#Il delitto Pasolini
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idk a list for me and anyone else who decides to go down a Pasolini rabbit hole
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... Roma che piange ancora oggi
per il delitto Pasolini...
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Incontri del Cinema d'Essai: il Leone d'Oro "Povere Creature!" tra le anteprime a Mantova
Incontri del Cinema d'Essai: il Leone d'Oro "Povere Creature!" tra le anteprime a Mantova. Mantova, ci sarà anche Povere Creature!" di Yorgos Lanthimos, Leone d’Oro per il miglior film all’ultima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, nel fitto programma di anteprime per gli accreditati dei prossimi Incontri del Cinema d’Essai, organizzati dalla FICE (Federazione Italiana dei Cinema d’Essai) a Mantova dal 2 al 5 ottobre. Povere Creature! si va ad aggiungere ai già annunciati La chimera di Alice Rohrwacher (presentato a Cannes), The holdovers - Lezioni di vita di Alexander Payne con Paul Giamatti (visto a Toronto) e, dalla Berlinale, Il cielo brucia (Afire) di Christian Petzold. Anteprima inaugurale degli Incontri anche per il pubblico mantovano, lunedì 2 ottobre alla presenza dell’autore, l’esordio alla regia di Claudio Bisio L'ultima volta che siamo stati bambini, presentato a Giffoni. Come di consueto, il pacchetto di anteprime proposto dagli Incontri del Cinema d’Essai proporrà il meglio di quanto presentato nei festival di maggior richiamo. A partire dalla Mostra di Venezia, con Making of di Cedric Kahn, Memory di Michel Franco, Tatami di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi, Day of the fight di Jack Huston. Dalle Giornate degli Autori veneziane saranno proiettati Anna di Marco Amenta e Deserto particular di Aly Muritiba, mentre da Cannes (oltre al film di Alice Rohrwacher), Fallen leaves del maestro Aki Kaurismaki. Da Locarno proviene Petites - la vita che vorrei di Julie Lerat-Gersant; da Giffoni (oltre al film di Bisio) Normale di Olivier Babinet; dalla Festa di Roma Pasolini: cronologia di un delitto politico di Paolo Angelini. A chiudere il ricchissimo parterre di anteprime: Foto di famiglia di Ryota Nakano e Upon Entry di Alejandro Rojas e Juan Sebastian Vasquez. A questi titoli si aggiunge il programma di anteprime per la città e per le scuole di Mantova. Maggiori informazioni e programma aggiornato sul sito www.fice.it... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Pasolini, cronologia di un delitto politico, il 5 marzo su Sky
(ANSA) – ROMA, 01 MAR – Presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, arriva su Sky il film inchiesta alla ricerca della verità politica sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini in occasione dei 101 anni dalla nascita. Liberamente ispirato al volume “Pasolini, un omicidio politico” di Andrea Speranzoni e Paolo Bolognesi, Pasolini, cronologia di un delitto politico, domenica 5 marzo alle 21.15 in…
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17 dic 2022 17:43
LA MORTE DI PASOLINI, UN MISTERO D’ITALIA – PER LA COMMISSIONE ANTIMAFIA, LA NOTTE DEL 2 NOVEMBRE 1975, LO SCRITTORE FU ATTIRATO ALL'IDROSCALO DI OSTIA CON LA PROMESSA DI FARGLI RIAVERE INDIETRO PEZZI DELLA PELLICOLA DI SALÒ RUBATI DA UN CAPANNONE DI CINECITTÀ E IN FASE DI MONTAGGIO IN QUEI GIORNI - SAREBBE STATA UNA GESTITA DALLA MALAVITA ROMANA CHE SAREBBE POI CONFLUITA NELLA BANDA DELLA MAGLIANA – VIENE SMENTITA LA VERITÀ GIUDIZIARIA SECONDO CUI A COMMETTERE L’OMICIDIO FU PINO PELOSI – I DUBBI SUI MANDANTI E IL MOVENTE, IL RUOLO DI FRANCO CONTE CHE GESTIVA UNA BISCA, IL POSSIBILE COINVOLGIMENTO DEI MARSIGLIESI, I SOSPETTI SUI NEOFASCISTI, I DUBBI SUL ROMANZO “PETROLIO”
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1 - PASOLINI LA TRAPPOLA DI SALÒ
Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa”
Era finora una lettura del delitto Pasolini confinata al mondo degli addetti ai lavori: che il poeta, quella maledetta notte del 2 novembre 1975, fosse stato attirato all'Idroscalo di Ostia con il miraggio di fargli riavere indietro pezzi della pellicola di Salò rubati da un capannone di Cinecittà e in fase di montaggio in quei giorni. Sarebbe stata una trappola ideata da chissà chi e gestita dalla malavita romana, alla vigilia di diventare la famigerata Banda della Magliana.
Ecco, questa ipotesi, che pure è già stata vagliata dalla magistratura ma senza trovare riscontri, ha ora l'autorevole suggello della commissione Antimafia, che ci ha lavorato sopra in fine di legislatura scorsa, e solo da ieri se ne possono leggere gli esiti. […]
In sintesi: per il delitto Pasolini, l'unico colpevole con condanna definitiva resta Pino Pelosi, un ragazzo di vita, deceduto qualche anno fa. Pelosi era stato arrestato nell'immediatezza e si era addossato tutte le colpe. […] Nel 2005, però, alla riapertura delle indagini, aveva ritrattato, spiegando che si era dovuto accollare l'omicidio per paura di ritorsioni. L'inchiesta dell'Antimafia parte da qui.
Innanzitutto dalle ricerche della saggista Simona Zecchi, che ha intervistato Nicola Longo, un ex poliziotto ed ex agente segreto che ebbe un gran ruolo nella Roma noir di inizio anni Settanta. Ebbene, Longo racconta di avere recuperato lui le pellicole rubate grazie alla soffiata di un boss della mala. Ed è già una storia nella storia: erano state rubate 70 pizze di celluloide per chiedere un riscatto al produttore Cristaldi (tra le altre cose, c'era tutto il girato del film Casanova di Federico Fellini), ma forse il vero obiettivo erano i pezzi del film di Pasolini.
Longo recuperò la celluloide un anno dopo l'omicidio Pasolini, troppo tardi per Salò e le 120 giornate di Sodoma, che andò nelle sale utilizzando per il finale scene di scarto. Ricordiamo che il film uscì a dicembre, un mese dopo la morte del regista. L'Antimafia ha poi ascoltato la versione di Maurizio Abbatino […] che sarebbe poi diventato un boss della Banda della Magliana. Abbatino ha confermato […] che il furto fu commissionato da un tale Franco Conte, che gestiva una bisca clandestina alla Magliana.
