da oggi in libreria per Chiarelettere. Stefania Maurizi 26 Agosto 2021 […] Il 25 luglio 2010 WikiLeaks pubblicò gli «Afghan War Logs», che mandarono il Pentagono su tutte le furie. I file erano 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Aprivano uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. […] Pochi mesi prima della pubblicazione di questi documenti, l’organizzazione di Julian Assange aveva pubblicato un memorandum riservato [1] della Cia, datato 11 marzo 2010. Non aveva fatto grande scalpore, eppure era importante perché spiegava le strategie da usare per scongiurare il rischio che l’opinione pubblica francese e tedesca si rivoltasse contro la guerra, chiedendo il ritiro dei loro militari. (...) Per quanto rilevante, questo documento non aveva avuto un grande impatto, quando però il 25 luglio 2010 WikiLeaks rivelò gli Afghan War Logs, i documenti furono rilanciati in tutto il mondo e la reazione del Pentagono fu durissima. Una straordinaria finestra sul conflitto I 76.910 documenti segreti descrivevano la guerra come mai prima era stato possibile. Si trattava di brevi relazioni compilate dai soldati statunitensi che combattevano sul campo. Contenevano informazioni fattuali, incluse latitudine e longitudine dei luoghi in cui erano avvenuti scontri, incidenti e stragi di civili, il tutto descritto con data e ora esatta e in un gergo militare stretto. I file registravano in tempo reale gli eventi significativi (SigActs, significant activities) dal gennaio del 2004 al dicembre del 2009, ovvero negli anni che andavano dal secondo mandato presidenziale di George W. Bush fino al primo anno dell’amministrazione di Barack Obama. Ogni unità e avamposto presente sul teatro di guerra doveva relazionare in modo estremamente sintetico su: attacchi subiti, scontri, morti, feriti, rapiti, prigionieri, fuoco amico, messaggi di allerta e informazioni sugli Improvised explosive devices (Ied), gli ordigni improvvisati piazzati lungo le strade e azionati a distanza che facevano strage di civili e soldati. Ognuno dei report era come un’istantanea che fissava in un preciso momento e in un determinato luogo geografico il conflitto in Afghanistan. Mettendo insieme tutte le istantanee, soldati e intelligence potevano avere una visione completa della guerra, così come si sviluppava sul campo azione dopo azione, in modo da poter fare piani operativi e analisi di intelligence. I rapporti erano compilati dai soldati dell’esercito americano, lo Us Army, quindi erano il loro racconto del conflitto. Non contenevano informazioni di eventi top secret, perché si trattava di documenti classificati al livello secret. I documenti lasciavano emergere per la prima volta centinaia di vittime civili mai computate: il quotidiano inglese «The Guardian» aveva contato almeno 195 morti e 174 feriti, ma aveva fatto notare che il dato era sicuramente sottostimato. I file aprivano anche uno squarcio sulla guerra segreta che si combatteva con unità speciali mai conosciute prima di allora, come la Task Force 373, e con i droni, gli aerei senza pilota che, comandati dai soldati americani che si trovavano in una base del Nevada, uccidevano in posti remoti come l’Afghanistan. La Task Force 373 era un’unità d’élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono e aveva come missione quella di catturare o uccidere combattenti di alto livello di al Qaeda e dei talebani. La decisione di chi catturare e chi ammazzare in modo stragiudiziale, ovvero senza alcun processo giudiziario, appariva completamente affidata alla task force [2]. Il valore degli Afghan War Logs rivelati da WikiLeaks stava proprio nel far emergere i fatti che la macchina della propaganda del Pentagono nascondeva e le oscure operazioni della Task Force 373 erano uno degli esempi. La brutalità con cui queste forze speciali agivano nella notte aveva portato a sterminare forze afghane alleate, donne e bambini. Questo tipo di attacchi contribuivano a creare un forte risentimento nelle popolazioni locali contro le truppe americane e della coalizione. Ma nelle