#Il giro di vite
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Il meccanismo del coinvolgimento euro-atlantico nella guerra è sempre più simile al “giro di vite” di Henry James. Fino alla rivelazione finale della diabolicità del meccanismo stesso. Non è all’opera solo un modello letterario. È un archetipo, un’antropologia che conduce alla rivelazione del Male per avvicinamenti successivi e irreversibili. Lo scontro è inevitabile, ma deve essere procrastinato a un punto tale per cui ciò che era inevitabile solo a coloro che l’hanno programmato lo diventi anche per coloro che lo dovranno subire. Nella logica dello scontro totale una volta definito il nemico assoluto occorre che diventi assoluto anche chi vi si oppone e quindi deve presentarsi come privo di resti e dissidenze possibili. Questa contrapposizione non può realizzarsi tutta in una volta, deve essere costruita, deve avere una forma. Ci vuole del tempo ed è lo stesso tempo del “giro di vite”. Che lascia senza fiato.
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[Il giro di vite][Henry James]
Senza ricorrere a catene sferraglianti, rumori demoniaci e altri cliché tipici della ghost story, Il giro di vite di Henry James riesce a creare un’atmosfera di tensione e orrore striscianti come pochi altri del genere.
La storia inizia quando un’istitutrice arriva in una tenuta nella campagna inglese per occuparsi di Miles, dieci anni, e Flora di otto. Tutto sembra procedere normalmente, finché una serie di eventi disturbanti dà vita a un clima di terrore. Una notte, la nuova istitutrice assiste all’apparizione di un fantasma: si tratta dello spirito del defunto Peter Quint, valletto dell’assente padrone di…
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#2023#Carlo Pagetti#Fanucci#Fanucci Editore#fiction#ghost story#Henry James#Il giro di vite#LGBT#LGBTQ#Narrativa#Paola Artioli#queer#The Turn of the Screw#UK#USA
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Turchia, giro di vite sui social dopo il terremoto
Turchia, giro di vite sui social dopo il terremoto
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Per me, dovunque scatti una leva affettiva di origine sincera (ma soprattutto spontanea, a mo’ di ‘colpo di fulmine’) si crea automaticamente un vincolo inossidabile con il destinatario dell’affetto, che diventa un’entità immutabile nella mia mente. È come se di volta in volta il ricevente restasse cristallizzato, quando non alle prime fasi della conoscenza, comunque ai momenti di massima corrispondenza, di massima reciprocità. Oltre non so andare, non me lo racconto. Non riesco a concepire questa vita e la contemporaneità tutta come la giostra che sono, da cui quando qualcuno scende bisogna accogliere chi sale e ritentare il giro fino alla nausea. Lo trovo semplicemente nefasto e aberrante e gli preferisco la solitudine più nera. Tutto, fuorché questo incessante gioco al rimpiazzo perenne, come se ogni individuo fosse commutabile con un altro. In fondo, questa non è che la più banale deriva della società liquida baumanniana, che rifuggo con ogni mia forza. Ogni mattina mi guardo allo specchio e mi dico “questo turnover, questo giro di vite (ma non jamesianamente inteso) non può essere vero ma, ancor peggio, desiderabile e desiderato”. Sono votata alla fissità delle situazioni, soprattutto se, e scusate la digressione evoluzionistica, mi hanno fatto star bene in mezzo a tanto male che non solo personalmente mi tocca sobbarcarmi (per via delle mie condizioni personali molto gravose) ma che oggettivamente esiste ogni giorno nella sua banalità, senza dolo. Ed è proprio questa assenza di dolo che lo fa dilagare indisturbato.
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Oggi ci troviamo in una situazione molto pericolosa. La guerra non è solo un campo di battaglia per le armi, ma anche per l’informazione. Julian è stato messo in prigione per aver pubblicato notizie vere su una guerra impopolare, come era quella in Iraq, dove le forze di occupazione americane controllavano totalmente la narrazione dei fatti”.
Con queste poche parole al Fatto Quotidiano, Stella Moris, la moglie del fondatore di WikiLeaks, centrava l’essenza del caso Assange e WikiLeaks, mentre la guerra in Ucraina era appena all’inizio. Oggi che da Gaza a Kiev, la guerra brucia migliaia di vite innocenti e per Julian Assange è l’ultima chiamata, le parole di Stella rimangono la sintesi perfetta del caso. Sì, perché l’unica ragione per cui Assange non ha più conosciuto la libertà e rischia di perderla per sempre, forse nel giro di pochi giorni o di pochi mesi, è che lui e WikiLeaks hanno esposto le atrocità e le manipolazioni della macchina della guerra su larga scala come mai nessuna organizzazione giornalistica, aprendo uno squarcio profondo in quel “Potere Segreto”, che è il complesso militare-industriale degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma non solo: WikiLeaks non ha rivelato soltanto i crimini del mondo occidentale. Ha esposto anche i massacri dei talebani, la ferocia di al Qaeda e le complicità di tanti Paesi non occidentali nella War on Terror. Per Assange è stata la fine.