Scrive l'Antimafia: «A dire di Abbatino, Franco Conte conosceva lo stesso Pasolini in quanto questi, occasionalmente, aveva frequentato il suo locale […] una "bisca" […]».
Questo, quindi, l'inquietante scenario che ci viene proposto ora dall'Antimafia: ignoti suggeritori usarono alcuni criminali della Magliana, quando ancora non erano diventati quelli che poi Roma avrebbe conosciuto, per attirare Pasolini in un tranello.
[…] Il regista sarebbe andato all'appuntamento con la morte pensando di contrattare per la restituzione della pellicola. Trovò invece i suoi carnefici che lo uccisero di botte. E poi fu costruito a tavolino il colpevole perfetto in Pino Pelosi. […]
2 - "UCCISO PER IL FILM SALÒ" L'ULTIMA TESI SU PASOLINI NON RISOLVE IL GIALLO
Estratto Dell’articolo Di Giancarlo De Cataldo Per “la Repubblica”
Per la prima volta, nel quasi mezzo secolo trascorso dall'omicidio di Pier Paolo Pasolini, un documento pubblico - la relazione della Commissione Antimafia della trascorsa legislatura - smentisce la versione ufficiale stabilita in sede giudiziaria: lo scrittore non fu ucciso dal solitario e sbandato Pino "la Rana" Pelosi dopo un incontro mercenario tragicamente degenerato, ma da un gruppo di individui. Lo avevano già affermato i coraggiosi giudici del Tribunale per i minorenni, ma poi Appello e Cassazione avevano ribaltato il verdetto. Era stata sancita una narrazione ben precisa: all'Idroscalo si era consumata […] «una squallida vicenda fra omosessuali». […]
C'è, dunque, nella relazione dell'Antimafia, come un tardivo riconoscimento: abbiamo sbagliato, non sappiamo ancora tutto sulla tua morte. Ma la Commissione va oltre. Ipotizza che fra gli esecutori possano esservi elementi della Banda della Magliana. […] Il riferimento alla potente holding affaristico-criminale che imperversò a Roma sino alla fine degli anni Ottanta desta molte perplessità: nel '75 quella banda semplicemente non esisteva. Sarebbe stata costituita due anni dopo, imponendosi sul mercato degli stupefacenti grazie ai soldi del sequestro del duca Grazioli, barbaramente trucidato.
Ha un senso, invece, ipotizzare la presenza di elementi in origine legati ai Marsigliesi (erano loro i pezzi da novanta, in quel periodo) poi eventualmente confluiti nella futura Banda della Magliana. Magari elementi legati a quell'ala della Magliana più vicina a quei poteri occulti (dai Servizi deviati alle logge spurie) quanto mai attivi in quegli anni.
Se così stanno le cose, torna centrale la questione del movente. […] Ma ammesso che sia andato al fatale incontro con la speranza di recuperare il suo film, perché ucciderlo, e in quel modo così brutale, che sa addirittura di martirio? […] Se era una trappola, era scattata per uccidere.
[…] le piste alternative, alcune note da tempo. Della presenza, fra i possibili aggressori, di giovani neofascisti, indicati con tanto di nome e cognome, si era parlato persino nel primo processo. L'affare delle "pizze" viene rivelato da Sergio Citti nei primi anni Duemila. […] Si è parlato, più volte, di un "commando" omicida misto di neofascisti e borgatari intenzionato a punire un intellettuale scomodo, per di più omosessuale […] Qualcuno ha voluto liberarsi di un testimone ingombrante: Pasolini stava scrivendo un romanzo, Petrolio , rimasto incompiuto. Doveva essere il grande racconto delle stragi: quelle della prima fase, anticomunista, e della seconda, antifascista, come lui stesso aveva profetizzato. Magari Pasolini non aveva accesso a nessuna carta segreta, ma qualcuno può averlo pensato, agendo di conseguenza. […]
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Pasolini, il furto di un film dietro l'omicidio: l'ipotesi dell'Antimafia
Pasolini, il furto di un film dietro l’omicidio: l’ipotesi dell’Antimafia
Read More(Adnkronos) – La relazione della Commissione parlamentare sul delitto “insoluto” dopo mezzo secolocronaca(Adnkronos) – La relazione della Commissione parlamentare sul delitto “insoluto” dopo mezzo secoloAdnkronos – ultimora
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Finalmente ho scoperto di non essere il solo a ritenere Spielberg un paraculo, attento solo al botteghino!
Quello che mi fa incazzare, come a Godard, è l'uso della grammatica cinematografica (che si insegna nelle università e nelle scuole di cinema) per scatenare reazioni emotive nel pubblico: il finale di Schindler's list non ti fa piangere per la commozione data dal racconto, ma perché ti infila un dito nell'occhio, occhio che era già infiammato dal cappottino rosso della bambina. Non è la storia in sé, quella che colpisce allo stomaco, ma come viene raccontata, esattamente come succede con le barzellette: stessa storia ma una pausa in più, una in meno e una nel posto sbagliato, e si passa da Gino Bramieri circondato da gente che si sganascia a me, circondato da gente che mi guarda perplessa, con un po' di compassione ed un sorriso di circostanza, mentre cerca di capire la barzelletta!
Poi, però, vedi i film degli artisti (questa è la differenza fra un Autore ed un semplice regista) e scopri che il cinema non ha bisogno di una grammatica e di una sintassi, per comunicare emozioni. Il cinema è dodecafonico per sua stessa natura, ridurlo ad una sola tonalità è come scrivere la lista della spesa anziché Delitto e castigo. Antonioni, Pasolini, Fellini, Ferreri, Tarkovskij, Kubrick, Woody Allen, Godard, Truffaut, Kurosawa, Ozu, Kim Ki-duk, Hirokazu Kore-eda, Nam June Paik, Hitchcock, Welles, John Ford, Ėjzenštejn, Roberto Cahen, Warhol, Sorrentino, Oliver Stone... Potrei andare avanti ancora a lungo, attingendo quasi esclusivamente a persone morte, con questo elenco di artisti che hanno trovato nel cinema il loro mezzo di espressione. Nessuno di loro si è mai preoccupato di seguire le regole grammaticali né di avere successo al botteghino, seguivano solo la loro ispirazione artistica. Alcuni le regole le hanno scritte, piuttosto, molti hanno avuto difficoltà a trovare produttori e distributori, alcuni sono rimasti sconosciuti al grande pubblico.
E poi ci sono i mestieranti, i registi che fanno cinema come farebbero l'avvocato: bene ma senza passione e con un occhio alla parcella.
(Sugarland express) «Ottenne buone recensioni, ma avrei dato via tutte quelle recensioni per un pubblico più numeroso.» (Steven Spielberg)
Questo dichiarò dopo l'insuccesso del suo primo film per il cinema, il resto è sotto occhi di tutti...
