#La morte di un uomo ridicolo e patetico
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Finalmente è morto
Un bandito impunito. Un maschilista. Colui che ha ripristinato negli anni '80, la concezione troglodita della donna-oggetto, consacrando la mercificazione del corpo femminile.
L'uomo che passerà alla storia per i suoi pulmann di troie, per la prostituzione minorile imbellettata da "cene eleganti".
Colui che ha fatto danni micidiali al cervello degli italiani.
Il vero picconatore del senso civico.
Il primo responsabile dell'attuale degrado che ha sostituito il precedente potere cattolico della D.C.
Un pagliaccio. Un buffone. Un pappone. L'uomo che ha sempre considerato le donne come puttane e merce di scambio.
Un furbetto della peggior specie che ha speso milioni di euro per pagare i migliori avvocati per garantirsi l'impunità e una serie di assurde prescrizioni.
L'uomo dei mille conflitti di interessi mai risolti.
Evvivaaaa!!!
Dopo anni, dopo uno stillicidio di brutte notizie, finalmente, un piccolo raggio di sole.
IL 12 GIUGNO, D'ORA IN POI
SARÀ UNA NUOVA
FESTA DELLA
LIBERAZIONE
Oggi si brinda
a champagne !
BUON VIAGGIO
CARO SILVIO
e mi raccomando
non ripassare da queste parti.
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"IO NON DIMENTICO"
E le mille sviolinate dei Media ora che sei morto, mi fanno convincere sempre di più, che per fare UN UOMO, non basta nascere, ma certamente, non serve nemmeno morire.
Nessuna morte servirá a darti una statura di politico di valore o di padre della Patria.
Berlusconi resterà invece il simbolo dei peggiori difetti del popolo italiano concentrati in una sola persona.
E per sempre resterà colui che ha strumentalizzato le Istituzioni e lo Stato, nel proprio personalissimo interesse.
Per puro tornaconto.
Un individuo così, a casa mia, ha un nome ben preciso:
" parassita "
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#FESTA DELLA LIBERAZIONE#La morte di un uomo ridicolo e patetico#la tragedia italiana#finalmente una buona notizia#12 giugno 2023#Io non dimentico
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“ «Lei è rimasto stupito di quanto grande sia l’intera proprietà, eppure Ungenach non è nemmeno la metà di quello che era un tempo... e che Lei non voglia farsi schiacciare da un’immensità del genere... e che trattenga per sé soltanto trentamila dollari con cui pensa di avere di che vivere... perché crede che trentamila dollari le bastino per il futuro... del resto io non so che cosa sia l’America per Lei, da parte mia non sono mai stato in America... e certamente sono anche un uomo che non potrebbe vivere in America... che non potrebbe vivere neanche da qualche altra parte in Europa, capisce, uno che non può esistere che qui, in questo paesaggio che è il suo... e come è strano che voi due, il suo signor fratellastro Karl e Lei, abbiate lasciato questo Paese e ve ne siate andati, il suo signor fratellastro Karl in Africa e Lei in America... perché qui non vi è stata data la possibilità di evolvervi» disse Moro. «Ecco una cosa che non capisco,» disse «che questo Paese si lasci scappare tutte le persone che valgono qualcosa, le butti fuori, addirittura le spinga ad andarsene in altri continenti... non lo capisco... certo, naturalmente la situazione in cui versa questo Paese è la più spaventosa che si possa immaginare, la macchina del nostro Stato è manovrata da idioti inimmaginabili... molte cose, anzi, tutto è ridicolo in questo Paese, va riconosciuto... naturalmente patetico, una commedia... uno qui sa perfettamente che muore, che si spegne, che si è guastato e deve morire... e a me vengono i brividi quando ci penso, caro Zoiss... ma tutto è derelitto e sterile... quando, in balia di questi terribili bilanci, non si riesce a dormire, non si riesce a prender sonno e si dice a sé stessi che la patria non è altro che una volgare, brutale idiozia... per impudenza... i bambini» disse guardando giù nella via «giocano e vivono completamente ai margini degli eventi, mentre gli adulti abbrutiscono, si spengono, non ci sono più... Chi sul letto di morte riesce a scrivere una commedia o una vera pièce comica, chi ci riesce ha fatto centro. Dentro ai manicomi c’è la pazzia universalmente riconosciuta, ha detto il suo signor tutore, fuori dei manicomi c’è la pazzia illegale... ma non vi è altro che pazzia». “
Thomas Bernhard, Ungenach. Una liquidazione, traduzione di Eugenio Bernardi, Adelphi (collana Piccola Biblioteca Adelphi n° 766), 2021¹; pp. 47-48.