Dal 2010 a oggi: dall’arresto all’ultima udienza Inumato da vivo dal 2010, all’età di 39 anni, quando lui e WikiLeaks iniziarono a pubblicare i 700 mila documenti segreti del governo americano. Questa mattina, il giornalista australiano comparirà davanti alla High Court di Londra, per quella che può essere l’ultima udienza sul suolo inglese. Se la High Court confermerà l’estradizione negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di prigione, ad Assange rimarrà solo una possibilità: appellarsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma il rischio che possa venire estradato prima che la Corte emetta misure protettive è reale.
I file segreti sulla verità delle guerre americane Le rivelazioni di WikiLeaks, per cui il suo fondatore rischia di passare la vita in prigione, sono tra gli scoop più grandi nella storia del giornalismo. I 91.910 Afghan War Logs e i 391.832 Iraq War Logs, report segreti sulla guerra in Afghanistan e in Iraq rispettivamente, hanno permesso di bucare la nebbia della guerra proprio mentre questa era in corso e non dopo trenta o quaranta anni dopo, quando ormai quei conflitti non interessavano più a nessuno, a parte gli storici di professione, perché troppo lontani nel tempo. Grazie a quei file segreti, abbiamo potuto confrontare quello che la macchina della propaganda ci raccontava su quelle due guerre e quello che accadeva sul campo, secondo il racconto dei soldati americani che li combattevano.
Afghanistan: conflitto perso in partenza Abbiamo così scoperto, per esempio, che già nel 2010 la guerra in Afghanistan era un conflitto senza speranza: dopo dieci anni, le truppe americane e della coalizione Isaf, di cui faceva parte anche il nostro paese, avevano ottenuto così poco che nel distretto di Herat, controllato dagli italiani, le forze di polizia afghane da noi addestrate avevano problemi così seri che molti di loro si univano ai talebani, perché non venivano pagati e non si capiva dove andavano a finire i loro salari. La situazione appariva così compromessa che alcuni arrotondavano con i sequestri di persona. Mentre la propaganda ci raccontava le magnifiche sorti progressive del conflitto afghano, i 91.910 documenti fotografano un fallimento che, undici anni dopo, nell’agosto del 2021, ci avrebbe portato al ritiro. Gli Afghan War Logs ci hanno permesso di scoprire unità segrete mai emerse prima, come la Task Force 373, un’unità di élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono. La brutalità dei raid portati avanti nel cuore della notte da queste forze speciali, aveva prodotto stragi tra forze afghane alleate, bambini e donne, creando un forte risentimento contro gli americani e contro le truppe alleate da parte della popolazione locale. A oggi gli Afghan War Logs rimangono l’unica fonte pubblica per ricostruire attacchi, morti civili ed esecuzioni stragiudiziali tra il 2004 e il 2009, a causa della segretezza di quelle operazioni. E sono una delle pochissime fonti che permettono di ricostruire i civili uccisi prima del 2007, su cui neppure la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, l’Unama, che compila queste statistiche, possiede dei dati affidabili.
Iraq; i morti mai contati e il carcere di Guantanamo Quanto agli Iraq War Logs, hanno permesso di rivelare, tra le altre cose, 15 mila vittime mai conteggiate prima nella guerra in Iraq. Possono sembrare statistiche, puri numeri, in conflitti come quello in Iraq, che ha registrato circa 600 mila civili uccisi e 9,2 milioni di rifugiati e sfollati – ovvero il 37 per cento della popolazione prima dell’invasione americana dell’Iraq – ma quei 15 mila civili mai conteggiati prima erano padri, madri, fratelli. È un diritto umano sapere che fine ha fatto una persona cara. E l’unica giustizia che quegli innocenti hanno avuto, è la verità fatta emergere da WikiLeaks. I documenti segreti sul carcere di Guantanamo Bay hanno permesso di conoscere 765 su 780 detenuti del lager, facendo emergere per la prima volta le ragioni per cui gli Stati Uniti li avevano trasferiti nel campo di detenzione, tra informatori comprati e torture da Inquisizione.
I cablo tra gli Usa e altri Paesi (Italia compresa) Ma le rivelazioni più cruciali sono sicuramente quelle che emergono dai 251.287 cablo: le migliaia di corrispondenze diplomatiche inviate da 260 ambasciate e consolati americani in 180 Paesi, che hanno fatto affiorare scandali, abusi, pressioni, come quelle sulla politica italiana per garantire l’impunità agli agenti della Cia (Central Intelligence Agency) responsabili per il rapimento e la tortura di Abu Omar o i sospetti dell’Amministrazione di George W. Bush che l’Italia pagasse mazzette ai talebani per evitare attacchi ai suoi soldati in Afghanistan. È per questo lavoro giornalistico, e solo per questo, che gli Stati Uniti vogliono seppellire per sempre Julian Assange in una prigione.