(…) sono andato a vedere, per esempio, Incontri ravvicinati del terzo tipo; quel che volevo vedere era l’incontro del terzo tipo. Ma mica te lo fanno vedere, il film finisce proprio a quel punto. Se lo dovessi definire, lo definirei ‘vigliacco’. Infatti, è tutta una vigliaccata; una vigliaccata da quindici milioni di dollari…
Analfabeti?… No, non analfabeti: Spielberg pretende di essere colto: ha fatto l’università. Questo è il cinema che s’insegna nelle università! Beh, ecco… se dovessi dirgli qualcosa, sarebbe soltanto: “Non è mica tanto coraggioso, quello che hai fatto”… e difatti lui non dev’essere molto coraggioso: se incontrasse un Ovni, sono sicuro che non saprebbe cosa dirgli. Mentre io avrei un sacco di storie, essendo un Ovni io stesso, o qualcosa del genere…
Jean-Luc Godard
#jean luc godard#steven spielberg#incontri ravvicinati del terzo tipo#sugarland express#schindler's list#quando il cinema era la settima arte
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[Il delitto Pasolini][Gianluca Maconi]
Gianluca Maconi ricostruisce le ultime ore di vita del poeta, la sua aggressione, le prime indagini che mettono in evidenza da subito le contraddizioni del racconto di Pino Pelosi, considerato dalla giustizia italiana l'unico assassino di Pasolini
Roma, 1 novembre 1975. La giornata di Pier Paolo Pasolini scivola via come tutte le altre: la mattina legge, riordina le sue carte, prende qualche appunto. A pranzo incontra l’attrice Laura Betti, che cerca di convincerlo ad andare al cinema, più tardi, in compagnia di un amico. Pasolini però tentenna: dice che deve riposare, perché dovrà ricevere un giovane giornalista, Furio Colombo, per…
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#2022#Becco Giallo#comics#Furio Colombo#Gianluca Maconi#Graphic journalism#Il delitto Pasolini#Italia#letteratura grafica#Ninetto Davoli#nonfiction#Pasolini#Pasolini 100#Pier Paolo Pasolini#Pino Pelosi#PPP 100#Queering Pasolini
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Consigli dei libri per crearsi una cultura letteraria?
Questa è una domanda che viene posta parecchie volte, e mi fa sempre piacere ci siano ancora persone interessate alla letteratura, ma il motore dovrebbe appunto essere il piacere di leggere, l’interesse autentico, non con la finalità di crearsi una cultura letteraria, perché ognuno ha la sua e una non vale meno di un’altra. Ma certamente rispondo alla tua domanda, perché esistono dei libri che ritengo imprescindibili, ci metto dentro pure un po’ di teatro e poesia.
I fratelli Karamazov, Dostoevskij
L’Idiota, Dostoevskij
Delitto e Castigo, Dostoevskij
Il giocatore, Dostoevskij
I demoni, Dostoevskij
Anna Karenina, Tolstoj
Resurrezione, Tolstoj
Padri e figli, Turgenev
La caduta, Camus
La peste, Camus
Saramago, tutto
Il mito di Sisifo, Camus (questo è un saggio, ma lo aggiungo, già che ci siamo)
Dissipatio H.G, Guido Morselli
Le onde, Virginia Woolf
Mrs Dalloway, Virginia Woolf
Gita al Faro, Virginia Woolf
Orlando, Virginia Woolf
I racconti di Virginia Woolf.
Il mondo nuovo, Huxley
Narciso e Boccadoro, Hesse
Siddhartha, Hesse
Il lupo della steppa, Hesse
Maurice, Foster
I dolori del giovane Werther, Goethe
Il ritratto ovale, Edgar Allan Poe
Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Pessoa
La scopa del sistema, Wallace
I racconti di Wallace
Purity, Franzen
Camere separate, Tondelli
Altri libertini, Tondelli
Jane Eyre, Charlotte Brontë
La nausea, Sartre
Il ritratto di Dorian Gray, Wilde
Illusioni perdute, Balzac
(E tanti altri…)
Teatro:
Tutto Molière
Tutto Brecht
Tutto Beckett
Tutto Pinter
Tutto Camus
Poesia:
Pessoa (tutta)
Pasolini (tutta)
Emily Dickinson (tutta)
Radnóti, scritto verso la morte
Rimbaud (tutto)
Baudelaire (tutto)
Corazzini (tutto)
Montale (tutto)
E tanto altro che ora non mi viene in mente. Spero di averti dato qualche spunto :)
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Ragazzi, conoscete Piazza Fontana?
di Massimo Zucchetti
Piazza Fontana: sul web ci sono notizie, potete fare una ricerca, ragazzi: 12 dicembre 1969, bomba alla Banca dell’Agricoltura a Milano, strage. Ma proviamo a raccontarla un po’ diversamente. A rievocare quel clima, l’orrore della strage di stato, voluta dalle forze politiche al governo, preoccupate che l’“autunno caldo” del 69 e le piccole rivoluzioni di studenti e proletari arrivassero a destabilizzare il loro regime democristiano-liberal-postfascista. Progettata dai servizi segreti “servitori dello Stato democratico”, una accozzaglia di ex fascisti e destrorsi senza coscienza e senza onore. Eseguita dai neofascisti, opportunamente protetti e nutriti dai servizi stessi, cocchi belli della questura, criminali servi dei padroni e assassini prezzolati. Poi ci ha pensato lo Stato stesso a depistare, incolpare innocenti, proteggere i colpevoli. Mentre la “maggioranza silenziosa”, fascista nell’animo, invocava le leggi speciali e lo stato di polizia per reprimere “l’eversione anarchica, cioè comunista” (questo era il livello, ve lo assicuro). L’Italia del 1969 non ha subìto Piazza Fontana: era Piazza Fontana. Uno stato borghese e capitalista, che aveva tradito i migliori valori della Resistenza, sotto la sorveglianza e la guida dei padroni, cioè gli imperialisti americani alleati, con la benedizione degli industriali e del Vaticano. E che poteva restare al potere solo con le stragi e il terrore che ne sarebbe seguito. Smettiamola di dire che è “avvolta da misteri”: ormai si sa tutto. Gli esecutori materiali furono dei neofascisti di Ordine Nuovo. Carlo Digilio, Delfo Zorzi ed altri, un gruppetto guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura. I servizi segreti italiani erano pieni di fascisti e neofascisti e fornirono copertura, depistaggio, supporto. Guido Giannettini, Giannadelio Maletti, Antonio Labruna e molti altri. Al governo in Italia non c’erano i colonnelli, né Junio Valerio Borghese: c’era la Democrazia Cristiana, con alcuni partitucoli vassalli. La democrazia cristiana fu il mandante morale dell’attentato, eseguito con lo scopo di far degenerare la situazione in Italia, che vedeva un processo crescente di ribellione e di lotta (“Autunno caldo” da un lato, sinistra extraparlamentare dall’altro). Sembrava