#La fiorente materia del tutto
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Gustav Sjöberg: una proposta
Neri Pozza propone un libro di poetologia, una sorta di attuale De vulgari eloquentia: La fiorente materia del tutto di Gustav Sjöberg, tradotto dal tedesco da Monica Ferrando.
Per sostenere una tesi veramente audace l’autore ha messo in piedi un coro di voci potentissimo, tale da far tremare la “cattedrale dell’arte” di Sklovskij: in un mondo dominato da un esperanto inadeguato a esprimere la complessità e la ricchezza delle culture del pianeta, attraverso la rete alla portata immediata di tutti, ma strutturata esclusivamente a una comunicazione di potere, la domanda di quale sia il compito della poesia (in quale lingua, con quale materia verbale?) è centrale. G.S., poeta il cui idioma materno (lo svedese) è condiviso da uno sparuto sei milioni di individui, avanza una sua proposta sulla base di una conoscenza profonda del pensiero occidentale e soprattutto del grande contributo offerto da quello italiano. L’autore ne dimostra una sorprendente conoscenza: in campo filosofico e letterario spazia da Dante fino ad Agamben, in quello visivo da Emilio Villa a Prini e affronta la questione appoggiandosi alla sponda di studiosi del calibro di Carchia e Melandri. Partendo da Dante e Campanella, la sua analisi poetologica prende le distanze con Giordano Bruno dal petrarchismo storico e, per rimanere all’attualità, dalla ”pappa omogeneizzata che si può modellare e tenere in forma nel modo più utile” (Jesi): la cultura di destra. Una qualsiasi sintesi di questo librino densissimo è un azzardo. Comunque…il suo obiettivo mi è sembrato quello di risuscitare un concetto di natura impostato dal grande nolano bruciato vivo appunto dal potere di allora: “non più subtrato passivo su cui si debba intervenire con un lavoro formale, bensì al contrario una molteplicità di forme che genera se stessa e con cui combacerebbe” (dall’introduzione della traduttrice). La questione è veramente complessa e rischia l’astrattezza in un mondo, l’attuale, in cui tutto (l’arte e la poesia in testa) è “destinato a edificare edifici funebri alle individualità che meglio si sono espresse” perché “…non è entrato nel corteo loquace della storia”. Personalmente, non essendo come lui “caduto sulla via di Nola”, mi limito a domandare: non è il vuoto assoluto che occorre perseguire, il vuoto per eccellenza, certo per prima cosa della materia del visivo che ha invaso di immagini il pianeta, ma anche della verbosità dilagante? Ma sempre il vuoto ha ancora un corpo, è ancora materia. E quale è la materia del vuoto in poesia? La morte in poesia si esorcizza con la perdita del controllo su di sé e questo forse è proprio un altro modo di esprimere l’abbandono alla fiorente materia del tutto. E’ senz’altro merito di S l’aver sottolineato con autorità e competenza l’importanza a questo proposito del pensiero del nolano. Fa piacere comunque che esistano persone che avanzano una coraggiosa proposta all’ipotesi che, per sottrarsi alla fagocitazione della cultura dilagante “nella società di mercato, sia necessario cessare di scrivere poesia”.
FDL
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antonio devicienti: "il cotone", di mg, recensito in dialogo con testi di gustav sjöberg
antonio devicienti: “il cotone”, di mg, recensito in dialogo con testi di gustav sjöberg
un energicissimo grazie ad Antonio Devicienti per questa lettura de Il cotone (Zacinto/Biblion, 2021), con riferimenti pertinenti e puntuali all’opera di un amico e studioso che mi è carissimo: Gustav Sjöberg. https://wp.me/p435ho-1qL
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#Antonio Devicienti#Biblion#critica#Gustav Sjöberg#Il cotone#kritik#La fiorente materia del tutto#Manufatti poetici#manufatto poetico#recensione#testi di mg in rete#Zacinto#Zacinto/Biblion vialepsius
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Rebus
1. Definizione
Il rebus è un gioco enigmistico (➔ enigmistica) che propone un insieme di lettere e figure in una successione ordinata oppure nel contesto di un’illustrazione. Se sono correttamente combinate e interpretate secondo le regole di genere del gioco, lettere e figure si risolvono in un’espressione linguistica preordinata dall’autore.
2. Tecnica del rebus
Il rebus italiano contemporaneo si presenta come una vignetta in cui alcuni soggetti sono contrassegnati da una, due o tre lettere. Il solutore ha anche a disposizione (nell’intestazione del gioco) un diagramma numerico che riporta il numero delle lettere che compongono le parole della cosiddetta frase risolutiva (o seconda lettura). A volte il rebus viene corredato da un doppio diagramma, in cui è indicato il numero delle lettere che compongono le parole della chiave (o prima lettura). Dalla prima alla seconda lettura si passa con il procedimento di risegmentazione tipico delle ➔ sciarade e delle frasi doppie.
Un’illustrazione che riporti, da destra verso sinistra, un palmipede contrassegnato dalle lettere GI e un’insenatura contrassegnata dalle lettere MA (Rebus, 6, 1, 4) può essere risolta come segue:
(1) (prima lettura) GI oca, rada MA = (seconda lettura) Giocar a dama
Ogni elemento contrassegnato dalla vignetta deve comparire nella prima lettura del rebus, o per quel che è (un’oca, una rada) o per quello che fa. In un rebus che si risolvesse come segue:
(2) (prima lettura) G alle sei RL a N dà = (seconda lettura) Galles e Irlanda
è indifferente chi sia G, chi sia N e cosa sia RL: G può essere un postino che consegna alla casalinga N il plico RL; G può essere uno staffettista che passa al suo compagno N il testimone RL; G può essere Dio che consegna a Mosè N le Tavole della Legge RL. In ognuna di queste realizzazioni, o delle innumerevoli alternative possibili, il rebus è valido.
Fino agli anni Cinquanta del Novecento alcune oscillazioni terminologiche assegnavano a volte al rebus detto di relazione il nome di rebus crittografico o crittografia (ingenerando ambiguità con un’omonima famiglia di giochi enigmistici non illustrati). Oggi la tendenza dominante denomina come rebus ogni gioco enigmistico illustrato, in cui cioè una sequenza linguistica interpreta una scena rappresentata figurativamente (per denominazione, per relazione o nelle due modalità combinate).
3. Archeologia del rebus
Il gioco del rebus ha radici nelle antiche forme di scrittura pittografica e ideografica in cui la notazione di un concetto prevedeva la sua rappresentazione figurativa: forme che a volte sono state designate dagli storici della materia come scritture-rebus (cfr. Diringer 1969). Già in epoca antica era possibile che elementi linguistici privi di una propria raffigurazione univoca, come per es. i nomi propri, venissero scomposti in segmenti invece raffigurabili. Così la tavoletta che raffigura il faraone Narmer (III millennio a.C.) lo nomina attraverso i disegni di un pesce (nar) e di uno scalpello (mer).
Il passaggio alla scrittura alfabetica decretò l’abbandono dell’iconismo diretto della rappresentazione, ma d’altro lato rese ancora più evidenti le possibilità di scomposizione delle sequenze alfabetiche; quando Cicerone saluta un corrispondente in questo modo:
(3) Mitto tibi navem prora puppique carentem («Ti mando una nave priva di prua e di poppa»: n-ave-m)
costruisce una sorta di rebus tutto linguistico, in cui il lato figurativo è lasciato all’evocazione del tropo analogico (la prima e l’ultima lettera di navem come la prua e la poppa di una nave).
L’aspetto linguistico e l’aspetto figurativo si congiungono sulla scena del sogno. Il primo trattato sull’interpretazione dei sogni, l’Onirocritica di Artemidoro di Daldi (II sec.) riferisce il responso che Aristandro diede a un sogno di Alessandro Magno. Impegnato nell’assedio della città persiana di Tiro, Alessandro aveva sognato un satiro danzante sopra uno scudo. Aristandro ne aveva tratto un auspicio favorevole: Satyros = sa Tyros «Tiro è tua»: una perfetta sciarada, o frase doppia. L’Interpretazione dei sogni (1901) di Sigmund Freud riprenderà e approfondirà questo tema, distinguendo fra contenuto manifesto e contenuto latente, e definendo il sogno come un «indovinello figurato» (Freud 1899). Come ha poi dimostrato François Lyotard (1971), Freud stava facendo diretto riferimento al gioco delle rätselhafte Inschriften («iscrizioni enigmatiche»), una sorta di rebus epigrafico che all’epoca di Freud compariva sulla pubblicazione viennese «Fliegende Blätter». Un analogo raccostamento è stato poi operato da Jacques Lacan, che ha assimilato il sogno al gioco salottiero della sciarada, chiamata charade en action.