[ Edizione originale: Ungenach. Erzählung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968 ]
#Thomas Bernhard#Ungenach. Una liquidazione#letture#letteratura mitteleuropea#citazioni letterarie#leggere#libri#Letterature di lingua tedesca#romanzi brevi#racconti lunghi#letteratura europea del XX secolo#Austria#narrativa del '900#follia#pazzia#umanità#decadenza#latifondismo#idiozia#viaggiare#emigrare#crescere#fuga dei cervelli#anarchia#anarchismo
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Vortice di luce fra le stelle XVII
Time Bokan - Calendar Men
L’ultimo anime appartenente a questa categoria è Calendar Men (in originale Time Bokan series Yattodetaman). È del 1981 e conta 52 episodi. Non è una time bokan come le precedenti, e per diversi motivi. Innanzitutto, il disegno è molto meno caricaturale. E il robot dei buoni ha un aspetto antropomorfo e, per così dire, “serio”. Rimangono l’impostazione scherzosa e la suddivisione delle squadre in due terzetti. I buoni sono: l’imbranatissimo Beppe Domani e la dinamica Tina Ieri. Abitano al decimo piano di un palazzo e lavorano per Arsenio Maigret, improbabile investigatore privato. Vengono contattati dalla Principessa Domenica, accompagnata da Abatan Robot, un automa tondo che nell’aspetto ricorda un lottatore di sumo. È una loro discendente, nata mille anni dopo il matrimonio dei due ragazzi. Proviene dal futuro Regno di Calendar, la cui situazione è tutt’altro che florida. Alla morte di suo padre, la malvagia e nera principessa Lunedì / sempre pronta alla sommossa contro tutti i dì ha tramato per mettere sul trono l’inetto fratellino Sabato. Per coronare il proprio sogno, però, deve mettere le mani sul Cosmopavone, o Uccello della Pace, capace di trasformarsi in qualunque persona, animale o cosa. Impresa non facile, perché dopo la scomparsa del sovrano, il volatile si è messo a saltellare nel tempo senza mai fermarsi. L’usurpatrice – che abita nel seminterrato dello stesso palazzo in cui si trovano Beppe e Tina – è aiutata da Primo Settembre, il (si fa per dire) genio del gruppo, e l’ottuso e fortissimo Due Ottobre, al quale è spesso dedicato, appunto, “l’angolo di Ottobre”, durante il quale dà prova delle sue strampalate capacità. I due hanno una curiosa caratteristica: in testa presentano la depressione piena d'acqua, circondata da capelli corti e ispidi, che caratterizza i kappa, capricciosi folletti che vivono in laghi e fiumi. Ci sarebbe anche il patetico e belloccio Conte Don Giovanni, che ama, ricambiato, Lunedì. Ma per lei l’amore è soltanto una distrazione: ci penserà quando avrà raggiunto il proprio obiettivo. Prima di allora, non se ne parla proprio. La struttura seriale di ogni episodio è piuttosto semplice. Il Pavonputer di Lunedì localizza l’epoca (o l’opera letteraria) in cui si trova il Cosmopavone sotto mentite spoglie. Domenica intercetta le informazioni con i suoi poteri telepatici ed entrambi i gruppi partono a bordo delle rispettive macchine del tempo. Trovano il magico pennuto, che però scappa. Arriva il momento dello scontro robotico. Beppe, a insaputa di Tina, si trasforma (con una procedura surreale) nel guerriero Yattodetaman. Indossa un costume rosso, bianco e blu e ha per simbolo una rosa. La sua comparsa