che studenti e operai potessero trovare un terreno comune di lotta: bisognava fermare tutto. Si diede la colpa agli anarchici. Si utilizzarono le forze dell’ordine, anch’esse piene di fascisti, per avallare questo e molti altri depistaggi. Pinelli venne arrestato e assassinato: esecutori materiali un “gruppetto di fuoco” comandato dal commissario della squadra politica (oggi diremmo “della Digos”) Luigi Calabresi, che ebbe l’accortezza di uscire dalla stanza mentre il delitto veniva eseguito. Valpreda, innocente, fu il capro espiatorio perfetto e passò anni in galera e sotto processo. Buttarla in caciara: questo era lo scopo ultimo degli industriali, ai quali la strage fece comodissimo, per puntellare ammantandola di “emergenza democratica” l’opera di repressione delle lotte. Il governo ossequiente capeggiato da Mariano Rumor fece da benevolo tramite, i servizi segreti organizzarono, i neofascisti eseguirono. Tranne pochissime eccezioni, la maggior parte della stampa, serva, avallò il progetto eversivo e diffuse notizie false ed opinioni precucinate dalla questura. L’opinione pubblica, disorientata, si spaccò. Nulla di misterioso. Pasolini dopo pochi anni lo scrisse ben chiaro. Dopo mezzo secolo direi che possiamo arrivarci tutti; ed è bene ripeterlo, raccontarlo ai più giovani, che, fortuna loro, quel periodo non l’hanno vissuto. Perché l’Italia del 12 dicembre è il sequel dell’Italia repubblichina e fascista di Salò: questo, volevano, i “ragazzi di Salò” che il signor Luciano Violante ha a suo tempo sdoganato. Un’Italia fascista, razzista, criminale, con pochi satrapi privilegiati al potere, il popolo ignorante ed il clima di terrore continuo. L’episodio di ieri con l’omaggio di Violante alla neofascista Meloni non importa, lo annoveriamo come un ulteriore stadio dell’Alzheimer: il danno, i “democratici”, cristiani
e non, l’hanno fatto ben prima.
Due letture per completare:
#editoria popolare#crowdfunding#edi-po#letture#piazza fontana#fascisti#confindustria#strage#12 dicembre 1969
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Tra i più grandi intellettuali italiani, Pier Paolo Pasolini era il nemico giurato di luoghi comuni e ipocrisie della società, un po' come il cronista salentino Saru Santacroce. Morto assassinato 46 anni fa, l’impressione è che sul suo delitto non sia stata fatta totale chiarezza
#pier paolo pasolini#i gialli di saru santacroce#saru santacroce#leggere#currently reading#libri#reading#bookreading#libridaleggere#readers of tumblr#bookworm#booklover#readingcommunity#libri gialli
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Johnny lo Zingaro
Giuseppe Andrea Mastini, conosciuto con il nome di Johnny lo Zingaro, nasce a Ponte San Pietro il 6 febbraio 1960. Analfabeta, figlio di giostrai lombardi di etnia sinti, Mastini si trasferì a Roma con i genitori all'età di dieci anni, risiedendo in una roulotte e occupandosi della gestione delle giostre. Iniziò a frequentare la criminalità giovanile del Tiburtino distinguendosi già a 11 anni per un furto e una sparatoria con la Polizia che lo lascerà claudicante.
Nella sera del 28 dicembre 1975, insieme al coetaneo Mauro Giorgio, cercò di rapinare Vittorio Bigi, autista di tram, rubandogli diecimila lire e un orologio; qualcosa però va storto e i due ragazzi sparano due colpi di pistola, uccidendo l'autista e occultandone il cadavere che verrà trovato una settimana più tardi, il 6 gennaio 1976. La testimonianza di un tassista portò, nel giro di pochi giorni, all'arresto dei due minorenni con le accuse di omicidio volontario, rapina aggravata e porto abusivo di pistola. Tradotto nel carcere minorile di Casal del Marmo, secondo le affermazioni di Mastini, conoscerà per la prima volta Giuseppe Pelosi. Dopo una serie di evasioni e catture, nel 1987 esce in permesso premio e non rientra più.
Segnalato per una serie di rapine, viene riconosciuto in una foto segnaletica dalla moglie di Paolo Buratti, console italiano in Belgio, ucciso nella sua villa a Sacrofano da un colpo di pistola, nel tentativo di resistere a una rapina. Nel frattempo Mastini conosce Zaira Pochetti, 20 anni, di umilissima famiglia, figlia di un pescatore di Passoscuro, residente a Roma in un collegio di suore in quanto studentessa presso la facoltà di scienze politiche dell'Università La Sapienza.
«Non ricordo un gran che (di quella sera). Mi si è stato raccontato dopo. Ero completamente fatto di whisky, tavor e cocaina. Dicevo tra me: "qui stasera mi sparano tutti addosso!"» G.A.M.
La sera del 23 marzo 1987, Mastini e la giovane Pochetti, a bordo di una vettura da lui condotta, vengono fermati da due agenti della polizia di pattuglia in Via Quintilio Varo, presso l'incrocio con la Circonvallazione Tuscolana: ne scaturisce un conflitto a fuoco in cui viene ucciso l'agente Michele Giraldi e ferito gravemente Mauro Petrangeli. Mastini, illeso, si dirige con la ragazza verso Viale Palmiro Togliatti dove i due vengono intercettati da un carabiniere in borghese che intima loro l'alt. Pur investito da una raffica di proiettili che danneggiano l'auto di servizio, inclusa la radio, il milite rimane illeso e riesce a dare l'allarme da una cabina telefonica poco distante.
L'automobile di Mastini si ferma in panne sulla via Nomentana. Con la minaccia della pistola, sottrae un'auto Lancia Gamma a una coppia. La ragazza, Silvia Leonardi, terrorizzata, non riuscendo a scendere dall'auto del fidanzato, viene sequestrata e condotta fino alla zona della Bufalotta, e quindi rilasciata. L'arresto è il risultato di una serie di battute condotte senza tregua a Roma e in varie zone della provincia per le quali furono mobilitati 700 poliziotti in una caccia all'uomo che si protrasse per un giorno intero. Alla fine Mastini capì che non aveva più scampo e decise di arrendersi.
Mastini scompare dalle cronache per riapparire nel febbraio 1989 con un'intervista per il programma televisivo Posto pubblico nel verde nel quale racconterà come, in seguito all'arresto, Zaira Pochetti sia caduta in uno stato di catatonia e di anoressia che l'avrebbero condotta alla morte nel dicembre del 1988. Rivelerà inoltre che la donna, al momento della morte, era in attesa di un figlio.