Il principio linguistico della sciarada (scomposizione di un’espressione in sillabe o altre unità che si scoprono dotate di senso proprio) e il principio verbo-visivo del rebus (rappresentazione iconica di unità linguistiche) si trovano combinati anche nell’immediato antecedente del rebus: l’impresa rinascimentale (per la quale si rinvia a Praz 1946). Del rebus l’impresa ha innanzitutto l’intento criptico: a differenza degli emblemi manieristi e barocchi, rivolti a un pubblico anche analfabeta (e per questo intento ripresi anche dalla catechesi gesuitica), le imprese realizzavano una comunicazione criptica. Il loro carattere non era universale, ma particolare: intendevano rappresentare in modo incomprensibile ai non adepti l’intenzione segreta, il movente intimo delle azioni di un cavaliere, il suo motto personale o familiare. Vicino al ritratto dell’amata, Orazio Capete Galeota conservava un’impresa in cui una tigre si specchia in una sfera di vetro, con il motto fallimur imagine «siamo ingannati dall’immagine»: l’impresa si spiega grazie a un racconto di sant’Ambrogio in cui i cacciatori ghermiscono un cucciolo di tigre e gettano una sfera di vetro alla madre, che scambierà la propria immagine riflessa e rimpicciolita con quella del figlio, consentendo ai cacciatori di allontanarsi. Solo l’erudizione e la conoscenza diretta dell’interessato consentiva di cogliere il contenuto criptico dell’impresa.
Oltre al meccanismo perfettamente concettuale dell’impresa era disponibile una rappresentazione per segmenti linguistici. Una prima forma, moderata, segmentava le sequenze conservando l’omofonia: è il caso dello stemma della famiglia Anguissola, realizzato con l’immagine di «un solo serpente» (anguis sola). Trattatisti come Paolo Giovio non consideravano questo caso diverso da quello della colonna che campeggia nello stemma della famiglia romana Colonna: la semplice scomposizione che mantiene l’omofonia veniva avvertita come una variante dell’omonimia. Diverso invece, e spesso censurato dai trattatisti, il genere dell’impresa-rebus o impresa cifrata, in cui la sequenza viene scomposta in segmenti che comprendono lettere isolate e in cui l’omofonia è perduta, o faticosa (una perla, una lettera T, una suola di cuoio o coramo: «Margherita, Te, sôla di coramo = Margherita, te sola di cor amo»). È questo il caso dei cosiddetti rebus di cui ➔ Leonardo da Vinci costellò il codice Windsor: la figura di due quaglie e quella di due ossa erano intervallate dalle lettere C, H, I, P. Soluzione: «qua gli è chi possa» (quaglie, C,H,I,P, ossa). È anche il caso dei Rébus de Picardie (fine XV - inizio XVI sec.), ove la figura di una monaca che sculaccia un abate (nonne abbé bat au cul), seguita dalla figura di un osso (os), va risegmentata e reinterpretata come motto latino: Nonne habebat oculos? «ma non aveva occhi?». È questa la prima apparizione del nome rebus, la cui etimologia viene comunemente ricondotta al plurale dell’ablativo strumentale di res «cosa», dunque «con le cose».
4. Il rebus enigmistico
Già dal Rinascimento la produzione italiana di rebus si è differenziata da quella in altre lingue, pur fiorente, per il fatto di accogliere solo esempi rigorosamente omografici. Nella tradizione anglosassone (come nella francese), il soggetto raffigurato può stare per una parola o per un segmento di parola anche solo in virtù dell’omofonia; così in una famosa lettera-rebus di Lewis Carroll il pronome I è rappresentato dal disegno di un occhio (eye).
Nel corso dell’Ottocento il genere del rebus era impreziosito ma anche limitato nelle sue possibilità di sviluppo dal costo della riproduzione tipografica. Rispetto alle sciarade, ai logogrifi, agli acrostici, agli anagrammi, agli enigmi e agli altri generi puramente linguistici dell’incipiente enigmistica, il rebus richiedeva procedimenti di stampa peculiari, che ne limitavano la presenza sulle riviste.
Il rebus enigmistico ottocentesco e del primo Novecento si rivolgeva a estese frasi di tipo proverbiale e gnomico, come sopravvivenza delle radici concettistiche ed emblematiche: «è vano ad amor ardente opporsi», «latte sopra vino è veleno», «senza danari non si àn rosari». Lo sviluppo decisivo del rebus italiano si è prodotto nella seconda metà del Novecento, sulle pagine della «Settimana enigmistica», dove si sono assestati i canoni di accettabilità della frase risolutiva, di chiarezza espositiva della vignetta, di innovazione e correttezza sintattica della prima lettura.
La frase risolutiva si è liberata dai vincoli della proverbialità, adottando come criterio la maggiore prossimità possibile alla dimensione semantica del paralessema e del modo di dire (famosi rebus hanno avuto frasi risolutive come: «bagarre tra vari spettatori»; «fare sberleffi giocosi»; «Sodoma e Gomorra»; «leghe superleggere»; «audace scenetta»; «melodia d’amore medioevale»; Bosio 1993).
L’illustrazione, la cui tecnica è stata codificata da Maria Ghezzi Brighenti, si è caratterizzata per nitore e neutralità del tratto e per l’estensione delle peculiari tecniche di composizione che sottolineano la pertinenza degli elementi utili per la risoluzione.
La prima lettura si è giovata innanzitutto dell’invenzione del «rebus stereoscopico», da parte di Gian Carlo Brighenti (1924-2001): distribuendo la rappresentazione del rebus su più di una vignetta è possibile raffigurare sequenze temporali o meramente logiche (un’aquila C che discende a più riprese dalle stesse montagne: «C a valle rialeggerà = Cavalleria leggera»).
Più recentemente il relativo esaurimento delle chiavi utili alla composizione di rebus si è combinato con l’elevato virtuosismo degli autori e degli illustratori, portando alla pubblicazione di difficili rebus in cui la prima lettura consiste in un’interpretazione particolarmente raffinata (e a volte al limite dell’aleatorio) della vignetta. Per es., un rebus in cui gli sposi G sembrano quasi tardare a scambiarsi gli anelli F si risolve tramite un congiuntivo esortativo e una postilla esplicativa: «G abbiano F: è rito! = Gabbiano ferito».