è preceduta dal suono di un flauto, e seguita dalla solita frase di presentazione: Con un balzo attraverso il tempo, io, il paladino del mondo intero, sono arrivato, pronto a difendere la giustizia! Lui e la ragazza – già cotta persa – evocano il robot senziente (e trasformabile) King Star – detto anche Ipergenio – attraverso una formula a due voci: Su, aprite, segreti e misteri! Per vedere nuovi sentieri! Vieni, vieni, King Star: vieni in aiuto col tuo da far! (la parte finale si alterna con King Star: solo tu ci puoi salvar! o, ancora, Ipergenio, vieni in aiuto con il tuo ingegno) Dopo di che, aprono con una chiave un lucchetto a forma di cuore. Da un cancello apparso in cielo esce il robottone, che risponde: Chi mi ha chiamato? Sono stato evocato dal coro di due voci e per questo vengo in loro aiuto (oppure per questo sono venuto). Più avanti, la frase si ferma a Sono stato evocato. Lo pilota Yattodetaman, la cui presenza, a dire la verità, sarebbe inutile. Le armi sono poche – tra esse non manca la spada – e prive di comando vocale. Nei momenti critici, con un fischio, il robot stesso richiede l’intervento del fedele destriero Sagittarius, che può anche trasformarsi in carro armato. Non si capisce, però, come faccia King Star a trovarsi in difficoltà. I robot di Settembre hanno un aspetto ridicolo. Per idearli si ispira a qualunque cosa: figure della cultura tradizionale giapponese, serie animate (sempre giapponesi), lo sport (uno di essi è identico al lottatore di catch Abdullah The Butcher), la letteratura, e chi più ne ha, ne metta pure. Sono tutti componibili: da un grosso contenitore con le gambe escono i singoli pezzi, e si costruiscono da soli. Li crea – risparmiando sui materiali – il fabbro ferraio di Calendar. Combattono esattamente come Yattacan in Yattaman: scagliando addosso al nemico piccoli e numerosi robot. Anche Settembre e Lunedì adotteranno una formula rituale a due voci: Piripì piripò che ne so vincerò forse sì chi lo sa e insieme le battaglie son tante vieni avanti macchina gigante. Subito dopo, fanno baciare due maschere – una maschile e l’altra femminile – da cui parte un cuoricino d’energia che attiva l’automa. Dall’episodio numero 21, gli scontri diventano più impegnativi. I robot nemici cambiano design e diventano credibili, impiegando armi vere e proprie. Le battaglie sembrano avere cadenza settimanale, proprio come la trasmissione degli episodi in Giappone. Ogni volta, infatti, Settembre esclama: «Ecco la sorpresa della settimana!». Durante i combattimenti succede di tutto. Presenza fissa, il mitico telecronista Nando Martellotti (abbigliato in tema con l’epoca nella quale, di volta in volta, si trova), assistito – a partire dall’episodio 14 − dall’altrettanto mitico Elephant Cameraman, un uomo gigantesco che non mostra mai il viso. Ci prova nel cinquantunesimo episodio: gira la telecamera verso di sé, ma l’unica cosa che vediamo, sono due narici enormi. Dopo di che, sviene. Gli interventi esterni sono spassosi: la scala musicale dei ranocchi, la comparsa del terribile “maialino portafortuna”… Prima di dare inizio alle ostilità, Settembre chiede un pronostico a Teru Teru Bozu. Si tratta di una bambola di pezza (o carta) tipica del folclore nipponico. Viene