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Penso sempre che degli anniversari piccoli dentro quelli grandi bisogna prendersi cura: protagoniste sono persone comuni, con sentimenti ordinari. Oggi è “la giornata internazionale di”, ma è anche il giorno in cui A e B si sono conosciuti, “oggi si celebra la scoperta della”, ma è anche il giorno in cui C ha trovato il lavoro dei suoi sogni. È una dimensione nascosta tra le pieghe della storia, fatta di piccoli ricordi che fanno grandi e significative le vite.
Da qualche tempo ho capito che ogni evento importante per noi è già un anniversario, dalla sua nascita. Ci sono date che non hanno la fortuna di fare il giro completo, non “ripassano dal via” sovrapponendosi a se stesse, uno dieci cinquanta anni dopo. Questo non le rende meno ufficiali o reali, perché una giornata importante è da subito un anniversario. E dal primo secondo vive, aspettando di diventarlo anche sul calendario.
“Oggi sono 11 mesi.”
“Sarebbero 11 mesi.”
“No, oggi sono 11 mesi. Lo erano già 11 mesi fa.”
#ninoelesirene#pensieri#frasi#persone#riflessioni#sentimenti#letteraturabreve#emozioni#amore#aforismi#anniversario
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Fai attenzione a ciò che chiedi: edizione Russia. Tre migranti musulmani sono arrivati in Russia e hanno immediatamente pubblicato sui social media video in cui posavano con denaro, armi e droga dicendo: "As-salamu alaykum è il nostro primo giorno a Mosca, scoperemo le vostre donne e vi ruberemo i soldi".
Nel giro di 24 ore erano tutti in ginocchio, piangevano, si scusavano e imploravano per le loro vite.
La Russia non è gli Stati Uniti, ragazzi.
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La malattia di cui oggi soffre gran parte dell’umanità è inafferrabile, non definibile. Tutti si sentono più o meno tristi, sfruttati, depressi, ma non hanno un obbiettivo contro cui riversare la propria rabbia o a cui rivolgere la propria speranza.
Un tempo il potere da cui uno si sentiva oppresso aveva sedi, simboli, e la rivolta si dirigeva contro quelli. Ma oggi? Dov’è il centro del potere che immiserisce le nostre vite? Bisogna forse accettare una volta per tutte che quel centro è dentro di noi e che solo una grande rivoluzione interiore può cambiare le cose, visto che tutte le rivoluzioni fatte fuori non han cambiato granché.
- Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra
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Il giornalista, si sa, è un cretino per contratto, ma quando per contratto gli viene per di più richiesto di fare il poeta, il cerchio si chiude e la sua cretineria emerge intera e perfetta, come lo sfero di Parmenide: Bayesian, lo speleo sub dei vigili del fuoco: «Quei frammenti di vita dentro il relitto». Il "frammento di vita" è licenza stabilmente presente nel miserabile breviario giornalistico delle frasi fatte, parimenti a "vita spezzata" e a "giro di vite". "Speleo sub" è invece termine tecnico che rimanda alla competenza specialistica tanto cara all'uomo attuale, accostabile all'apocalittico "bomba termobarica" e al fantascientifico "cane molecolare", che poi, stringi stringi, si rivela il segugio del Tenente Colombo. Il giornalista come aedo dell'attualità, l'attualità acefala delle ciance che durano un giorno e che riposano sulla storia ridotta a rotocalco, come nei programmi di Rai Tre.
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Sei di Denari
"La via dell'Amore".
Nessuno conosce la Verità.
Siamo tutti in cammino verso l'Amore.
E ciascuno di noi è guidato dal suo Maestro interiore, dal suo unico e irripetibile movimento d'Anima.
Io non posso giudicare il viaggio dell'Altro. Posso cercare di comprenderlo, di affiancarlo, di sostenerlo. Ma mai avrò l'opportunità di conoscere la sua Voce interiore fino in fondo.
Ogni Viaggio è unico e irripetibile.
Ciascuno vive i Sentimenti secondo il proprio vissuto familiare, culturale, animico, secondo ciò che ha maturato all'interno di questa Esperienza terrena e di altre Vite dimensionali.
Quanto ha sofferto, quanto ha tentato di restare a galla anche nei momenti più difficili, quanto si è sentito tradito o abbandonato, nessuno sa.
Ognuno è Giudice, Insegnante, Mentore, Padre e Madre di se stesso.
Puntare il dito è facile.
Ci fa sentire "migliori".
Ma nessuno è "migliore" nei Viaggi evolutivi. Tutti si è ugualmente coinvolti in una sfida complessa e a tratti anche molto dolorosa.
"Amare" è ciò che l'Umanità sta tentando di ri-accogliere dentro al proprio Cuore.
E per chi l'Amore non l'ha mai vissuto è dura riappropriarsi delle Vibrazioni di questo Sentimento, risvegliarle, ricomporle, assorbirle nella Struttura.
Spesso confonde l'Amore con il Bisogno. Percepisce il "vuoto affettivo" invadere ogni singola cellula. Si sente ingiustamente privato di qualcosa che l'avrebbe reso "completo" e "felice".
Si arrabbia, piange, sbatte i piedi.
Lo abbiamo fatto tutti.