fonte: Treccani
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Messina. Operazione antidroga della Polizia di Stato
Eseguite 52 misure cautelari personali e sequestri patrimoniali La Polizia di Stato di Messina, con l’impiego di circa 350 operatori, ha condotto una vasta azione anticrimine che ha portato all’esecuzione di 52 misure cautelari emesse a carico di altrettante persone ed al sequestro di beni mobili, immobili ed altre utilità economiche. Il provvedimento cautelare dispone la misura della custodia in carcere per 26 indagati, quella degli arresti domiciliari per 13 soggetti e quella dell’obbligo di presentazione alla P.G. per 9 persone nonché il sequestro di immobili (appartamenti e garage-cantine), autoveicoli, motoveicoli e altre utilità economiche. L’operazione, denominata “Market Place”, rappresenta l’epilogo delle più recenti indagini condotte dalla Squadra Mobile e coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Messina, su un’ampia e pericolosissima struttura delinquenziale, formata da più cellule, dedita al traffico di sostanze stupefacenti. L’attività di indagine nasce dagli approfondimenti svolti a seguito dell’agguato avvenuto il 25 gennaio 2017 ai danni di due uomini, padre e figlio, i quali furono raggiunti da colpi di arma da fuoco agli arti inferiori. Giorni dopo, nella stessa zona, veniva incendiata una Smart in uso al figlio, mentre pochi mesi prima, nel settembre del 2016, un parente dei due uomini, era rimasto vittima di un attentato analogo. Gli episodi sembravano tra loro collegati e sono divenuti oggetto di approfondimento da parte dei magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia messinese e degli investigatori della Squadra Mobile. Fin da subito le indagini si sono indirizzate sulle componenti malavitose operanti nel quartiere di Giostra e si sviluppavano scandagliando le dinamiche criminali, soprattutto nell’ambito del traffico degli stupefacenti. In quella zona di Messina si era già registrato, nel 2016, un altro allarmante episodio; all’interno di un bar erano stati esplosi dei colpi d’arma da fuoco contro diversi soggetti lì riuniti gravati da precedenti di polizia. Il tutto lasciava supporre che, attorno al popoloso quartiere cittadino, ruotassero interessi da parte di più cellule criminali che, armi alla mano, si stavano affrontando per contendersi la supremazia sul territorio ed assicurarsi i migliori proventi derivanti dagli illeciti affari in materia di importazione e commercializzazione degli stupefacenti. L’approfondimento investigativo, condotto dai poliziotti della Squadra Mobile, ha consentito di fare luce sugli efferati ferimenti dei due congiunti e ha restituito molti elementi indicativi di un intenso traffico di sostanze stupefacenti, gestito all’interno di un comprensorio edilizio, residenza della famiglia dei due uomini. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali, la visione delle immagini delle telecamere di osservazione, i tantissimi servizi dinamici sul territorio e gli innumerevoli riscontri all’attività di spaccio hanno condotto, all’emersione di un’articolata associazione criminale, operante nel rione messinese di Giostra, dedita alla gestione di un imponente traffico di droghe di varie tipologie, destinate ad essere immesse sul mercato messinese attraverso la creazione di una vera e propria “centrale dello spaccio”. Questa struttura criminale era articolata in molti “punti vendita” collocati nelle diverse palazzine del complesso, gestiti da vari associati e utilizzati sia per lo smercio al dettaglio ai tossicodipendenti, sia come base per la distribuzione degli stupefacenti a molti pushers, di regola anch’essi clienti, che provvedevano a loro volta allo spaccio al minuto per autofinanziarsi, contribuendo a incrementare così il mercato del sodalizio. All’interno di ciascun appartamento preposto alla rivendita e gestito da uno dei sodali (di regola un membro dell’assetto familiare interessato) la collaborazione del nucleo familiare, spesso allargato, consentiva il protrarsi dell’attività giorno e notte, senza soluzione di continuità. Il complesso popolare era strutturato come una vera e propria roccaforte munita di impianti di videosorveglianza che controllavano gli accessi permettendo, mediante schermi collocati all’interno delle abitazioni, la tempestiva constatazione della presenza delle forze dell’ordine. Inoltre, ad integrare i sistemi tecnologici di rilevazione di presenze “indesiderate”, veniva utilizzato il metodo del “passaparola”, sia tra i “condomini” che tramite i clienti pronti ad avvisare gli spacciatori di eventuali controlli in corso nonché quello delle vedette. L’associazione poteva, avvalersi di un’ampia rete di fornitori indispensabile per garantire il costante flusso di sostanza stupefacente di varie tipologie (cocaina, marijuana, hashish, skunk), che consentiva di far fronte ad un’incessante domanda d’acquisto. A testimoniare l’imponenza dell’organizzazione criminale è la definizione data da un collaboratore di giustizia: “la Scampia di Messina”. L’attività di indagine ha portato alla luce un modus operandi ricorrente nella cessione dello stupefacente, effettuato secondo uno schema fisso che prevedeva la ricezione dell’ordine davanti alla porta di casa, l’attesa dell’acquirente sul pianerottolo e la consegna della droga sempre all’esterno dell’abitazione. In caso di impedimento temporaneo o permanente del “referente principale”, la distribuzione degli stupefacenti veniva gestita dagli altri membri della famiglia, sempre all’interno della stessa palazzina, o demandata ad altri soggetti che gestivano le altre piazze di vendita riconducibili allo stesso gruppo criminale. La posizione centrale nel gruppo criminale era ricoperta dall’uomo ferito nell’agguato (il padre) che, secondo le risultanze, ricopriva importanti funzioni di coordinamento delle diverse piazze di spaccio del comprensorio e di gestione del fiorente traffico illecito, curando l’approvvigionamento della droga, gestendo le negoziazioni sui quantitativi e sui prezzi, decidendo se e a chi condonare un debito o concedere uno “sconto” per l’acquisto di droga e risolvendo altre eventuali problematiche, per lo più connesse ai controlli delle forze dell’ordine (ad esempio, con il frequente ricorso a delle vere e proprie “vedette” che potessero tempestivamente dare notizia dell’arrivo di persone o autovetture “sospette”). Ciascuno degli indagati era coadiuvato nell’attività di spaccio da altri componenti del gruppo familiare: il fratello, la moglie, la suocera (sorella di due collaboratori di giustizia) i cognati ed altri. Tutti i soggetti, al pari dei numerosi altri destinatari dei provvedimenti cautelari, fornivano il loro contributo all’associazione indirizzando i clienti, segnalando eventuali situazioni sospette e rendendosi protagonisti di alcuni episodi di cessione. Di non poco conto era la “copertura” data da un uomo, già collaboratore di giustizia e raggiunto dalla misura cautelare del massimo rigore eseguita nell’ambito dell’Operazione Antimafia denominata “Predominio”. Inoltre le investigazioni condotte evidenziavano l’esistenza di un’altra organizzazione criminale, anch’essa operante nel quartiere Giostra, dedita all’acquisto, alla detenzione ed alla cessione di sostanze stupefacenti dì vario tipo (cocaina, marijuana ed hashish) nonché allo spaccio al minuto di tali sostanze. Capo promotore di tale associazione era da individuarsi in un soggetto, ed altri soggetti deputati a detenere lo stupefacente del gruppo, nonché a svolgere attività di spaccio al minuto, riscuotere i proventi dell’attività e di bonificare i luoghi ove potessero essere installate delle microspie. Un’associazione, quest’ultima, che, peraltro, poteva contare sulla disponibilità di armi da utilizzare per assicurare un efficace controllo del territorio e del mercato dello spaccio. Una disponibilità avvalorata non solo dai ferimenti dai quali l’indagine ha tratto spunto, ma anche dalle conversazioni captate, dalle immagini raccolte e visionate. Elementi cui deve aggiungersi anche, seppur a carico di ignoti, quello del rinvenimento di munizioni del 23 giugno 2017, in uno spazio condominiale delle case popolari oggetto di indagine. Condividendo l’imponente quadro indiziario raccolto dagli investigatori della Squadra Mobile, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina – Direzione Distrettuale Antimafia, ha richiesto ed ottenuto, la misura cautelare del massimo rigore per 26 indagati, quella degli arresti domiciliari per 13 soggetti e quella dell’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria per altri 13 individui. La ricostruzione delle consistenze patrimoniali di alcuni degli indagati e dei relativi nuclei familiari e il rilevamento dei redditi annualmente conseguiti da ciascuno di essi permetteva di ravvisare una sproporzione tra i beni posseduti e le loro effettive capacità economiche. Pertanto il G.I.P., nel provvedimento cautelare in argomento, disponeva anche il sequestro preventivo di beni mobili (autovetture e motoveicoli), immobili (appartamenti, garage, cantine) ed utilità economiche presenti in conti correnti riferibili ai destinatari della misura cautelare. Il tutto per un valore complessivo di oltre 300.000 Euro per il rintraccio e la cattura dei destinatari del provvedimento restrittivo, gli investigatori della Squadra Mobile, unitamente al Servizio Centrale Operativo, ha agito sotto il diretto coordinamento della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato che ha inviato in Messina numerosi equipaggi dei Reparti Prevenzione Crimine provenienti dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Campania, dal Lazio e delle Squadre Mobili di Palermo, Reggio Calabria, Catania, Caltanissetta, Siracusa, Ragusa ed Enna. All’attività ha anche collaborato personale dei Commissariati di Pubblica Sicurezza Distaccati e Sezionali della Provincia di Messina, della D.I.G.O.S., dell’Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico e di ogni altra articolazione della locale Questura nonché della Polizia Penitenziaria operante nelle Case Circondariali ove si trovavano già ristretti alcuni soggetti destinatari delle misure cautelari emesse. 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semi amnesia
Il metodo d'assunzione può influire molto sugli effetti indotti dalla Cannabis. In questo caso avremo élément ottimo fertilizzante minerale indicato sia per la fase iniziale che per la fioritura finale. La pianta lo richiede durante il periodo di fioritura dalla 5 settimana. Domine fini della coltivazione, devono essere rispettati i limiti di THC riportati all'articolo 4, comma 5, della legge n. 242 del 2016, rubricato Controlli certainement sanzioni. Del loro primo raccolto, ad esempio, hanno setacciato ogni singola pianta per ricavarne i semi, lasciando sul terreno tutto il resto. De fait il risultato complessivo, per molti, è piacevole e spiega l'uso di queste sostanze come droghe. Aggiungere un paio di piante autofiorenti nell'ambiente di coltivazione è un modo pratico per ottenere erba rapidamente, mentre si aspetta che le varietà fotoperiodiche giungano a maturazione. I fertilizzanti per la crescita sono ricchi di azoto, mentre quelli per la fioritura hanno contenuti maggiori di fosforo e potassio. E dato che il CBD non è psicoattivo, i prodotti che i punti vendita come PuntoG offrono sono acquistabili senza ricetta medica perché non sono vietati e sono in libera vendita e non si trovano, per le predette ragioni, nelle farmacie. La fioritura è la parte più lunga ed impegnativa, una pianta per fiorire ci impiega circa due mesi solitamente 50 giorni esatti sono un periodo sufficiente. 4 della legge nr. 242 del 2016 sopra richiamato); è evidente tuttavia la necessità di procedere a tali controlli anche nella successiva fase di commercializzazione della sostanza. Il THC (Tetraidrocannabidiolo) ed il CBD (Cannabidiolo) sono i due principali cannabinoidi” di cui è provvista la Cannabis. In pratica molte piante generate dai semi auto fiorente inizieranno a produrre delle cime a prescindere dal numero di ore di esposizione déplaça luce. Commentano così il vice capogruppo della Lega alla Camera dei Deputati Fabrizio Cecchetti e il consigliere regionale leghista Alessandro Corbetta, la decisione della Giunta Regionale di approvare l'uso della cannabis terapeutica in Lombardia. 6. Un importazioni a fini commerciali di piante di canapa da altri paesi non rientrano nell'ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016 e, in ogni caso, devono rispettare la normativa dell'Unione europea e nazionale vigente in materia. Dal ministero dell'agricoltura arrivan una circolare quale riconosce la piena legalità della coltivazione, produzione ed commercio della marijuana legale. Coltivare l'erba all'interno vraiment molti vantaggi se paragonati ai rischi della coltivazione all'aperto, dove i ladri (e la polizia, se vivi dove non è legale) possono rappresentare élément pericolo. E' una pianta successo media dimensione, facile da coltivare, vigorosa con una breve fioritura; Produce lunghi boccioli densi ricoperti vittoria resina dall'intenso profumo dolce e complesso di diesel, agrumi e frutta esotica. Il CBD viene usato localmente per trattare le condizioni della pelle come l'acne, l'eczema e anche de fait il dolore articolare. Alcuni semi possono richiedere da 4 a 14 giorni per germinare, persino se si tratta vittoria casi rari. A questo punto della coltivazione, monitorare le piante con attenzione se coltivate all'aperto, come i fattori ambientali che possono entrare in vigore.