appesa fuori della finestra per tenere lontano Amefushi, lo Spirito della pioggia, considerato “nemico” dei bambini perché non permette di giocare all’aperto. Qui ha la funzione opposta. Lunedì e i suoi invocano l’«oroscopo della bambola preveggente». Da essa parte uno zoccolo. Se, cadendo, si capovolge, la sconfitta è sicura. Ovviamente, non cade mai nel verso favorevole. Ma la sfortuna c’entra poco: perdono a causa di alcune imprevedibili disfunzioni della macchina, o per colpa di Settembre, che si distrae o commette un clamoroso errore in sede di progettazione. Alla fine, del robot nemico rimane solo la cabina di pilotaggio. King Star si appresta ad assestare il colpo di grazia, ma i quattro malandrini fingono d’essere pentiti. Tanto fanno e tanto dicono, che lo impietosiscono. Il robottone si ferma: «Io combatto la malvagità, non chi commette il male». Gira i tacchi e li risparmia. Lunedì e i suoi abbassano la guardia e iniziano a sfotterlo. Lui sente, perde le staffe, torna indietro e distrugge i resti del loro automa, senza, però, ucciderli. Rimangono mezzi nudi (soprattutto Lunedì, di cui si vedono spesso e volentieri i seni) e bruciacchiati. Ogni episodio si chiude sulle parole del narratore: Dove sarà, domani? Nel futuro o nel passato? Cosmopavone, cosmopavone: dove sei? Qualcuno di voi, amici, l’ha per caso visto? Con una leggera variante: Il Cosmopavone è un uccello capriccioso. Dove volerà, domani: nel futuro o nel passato? […] Dove sarà il Cosmopavone? Qualcuno di voi, amici, non l’ha per caso visto? Il finale si svolge nel Regno di Calendar. Scopriamo che il Cosmopavone è controllato da un ometto grinzoso chiamato Dara. Lo ha fatto inseguire da Domenica affinché crescesse nel corpo e nella mente. Ma Lunedì, con uno stratagemma, cattura il Cosmopavone: il fratellino Sabato diventa così il legittimo successore al trono. Proprio mentre sta per procedere alla sua incoronazione, il magico uccello si libera e va da Domenica, la quale invita la popolazione a rifugiarsi sul Monte Suza perché sta per succedere qualcosa di terribile. Calendar è sconvolto da una terribile eruzione vulcanica. Penseranno Yattodetaman e King Star a neutralizzare la minaccia. Dara considera conclusa la missione: alla sua pupilla spetterà il compito di ricostruire il regno. I due ragazzi tornano nel loro tempo. Tina vorrebbe sposare il suo eroe, ma deve accontentarsi di Beppe. In caso contrario, la loro discendente non potrebbe nascere. Non si spiega come mai il ragazzo non le sveli la sua identità segreta: è forse il primo caso di mancato riconoscimento finale, trucchetto sul quale sono costruite molte serie animate giapponesi. A parte che lei è anche poco sveglia, perché, in fondo, voce e aspetto non cambiano molto. Problema suo. In chiusura, la solita voce torna a chiedersi dove cappero sia il Cosmopavone. Prima di concludere, merita di essere segnalato l’episodio numero 40. I protagonisti si trovano in teatro e si comportano come gli attori di una commedia. Tra il pubblico si vedono i personaggi di tutte le Time Bokan, comprese quelle mai trasmesse nel nostro paese. Autoreferenzialità comprensibile, dato che sono state tutte realizzate dalla medesima casa di produzione: la Tatsunoko Production.