dichiarazioni ufficiali dei militari il nome della Task Force 373 non compariva mai e, come il «Guardian» aveva ricostruito, (3) venivano nascoste informazioni per coprire errori e stragi di innocenti. Durante una delle loro operazioni, per esempio, i soldati della Task Force 373 avevano ucciso sette bambini. La notizia della loro morte era stata data in un comunicato stampa della coalizione, ma senza spiegare il contesto in cui era avvenuta. Nessuno aveva raccontato che quelle forze speciali, spesso, non avevano letteralmente idea di chi ammazzavano, come in questo caso: avevano sparato cinque missili contro una scuola religiosa, una madrasa, convinti di colpire un leader di al Qaeda, Abu Laith al-Libi. In un altro, invece, avevano sterminato sette poliziotti afghani e ne avevano feriti quattro, convinti di colpire gli uomini di un comandante talebano. (...) I file rivelavano anche un’altra informazione mai emersa prima pubblicamente: dalle ricerche del «New York Times» nel database risultava che i talebani avevano ottenuto missili terraaria trasportabili e a ricerca di calore del tutto simili agli Stinger che, venticinque anni prima, la Cia aveva fornito ai mujaheddin. Si trattava di un contrappasso: la stessa tipologia di armi con cui i guerriglieri afghani avevano inflitto perdite devastanti ai sovietici, costringendoli alla ritirata, era finita nelle mani dei nemici degli americani in Afghanistan. [6] Quanto ai droni, presentati spesso come un’arma infallibile a rischio zero – visto che, come in un videogame, venivano pilotati da soldati che operavano in completa sicurezza da una base negli Stati Uniti –, non sempre erano così infallibili. I file, infatti, documentavano situazioni, ricostruite dal settimanale «Der Spiegel», in cui le truppe avevano dovuto fare rischiose operazioni di recupero, perché quei velivoli senza pilota si erano schiantati al suolo e le informazioni segrete contenute nei loro computer potevano finire in mano al nemico. Non sempre, infatti, era possibile cancellare da remoto i dati presenti nei sistemi informatici dei droni [7] e, quando l’operazione falliva, i soldati sul campo in Afghanistan dovevano imbarcarsi in pericolose missioni. A oggi gli Afghan War Logs rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009, considerata la segretezza di queste operazioni militari. Sono anche una delle pochissime fonti che abbiamo a disposizione per cercare di ricostruire il numero di civili uccisi prima del 2007, di cui nessuno pare avere dati affidabili, neppure la missione delle Nazioni unite in Afghanistan, l’Unama, che compila queste statistiche. [8] Mentre scrivo nessuno sa che tipo di futuro attende l’Afghanistan. In particolare per quanto riguarda le donne, nel caso in cui i talebani tornassero al potere, anche perché nel frattempo nel paese è arrivato anche l’Isis. L’unica certezza è che non esistono dati affidabili su quanti civili siano stati ammazzati dall’ottobre del 2001 al 2006, mentre si sa che solo nel periodo dal 2009 al 2019 sono stati uccisi almeno 35.518 civili e ne sono stati feriti 66.546. Questo significa oltre tremila morti innocenti all’anno: è come se dal gennaio del 2009 al dicembre del 2019 in Afghanistan ci fosse stato ogni anno un 11 settembre, [9] eppure questa guerra è sempre rimasta fuori dallo schermo radar dell’opinione pubblica occidentale. E senza il coraggio di Chelsea Manning e di WikiLeaks, il segreto di Stato e la macchina della propaganda bellica non ci avrebbero mai permesso di acquisire le informazioni fattuali che abbiamo scoperto grazie agli Afghan War Logs. L’allora direttore del «New York Times», Bill Keller, li aveva definiti [10] «una straordinaria finestra su quella guerra». Subito dopo la loro pubblicazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva intervistato Julian Assange, [11] chiedendogli: «Lei avrebbe potuto creare un’azienda nella Silicon Valley e vivere a Palo Alto in una casa con piscina. Perché ha invece deciso di dedicarsi alla creazione di WikiLeaks?». Assange aveva risposto: «Si vive solo una