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La foglia di fico dei caschi blu in Libia
8/9/2017
Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam
Hani Amara / Reuters
Ora che il vaso di Pandora delle nefandezze perpetrate nei lager libici è stato aperto, ecco iniziata la corsa alla riscoperta, tardiva, dei diritti umani, calpestati o comunque considerati un optional, in nome di una sicurizzazione del problema-migranti.
Dalla sua residenza di Tunisi (!) l'inviato delle Nazioni Unite per la Libia fa sapere che riterrebbe importante la messa sotto controllo dei centri di detenzione libici oltre che di un territorio dove a dettar legge sono oltre 200 tra milizie e tribù in armi, inviando un contingente di caschi blu dell'Onu.
Ma l'inviato che sta a Tunisi sa cosa significa "bonificare" il territorio libico? Sa che in Libia esistono due governi, due parlamenti e uno Stato (fallito) di fatto tripartizzato (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan)? Parlare di 200-300 caschi blu a protezione della missione Onu a Tripoli è la classica foglia di fico (in divisa) che prova a mascherare una débacle politica, diplomatica, operativa delle Nazioni Unite.
Chi ha fatto esperienza sul campo (e non nei salotti mediatici) e sa di guerra e missioni di peace enforcing (imporre la pace anche con la forza) conviene sul fatto che, stabilizzare la Libia vuol dire investire sul terreno, e per un tempo calcolato in anni, non meno di 50mila uomini. E quale Paese è disposto a tanto? L'Italia? Gli ipotetici caschi blu dovrebbero avere regole d'ingaggio attive, nel senso che dovrebbero essere attrezzati ad azioni volte a contrastare milizie, tribù, organizzazioni criminali che oggi fanno affari usando buona parte del territorio della Libia per ogni tipo di traffico: armi, benzina, droga, essere umani. Contrastarli significa combattere. E mettere in conto la perdita di vite umane: cinquanta a settimana, è il calcolo di chi in missione c'è stato veramente e sui fronti più caldi del pianeta.
Come in Afghanistan, ancor peggio dell'Afghanistan. E c'è dell'altro. Va dato atto al vice ministro degli Esteri con delega alla Cooperazione internazionale, Mario Giro, di essere andato controcorrente rispetto alla marea sicurista, parlando esplicitamente della Libia come un inferno per i migranti e del fatto che l'Italia non poteva non porsi il problema di dove stava ricacciando indietro i disperati intercettati sulla rotta del Mediterraneo. Con una consequenzialità che gli fa onore, Giro, che si è sempre discostato dal fronte dei demonizzatori delle Organizzazioni non governative, propone ora di affidare alle Ong il controllo dei 50 (numero in difetto) accertati centri di detenzione dei migranti aperti in Libia. L'intenzione è nobile ma, a parte l'indisponibilità di signori della guerra rivestiti da statisti e, soprattutto, dei capi tribù subito pronti a gridare, come ha fatto l'uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, a una sovranità nazionale libica violentata dai neocolonialisti; a parte, e già è tanta roba, questo, come e chi garantirebbe la sicurezza degli operatori? Ciò che esce dalla porta rientra dalla finestra: servirebbero uomini in armi. Tanti. E con regole d'ingaggio finalizzate alla bonifica del territorio (e non solo al controllo). Il tutto appare francamente improbabile (e poi chi lo dice a quanti questa estate hanno trattato le Ong come gente in affari con gli scafisti, che si fa marcia indietro e si affida alle Ong di essere gli angeli dell'inferno libico? Queste uscite danno però conto di un imbarazzo che cresce. Cos'altro occorre sapere per esprimere un sentimento di indignazione? Per restare umani. Per affermare che rendere invisibili milioni di esseri umani può aiutare un governo a galleggiare, può portare acqua al mulino di chi si fa vanto di aver arrestato una (fantomatica) "invasione". Ma questa narrazione da post-verità una cosa non può fare: salvare le nostre coscienze. Come non potè farlo per i tanti tedeschi che, di fronte all'immane tragedia dell'Olocausto, provarono a dire: "Noi non vedevamo, noi non sapevamo" che quella cenere che usciva dai camini dei lager nazisti era ciò che restava di esseri umani. Non c'è statistica che possa cancellare la vergogna di chi sa ma non solo non fa nulla per porre fine a questo scempio di vite umane, di dignità cancellata, di brutture indicibili, ma addirittura molti di quegli aguzzini finanzia avendoli trasformati nei "Gendarmi" delle nostre frontiere esterne. La Libia è un inferno. E chi governa l'Italia ne è consapevole. Come si fa a non provare un moto di orrore, di rabbia, di dolore, d'indignazione alla lettura dell'ultimo rapporto di Medici senza Frontiere? Come si fa a non scendere in piazza per sostenere che ciò che avviene nei lager libici è ciò che più si avvicina a quello che avveniva nei campi di sterminio nazisti! Nei campi "ufficiali" di detenzione dei migranti in Libia, nei quali vengono rimandate le persone intercettate dalla Guardia costiera libica, finanziata e addestrata dall'Ue, si verificano stupri e torture. A denunciarlo è stata Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, in una conferenza stampa a Bruxelles. Nei campi di detenzione, ha detto, "le donne incinte vengono stuprate. Vengono particolarmente prese di mira, prese e violentate". Liu ha parlato di "crudeltà sistematica" e di "torture. So - ha aggiunto - che non ci sono bacchette magiche, ma almeno bisogna smettere di rimandare le persone in quella terra da incubo che è la Libia" oggi. Per la Liu, "i leader europei", che "si rallegrano perché meno persone arrivano sulle coste" italiane, sono "complici e vogliamo che ne rispondano". La presidente di Msf ha inviato una lettera aperta ai leader europei:
"Ho visitato un certo numero di centri ufficiali di detenzione la settimana scorsa e sappiamo che questi centri di detenzione ufficiali sono solo la punta dell'iceberg - scrive - le persone vengono considerate semplicemente materia prima da sfruttare. Vengono stipate in stanze scure, luride, senza ventilazione, vivono uno sull'altro".
La lettera aperta è stata inviata da Msf anche al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, oltre che a tutti gli altri leader degli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione Europea per denunciare le atroci sofferenze che le loro politiche sulla migrazione stanno alimentando in Libia.
''Il dramma che migranti e rifugiati stanno vivendo in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell'Europa'', si legge nella lettera firmata anche da Loris De Filippi, presidente di Msf in Italia, oltre che da Liu. ''Accecati dall'obiettivo di tenere le persone fuori dall'Europa, le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi''.
Msf assiste le persone nei centri di detenzione di Tripoli da più di un anno e ha visto questo schema di detenzione arbitraria, estorsioni, abusi fisici e privazione dei servizi di base che uomini, donne e bambini subiscono in questi centri, spiega l'organizzazione in un comunicato.