Nel processo celebratosi nel 1989, Mastini sarà condannato alla pena dell'ergastolo per tutti i reati a lui ascritti, ad eccezione dell'omicidio di Sacrofano, per insufficienza di prove. Per Zaira Pochetti, indicata come suo complice, il dibattimento si concluderà con un non luogo a procedere in quanto deceduta. In un'interrogazione del Presidente della Corte, Mastini negava (e continuerà a negare) ogni responsabilità nell'omicidio di Vittorio Bigi nel 1975, per cui stava scontando la pena.
Il 12 marzo 2014 Mastini ha usufruito di un permesso premio di alcune ore al fine di partecipare al concerto del gruppo britannico The Prodigy presso l'evento Rock in Roma. La concessione è stata ottenuta grazie all'impegno del detenuto in un programma di reinserimento sociale, percorso studiato dai volontari dell'associazione Nessuno tocchi Caino. L'autorizzazione inizialmente concessa per scopi di apprendimento giornalistico del Mastini, deciso a intraprendere la carriera di critico musicale in carcere, è stata ampiamente contestata all'interno delle istituzioni giudiziarie per piccole irregolarità compiute dal detenuto durante il concerto. In seguito alla concessione di un periodo di lavoro all'esterno del carcere, il 30 giugno 2017 Mastini non ha fatto ritorno al penitenziario di Fossano e si è reso latitante. Il 25 luglio viene catturato a Taverne d'Arbia in provincia di Siena.
Zuari, settembre 2020: Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro, è stato arrestato a Sassari. Gli uomini del Servizio centrale operativo della Polizia e delle squadre mobili di Sassari e Cagliari hanno compiuto l’operazione nella mattinata di martedì, dopo aver individuato, nelle ore scorse, il latitante. Mastini era in una villetta isolata in località Zuari, nelle campagne di Sassari. «La fuga è sempre per amore», ha detto Mastini agli agenti subito dopo la cattura
E qual è la sua verità, Giovanna? «Che Johnny non è più l’uomo spietato di un tempo, ha passato 46 anni in galera ed è cambiato. Ha sbagliato ancora, non doveva evadere, ma l’ha fatto per amore». [Corriere.it, settembre 2020]
Il nome di Johnny lo Zingaro compare anche nelle carte del processo sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini. Mastini, che aveva conosciuto Pino Pelosi - unico condannato per la morte del poeta - nel carcere minorile di Casal del Marmo, è sospettato, secondo diverse piste investigative, di aver partecipato al delitto dello scrittore. A portare a lui, che ha sempre negato ogni accusa, è un plantare di scarpa numero 41 ritrovato nell’Alfa Romeo di Pasolini che non apparteneva né allo scrittore né a Pelosi e che invece Mastini usava abitualmente in seguito alle conseguenze di una sparatoria.
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Ciro e Maria Paola, una ‘piccola storia ignobile’ C’è una bellissima canzone di Fabrizio de Andrè che racconta dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Quella canzone si chiama Una storia sbagliata. Oggi non vi parlo di Pasolini però: oggi parliamo di un’altra vita spezzata violentemente, quella di Maria Paola Gaglione, rea di amare una persona ritenuta “infetta” dal “virus gender”. (...) Anche in questa storia non ci sono vincitori o vinti, ci sono solo degrado e miseria. C’è la figura del fratello che, pur essendo ignorante (perché ignora la realtà della vita di una persona FtM) come un mattone, si erige a professore decidendo di “dare una lezione” (come se ne avesse capacità) alla sorella. Non voleva ucciderla però. Umiliarla? Sì. Ferirla gravemente? Sì. Esserne il padrone a livello psicologico e fisico? Sì. Punire il compagno perché aveva infettato la sorella? Sì. Questo essere che non esito a definire immondo (definirlo uomo sarebbe un insulto al fior di Uomini con la U maiuscola), non avendo l’intelligenza emotiva per capire che l’amore trascende genere e sesso, ha deciso di ergersi a cavaliere paladino dell’onore, non capendo che una persona onorevole non si sarebbe mai macchiata di tale delitto. Una persona onorevole avrebbe compreso che i desideri di amore e libertà possiedono ali che i condomini della provincia di Napoli non possono tarpare. Non voleva ucciderla, però Ciro se lo è meritato. Lui ha anche preso le botte, non fosse stato abbastanza avere perso la fidanzata ammazzata da un pazzo fratricida. Se lo è meritato perché Ciro è infetto. Non dal Covid, no… dal Gender! Sappiamo bene che i personaggi che abitano le “storie sbagliate” vivono in paesi strani dove tutti i cittadini sono, a giorni alterni, arbitri di serie A, economisti di fama mondiale, e anche epidemiologi. Va da sé che, in un mondo pullulato di finti esperti, sia facile far credere alla gente che essere trans sia contagioso o pericoloso per la salute umana. I commentatori non hanno tardato a menzionare che Ciro è solo un nome finto… forse. I sentimenti però erano veri, e il dolore di perdere la propria amata è un dolore che spero di non dover mai provare perché mi ucciderebbe. (...) Cambiando canzone, la storia non cambia. Nel 1976 Francesco Guccini pubblica Via Paolo Fabbri 43. Un album magnifico la cui prima traccia si intitola Piccola storia ignobile e parla di una ragazza che viene abbandonata dopo essere rimasta incinta. La canzone si concentra sullo stigma che attanaglia una ragazza che, consciamente, decide di fare l’amore con una persona di cui si fidava, ma che la abbandona. La canzone fa riflettere quando ci viene ricordato che gli uomini “non sono perseguibili per legge” e che “i politici hanno altro a cui pensare”. La storia di Maria Paola è al contempo una “storia sbagliata” e una “piccola storia ignobile”, così uguale a tante altre che, giorno dopo giorno, si accumulano su colonne di giornali troppo occupati a descriverci gli assassini e le vittime, spesso tralasciando il fatto che la meschina politica italiana butta benzina sulle fiamme che carbonizzano i corpi dei miei fratelli e sorelle. Ciao Maria, ora potrai amare chi vorrai. di Alexis Bonazzi
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Subito dopo la sentenza Pier Paolo Pasolini scriverà: “Se c'à un uomo «mite» nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l'accusa, pretestuale, di plagio? Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l'è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria... Invece egli si è rifiutato d'identificarsi con qualsiasi di queste figure - infine buffonesche - di intellettuale"
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Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento
“Attenzione, sozzi professionisti fascisti dopo il delitto Matteotti e antifascisti dopo la morte di Mussolini, […] turpi spie del governo fascista (e di tutti i governi), vecchi sporcaccioni cornuti fino al midollo della vostra fronte sfrontata, attenzione, c’è sempre qualcosa (anzi c’è sempre tutto!) che il vostro cervello privo di immaginazione, con la vostra fantasia da elefanti, col vostro cuore ateo, con la vostra cultura inesistente e con quella vostra erudizione, che persino il genio di Manzoni non sarebbe riuscito a percepire, attenzione… c’è sempre qualcosa, per tutti, e anche per voi ci sarà… prima e dopo la morte! […] Voi […] non andrete né in Paradiso né in Purgatorio… qui, in questa terra brucerete, come si brucia all’inferno e poi, dopo, come avete fatto nella vita, non saprete nulla, non soffrirete, avrete un solo ricordo: quello di far schifo ai vivi.”