volta e quindi abbiamo il dovere di far un buon uso del tempo a disposizione e di impiegarlo per compiere qualcosa di significativo e soddisfacente. Questo è qualcosa che io considero significativo e soddisfacente. È la mia natura: mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili e mi piace fare a pezzi i bastardi. E quindi è un lavoro che mi fa sentire bene». Ma il Pentagono non la vedeva allo stesso modo e reagì con furia alla rivelazione degli Afghan War Logs. L’allora segretario alla Difesa Robert Gates promise subito «un’inchiesta aggressiva», mentre l’ammiraglio Mike Mullen aveva subito dichiarato: «Assange può dire quello che vuole sul bene che lui e la sua fonte credono di fare, ma la verità è che potrebbero avere già le mani sporche del sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana». Un’accusa questa che sarebbe stata ripetuta acriticamente dai media per oltre un decennio, danneggiando seriamente Wiki-Leaks. Ma era vera? Le mani sporche di sangue Il veleno che il Pentagono aveva iniettato nel dibattito pubblico su WikiLeaks non tardò a dare i suoi frutti. Pochi giorni dopo la pubblicazione dei documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, l’idea che Julian Assange e la sua organizzazione fossero dei pericolosi irresponsabili iniziò a circolare nell’opinione pubblica e nelle redazioni dei giornali. Le parole dell’ammiraglio Mike Mullen sulle «mani sporche di sangue» si riferivano al fatto che, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la diffusione dei 76.910 documenti segreti esponeva le truppe americane, quelle della coalizione internazionale e i collaboratori afghani – che fornivano loro informazioni e assistenza sul campo – al rischio di attentati da parte dei talebani, perché alcuni di quei file contenevano nomi o dettagli che permettevano di identificarli. Era chiaro che il Pentagono avesse un grandissimo interesse nel delegittimare WikiLeaks a causa della pubblicazione di quei file e di altri precedenti, come il video Collateral Murder. Gli Afghan War Logs costituivano una vera e propria miniera di informazioni: la stampa e l’opinione pubblica mondiale potevano confrontare le dichiarazioni dei vari leader militari e governi, che avevano inviato truppe in Afghanistan, con i dati contenuti nei file e scoprire le menzogne ufficiali, le omissioni e le manipolazioni. Quei documenti permettevano per la prima volta di diradare la nebbia della guerra, mentre il conflitto in Afghanistan era in corso e non venti o trent’anni dopo, quando ormai i fatti potevano interessare giusto agli storici di professione. (...) WikiLeaks non aveva pubblicato le rivelazioni sull’Afghanistan da sola, aveva stabilito una collaborazione con tre grandi giornali internazionali: il «New York Times», il quotidiano inglese «The Guardian» e il settimanale tedesco «Der Spiegel». Come già fatto con me nel caso del file audio sulla crisi dei rifiuti a Napoli, Assange e il suo staff avevano scelto di collaborare con i reporter di quelle tre grandi redazioni per diverse settimane, durante le quali i giornalisti avevano avuto accesso esclusivo ai documenti segreti in modo da poterne verificare l’autenticità e indagare sulle rivelazioni più importanti che ne emergevano. (...) Due cose mi colpivano, in particolare, di questa organizzazione: innanzitutto la sua scelta di democratizzare l’accesso alla conoscenza e alle informazioni, pubblicando i documenti per tutti, affinché qualunque cittadino, giornalista, studioso, politico o attivista del mondo potesse leggerli, fare ricerche mirate e indagare in modo del tutto indipendente sulla guerra in Afghanistan, senza doversi affidare esclusivamente a quello che i giornali avevano scritto. Trovavo questa scelta rivoluzionaria, perché permetteva a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, (...) Era un’intimidazione da non sottovalutare: con la guerra al terrorismo, gli Stati Uniti avevano dimostrato che non si sarebbero fermati davanti a nulla e avrebbero usato ogni tipo di mezzo legale o illegale, dalla tortura agli