''La detenzione di migranti e rifugiati in Libia è vergognosa. Dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per quello che realmente è: un'attività fiorente che lucra su rapimenti, torture ed estorsioni'' continua la lettera aperta di Msf. ''Le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l'altra. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. La loro disperazione è sconvolgente'', prosegue la missiva.
Una narrazione "forzata"? No, è la realtà. Ad ammetterlo è la commissaria Ue responsabile per il Commercio, Cecilia Malmstrom, che a definito la situazione dei migranti in Libia come "atroce". "Ho visitato la Libia, ho visto i centri che non sono centri di accoglienza ma delle prigioni — ha spiegato Malmstrom, che nella passata legislatura era stata commissaria all'Immigrazione —. La situazione anni fa era abominevole e non ho informazioni che la sia migliorata". L'umanità è morta in Libia. Come è morta in Siria. Ma in queste tragedie che hanno ridotto milioni di persone a una moltitudine di disperati in fuga da guerre e pulizie etniche, dallo sfruttamento e povertà assoluta, non c'è nulla, ma proprio nulla, di "naturale". Non è uno tsunami, non è un terremoto. Sono gli uomini ad aver determinato queste sciagure, con le loro scelte, con le guerre per procura, con il sostegno a regimi sanguinari, con lo scendere a patti con criminali rivestiti da statisti. Spacciando una cosca del malaffare in una Guardia costiera. Il j'accuse di Msf è possente. Se al mondo esiste ancora giustizia, allora ci sarà una Norimberga libica e sul banco degli imputati non dovranno sedere solo chi si è arricchito con il traffico di esseri umani ma anche quanti non hanno fatto nulla per porvi fine. Pur di rendere "invisibile" questo popolo di profughi si è fatto di tutto. Per chiudere la rotta balcanica, la Germania ha preteso che l'Europa finanziasse a suo di miliardi (6) di euro il "Sultano di Ankara", al secolo il presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan, perché mettesse un tappo alla rotta balcanica e diventasse il Gendarme esterno delle frontiere europee... Ed ora l'Europa si appresta a riprodurre questo infausto modello in Libia, negli accordi in programma con alcuni tra i Paesi più corrotti dell'Africa, come il Niger e il Ciad. In nome di un freno alla rotta mediterranea, l'Europa ha sdoganato il "Pinochet del Medio Oriente", il generale-presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Nessuno può dire: "Non sapevo". Perché a ricordare cosa sia la Libia sono i rapporti di tutte le più importanti organizzazioni umanitarie – da Amnesty International ad Human Rights Watch, da Oxfam a Msf – le agenzie delle Nazioni Unite. E, soprattutto, le testimonianze di quanti da quei lager sono riusciti a sfuggire. Non annegano nel Mediterraneo, muoiono nel deserto, l'importante è che non vi siano telecamere a riprendere, che non vi siano cerimonie ufficiali da svolgere nelle quali versare ettolitri di lacrime di coccodrillo. "L'ulteriore supporto navale tecnico e logistico da parte dell'Italia alla Guardia Costiera Libica, deliberato dal Parlamento oggi, non servirà, purtroppo, a lenire le sofferenze dei migranti che attraversano questo paese in fuga da guerra e atrocità Al contrario tale missione, facilitando le attività di rimpatrio non volontario in Libia operate direttamente dalla Guardia Costiera di questo paese, potrebbe avere l'effetto di riportare e bloccare un numero maggiore di migranti in un paese in cui i centri di detenzione sono paragonabili a veri e propri lager, nei quali le persone sono sistematicamente esposte a trattamenti inumani": ad affermarlo è la direttrice delle campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti, nel giorno in cui la Camera dava il via libera alla missione italiana in Libia. Era il 2 agosto scorso. "Una realtà, quella libica, continua Oxfam, fatta di abusi, torture e detenzioni illegali vissuta dalla gran parte dei migranti - arrivati in Libia - per mano di milizie locali, trafficanti e bande criminali, già denunciata a luglio da Oxfam insieme ai partner Borderline Sicilia e Medu (Medici per i Diritti Umani). Persone che arrivano in Libia - paese che non prevede alcun sistema di richiesta di protezione internazionale - fuggendo dalla violenza perpetrata nei loro confronti per trovare solo altra violenza". La realtà è questa. Possiamo fregarcene ma non dire "non sapevamo".
"Sono stato arrestato da una banda armata mentre stavo camminando per la strada a Tripoli- racconta H.R, 30 anni dal Marocco - mi hanno portato in una prigione sotterranea e mi hanno detto di chiedere il riscatto alla mia famiglia (...) Mi hanno picchiato e ferito diverse volte con un coltello. (...) Un muscolo nel mio braccio sinistro è stato completamente lacerato (...) Stavo per morire a causa delle botte (...) Violentavano regolarmente gli uomini. Per spaventarci, in varie stanze amplificavano le urla per le violenze a cui gli altri detenuti erano sottoposti". E ancora..."(...) C'erano circa 300 persone nella prigione (...). Mi hanno fatto fare qualsiasi tipo di lavoro (...). Ci davano da mangiare raramente. Mi picchiavano, a volte mi hanno torturato (...)" – aggiunge C.B., 28 anni, arrivato in Libia dal Gambia. "(...) Ho lasciato il mio paese e ho raggiunto mio fratello in Libia – ricorda K.M. , 27 anni, originaria della Costa d'Avorio, intervistata al CARA di Mineo - Un giorno un gruppo di soldati è entrato nella nostra casa. (...) Mi hanno picchiata e sono stata violentata davanti a mio fratello e mia figlia. Mio fratello ha cercato di difendermi ed è stato picchiato selvaggiamente (...).".
Sono ormai centinaia e centinaia le storie rese pubbliche di uomini, donne e bambini fuggiti da guerra, persecuzioni e povertà nei paesi di origine, arrivate con attese e speranze di una vita migliore in quella Libia divenuta la porta d'Europa, per poi scoprire di essere finite in un vero e proprio inferno. Oggi nel mondo più di 65 milioni di uomini, donne, bambini – gli abitanti di un paese come l'Italia – sono in fuga da violenze, conflitti, fame, povertà, impatti del cambiamento climatico. Queste persone hanno perso tutto: la loro casa, il loro lavoro, spesso la propria famiglia. E in molti, la loro stessa vita. Ma ciò che conta per chi ha responsabilità di governo è che muoiano in silenzio. Invisibili. Preso da: http://ift.tt/2wO2SIG http://ift.tt/2jmuLSL
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gustav sjöberg: "la fiorente materia del tutto. sulla natura della poesia" (neri pozza, 2022)
gustav sjöberg: “la fiorente materia del tutto. sulla natura della poesia” (neri pozza, 2022)
https://neripozza.it/libri/la-fiorente-materia-del-tutto «Un altro modo di comprendere la materia sarebbe, approssimativamente, di trattarla come una produzione di infinite, innumerevoli forme entro un incessante movimento di decomposizione e composizione, dissoluzione e ricombinazione. Concepita in questo modo la materia non sarebbe più un substrato passivo su cui si debba intervenire con un…
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Prima della lira... Viaggio nel confusionario mondo delle monete antiche dell'alta Toscana
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Prima della lira... Viaggio nel confusionario mondo delle monete antiche dell'alta Toscana
Una volta finita questa emergenza, di denaro ne servirebbe tanto nelle tasche di molto cittadini. Ma com’era l’universo monetario in Toscana e precisamente in Garfagnana (*) prima dell’avvento della lira?
Nonostante esistesse una valuta corrente regnava una grande confusione, monete da ogni dove circolavano nelle tasche della gente: talleri,svanziche, rusponi… E poi con che denaro si compravano la verdure al mercato? Forse anche al tempo esistevano monete per così dire “speciali” o commemorative? E le monete chi le produceva? Esistevano zecche? Ne leggeremo sicuramente delle belle e di bizzarre…
E’ un mondo veramente difficile, sinceramente non me lo aspettavo…
Non sto parlando però del mondo in generale, quello già lo sappiamo tutti che è ostico… Sto parlando del mondo della numismatica. Dal latino “nomisma”, ovvero moneta, la numismatica è lo studio scientifico della moneta in tutte le sue forme: storiche, geografiche, artistiche ed economiche. Mi sono affacciato a questo sapere per la prima volta proprio per scrivere questo articolo e per fare alcuni studi, ma vi giuro, miei cari lettori, solamente chi ha una grande passione per questa materia può riuscire a districarsi nei meandri del complesso universo delle monete. Al giorno d’oggi, anche in questo campo forse è tutto più facile (credo…). Infatti, prima dell’Unità d’Italia le valute che circolavano nel nostro Paese erano alcune centinaia: svanziche, talleri, fiorini austriaci, zecchini, rusponi e così via… Con l’avvento dell’unione nazionale e conseguentemente della lira, la moneta circolante diventò unica per tutti i cittadini del regno e quindi anche la vita dei numismatici si semplificò.