Parole di fuoco di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento, le cui pagine si possono forse riassumere in un distico – “Vorrei tu mi armassi la mano / per incendiare il piano padano” – che sembra saltare fuori direttamente da una ruvida salmodia dei C.C.C.P., il gruppo punk di Giovanni Lindo Ferretti – e curiosamente, rarità per il poeta, il tu cui si rivolge è il Signore – e salta invece fuori da un colpo di macchina da scrivere, o di penna impugnata, con la mano sinistra, come un revolver – due oggetti d’acciaio, due cose solide, per dirla con Fuoco fatuo – in una stanza modenese, anno 1958, di grazia, o disgrazia, che è quella che sente Delfini, e la frizione sulla carta deve aver prodotto non faville ma fiamme, quel giorno…
Niente padre, infanzia agiata, bisnonna naturale Marietta Pio di Savoia – “che abita vicino a Crevalcore, ma dentro i confini del ducato di Modena”, specificava –, figura snella ed elegante, calvizie precoce – come questo terzetto da amare: Oswald Spengler, Pierre Drieu La Rochelle, Henry Miller –, umore malinconico, indolente e rivoltoso (“tifiamo / tifiamo rivolta / nell’era democratica / simmetriche luci gialle e luoghi di concentrazione / nell’era democratica / strade lucide di pioggia splende il sole” – cantava Ferretti), non è andato a scuola e non ha letto i classici, spirito agonico e quasi agonistico, che infatti si voleva atleta ma prevalse il dandy baudelairiano, “funereo” – scrive Marcello Fais che ha curato il volume delle poesie complete per Einaudi –, il passo dondolante del nullafacente o, per meglio dire, di chi non sapeva davvero cosa fare e visse – parole queste dello stesso Delfini sugli anni trascorsi tra la sua Emilia e Firenze –, con “la paura di non arrivare in tempo a vivere, di non sposarmi, di non avere figli, di non vivere una vita dignitosa”; e per la scrittura.
“Al di qua di ogni letteratura” era la scrittura di Delfini, poesia centellinata ma debordante, esito del sentire saturnino delle antenne più dritte sulla sventura che si chiama Italia e che la sciagurata Italia abbia avuto assieme forse a Giuseppe Berto e Pasolini.
La sventura di Modena, di Parma, di Bologna, di Ferrara, “(la quale – ove la storia d’Italia fosse andata diversamente con minor nume rodi avventurieri stranieri e più amore, competenza e lealtà per le cose proprie – potrebbe essere oggi la capitale d’Italia)”.
La disgrazia di tutta la penisola, “Italia, mia patria assassinata”, scrive Delfini, che per la sua terra sognava, come alternativa più ovvia alla più romantica Ferrara, Reggio Emilia capitale, perché città in cui fu inventato il tricolore della Repubblica Cisaplina.
“Sarai d’Italia capitale / perdere Roma sarà poco male”, recita infatti un altro distico letale, nella poesia di È morta la reazione; Roma capitale di una società sempre più inumana, “l’inumanesimo italiano”, come lo definisce il poeta in rottura col disumano:
“Ma ciò che io combatto e col quale intendo rompere ogni rapporto è il disumano. Intendo per inumano ciò che è contrario all’uomo, che non essendo più imano è tuttavia incluso nell’umano. Insomma l’inumano è un uomo che finisce, o può finire, all’inferno. Il disumano è in vece ciò che è fuori dall’umano […]. In poche parole: è il diavolo. Il disumano può circolare fra noi, per via della nuova moda italiana dell’inumanesimo. Il disumano può circolare, ripeto, travestito da essere umano; può circolare, però soprattutto, nell’aria, nelle parole, negli oggetti, nel disegno degli architetti, nei frutti degli speculatori inumani […]; quando le donne che incontriamo non sono più né belle né brutte, ma provocanti, arrapanti, fredde o calde […]; quando più niente corrisponde alla verità del passato o dell’avvenire, e il presente vive senza rapporti e senza confronti.”
E stando a Delfini il disumano è il diavolo che tenta di vincere, e che in Italia ci riesce almeno dal 1935:
“Tornava fuori, nel 1935, il carattere sozzo, strozzinesco e delinquenziale di gran parte di quegli italiani cittadini che, falsi innamorati della vita, e consci della loro povertà senza America, intendono comechessia farsi la vita e l’avvenire col bagno, l’automobile, le troie e i gioielli. Questo gusto da sciacalli, più che da lupi da tigri e da leoni, gli italiani ce l’hanno nelle ossa fin dai momenti migliori della grandezza di Roma, affinato con le invasioni dei barbari, diventato costituzionale con la servitù allo straniero, portato al delirio fanatico degli alti ideali col fascismo, e caduto in un puzzo graveolento da rendere irrespirabile lo stesso dolce clima dell’Italia, proprio ora, nel momento in cui i migliori, i pochi italiani, attendono con ansia l’inizio (soltanto l’inizio) di una resurrezione del senso morale e artistico della Patria”.
Delfini amava e odiava l’Italia, la detestava in modo viscerale perché avrebbe voluto poterla amare, cosa impossibile a simili condizioni, lui, scettico alla Cavalcanti, alla Pound, prossimo a Cervantes e Rimbaud, a Unamuno e Campana, e che in sé voleva “Napoleone, Bach Manzoni, Leopardi, Cavalcanti, Machiavelli, Goldoni…”, per possedere davvero una visione totale. Ma che si sentiva sfiduciato, disorientato di fronte alla realtà, seppur solidamente agguerrito, membro con Zavattini e Guareschi, di una mai vista brigata del risveglio padano, lui, un po’ comunista, conservatore e reazionario, certo non in senso latino, mussoliniano, né progressista né rivoluzionario, di sicuro ribelle disimpegnato che fece del disimpegno il suo vero impegno.