Perché l'Amore su questo piano terreno è mancato a gran parte delle Anime presenti oggi.
E ciascuno di noi fa fatica a regolare gli impulsi legati alla Ferita dell'Abbandono.
Fa male essere lasciati o giudicati duramente nella propria capacità di amare.
E' complesso "reggere" una relazione di coppia o di genitorialità, per chi non sa nulla dell'Amore.
Ma anche la solitudine ha il suo peso.
Non conosciamo altro che l'Amore tossico o malato. Null'altro.
E per sfuggire a questo, rinunciamo alla pienezza di Vita.
E fa ancora più male sentirsi perennemente la "parte sbagliata" della Diade.
Ma non è così. La Diade si compone sempre in due. E ciascuno porta nella coppia il proprio vissuto di sofferenza e di mancanza.
Poi la Diade si rompe inevitabilmente. Perché ha i piedi di Argilla e si nutre dello schema della Disfunzione.
Ora questo lo vediamo. E' chiaro e palese dentro di noi.
Se prima, nell'inconsapevolezza poteva apparirci "tutto normale" o "tutto a posto", oggi siamo più presenti a noi stessi.
E conosciamo ciò che portiamo all'interno dei movimenti di relazione. E anche ciò che sta portando l'Altro.
E se stiamo condividendo Schemi vecchi e per noi molto dolorosi è possibile che scegliamo di sottrarci. Per rispetto di noi stessi e dell'Altro.
Se l'Altro non comprende questo movimento, è comprensibile.
Si sente tradito e preso in giro. Ha perso un'alleanza e ha minato ulteriormente la sua fiducia nelle relazioni.
Ma non è questo lo scopo dell'Amore. Non è "offrire garanzie".
Non è riempire vuoti. Non è "un'assicurazione sulla felicità".
L'Altro è un Essere umano.
Ha diritto di scelta.
Non è "contro di noi" il suo movimento. E' per se stesso.
E se non lo accettiamo con il nostro impianto emotivo, che soffre per la perdita e la mancanza, possiamo però sentirlo su un piano più alto e profondo.
Anche i lutti, come le separazioni, provocano un senso di ingiustizia. Essere "privati di qualcuno" ci getta nella più profonda rabbia.
Questo perché l'Altro ci ha traditi con la sua morte, perché Dio ci ha privati di qualcosa che era "nostro".
Ma nessuno è "nostro".
Appartiene alla Vita, al suo Destino, alla sua scelta di "concludere" il suo unico e straordinario viaggio terreno per ricongiungersi ad altri "stati dimensionali".
Abbassate il dito.
Sia contro l'Altro che contro voi stessi.
Non ci sono colpevoli.
Ci siamo "noi".
Solo e semplicemente "noi".
Che non siamo stati amati. E che facciamo fatica ad amare.
Tutti. Nessuno escluso.
E con tanta compassione e dolcezza, accogliamo quel senso di perdita, di sconfitta, di impotenza e abbracciamolo.
Nessun Maestro può insegnarcelo.
Siamo noi che dobbiamo farlo, dobbiamo imparare a risorgere dalle ceneri, più forti, più radicati, più amorevoli e affettivi verso noi stessi e il nostro nucleo emotivo.
Non sappiamo amare?
Oggi magari è così. Non sappiamo ancora amare e amar-ci. Ma il nostro Cuore ci sta guidando. Pezzettino per pezzettino.
E ci sta mostrando cosa "non è amore" e cosa invece brilla di purezza e "origine".
Nessun Maestro e nessun Discepolo.
Solo noi.
Noi. E il nostro straordinario Viaggio.
Mirtilla Esmeralda
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House of the Dragon 2, Episodio 6 (Smallfolks): Women Power!
È un passo a due quello del sesto episodio della seconda stagione di House of the Dragon (2x06): Rhaenyra e Mysaria, Daemon e Alys, Aegon e Aemond. Una danza parallela a quella dei draghi, ma che non si evolve come vi aspettereste.
House of the Dragon* continua sulla scia delle puntate che solo apparentemente sono statiche, di strategia e non di azione, ma è solo un'impressione. Lo spin-off del Trono di Spade, con il sesto episodio della seconda stagione si avvicina verso il gran finale. Tuttavia, dopo il quarto sconvolgente episodio, qualcuno si è lamentato dell'eccessivo andamento altalenante della narrazione.
Emma D'Arcy e la sua Rhaenyra rimangono uno dei fiori all'occhiello della serie
Dispiace leggerlo in giro perché sembra che gli spettatori non abbiano più pazienza. Pazienza di gustarsi l'episodio settimanale con calma; pazienza di attendere gli sviluppi dei personaggi e delle storyline, che non sono sempre immediati, come la scrittura originaria di George R.R. Martin, del resto, insegna. Poi, la pazienza di non pretendere svariate morti truculente in ogni episodio, altrimenti anche il realismo drammatico in salsa fantasy del mondo delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco rischia di sgretolarsi.