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“Era un artista intransigente, tutto il contrario dello scrittore impegnato come Sartre”: dialogo con Rita, la moglie di Witold Gombrowicz
Spossato. Questo è il carisma di Witold Gombrowicz. “Per tutto il mio viaggio in Europa mi sono sentito fisicamente spossato”, scrive nel Diario, l’autobiografia di un asceta del grottesco e dell’orrido. Siamo nel 1964, Gombrowicz ha interrotto l’esilio argentino, ha scritto i libri decisivi – Cosmo sarà pubblico l’anno dopo – ed è spossato, in esilio dagli altri, da sé. In Argentina gli era insopportabile Borges (“patetico eremita cieco”), a Berlino il blabla con Peter Weiss e Uwe Johnson (“era il Nord fatto persona. Un nordico talmente nordico che… non sono mai riuscito a cavarne niente”) è dialogo tra muti, letteralmente, letterariamente, non li capisce; a Parigi è tentato da Sartre, gli garba Jean Genet (“il nostro lestofante ha fiuto”), ma gli vengono a noia; quanto a Le Clézio – futuro Nobel per la letteratura – ne apprezza il ceffo da divo (“bellissimo, e soprattutto fotogenico”) e nient’altro. Insomma, Witold è un uomo solo, coltiva la spossatezza come disciplina. Finché. Maggio 1964. “Mi stabilii a Royaumont, a trenta chilometri da Parigi. Un’abbazia del tredicesimo secolo dove san Luigi serviva i monaci e da dove, per un certo tempo, è stata governata la Francia”. Lo schema spirituale è lo stesso – “io bastian contrario, io spettrale, io divertito, io torturato, io vivo, io morente” – con una variante. Lei. Rita Labrosse, 29 anni, canadese, impegnata in una tesi di dottorato su Colette, di sfibrante bellezza, enigmatica. Lui ha trent’anni più di lei, le chiede di cambiare progetto di tesi – “la faccia su di me” – se la porta a Vence. Witold e Rita si sposano il 28 dicembre di cinquant’anni fa (poco prima lei ha discusso la fatidica tesi su Colette); lo scrittore muore una manciata di mesi dopo. Una unione micidiale, condivisione di labirinti, preludio di deserti: Arianna che ha aggiogato il Minotauro. Una pagina del primo dell’anno 1967, dal Diario, è emblematica. “Io e Rita siamo entrati nel 1967. Noi due soli, senza champagne, contemplando dalla finestra il silenzio e il vuoto… La luna splendeva così forte, che si vedeva lo specchio di mare dall’altra parte del Cap d’Antibes”. Entità autonome, incapsulate, m’immagino. Nelle fotografie, Witold ha sempre la faccia truce – è atrocemente spaesato, spossato, sposato – lei sembra il frutto maturo della sua immaginazione, la sua anima in forma di donna, dalla melma alla malia. Per il resto della vita, Rita si destina a studiare e a divulgare l’opera di Witold. Amore, in questo caso, è parola vacua: bisogna dire dedizione, feroce dedizione.
Leggo in una pagina del Diario: “Ieri Rita e io siamo entrati nel 1967. Noi due soli, senza champagne, contemplando dalla finestra il silenzio e il vuoto”. Le chiedo: come ha conosciuto Gombrowicz, da cosa è stata attratta?
Ho incontrato Gombrowicz nel maggio del 1964 a Royaumont, vicino Parigi. Royaumont era un centro culturale all’interno di una bella abbazia del XII secolo. Studenti e artisti potevano trascorrervi lunghi soggiorni nelle antiche stanze rinnovate dai monaci. Intellettuali più o meno celebri venivano a passarci i fine settimana. Vi si tenevano degli incontri: uno su Nietzsche accadde nei giorni della nostra permanenza. Era un luogo vivo e molto alla moda. Io sono canadese-francese ed ero venuta in Francia per fare un dottorato in Lettere. Ero a Royaumont per terminare la mia tesi su Colette. Gombrowicz arrivava da un anno a Berlino Ovest. Era uno scrittore polacco esiliato che aveva passato più di 23 anni in Argentina. Parigi aveva appena scoperto il suo teatro con la pièce Le mariage, che aveva fatto scandalo. Aveva 59 anni, io 29. Dopo tre mesi di soggiorno Witold mi ha chiesto di partire con lui per Barcellona. Ho risposto che non potevo a causa della mia tesi. Lui mi ha detto: «Cambi il soggetto della tesi, la faccia su di me. Gliela scriverò, non importa dove, in 15 giorni!». Questo non è stato possibile. Abbiamo deciso di trasferirci nel Sud della Francia, a Vence, nelle colline vicino a Nizza, dove c’era una nuova università. Vence era conosciuta soprattutto per il suo clima eccellente per gli asmatici. Vi abbiamo vissuto cinque anni, fino alla sua morte. Ho discusso la mia tesi durante il Maggio ’68, tra il sarcasmo di Witold. E, a distanza di 50 anni, faccio ancora una tesi piuttosto strana su Gombrowicz. Sono in qualche modo una studentessa a vita che passa senza sosta degli esami.
Che significato dava Witold alla parola ‘amore’?