Le sue uniche vere lotte civili, a parte un tentativo di candidarsi nelle liste di Unità popolare, solo in funzione antagonista alla legge maggioritaria che per lui evocava ciò di cui non ne voleva più sapere – ossia il fascismo –, furono infatti la fondazione tra Viareggio e Bologna, tra il 1927 e il 1929, di un paio di periodici indipendenti, come recita il sottotitolo de Il Liberale, immediatamente soppressi dai fascisti, ma soprattutto la battaglia, tutta sua, donchisciottesca e di campanile, per la Certosa di Nonantola…
Non ha letto i classici, Delfini. È come spesso gli capita a Viareggio, lui che sempre bazzicò il quartiere Marco Polo, il Forte dei Marmi, il Fiumetto, la Versilia ancora dei letterati… Passeggia con un amico, che gli racconta che la Certosa resa famosa dal romanzo di Stendhal, che non ha mai letto, non è a Parma, bensì a Modena… Non ha letto i classici, Delfini. S’incuriosisce, ma, annoiato, si ferma a pagina trenta del libro di Stendhal, e che desidera è solo di dimostrare che la certosa era quella di Nontantola…
Da qui l’ultima opera, uscita nel 1963, poco prima della morte, Modena 1831, la città della Chartreuse.
*
Baudelaire padano, Delfini è il più grande lirico dopo Campana, è poeta senza l’ombra di un epigono, campanilista figlio di una depressione ambientale – ovvero la pianura –, di una terra di gente pragmatica e sognatrice, ruvida e molle, indolente, contadina e insieme aristocratica, calma ma anche subito pronta alle ebbrezze, ad allentare i freni inibitori, come nel suo stesso cantare, secco, carico, teso, a volte dolce, a volte delatorio, spesso prossimo a un turpiloquio in cui il manierismo si fa stile “céliniano”…
Una poesia lirica, con spunti stilnovisti, romantici e crepuscolari, dadaisti, certo, ma di un “dada” che è tutto assolutamente emiliano, e che non poteva che esser “Mamama”, e “Mamama non polemizza: provoca. Mamama non ingiunge: disguida”, e che non può che produrre sillogismi pazzi qu anto lucidi, tipo: “Che cos’è la patria? La patria è un villaggio. Che cos’è un villaggio? Un agglomerato di imbecilli. Che cos’è un imbecille? Un uomo che può vivere nel villaggio e non può leggere Mamama”… Voilà!
Una poesia spesso sghemba e sgrammaticata, non da accademia ma da bettola, fatta per offendere, per perturbare, per distruggere ma anche per amare, l’amore rivolto a una donna sognata più spesso che a una reale, o alla patria (in Avvertimento, avverte di essere “lo straniero”), lui che si sente ormai apolide (un po’ come Papini, come Gadda, come Montale), ma sanguigno di un sangue che sente le proprie radici anche nelle flânerie incessanti, non solo nelle città ma tra le città emiliane, versiliane, e Firenze, e Roma.
Una poesia di passeggiatore; quale era da ragazzo incantato dal francese; una lingua in cui gli capita di scrivere versi (“On se souvient de Baudelaire la nuit / dans le train en traversant notre Emilie” – “Je suis un poète flâneur et débauché / je tiens mon poing en air”); e di dandy indolente (“È bene scrivere sempre / così si dice, / ma è tanto bello dormire”); e di girovago ozioso (“Quando verrà quel giorno / tanto desiderato / nella mia vita oziosa”); e a volte sonnolento, “disteso sul letto a immaginare speranze” e “talmente fissato in una tragica svagatezza”; come nella pesante delusione che fu Firenze; fuggiasco nel silenzio; esule della solitudine. E che in prosa ha sognato: “potessi partire, ma partire come non è mai partito nessuno, andarsene senza un addio, senza un ricordo”. E che in poesia ha ribadito: “Tra Secchia e Panaro è disceso l’oblio / altri fiumi, altri cieli, altri monti, / non diranno che cosa ero io”.
Ovvie le fughe rimbaudiane. Ovvia una scappata a Parigi. Da cui a Modena finge d’importare il surrealismo, Modena in cui vive la sua bohème (“Mi ero lasciato trascinare in minimi e ingenui bagordi da una compagnia di giovinastri rumorosi e goderecci, coi quali correvo letteralmente le strade, le piazze e i teatri” – “mi permettevo di creare satire ai costumi del tempo, figurate e verbali, di una tale comicità, improvvisate sulla pubblica via in qualunque ora del giorno e della notte”), in cui è “snervato da una vita ignobile e eccitato dai vini e liquori”, facendo “esperienze di vita, sofferte e godute di mia sola iniziativa”, esperienze originali e complicate, le quali lo distinguono dai suoi “compagni di trastulli notturni che definisce con sprezzo fats de café…
Era il 1933 circa. E Delfini non gridava solamente gli ovvi “Viva la figa!” e “Viva le tagliatelle!” ma anche “Abbasso il Duce!”. Erano i tempi di Ritorno in città, autoedizione di successo, ma anche di progetti di amori e pure di matrimoni. Ma nulla di fatto.
Da lì in poi, il poeta inizia ad assumere l’aria di un Petrarca allucinato che non riesce, o meglio non può trovare, in quella Italia che lo ripugna e che si rispecchia nelle donne, una Laura o una sposa (“le spose che sognai son morte”), la donna, la femmina che sia una musa, (“con la storia dei miei amori sapevo di non avere un avvenire di amante come si rispetti (era fallito in me l’amante mio originale, un tipo che stava tra Leopardi e D’Annunzio)”), vittima degli orrori di un paese ormai semprepiù allucinante.
Erano i tempi della sua Modena, di idee di libri, di abbozzi di racconti e di versi, dei quali scriverà poi: “A ripensarci dico che se avessi allora tenuto un journal non avrei potuto avere il tempo di vivere, né l’estro di creare, quei veri racconti, vivendo i quali non ho avuto il tempo di scriverli. Nei momenti di riposo di quella vita veramente intensa e attenta scrivevo delle frasi sui biglietti del tram e del cinema, sulle scatole dei fiammiferi e delle sigarette: li conservavo.” Per lo scrittore sono anni di fermentazione…
E anni di spettri della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, rivolta e inerzia, voluntas e noluntas, e fuga…
Un tema che davvero merita lunga una serie di citazioni: “Povero ragazzo / pieno di fantasie / verso la scuola arida e perduta // E tra la nebbia / ombra indecisa / guardavo avanti // chissà fin dove / chissà fin dove guardavo mai // Malinconia /di una ribellione / che vuol durare ancora // E ritornavo a casa / gonfio di niente // Poi mi affacciavo / a riguardare / dalla finestra del solaio / giù nel cortile buio / l’invisibile andare della gente / il muto ricordo del mare / me naufragante nel pantano” (Lo spettro dell’infanzia); “Potessi un giorno / camminare da solo / ma solo solo / non come vado adesso / solo / ma solo solo / senza me stesso” (Non ho volontà); “Voglio andar via / anima mia / Solo per il mondo / ch’è piccolo e senza fine / m’illuderò di perdermi / E sarò sempre solo / La gente non fa compagna” (Itinerario – I); “Ma un giorno me ne andrò / limpido e solenne / per la mia strada muta” (Itinerario – II); “Voglio scappare / come una sera d’estate / quando pensavo di andare” (Esasperante!); “Chissà che cosa avrei fatto / chissà quanti amori / chissà quanti denari” (idem); “Penso ancora di andare andare / non so dove non so come non so quando / penso di partire morire e partire” (idem); “Non venite con me / ché sono solo / E andar coi solitari / è come andar di notte / per le strade senza luce” (Avvertimento).