La rivincita dei "bastardi"
Nel finale del quinto episodio Rhaenyra (Emma D'Arcy) insieme al primogenito Jace (Harry Collett) aveva avuto la folle idea (degna del nome della Casa che porta) di riunire gli eredi di altre famiglie di Westeros che avevano del sangue Targaryen nelle vene da antiche discendenze per provare a forgiare nuovi cavalieri di draghi. Perché, nella Danza dei Draghi oramai entrata nel vivo, bisogna averne di più, averli più grandi e saperli cavalcare. Purtroppo la Regina legittima erede al Trono di Spade ne ha persi due in poco tempo: prima quello di Daemon (Matt Smith), oramai arroccato ad Harrenhal preparando sostanzialmente si un'offensiva contro i verdi ma anche contro la moglie; e poi Rhaenys il cui drago è stato ucciso in battaglia, creando stupore e scalpore in tutto il regno.
In quest'ottica l'idea potrebbe essere geniale… oppure rivelarsi un pericoloso fiasco totale: se andrà male, chi altro senza sangue puro e primario potrà mai avere il coraggio di avvicinarsi nuovamente ad una di quelle mitiche creature sputafuoco? Questi "pretendenti" non sono gli unici "bastardi" (non in senso letterale) estraniati su cui si concentra la puntata: torna il fratello di Daemon e Viserys, che torna in un cameo inaspettato attraverso le visioni del Principe Consorte e che farà felice i fan, torna il fratello di Alicent che la aggiorna sull'altro suo figlio, Daeron, riflettendo su come sarebbero state le loro vite se il padre Otto avesse puntato tutto sul primogenito e non su di lei.
Una donna tra gli uomini
Proprio Alicent (Olivia Cooke) è di nuovo al centro dell'episodio in modo speculare rispetto a Rhaenyra e in questo House of the Dragon continua il discorso sul women power della scorsa: come dicevamo, due fazioni, stessa famiglia allargata, due concili ristretti eppure stesse problematiche da affrontare per le due Regine e stesso ragionamento patriarcale figlio del tempo fantastico, ma a tratti socialmente fin troppo reale, che racconta. Eppure proprio in questo spin-off venuto temporalmente ben prima degli eventi, Ryan Condal riesce ad essere ancora più moderno e legato ai tempi che corrono.
Il verde del vestito di Alicent è di nuovo protagonista e simbolico
Con un plot twist perfettamente coerente col racconto imbastito finora che riguarda Rhaenyra e che la conferma un'abile stratega grazie anche alla sua (oramai) consigliera Mysaria (Sonoya Mizuno), riesce a fare, metaforicamente parlando, breccia tra le mura di King’s Landing. Alicent invece partendo da suo padre Otto continua ad essere usata da tutti gli uomini della sua vita - compreso Ser Criston, se ci fermiamo a riflettere un attimo - e, quando ha mal interpretato le parole del marito in punto di morte, pensava di poter controllare Aegon ed ora si è ritrovata per le mani il regno del terrore di Aemond (Ewan Mitchell), che è pronto a distruggere tutto quello che c'è stato prima in nome del piano machiavellico che ha in mente.
Fratelli coltelli
Il sadismo di Aemond la fa da padrone nella puntata
Il sesto episodio è davvero un eterno passo a due tra le coppie di personaggi citate, in precedenza, e tra queste non si può escludere proprio il Re Usurpatore e suo fratello con la benda sull'occhio. Ci sono almeno due sequenze profondamente inquietanti e disturbanti tra i due Targaryen che lasciano col fiato sospeso. Così come qualche altra scena particolarmente avvincente che passa solo in parte all'azione ma che contribuisce a giocare con lo spettatore che dalla narrativa di Martin si aspetta sempre il peggio dietro l'angolo.
Non sono gli unici due parenti di sangue che si confronteranno in questo episodio, mentre Alys Rivers (Gayle Rankin) - altro personaggio sempre più chiave proprio come Mysaria - continua con le proprie affermazioni sibilline e il proprio carisma magico e mistico, consigliera di un uomo sempre più in balia dei propri demoni, di nome e di fatto. Parallelamente il serial affronta la questione sociale del popolo affamato, e ancora una volta le due parti della stessa Casa avranno un atteggiamento molto diverso sul problema. La risposta, neanche a farlo apposta, è nei draghi.
Conclusioni
In conclusione Il sesto episodio della seconda stagione di House of the Dragon (2x06) è sicuramente un episodio di passaggio – il precedente era più un “post mortem” - ma allo stesso tempo è ricco di sequenze angoscianti e piene di significato che ci dicono molto sui personaggi e sulla loro involuzione più che evoluzione. È come se stessero tutti sprofondando in un abisso sempre più nero dal quale sarà difficile tirare fuori qualcosa di buono. A rimetterci però è sempre il popolo dei Sette Regni, che inizia ad insorgere pesantemente e pericolosamente.
👍🏻
Strutturare la puntata a coppie di personaggi, consanguinei e non, con qualche colpo di scena in canna.
Il sadismo di Aemond.
L’idea dei consanguinei “latenti” in una serie sulla successione di sangue.
È un episodio sicuramente di passaggio (anche se in realtà ricco di vari spunti narrativi).