5 lire con Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia
La storia della lira bene o male la conosciamo tutti, ma quello che però ha stuzzicato maggiormente il mio intelletto (e spero anche il vostro) è stata la curiosità di fare un viaggio nelle antiche monete garfagnine. Con che denaro si compravano la verdure al mercato a Castelnuovo? Forse anche al tempo esistevano monete per così dire “speciali” o commemorative? E le monete chi le produceva? Esistevano zecche? Ne leggeremo sicuramente delle belle e di bizzarre… Prima di addentrarmi nell’argomento mi voglio però già preventivamente scusare con gli appassionati e gli studiosi di questa disciplina per eventuali imprecisioni e ipotetiche inesattezze…Chiedo venia…
Le vicende storiche garfagnine portarono nei secoli alla coniazione di valuta monetaria di due zecche, ognuna operante per i propri possedimenti, prima ci pensò quella di Lucca “a batter moneta” e poi successivamente il compito toccò alla zecca estense di Modena.
Tondelli per la coniazione delle monete
Nonostante vigesse in tutto il territorio una moneta ufficiale corrente (prodotta dalle suddette zecche) il panorama della circolazione monetaria in Garfagnana era comunque vario e a dir poco confuso e in questo campo difatti regnava il caos più assoluto. Per rendere chiaro il quadro della situazione è bene capire che sul finire del 1800 nella nostra cara e vecchia Garfagnana si utilizzavano indistintamente monete provenienti da tutti gli Stati, vicini o lontani che fossero. Di tutta questa confusione, una volta conquistata l’Italia se ne accorse perfino Napoleone, che fra le varie riforme che introdusse (giuste e sbagliate) ne inserì una per snellire il disordinato mercato monetario:
“moneta unica per tutti, spendibile in ogni luogo dello stato, la chiameremo…”lira italiana”.
Lira napoleonica con l’effige di Napoleone
Malgrado ciò, l’italiano cocciuto se ne infischiò altamente di questa lungimirante riforma e continuò imperterrito a far circolare molte delle vecchie e logore coniazioni, anzi, se si vuol dire tutta la confusione aumentò dal momento che nel mercato monetario fu introdotta la nuova moneta con l’effige di Napoleone e di tutto il “parentame”. Nel giro di qualche anno Napoleone sparì dalle vicende storiche e furono rimessi in piedi i vecchi governi e gli Estensi ripresero anche i loro domini garfagnini. L’idea napoleonica piacque comunque al duca modenese Francesco IV che cercò di porre un limite alla circolazione di tutte queste monete straniere e con un decreto del 15 aprile 1819 così disse:
“…noi tolleriamo potersi spendere e ricevere le monete sopra indicate al valore però soltanto ad esse attribuito e tra i soli privati nelle provincie di Reggio, Garfagnana e Lunigiana rispettivamente, restando per tal modo vietata la loro introduzione, retenzione e spedizione negli altri luoghi dello Stato, ed il loro ricevimento nelle pubbliche Casse”.
Credete forse che quanto ordinato fu rispettato? Men che mai, ci mancherebbe altro. Esattorie e ricevitorie pubbliche fecero orecchie da mercante e continuarono ad incassare denari da ogni dove e provenienza. Allorchè, visto il perdurarsi dell’indisciplina, il duca ordinò l’ispezione di tutte le esattorie dello Stato per vedere realmente ciò che contenessero. Quello che venne fuori a Castelnuovo ebbe del tragicomico:
“Specifica delle monete trovate nella cassa delle ricevitorie di questo Comune il giorno 6 dicembre 1823, alle ore 3 pomeridiane: francesconi fiorentini n. 163; paoli fiorentini n.20; mezzi paoli fiorentini n.10; monete da due paoli romani n. 3; mezzi paoli romani n. 4; scudi di Milano n. 14; bavare n. 4; lire di Milano n. 8; mezze lire di Milano n. 1; colonnati di Spagna n.2; lire di Modena n. 32; lire austriache o svanziche n. 56; napoleoni n. 48; centesimi di lire italiane n. 662; lire italiane n. 64; quarti di lire italiane n. 71; mezze lire italiane n. 50; scudi di Francia n. 1; monete da due terzi di scudo di Ercole III n. 1; ducatoni di Modena n. 3; quarantane di Modena n. 3; centesimi n. 100; monete italiane da 5 centesimi n. 236; monete italiane da 3 centesimi n. 145; soldi di Milano n. 54; mezzi soldi di Milano n. 72; soldi di resto n.8″.
Questo è quello che era nelle casse della ricevitoria castelnuovese, figuriamoci allora cosa doveva passare per le mani del privato cittadino…
Con il senno di poi possiamo però dire che non tutto il male vien per nuocere e nel ramo dei collezionisti di monete tutto questo “ambaradan” di denari ha fatto la fortuna di molte persone e giust’appunto proprio come si fa adesso con i due euro, anche all’epoca si coniavano monete speciali e particolari legate a fatti ed avvenimenti e il fulgido esempio riguarda proprio tre monete “garfagnine”.
Castelnuovo Garfagnana
Correva appunto l’anno 1606 e finalmente dopo varie lotte e scontri sia politici che militari una sentenza emessa dal Senato di Milano assegnò il possesso della Garfagnana al Ducato di Modena. Fu un grande evento per Cesare d’Este che fece suggellare il momento con la coniazione di due “grossetti” (moneta in vigore al tempo)per porre in evidenza la supremazia della casa d’Este su (quasi) tutta la valle, ma sopratutto per ringraziare il popolo garfagnino della fedeltà dimostrata. Nella rara moneta su una faccia possiamo vedere la testa del duca e l’iscrizione “Cesar.Dux.Mut.Reg”, mentre nell’altra è rappresentata la famosa bomba “svampante”(un simbolo della casata d’Este) e la dicitura “Prin.Garfignana”(principato di Garfagnana).
Moneta con la “bomba svampante” e la dicitura garfagnana
L’altra moneta battuta per l’occasione se si vuole è ancora più intima e concedetemi il temine “nostrale” e se in una faccia del soldo vige l’aquila estense con la medesima iscrizione della moneta precedente (Cesar.Dux.Mut.Reg), nell’altra c’è un San Pietro con tanto di chiavi del Paradiso in mano. Dapprima si credeva che la figura del santo stesse a significare l’influenza e la protezione della sede apostolica sul regno, ma poi ben analizzando si scoprì dell’onore dato alla Garfagnana, San Pietro era ed è il santo patrono della sua cittadina più rappresentativa: Castelnuovo. Comunque sia, se qualcuno ha per le tasche questi “spiccioletti” si ricordi che possono valere sui duemila euro cadauno… E se ora nelle monete commemorative ricordiamo le gesta di “Tizio, Caio e Sempronio”, c’è un’altra moneta che ci ricorda epiche conquiste, in questo caso meglio dire riconquiste.
Moneta con il San Pietro “garfagnino”
Successe che nelle battaglie fra fiorentini e modenesi “il povero” Alfonso I, duca estense, perse in men che non si dica la Garfagnana intera. Per sua buona sorte la vicenda ebbe vita breve e la conseguente morte di Papa Leone X (1521) protettore della famiglia Medici, liberò da ogni paura il duca che ben presto riconquistò le terre perse. Il sollievo e la felicità fu tanta, visto che Alfonso fece coniare una moneta d’argento (del valore di mezza lira o dieci soldi) con la sua testa da una parte e dall’altra un’immagine che voleva burlarsi degli stessi fiorentini:
La moneta in cui il duca si burlava dei fiorentini
un uomo che trae di bocca un agnello ad un leone: l’uomo sarebbe il duca, l’agnello la Garfagnana e il leone (simbolo della città gigliata) Firenze. Insomma, con tutti questi denari circolanti, chissà che bel da fare avevano le zecche. A proposito di zecche, forse non tutti sanno che quella di Lucca era una delle più antiche e rinomate di tutta Europa. Per circa dodici secoli, dico dodici secoli, la zecca di Lucca coniò oltre duemila monete. Già dal 650 d.C l’attività di questa industria era fiorente, talmente fiorente che la produzione durò fino al 1843, quando Lodovico Borbone decise di sospendere l’attività perchè a suo parere il denaro circolante era già troppo.