Gombrowicz ha scritto in Testamento che era incapace di amare, che l’amore gli era stato negato una volta per tutte. Quello è un bilancio scritto alla fine della sua vita. Non so quanto si dispiacesse di essere stato privato di un amore e di una felicità “normali”. Gombrowicz è stato un profeta, estremamente lucido, incapace di perdere il controllo. Dunque, come poteva “cadere” nell’amore? Gombrowicz era uno specialista della giovinezza, un “manager dell’immaturità”, come lo aveva definito il suo amico scrittore Bruno Schulz. In quel momento della mia vita, ha appagato la giovane donna immatura che ero. Io no, non cercavo la “normale” felicità familiare. Volevo crescere, imparare, conoscere nuovi mondi.
Nella stessa pagina del Diario Gombrowicz si descrive, delineando la vita di tutti i giorni, “un santo… e un asceta”. Come viveva Gombrowicz? Mi descriva il suo atteggiamento nella vita quotidiana attraverso un dettaglio.
Witold era un essere quasi sempre sofferente, ma resisteva e non si lamentava mai. Sapeva che cosa significasse ritrovarsi solo alla fine del mondo, con due valigie, senza denaro, senza parlare la lingua del posto. Questa è l’idea che ho di Giobbe. Ha conosciuto la miseria durante la guerra, ha rifiutato di tornare in una Polonia diventata comunista e stalinista. Ha preferito vivere modestamente a Buenos Aires. Era un artista intransigente che non ha mai tradito le esigenze della sua arte. Ha preferito restare povero, sconosciuto, senza appoggio, libero e indipendente. Lui solo sa il prezzo che ha pagato. Questo prezzo è grande, dal momento che si sentiva un santo e un asceta. Detto ciò, non si deve immaginare un Gombrowicz triste e scorbutico. Era di umore stabile, conduceva una vita regolare. Aveva senso dell’umorismo e del ridicolo. Diceva che bisognava accontentarsi dei piccoli piaceri della vita. Quando avevamo una piccola Citroên due cavalli, facevamo ogni giorno una passeggiata a Vence come Mr Pickwick a Londra. Pickwick faceva parte della nostra vita come un personaggio reale. Ci si divertiva davvero con Gombrowicz.
Che importanza ha avuto la lunga parentesi argentina per Gombrowicz? Risalta in modo feroce la ribellione di Gombrowicz a Borges e a ciò che rappresenta Borges per la storia della letteratura.
L’Argentina è stata più di una lunga parentesi. È stata una parte importante della sua vita, vissuta come una liberazione. In Polonia, durante la sua giovinezza, Gombrowicz viveva un esilio dell’interiorità. In Argentina, era davvero in esilio, ma libero di diventare pienamente se stesso senza lo sguardo e il giudizio della famiglia e della società. L’Argentina, paese della giovinezza e dell’immaturità, era inscritta nel suo destino. È stato durante questo soggiorno di 23 anni e 226 giorni, come annotato in Kronos, che ha scritto la maggior parte delle sue opere. Senza l’Argentina non avrebbe senza dubbio scritto il Diario, la sua opera principale che sempre più viene tradotta nel mondo. Gombrowicz riconosceva il valore di Borges ma era il suo opposto. Borges faceva parte dell’intellighenzia che gravitava attorno alla rivista Sur, diretta da Victoria Ocampo. Era l’establishment argentino sottomesso a quello di Parigi. Dopo la traduzione di Ferdydurke, scritto prima della guerra e tradotto nel 1947 da un gruppo di amici al Caffè Rex di Buenos Aires, in condizioni stravaganti, il gruppo della rivista Sur l’ha completamente ignorato. Gombrowicz era un outsider che frequentava i giovani e gli sconosciuti.
Come scriveva Gombrowicz, da cosa si lasciava stupire, che atteggiamento aveva verso la vita: di ribellione o di compassione?