La perdita della bussola di Daemon potrebbe urtare i fan del personaggio, n ma resta in linea per come ci era stato presentato fin dall’inizio della serie.
👎🏻
In molti sicuramente troveranno qualcosa che non va, del resto è l'hobby del fandom di Hotd di questionare su qualsiasi dettaglio, ma per questa puntata mi astengo perchè non ho trovato nulla di rilevante che non mi sia piaciuto.
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realizzo solo ora, alle 23.15 mentre con un cacciavite in mano aggiusto l'asta della doccia che forse io, qui, non ci volevo tornare. prendo una fascetta di quelle perfette per fare un accrocco in stile non lo so aggiustare proviamo con quella, ma purtroppo fallisco nel mio intento. papà ha un mobile in garage dedicato SOLO alle fascette e mentre sono li a guardarle realizzo che mi sento fortunata nell' avere una "casa di emergenza" in cui scappare quando qui non ci voglio stare. quindi mi ripeto che è vero, che io sono una di quelle persone che invece che risolvere il problema ci circumnaviga intorno e poi scappa, come se farci il giro intorno trovasse la soluzione. eppure prima o poi a casa ce devi torna' e per forza ti impregni i vestiti, l'anima e i pensieri di queste problematiche che saturano l'ambiente. che sai quando gli zen dicevano "e questa malinconia che mi sale dentro al cuore quando entro a casa mia" e mo li capisco troppo bene. intanto ho tolto lo stantuffo dall'asta, ho stretto la vite che si era allentata e cercando di capire come cazzo fosse incastrato tutto penso che anche io mi sento incastrata in una situazione che non ho mai voluto e che forse forse, quando anni prima scappavo a suonare la chitarra alle 2 di notte in stazione non c'avevo poi tutti i torti. quindi penso a quella canzone che dice "non ero più a casa mia nemmeno a casa mia solo mille guai" e quindi mi fermo un secondo, smadonno perché lo stantuffo non entra e mi ripeto che prima di andare a dormire sta cazzo di doccia deve essere perfetta, non solo perché col cazzo che prendo un pezzo nuovo, ma poi perché da qualche parte quei mille guai bisogna farli diventare 999. quindi provo, riprovo, insisto, sudo, cazzo che caldo regà, però alla fine ci è entrato, forse perché il buon signore Gesù ha detto "famogliela na grazia a sta sfigata" e quindi un po' per culo, un po' perché voglio credere di aver capito davvero come andasse e un po' perché le preghiere non aiutano ma le bestemmie sì ci sono riuscita. cosa abbiamo imparato da questa storia? innanzitutto che non è vero che ci sono "problemi per i maschi" e "problemi per le femmine" perché i problemi sono per tuttɜ, poi c'è chi si fa coraggio per affrontarli e chi ci li circumnaviga perché se tanto ci pensiamo domani vedi che non succede nulla. quindi non lo so, sinceramente volevo dire qualcosa di intelligente perché sto con questo cacciavite in mano mentre guardo quasi soddisfatta sta minchia di asta della doccia che finalmente sta ferma e mi dico che forse, nella vita, oltre alle madonne, si ha sempre bisogno di un cacciavite, però si insomma non so se sia meglio piatto o a stella quindi sapete cosa? prendere il kit della lidl che stanno le punte intercambiabili e soprattutto, tenete vicine quelle persone che ti dicono che ce la puoi fare, che ti facciano sentire liberɜ e che ti prendano per mano per vincere sta malinconia.
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Che poi ho amato tanto. Ho amato con l'anima, il cuore, la pelle. Ho amato con attenzione, con premure non richieste e sguardi amorevoli. Ho amato fino a non averne più amore. Fino a prosciugarmi.
Poi nelle notti fredde, in cui il letto tremava insieme a me, ai miei terrori, ai miei incubi e preoccupazioni, pensavo, piangendo nel cuscino che se l'amore che davo non era abbastanza, l'amore che prendevo sapeva d'amarezza.
Non si curavano di me. Non importava nulla al mondo che per un briciolo d'amore, e parlo d'amore vero, quello ormai dimenticato, io mettevo da parte il mondo, mettevo da parte me.
Chiedevano. Urlavano. Pretendevano.
Ed io?
Io restavo inerme, ed ascoltavo in silenzio il poco significato che i miei sforzi avevano nelle vite di chi amavo.
Con arroganza mi mettevano davanti i miei errori, le mie mancanze, i miei difetti, il mio essere fatta diversa dagli altri.
Volevano abbracci. Carezze. Baci. Premure.
Volevano un amore differente, ma con parole di cui ordine nemmeno più ricordo, dicevano che andava bene il mio. Che sarei cresciuta. Col tempo cambiata.
Eppure mi chiedevo, in cuor mio che cosa non andasse in me. Quale tassello mancava? Il puzzle sembrava completo.
Poi ricordavo i pezzi lasciati in giro.
I "Ti voglio bene, papà" che diventavano schiaffi.
Gli abbracci che sapevano d'alcol e mani incontrollate poggiate dove non volevo.