assassini con i droni, contro chi percepivano come una minaccia alla loro sicurezza. Allo stesso tempo era da escludere che avrebbero usato mezzi così sfacciatamente brutali per neutralizzare Assange e WikiLeaks, che era un’organizzazione giornalistica del mondo occidentale e ormai molto visibile. Il documento del 2008 del controspionaggio americano, l’Army Counterintelligence Center (Acic) – che WikiLeaks stessa aveva rivelato –, aveva fatto emergere come le autorità americane puntassero a neutralizzarli colpendo le fonti che passavano loro documenti segreti, piuttosto che colpendoli direttamente. In ogni caso quelle minacce andavano prese molto sul serio: suonavano grottesche a chiunque avesse un’idea della sproporzione tra la potenza e le risorse del Pentagono e quelle di una piccola organizzazione come WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti avrebbe potuto schiacciarla come un moscerino in qualunque momento. Ma Assange e il suo staff non si piegarono a quell’intimidazione. E per questo avrebbero pagato un prezzo molto alto. (...) Collusi (Rodolfo Formis)
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245 morti in tutta Europa. Sono tra gli effetti collaterali dopo l’iniezione del vaccino anti-Covid. Questo il dato, aggiornato al 23 gennaio scorso, che circola sulla stampa continentale grazie alla curiosità del giornale olandese RTL Nieuws [1]. La notizia, in Italia … non è una notizia. Solo il quotidiano online Affari Italiani [2], infatti, ritiene corretto pubblicarla. Eppure si tratta di un dato ufficiale, pubblicato perfino dall’EMA, l’Agenzia Europea per il farmaco [3]. La spiegazione di questo black-out informativo giunge grazie alla penna di Enrico Bucci, biologo e ricercatore, ed è pubblicata sul suo blog presente sul quotidiano Il Foglio [4]: (in sintesi) per il dottor Bucci, la circostanza che ultra ottantenni muoiano a poche ore dall’iniezione dal vaccino è solo una coincidenza (scrive che ne muoiono "normalmente" 156 ogni 10.000 al mese ... ndr). (Il contrario di) quando gli ultra ottantenni, pure affetti da multi-patologie, decedevano dopo aver contratto anche il Covid-19. Lì non valeva la coincidenza. Lì si moriva solo e certamente di Coronavirus. Per essere un tantino credibile, a Bucci sarebbe bastato scrivere che si tratta pur sempre di numeri piccoli, di effetti collaterali fatali ma statisticamente insignificanti e accettabili rispetto al beneficio del vaccino per la massa della popolazione. Ma non l’ha scritto. (...) Italia : 1.590.000 dosi iniettate e 13 morti dichiarati, ovvero 0,81 decessi/100.000 dosi ( dati al 26 gennaio 2021 [6] ); (...) Svezia : 226.000 dosi e 42 morti dichiarati, ovvero 18,5 decessi/100.000 dosi ( dati al 27 gennaio 2021 [9] [10]). Norvegia : 179.000 dosi e 82 morti dichiarati, ovvero 45,8 decessi/100.000 dosi ( dati al 9 febbraio 2021 [11] ). (...) Perché in Scandinavia l’effetto fatale del vaccino è considerevolmente più alto che in Italia e Spagna ? (...) I dati italiani appaiono sottodimensionati anche avuta evidenza dell’estrema attenzione che l’Italia pone nel segnalare, invece, all’EMA gli effetti collaterali lievi. Il 44% di tutte le segnalazioni europee proviene proprio dal nostro Paese ( 19.979 su 54.828, al 13 febbraio 2021 [12] ).
https://www.fronteampio.it/effetti-collaterali-245-morti-dopo-vaccino/
Che culo, ci è arrivata una partita di vaccini più buona di quella spacciata in Svezia e Norvegia, ma anche in Francia e Belgio!
La verità è che I POMPIERI SONO IN AZIONE, e più meridionali sono - Italì, Spagna - più bravi sono (allenati e allineati: tengono famigghia) a spengere incendi.
Per chi crede ai dati ufficiali degli ufficiali italici (che ridere). E per i poveri Bucci ignoranti ospitati dalla stampa di regime, quelli che DEVONO continuare ad abusare della credulità popolare, spacciando il vaccino per quel che ogni vaccino NON E’ E NON E’ MAI STATO, cioè una protezione individuale tipo condom o pillola (chiedere lumi a chi l’influenza se l’è presa lo stesso, in era pre-pandemia, anche se s’era vaccinato).