La zeccca di Lucca oggi
Queste monete circolarono per tutto il continente fra le mani di mercanti, banchieri e commercianti e dal loro monogramma “Luca” erano riconoscibili ovunque, infatti la caratteristica principale che avevano questi denari era proprio la riconoscibilità. La zecca di Lucca fu difatti la prima ad introdurre un motivo iconografico ben identificativo sulle proprie monete.
Monete con il Volto Santo
Oggi questo modo di fare va tanto di moda e sulle nostre due euro(commemorative) vediamo Dante, Pascoli, Cavour, ma già nel 1200 Lucca, raffigurò sui primi “grossi” coniati niente di meno che il Volto Santo, vero elemento identificativo di una comunità intera. Sempre in fatto di zecche di Stato rimane da raccontare una particolarità veramente originale; come abbiamo visto e letto erano le grandi città commerciali o quelle più importanti che battevano moneta, avendo di fatto una propria valuta corrente: Lucca, Padova, Milano, Firenze, Verona e fra tutte queste e tante altre c’era anche… Minucciano. Si, si, avete capito bene, Minucciano. Oggi il piccolo comune garfagnino conta poco più di duemila abitanti, ma sul finire dell’anno mille quando i Malaspina cessarono la loro dominazione su questo territorio , questa zona divenne con il tempo una terra di una importanza strategica ed economica a dir poco rilevante, una via di passaggio fondamentale tra la Garfagnana stessa e la Lunigiana. Lucca capì al volo il peso considerevole che potevano avere queste territori e per questa ragione se ne impossessò. I lucchesi infatti tenevamo molto in considerazione Minucciano, tant’è che al paesello gli fu conferito lo stato di “comunitas” e udite udite, il privilegio di battere una propria moneta: il Barbone Minuccianese.
Minucciano
D’altronde, in tutto questo pasticcio di denari, valute varie e quattrini non poteva non arrivare la lunga mano dei malfattori a complicare ulteriormente le cose e nonostante l’andare dei secoli vediamo che certe malvivenze non sono figlie solamente dei tempi attuali e i falsari oggi come allora erano più che mai presenti. Tant’è che una zecca abusiva del XII secolo fu rinvenuta negli anni ’90 del 1900 anche in Garfagnana a Castelnuovo e precisamente sul Monte Castellaccio. Gli archeologi rinvennero una zecca di tutto rispetto, non mancava niente: tondelli per la coniazione, crogioli usati per la fusione dei metalli e quant’altro; la specializzazione di questi falsari a quanto pare era basata su monete lucchesi e genovesi.
La sede della Banca centrale europea a Francoforte
Ad ogni modo sono finiti i tempi degli zecchini e dei baiocchi e siamo adesso nell’era dell’euro e se prima ogni minuscolo “staterello” aveva la sua valuta, adesso la medesima valuta è usata in 37 grandi ed evolute nazioni. Con quale differenza? Nessuna! Oggi come allora il disordine e l’anarchia monetaria regna indisturbata, come se il tempo non fosse passato mai…
Bibliografia
“Una zecca abusiva nel XII secolo in Garfagnana” di Giulio Ciampoltrini,Paolo Notini, Guido Rossi. Le sedi delle zecche dall’antichità all’età moderna. Atti del convegno internazionale 22-23 ottobre 1999 Milano
“Ricerche Istoriche sulla provincia della Garfagnana Disertazione ottava ossia appendice II in cui si spiegano due monete riguardanti la Garfagnana” Domenico Pacchi, anno 1785 Modena
(*) La Garfagnana (basso latino Carfaniana) è un’area storico-geografica della provincia di Lucca, in Toscana, compresa tra le Alpi Apuane e la catena principale dell’Appennino Tosco emiliano.
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Prima della lira... Viaggio nel confusionario mondo delle monete antiche dell'alta Toscana
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Prima della lira... Viaggio nel confusionario mondo delle monete antiche dell'alta Toscana
Una volta finita questa emergenza, di denaro ne servirebbe tanto nelle tasche di molto cittadini. Ma com’era l’universo monetario in Toscana e precisamente in Garfagnana (*) prima dell’avvento della lira?
Nonostante esistesse una valuta corrente regnava una grande confusione, monete da ogni dove circolavano nelle tasche della gente: talleri,svanziche, rusponi… E poi con che denaro si compravano la verdure al mercato? Forse anche al tempo esistevano monete per così dire “speciali” o commemorative? E le monete chi le produceva? Esistevano zecche? Ne leggeremo sicuramente delle belle e di bizzarre…
E’ un mondo veramente difficile, sinceramente non me lo aspettavo…
Non sto parlando però del mondo in generale, quello già lo sappiamo tutti che è ostico… Sto parlando del mondo della numismatica. Dal latino “nomisma”, ovvero moneta, la numismatica è lo studio scientifico della moneta in tutte le sue forme: storiche, geografiche, artistiche ed economiche. Mi sono affacciato a questo sapere per la prima volta proprio per scrivere questo articolo e per fare alcuni studi, ma vi giuro, miei cari lettori, solamente chi ha una grande passione per questa materia può riuscire a districarsi nei meandri del complesso universo delle monete. Al giorno d’oggi, anche in questo campo forse è tutto più facile (credo…). Infatti, prima dell’Unità d’Italia le valute che circolavano nel nostro Paese erano alcune centinaia: svanziche, talleri, fiorini austriaci, zecchini, rusponi e così via… Con l’avvento dell’unione nazionale e conseguentemente della lira, la moneta circolante diventò unica per tutti i cittadini del regno e quindi anche la vita dei numismatici si semplificò.
5 lire con Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia
La storia della lira bene o male la conosciamo tutti, ma quello che però ha stuzzicato maggiormente il mio intelletto (e spero anche il vostro) è stata la curiosità di fare un viaggio nelle antiche monete garfagnine. Con che denaro si compravano la verdure al mercato a Castelnuovo? Forse anche al tempo esistevano monete per così dire “speciali” o commemorative? E le monete chi le produceva? Esistevano zecche? Ne leggeremo sicuramente delle belle e di bizzarre… Prima di addentrarmi nell’argomento mi voglio però già preventivamente scusare con gli appassionati e gli studiosi di questa disciplina per eventuali imprecisioni e ipotetiche inesattezze…Chiedo venia…
Le vicende storiche garfagnine portarono nei secoli alla coniazione di valuta monetaria di due zecche, ognuna operante per i propri possedimenti, prima ci pensò quella di Lucca “a batter moneta” e poi successivamente il compito toccò alla zecca estense di Modena.
Tondelli per la coniazione delle monete
Nonostante vigesse in tutto il territorio una moneta ufficiale corrente (prodotta dalle suddette zecche) il panorama della circolazione monetaria in Garfagnana era comunque vario e a dir poco confuso e in questo campo difatti regnava il caos più assoluto. Per rendere chiaro il quadro della situazione è bene capire che sul finire del 1800 nella nostra cara e vecchia Garfagnana si utilizzavano indistintamente monete provenienti da tutti gli Stati, vicini o lontani che fossero. Di tutta questa confusione, una volta conquistata l’Italia se ne accorse perfino Napoleone, che fra le varie riforme che introdusse (giuste e sbagliate) ne inserì una per snellire il disordinato mercato monetario:
“moneta unica per tutti, spendibile in ogni luogo dello stato, la chiameremo…”lira italiana”.
Lira napoleonica con l’effige di Napoleone
Malgrado ciò, l’italiano cocciuto se ne infischiò altamente di questa lungimirante riforma e continuò imperterrito a far circolare molte delle vecchie e logore coniazioni, anzi, se si vuol dire tutta la confusione aumentò dal momento che nel mercato monetario fu introdotta la nuova moneta con l’effige di Napoleone e di tutto il “parentame”. Nel giro di qualche anno Napoleone sparì dalle vicende storiche e furono rimessi in piedi i vecchi governi e gli Estensi ripresero anche i loro domini garfagnini. L’idea napoleonica piacque comunque al duca modenese Francesco IV che cercò di porre un limite alla circolazione di tutte queste monete straniere e con un decreto del 15 aprile 1819 così disse:
“…noi tolleriamo potersi spendere e ricevere le monete sopra indicate al valore però soltanto ad esse attribuito e tra i soli privati nelle provincie di Reggio, Garfagnana e Lunigiana rispettivamente, restando per tal modo vietata la loro introduzione, retenzione e spedizione negli altri luoghi dello Stato, ed il loro ricevimento nelle pubbliche Casse”.