Eppure lo sapevo che ero rotta. Rotta di brutto, che pure i pezzettini del puzzle che ancora rimanevano in me, ormai erano ammaccati, spiegazzati.
Non si incastrava niente.
Il mondo andava avanti ed io spingevo a più non posso nel alleggerire il carico degli altri e dimenticandomi del mio. Dimenticandomi di me.
Eppure ora mi vedo.
Mi guardo allo specchio e vedo le rotture, le crepe, i pezzi che da anni si sono sgretolati, la polvere di stelle di cui pensavo fossi stata creata, ora non era che un ammasso di poltiglia infinita in cui giorno dopo giorno continuo a sprofondare.
Mi sono persa in me stessa insomma.
Una tragica fine per chi di se non sa niente.
E mi perdo nel libretto d'istruzioni di questo corpo che non sento mio, di questa testa che pesa più del dovuto e di questo cuore che batte sempre con maggiore irregolarità.
Eppure sono ancora qua. Alla mercé delle battute che feriscono, ma dinanzi alle quali abbozzo un sorriso stropicciato che spero spazzi via l'insicurezza che celano i miei occhi. Dinanzi a parole che non valgono per altri, ma che per me diventano man mano segnali stradali dinanzi ai quali mi fermo per capire la direzione in cui andare.
Ed io? Io dove voglio andare?
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Netanyahu annuncia il giro di vite dopo le sparatorie a Gerusalemme
Ci sarà maggiore libertà di uso delle armi per i cittadini e il controllo degli insediamenti in Cisgiordania sarà rafforzato
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Luana è morta il 3 maggio del 2021 finendo nell’ingranaggio di un orditoio della fabbrica in cui lavorava, a Montemurlo, in provincia di Prato. Lavorava lì da circa due anni, aveva fatto quella scelta per avere una paga sicura anche per dare stabilità al suo bambino. Si era alzata come ogni mattina alle cinque per andare a svolgere il suo lavoro di apprendista. «Quel giorno lei sarebbe dovuta rientrare a pranzo: era il mio compleanno – ricorda la madre Emma – alle 13.40, mentre l’acqua della pasta stava per bollire, sono arrivati due carabinieri a darmi la notizia: mia figlia si trovava all’obitorio».
La signora Marrazzo si batte per il tema della sicurezza sul lavoro, porta avanti le sue istanze, partecipa ai processi, interviene nelle scuole. «Senza la sicurezza, non si torna a casa. Voglio dirlo ai giovani perché le Istituzioni sono assenti e, mentre i responsabili patteggiano o si salvano, in un modo o nell’altro, con attenuanti e con sospensioni della pena, il nostro, di noi famigliari, è un ergastolo a vita. Ci vogliono pene gravi o gravissime».
«Non si può immaginare il dolore di una mamma che perde un figlio. Non passa, aumenta. Mi aggrappo a mio nipote, non ricordo più com’ero prima di quel giorno. Luana riempiva la casa di gioia, mi manca in tutto. Quella porta non si apre più e così la ritrovo nei ricordi e nel suo cellulare, dove riascolto i suoi audio. Mi manca andare in giro con lei, condividere. Quando riscuoteva lo stipendio era felice e mi portava subito fuori. Aveva tempo per tutti, anche dopo il lavoro. Con suo figlio, con me, con le amiche, con il suo compagno: trovava il tempo per amarci tutti. Non è giusto andare a lavorare per produrre quel poco di più per l’azienda e perdere la vita, lasciare un figlio orfano. I sindacati devono unirsi tutti. Non ho mai ricevuto una lettera da parte dell’azienda e il giorno del funerale hanno lasciato aperta la fabbrica. Non voglio vendetta, ma dare un segnale chiaro».
Sono passati diversi anni, ma di lavoro si continua a morire, come ha scritto Raffaele Bortoliero nel libro “Non si può morire di lavoro – Storia di giovani vite spezzate”. L’autore è impegnato a promuovere la sicurezza sui luoghi di lavoro raccontando le storie di giovani, alcuni studenti lavoratori, che hanno perso la vita lavorando e che nessun Paese civile dovrebbe dimenticare. Così come non si dovrebbero dimenticare le loro famiglie, abbandonate al loro dolore e alla rassegnazione.
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Una buona storia è fatta di questo: di un prima e di un dopo. Di un dopo necessitato dal prima, ma anche di un prima necessitato dal dopo. Tanti anni fa, in un bar dalle parti di Macchine – uno degli edifici della facoltà di Ingegneria della mia città, Padova – ebbe luogo una furibonda discussione a causa della morte, avvenuta in circostanze assai improbabili, di una persona a tutti nota – nota a tutto quel pubblico di pensionati impegnatissimi, alle dieci del mattino, nella compulsazione dei giornali e nella verifica di qualità del bianco della casa. Le due fazioni così si dividevano: quella morte, è stata fatalità, o destino? Fatalità (la discussione si svolgeva in dialetto, naturalmente) è il caso; destino è ciò che «sta scritto». Dopo aver lungamente e duramente discusso, unanimemente i due schieramenti pervennero alla decisione di ordinare un secondo giro di bianchetti, e di passare a un altro punto dell’ordine del giorno.