Vaccinatevi, veloci mi raccomando, faccio davvero il tifo per chi salti le code!
fonti (numerate [ ]) sul link riportato.
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In uno Stato di diritto, anche Cesare Battisti merita una carcerazione dignitosa ma così non è - Osservatorio Repressione
Lo scorso 26 giugno Cesare Battisti, ex membro dei Pac (Proletari Armati per il Comunismo) che sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi, è stato trasferito dal carcere di massima sicurezza di Rossano a quello di Ferrara, interrompendo uno sciopero della fame durato quasi un mese che lo aveva portato a non reggersi in piedi e a perdere più di dieci chili di peso.
Secondo alcune fonti interne all’amministrazione penitenziaria, il trasferimento è stato disposto a causa di alcune condizioni di potenziale rischio per la sua sicurezza. Nell’ultimo periodo, nella sezione in cui Battisti era recluso, si sarebbe infatti creato un “clima di possibile tensione”, dovuto anche alla particolare natura dell’istituto penitenziario di Rossano, dove sono detenuti quasi esclusivamente terroristi legati al radicalismo di matrice islamica, contro i quali Battisti ha spesso espresso durissime critiche. In una lettera dettata al telefono a sua figlia e pubblicata dal periodico francese L’Obs, Battisti ha palesato i trattamenti inumani a cui è stato sottoposto nell’ultimo anno di detenzione, spiegando che la struttura calabrese “è concepita con un fine esclusivamente punitivo”.“L’As 2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti,” ha dichiarato. “È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone ‘Antro Isis’ è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio”.
Battisti ha inoltre lamentato gravissimi problemi di integrazione e un’assoluta mancanza di socialità che lo hanno costretto, di fatto, all’isolamento sociale.
Anche l’avvocato Davide Steccanella ha denunciato a più riprese le infime condizioni in cui il proprio assistito era costretto a versare, evidenziando come Battisti fosse rinchiuso in una cella “minuscola” e “priva di luce solare” e sostenendo che nel carcere di Rossano fosse “privato della possibilità di svolgere attività alcuna, compresa l’ora d’aria per camminare”. Una situazione aggravata dal fatto che, dopo aver scontato i 6 mesi di isolamento previsti dalla legge, dal giugno del 2019 Battisti avrebbe dovuto essere detenuto in regime ordinario.
Nelle ultime settimane il dibattito sullo sciopero della fame intrapreso da Cesare Battisti – che avrebbe potuto stimolare una riflessione critica sui diritti, sistematicamente violati, dei detenuti – è stato quasi interamente fagocitato da alcuni giornali di destra, che si sono impegnati in tutti i modi per legittimare una narrazione totalmente distorta, secondo la quale l’ex terrorista “proprio non la smette di frignare” e il suo appello a una carcerazione più dignitosa non sarebbe altro che “un esercizio in bilico tra realtà e controsenso”. Queste prese di posizione non dovrebbero stupire più di tanto, dato che quella dell’incarcerazione di Battisti è stata una questione gestita nel peggiore dei modi sin dall’inizio. Basti pensare alla triste pantomima messa in scena da Matteo Salvini e Alfonso Bonafede in quel pomeriggio surreale del 14 gennaio del 2019: dopo l’arresto in Bolivia e la successiva estradizione in Italia, i due ex ministri andarono a ricevere Battisti a Ciampino – il primo vestito da poliziotto – con tanto di televisioni e organi di partito al seguito, esibendosi in cerimoniale giustizialista degno del peggiore tra i regimi illiberali e utilizzando espressioni che di istituzionale hanno ben poco (come quando l’ex ministro dell’Interno disse di sperare di “non incontrarlo da vicino”): un vero e proprio teatrino dell’assurdo, talmente grottesco da fare invidia alle parate militari in costume della Corea del Nord.