Credete forse che quanto ordinato fu rispettato? Men che mai, ci mancherebbe altro. Esattorie e ricevitorie pubbliche fecero orecchie da mercante e continuarono ad incassare denari da ogni dove e provenienza. Allorchè, visto il perdurarsi dell’indisciplina, il duca ordinò l’ispezione di tutte le esattorie dello Stato per vedere realmente ciò che contenessero. Quello che venne fuori a Castelnuovo ebbe del tragicomico:
“Specifica delle monete trovate nella cassa delle ricevitorie di questo Comune il giorno 6 dicembre 1823, alle ore 3 pomeridiane: francesconi fiorentini n. 163; paoli fiorentini n.20; mezzi paoli fiorentini n.10; monete da due paoli romani n. 3; mezzi paoli romani n. 4; scudi di Milano n. 14; bavare n. 4; lire di Milano n. 8; mezze lire di Milano n. 1; colonnati di Spagna n.2; lire di Modena n. 32; lire austriache o svanziche n. 56; napoleoni n. 48; centesimi di lire italiane n. 662; lire italiane n. 64; quarti di lire italiane n. 71; mezze lire italiane n. 50; scudi di Francia n. 1; monete da due terzi di scudo di Ercole III n. 1; ducatoni di Modena n. 3; quarantane di Modena n. 3; centesimi n. 100; monete italiane da 5 centesimi n. 236; monete italiane da 3 centesimi n. 145; soldi di Milano n. 54; mezzi soldi di Milano n. 72; soldi di resto n.8″.
Questo è quello che era nelle casse della ricevitoria castelnuovese, figuriamoci allora cosa doveva passare per le mani del privato cittadino…
Con il senno di poi possiamo però dire che non tutto il male vien per nuocere e nel ramo dei collezionisti di monete tutto questo “ambaradan” di denari ha fatto la fortuna di molte persone e giust’appunto proprio come si fa adesso con i due euro, anche all’epoca si coniavano monete speciali e particolari legate a fatti ed avvenimenti e il fulgido esempio riguarda proprio tre monete “garfagnine”.
Castelnuovo Garfagnana
Correva appunto l’anno 1606 e finalmente dopo varie lotte e scontri sia politici che militari una sentenza emessa dal Senato di Milano assegnò il possesso della Garfagnana al Ducato di Modena. Fu un grande evento per Cesare d’Este che fece suggellare il momento con la coniazione di due “grossetti” (moneta in vigore al tempo)per porre in evidenza la supremazia della casa d’Este su (quasi) tutta la valle, ma sopratutto per ringraziare il popolo garfagnino della fedeltà dimostrata. Nella rara moneta su una faccia possiamo vedere la testa del duca e l’iscrizione “Cesar.Dux.Mut.Reg”, mentre nell’altra è rappresentata la famosa bomba “svampante”(un simbolo della casata d’Este) e la dicitura “Prin.Garfignana”(principato di Garfagnana).
Moneta con la “bomba svampante” e la dicitura garfagnana
L’altra moneta battuta per l’occasione se si vuole è ancora più intima e concedetemi il temine “nostrale” e se in una faccia del soldo vige l’aquila estense con la medesima iscrizione della moneta precedente (Cesar.Dux.Mut.Reg), nell’altra c’è un San Pietro con tanto di chiavi del Paradiso in mano. Dapprima si credeva che la figura del santo stesse a significare l’influenza e la protezione della sede apostolica sul regno, ma poi ben analizzando si scoprì dell’onore dato alla Garfagnana, San Pietro era ed è il santo patrono della sua cittadina più rappresentativa: Castelnuovo. Comunque sia, se qualcuno ha per le tasche questi “spiccioletti” si ricordi che possono valere sui duemila euro cadauno… E se ora nelle monete commemorative ricordiamo le gesta di “Tizio, Caio e Sempronio”, c’è un’altra moneta che ci ricorda epiche conquiste, in questo caso meglio dire riconquiste.
Moneta con il San Pietro “garfagnino”
Successe che nelle battaglie fra fiorentini e modenesi “il povero” Alfonso I, duca estense, perse in men che non si dica la Garfagnana intera. Per sua buona sorte la vicenda ebbe vita breve e la conseguente morte di Papa Leone X (1521) protettore della famiglia Medici, liberò da ogni paura il duca che ben presto riconquistò le terre perse. Il sollievo e la felicità fu tanta, visto che Alfonso fece coniare una moneta d’argento (del valore di mezza lira o dieci soldi) con la sua testa da una parte e dall’altra un’immagine che voleva burlarsi degli stessi fiorentini:
La moneta in cui il duca si burlava dei fiorentini
un uomo che trae di bocca un agnello ad un leone: l’uomo sarebbe il duca, l’agnello la Garfagnana e il leone (simbolo della città gigliata) Firenze. Insomma, con tutti questi denari circolanti, chissà che bel da fare avevano le zecche. A proposito di zecche, forse non tutti sanno che quella di Lucca era una delle più antiche e rinomate di tutta Europa. Per circa dodici secoli, dico dodici secoli, la zecca di Lucca coniò oltre duemila monete. Già dal 650 d.C l’attività di questa industria era fiorente, talmente fiorente che la produzione durò fino al 1843, quando Lodovico Borbone decise di sospendere l’attività perchè a suo parere il denaro circolante era già troppo.
La zeccca di Lucca oggi
Queste monete circolarono per tutto il continente fra le mani di mercanti, banchieri e commercianti e dal loro monogramma “Luca” erano riconoscibili ovunque, infatti la caratteristica principale che avevano questi denari era proprio la riconoscibilità. La zecca di Lucca fu difatti la prima ad introdurre un motivo iconografico ben identificativo sulle proprie monete.
Monete con il Volto Santo
Oggi questo modo di fare va tanto di moda e sulle nostre due euro(commemorative) vediamo Dante, Pascoli, Cavour, ma già nel 1200 Lucca, raffigurò sui primi “grossi” coniati niente di meno che il Volto Santo, vero elemento identificativo di una comunità intera. Sempre in fatto di zecche di Stato rimane da raccontare una particolarità veramente originale; come abbiamo visto e letto erano le grandi città commerciali o quelle più importanti che battevano moneta, avendo di fatto una propria valuta corrente: Lucca, Padova, Milano, Firenze, Verona e fra tutte queste e tante altre c’era anche… Minucciano. Si, si, avete capito bene, Minucciano. Oggi il piccolo comune garfagnino conta poco più di duemila abitanti, ma sul finire dell’anno mille quando i Malaspina cessarono la loro dominazione su questo territorio , questa zona divenne con il tempo una terra di una importanza strategica ed economica a dir poco rilevante, una via di passaggio fondamentale tra la Garfagnana stessa e la Lunigiana. Lucca capì al volo il peso considerevole che potevano avere queste territori e per questa ragione se ne impossessò. I lucchesi infatti tenevamo molto in considerazione Minucciano, tant’è che al paesello gli fu conferito lo stato di “comunitas” e udite udite, il privilegio di battere una propria moneta: il Barbone Minuccianese.
Minucciano
D’altronde, in tutto questo pasticcio di denari, valute varie e quattrini non poteva non arrivare la lunga mano dei malfattori a complicare ulteriormente le cose e nonostante l’andare dei secoli vediamo che certe malvivenze non sono figlie solamente dei tempi attuali e i falsari oggi come allora erano più che mai presenti. Tant’è che una zecca abusiva del XII secolo fu rinvenuta negli anni ’90 del 1900 anche in Garfagnana a Castelnuovo e precisamente sul Monte Castellaccio. Gli archeologi rinvennero una zecca di tutto rispetto, non mancava niente: tondelli per la coniazione, crogioli usati per la fusione dei metalli e quant’altro; la specializzazione di questi falsari a quanto pare era basata su monete lucchesi e genovesi.
La sede della Banca centrale europea a Francoforte
Ad ogni modo sono finiti i tempi degli zecchini e dei baiocchi e siamo adesso nell’era dell’euro e se prima ogni minuscolo “staterello” aveva la sua valuta, adesso la medesima valuta è usata in 37 grandi ed evolute nazioni. Con quale differenza? Nessuna! Oggi come allora il disordine e l’anarchia monetaria regna indisturbata, come se il tempo non fosse passato mai…
Bibliografia
“Una zecca abusiva nel XII secolo in Garfagnana” di Giulio Ciampoltrini,Paolo Notini, Guido Rossi. Le sedi delle zecche dall’antichità all’età moderna. Atti del convegno internazionale 22-23 ottobre 1999 Milano
“Ricerche Istoriche sulla provincia della Garfagnana Disertazione ottava ossia appendice II in cui si spiegano due monete riguardanti la Garfagnana” Domenico Pacchi, anno 1785 Modena
(*) La Garfagnana (basso latino Carfaniana) è un’area storico-geografica della provincia di Lucca, in Toscana, compresa tra le Alpi Apuane e la catena principale dell’Appennino Tosco emiliano.
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