Un sacerdote al quale volli molto bene – è morto una quindicina d’anni fa – per molti anni frequentò in ospedale un reparto di malati terminali. Erano, all’epoca, soprattutto persone abbastanza giovani, in preda all’Hiv. Una sera, mentre nella sua 126 rossa andavamo da non so dove a non so dove, mi disse: «Andando lì ho capito una cosa. La vita umana non ha senso». Il che, detto da un sacerdote, potrebbe sembrare a prima vista blasfemo; in realtà è ortodossissimo. Se la vita umana come la conosciamo, se questa vita qui, sulla terra, avesse qualche chance di avere senso, a che cosa servirebbe l’immaginazione di un’altra vita, in un indescrivibile altrove? Dove non ci sarà né morte, né lutto, né dolore e, asciugati da ogni lacrima, i nostri occhi contempleranno l’origine e la fine di tutto.
Il romanzo, dico il romanzo così com’è andato assestandosi nelle sue forme e dei suoi modelli dal 25 aprile del 1719 in poi, è in fin dei conti stato a lungo un tentativo di fare a meno del mondo che verrà. Le vite dei personaggi trovano il loro senso, quasi immancabilmente, nello spazio compreso tra la prima e l’ultima parola della narrazione. Dico quasi: perché l’illuministico sforzo, in realtà, non riesce proprio a tappare tutti i buchi. Perfino nei «Promessi sposi», scolasticamente spacciato senza esitazioni come «il romanzo della Provvidenza», nell’ultimissima pagina, nelle ultimissime righe, Renzo e Lucia giungono alla conclusione che «i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani» (o, come si direbbe oggi, «la sfiga non ha regole precise»); e tale conclusione, «benché trovata da povera gente», pare al narratore «così giusta» da piazzarla lì, alla fine, come «il sugo di tutta la storia» (ed è chiaro che l’ulteriore considerazione, ossia che «i guai, quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore», è meramente consolatoria).
Peraltro nel corso dell’Ottocento i romanzieri, quasi in massa, caddero in preda a illusioni positivistiche: vedi ad esempio il grande affresco sociale di Balzac o le teorie pseudodarwiniane di Zola (che a Darwin, tra parentesi, avrebbero potuto solo fare ribrezzo). Ma una teoria pseudoscientifica (e vale la pena di ricordare che il positivismo, con tutto il suo idolatrare della scienza, fu un movimento di pensiero nei fatti antiscientifico) o l’ambizione di un «affresco sociale» (es. il «marxismo senza Marx», cioè senza filosofia, di Balzac) non riescono, non ce la fanno, a prendere il posto di un’immaginazione religioso-cosmologica del mondo.
I grandi romanzi modernisti, o acquisiti nel modernismo (è il caso del «Moby-Dick» di Melville), sono poi o romanzi sostanzialmente mitologici (es. «Ulisse» di Joyce, «Giuseppe e i suoi fratelli» di Mann) o romanzi in qualche modo mistici («Doktor Faustus» ancora di Mann, «L’uomo senza qualità» di Musil, «I sonnambuli e La morte di Virgilio» di Hermann Broch). Poi, certo, c’è Proust: che è Proust, e non mi pronuncio.
In mezzo tra questi e quelli ci stanno, giganteschi, Dostoevskij e Tolstoj: due romanzieri intensissimamente religiosi. L’ultima pagina del romanzo più bello di sempre (ovvio: secondo me), «I fratelli Karamazov», ovvero l’ultima pagina di Dostoevskij, mette in scena uno sperdutissimo Alëša Karamazov che, nonostante la sua profonda fede non riesce a trovare – al pari dei fratelli Ivan e Dimitri, che fede non hanno – un senso alla propria vicenda, alla vicenda familiare – quindi a nulla. E Tolstoj scrive un intero romanzo, e pure bello lungo, «Guerra e pace», per dimostrare che il lavoro degli storiografi è insensato, perché la vita umana è governata dal caso: peraltro le pagine in cui ci si impegna di più (quelle su Napoleone, l’epilogo «filosofico») sono di una bruttezza indicibile, mentre laddove rimane un senso magico, per non dire religioso, della vita la bellezza esplode impareggiabilmente: il ballo di Nataša, le nuvole in viaggio osservate dal principe Andrej ferito e a terra…
È una lotta, una lotta. Come tra le due fazioni al bar: sempre presi tra un’idea di destino – qualcosa su di noi, su tutti noi e su ciascuno di noi, «sta scritto» da qualche parte – e un’idea di fatalità – nulla ha senso, il caso domina. Questo fa, chi racconta storie: entra in questa lotta. Lo splendore da una parte, la macchina della necessità dall’altra; la perennità da una parte, il continuo crescere e poi distruggere dall’altra. Questo è il romanzo, il grande romanzo: è la messa in scena di questa lotta.
Giulio Mozzi
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