Nei mesi successivi Salvini ha fatto del giustizialismo il proprio marchio di fabbrica, non perdendo occasione per capitalizzare la cattura di Battisti e trattandolo come una specie di trofeo da sventolare a favore delle telecamere per irrobustire il suo potenziale elettorale. Questi atteggiamenti non hanno fatto altro che trasformare un dibattito essenziale – quello relativo alle condizioni di vita dei detenuti all’interno delle carceri, che dovrebbero essere sempre e comunque dignitose, a prescindere dai loro trascorsi penali – nel solito luogo comune da dare in pasto all’opinione pubblica per incattivirla, alimentando una retorica che uno Stato che si definisce “di diritto” dovrebbe disconoscere.
Al contrario, in Italia l’attenzione a questi temi dovrebbe essere massima, dato che negli ultimi anni il nostro Paese non si è certo distinto in positivo per il modo in cui tratta i propri detenuti: nel 2013, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante di sette carcerati, invitandoci a porre rimedio alla problematica del sovraffollamento carcerario. In quella sede i giudici constatarono come, in Italia, quello del sovraffollamento degli istituti di detenzione avesse assunto le proporzioni di un problema “di natura strutturale”, ricordando di aver ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che lamentavano di essere confinati in celle piccolissime, con poco più di tre metri quadrati a disposizione. Un approfondimento a parte meriterebbe, poi, il problema dei suicidi: secondo il dossier Morire di carcere, dall’inizio dell’anno sono morti 71 detenuti, di cui 21 hanno deciso di togliersi la vita. Inoltre, le rilevazioni di Ristretti Orizzonti dimostrano come, in appena tre anni, si è assistito a un trend preoccupante: mentre nel 2015 si è suicidato un detenuto ogni 1.200, nel 2018 il rapporto è diventato pari a un detenuto suicida ogni 900.
Queste evidenze dimostrano come derubricare le rimostranze dei detenuti a semplici perdite di tempo – o, peggio ancora, colpevolizzarli per il solo fatto di rivendicare una detenzione più dignitosa – rappresenti un atteggiamento pericoloso: il carcere vive nell’indifferenza o nell’ignoranza collettiva e, fatta qualche eccezione, anche la politica non riesce ad occuparsene come la Costituzione vorrebbe. Il tema rimane spesso circoscritto in una nicchia di addetti ai lavori o tra realtà che si spendono per il rispetto dei diritti umani dei detenuti, come ad esempio l’Associazione Antigone. Eppure, a dispetto di chi utilizza una carica pubblica per foraggiare gli istinti peggiori del popolo, il garantismo non può funzionare a macchia di leopardo, e queste problematiche andrebbero dibattute alla luce del sole: il grado di civiltà di uno Stato si misura, in primis, nella capacità delle istituzioni di garantire il rispetto dei diritti individuali, anche nei confronti di coloro che si sono macchiati dei delitti più atroci.
Privare una persona delle due ore d’aria quotidiane e costringerla in una condizione anti-igienica e di obbligata asocialità è un’autentica forzatura, inaccettabile anche per un ex terrorista come Battisti: un trattamento disumano che assume i contorni di una triste vendetta di Stato e che contrasta sia con l’articolo 27 della nostra Costituzione, secondo la quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, che con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta esplicitamente i trattamenti inumani e degradanti.
Negli ultimi giorni i tragici fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno scoperchiato un vaso di Pandora, riportando al centro del dibattito pubblico il tema delle difficili condizioni di vita dei detenuti, spesso costretti a convivere con una quotidianità alienante e angosciosa, fatta di punizioni corporali, digiuni imposti e ghettizzazione forzata. Si tratta di una criticità sistemica che affligge il nostro sistema carcerario a una tale profondità da poter essere considerata, a tutti gli effetti, un tratto endemico dell’ordinamento penitenziario italiano. Se gli abusi a cui abbiamo assistito ci hanno insegnato qualcosa è che, in uno Stato di diritto, chiunque merita una carcerazione dignitosa: la vendetta di Stato non è la soluzione per nessuno, neanche per Cesare Battisti.
Giuseppe Luca Scaffidi
da The Vision
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