Parlo del Gombrowicz che ho conosciuto a Vence negli ultimi cinque anni della sua vita. Scriveva, mi diceva, «come uno scolaro fa i suoi compiti». Un giorno aveva lasciato la porta della sua camera aperta, sono entrata nell’appartamento in punta di piedi, per non fare rumore. Mi ha detto, «cammina normalmente, questa non è una chiesa». Non aveva una concezione romantica dello scrittore e detestava il pathos. Semplicemente, si sedeva al suo tavolo e scriveva a mano con la stilografica Parker, il suo unico lusso. Era un regalo degli amici argentini per le lezioni di filosofia che aveva tenuto. Scriveva più versioni finché non era soddisfatto. Quindi batteva lui stesso il testo definitivo sulla sua macchina da scrivere Remington. Gombrowicz frequentava i caffè per chiacchierare o per giocare a scacchi, mai per scrivere le sue opere, né in Polonia, prima della guerra, né in Argentina né a Vence. Scriveva nella sua piccola camera a Buenos Aires. O al Banco Polaco, dove lavorava. Ma il suo capo glielo ha vietato perché demoralizzava i colleghi.
“Lasciamo l’artista solo con la sua opera… l’arte è un’impresa delicata, ha bisogno della penombra”, dice Gombrowicz a Dominique de Roux. Che idea ha Gombrowicz dell’arte e dei rapporti tra arte e politica?
Gombrowicz si definiva “artista” e non scrittore perché diceva che chiunque può essere scrittore mentre per essere un artista bisogna avere la personalità, cioè fare un lavoro costante su se stessi. Un artista non può che essere impegnato nella sua arte, che è scegliere il meglio. L’arte non deve essere sottomessa a niente e a nessuno se non all’arte stessa. Gombrowicz è il contrario di uno scrittore impegnato come Sartre, che è al servizio della politica. L’artista secondo Gombrowicz è un purosangue feroce e indomabile.
L’anno prossimo scoccano i 50 anni dalla morte di Gombrowicz: che cosa ancora, a suo avviso, dobbiamo scoprire e ri-scoprire del grande scrittore?
Gombrowicz è stato un precursore. Si è avvinghiato a terre vergini della cultura come l’immaturità e le questioni della forma. Solo ora è davvero nostro contemporaneo. La sua opera è diventata più attuale che mai. Per convincersene, bisogna semplicemente leggerla o rileggerla con uno sguardo nuovo, non contaminato da mode o pregiudizi.
Alla fine del Testamento, Gombrowicz esprime la necessità di “ritornare ai primordi”, di “ribellarmi”, di “rifugiarmi nel folto della mia Immaturità iniziale”. Sembra quasi che sia in atto, sempre, la lotta dello scrittore contro se stesso, lo scrittore, in fondo, deve sconfiggere l’immagine che gli altri si fanno di lui: è così? Mi aiuti a capire.
Io interpreto le cose in questo modo. Gombrowicz fa il bilancio della sua vita, ha 63 anni quando scrive le conversazioni con Dominique de Roux (intitolate Testamento dopo la morte improvvisa di Dominique nel 1977). Egli constata che è riuscito a superare a poco a poco la sua immaturità, i suoi complessi, realizzando un’opera in cui il tema è proprio l’immaturità e la forma. È diventato il Gombrowicz premiato con il Prix International des Editeurs, candidato al Nobel e il cui teatro è rappresentato sui migliori palcoscenici d’Europa. Ecco la sua “forma” cristallizzata al massimo. Però, la forma – o meglio, il suo modo di essere, di esteriorizzarsi – si crea tra gli uomini, tra l’«interumano». Di conseguenza, la forma per Gombrowicz non è mai cristallizzata, ma sempre in divenire. È l’evoluzione permanente.
Davide Brullo
*Le opere di Witold Gombrowicz – “Kronos”, “Cosmo”, “Pornografia” – sono pubblicate da Il Saggiatore; il “Diario” è edito da Feltrinelli. L’intervista a Rita Gombrowicz è resa possibile grazie alla mediazione di Letizia Di Girolamo
L'articolo “Era un artista intransigente, tutto il contrario dello scrittore impegnato come Sartre”: dialogo con Rita, la moglie di Witold Gombrowicz proviene da Pangea.
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