*
La voglia di scappare corrisponde in Delfini a quella sprezzante di distruggere, uccidere, appiccare il fuoco.
Una voglia di fuga, da parte del futuro poeta, che corrisponde alla realtà della sua vita quotidiana, fatta di spleen, e di una bohème un poco stantia in quella che descrive come “un’immensa pianura / CITTÀ invecchiate / donne abbandonate / amori consumati / nel tedio e nell’attesa / FANALI e lunghe strade / cortei – fanfare / olimpici richiami / il mare il mare / […] / la città – la torre / le campane / le bimbe della messa / i vicoli bui / un solitario / la lampada sul tavolo / penso a cose strane / (forse alle puttane)”.
Una realtà che gli starà sempre stretta, sotto il fascismo come nel dopoguerra in un paese nel quale sotto i colpi di presidenti, segretari, ministri, giudici, già si sta disfando l’antico mondo della provincia… “Il tribunale democristiano del demonio / mi ha rotto il focolare antico / Sia maledetto colui ch’è magistrato / sia maledetto il mio più grande amico”.
Delfini si proclama “giudice supremo / di questa vasta vita / senza freno e senza vita” e la poesia è la sua arma individuale: “Sian maledetti tutti gli avvocati / figliati dal lucertole e lombrichi / Sian maledetti i vuoti vasi cervellotici / dei lustri ministri servitori / di lontane terre e avidi ladri / delle nostre terre e portatori / di mestizia disperazione e follia”.
Sa sintetizzare in poesie di quattro versi, senza titolo, e in fulminanti distici, tutta la sua visione anarcoide: “Né laico, né prete / intendo votare”; e: “Sporca la scheda, / lasciala bianca”. Scrive d’altronde nel primo verso di Sega gli alberi, titolo che rieccheggia senza saperlo la Deuxième élégie XXX di Charles Péguy: “L’eterno inferno è il governo”.
Il disgusto verso i politici e l’Italia lo riversa anche sulle donne, che ne sono lo specchio sensuale: “È la gran moda democristiana: / restare vergine e far la puttana”. Un disgusto che nei versi de Le ragazze del mondo borghese diventa puro desiderio d’insozzarle: “avrete la merda sulle gonne: / non al presente, ma nel ricordo”… “La figlia del miliardario / regina delle ladre / quando si fa chiavare / lo fa nel letto di suo padre / Ha l’inferno nel cuore / ma il cuore no n ce l’ha / resta che ha l’inferno / altro di umano non ha”. E il suo proclama politico è tutto baudelairiano: “Monarchico anafilattico, / allergico repubblicano, / idiosincratico socialdemocratico. / Rimasto son solo, / ho preso lo scolo: / Non voterò!” L’ironia dadaista si fa sempre più acida e feroce.
“Invasione, fallimenti / bombeatomiche, tormenti / fame, preti, seghemezze / tutte queste son pagliuzze. // Peste, rogne, inondazioni, / influenze, insurrezioni / spie, fascisti, partigiani, / delinquenti, e battipani // Tutto meglio all’ingiunzione / del coacervo liberale / che ti manda l’ufficiale / a pigliar la tua magione.” L’oggetto dei suoi assalti poetici sono mercanti, finanzieri e banchieri (“Sacerdoti del pareggio / con la banca dello strozzo”), democristiani, borghesi, modernisti e progressisti, procuratori e questori, governatori e dottori, ingegneri e cocchieri, fascisti, liberali, deficienti, comunisti, radicali, cornuti e finocchi, viriloidi e lesbiche, spie e delinquenti, ministri (“[…] ministri Saltinbocca e Mozzarella / e ‘l loro degno presidente Tarantella”) e avvocati (“Caro avvocato sadico e ristretto / dal sudicio sguardo da strozzino / hai una figlia che non ho mai visto / […] / stai attento: tua figlia verrà uccisa” – “Caro avvocato guarda bene / la moglie tua verrà insultata / da quattro sante prostitute / e davanti a te saran sapute / di tutte le ordure di gioventù” – “a Bologna, a Modena, a Milano / e c’è l’illustre castrato / generale avvocato di culano / che quando parla tiene in mano / un finto cazzo levigato”). E sogna una qualche rivolta né fascista né antifascista, né comunista né anticomunista, né filosovietica né filoamericana (Delfini scrisse tra l’altro un Manifesto per un partito conservatore e comunista, che sarebbe dovuto nascere nelle capitali degli stati d’Italia, contro l’unità mitizzata dal Risorgimento piemontese, le riforme agrarie e i grandi affaristi del capitalismo, e fondato sulla proprietà terriera, negli interessi di contadini e operai, ai tempi ancora cari alla sinistra). E sogna ironiche punizioni, castigando in versi gli appartenenti ai partiti di quella che oggi è chiamata prima repubblica (rispettivamente i democristiani con olio di ricino se di sinistra, con vino democristiano se di destra, con acqua del Meridione se di centro, e i comunisti, i socialisti e i socialdemocratici con la Coca-Cola, i liberali col Cynar, i radiali e i repubblicani con la Corona, non intesa come birra bensì come monarchia, e i monarchici con l’edera dello stesso P.R.I.).
L’amarezza e disincanto che prova rispetto alla patria non vale soltanto per le donne ma anche per gli amici:
“Molto più bello, più intelligente, più ricco e più aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono trovato davanti alla barriera terribile e armata dei loro difetti, vizi e capricci: gelosia, narcisismo e sfrenata (ma sorda) ambizione. Né geloso, né ambizioso, […] mi sono scoperto (ma troppo tardi) un difetto […]: una mitezza eccessiva nata dal desiderio di non soffrire mai o il meno possibile, si è convertita nel tempo in pigra contemplazione e in una sorda velleitaria rivalsa che non è mai sfociata in una conclusiva spiccata vendetta.
Mentre scrivo continua questa brutta storia. La mia è una discesa continua; talvolta procurata dagli amici che ho avuto; tal’altra, aiutata dalla mia disperazione a vedere gli amici che ho avuto, guardarmi, compiaciuti (col loro sguardo freddo tra di tedesco, di eunuco, e di triglia) scivolare verso il basso. Ma si illudono. Poiché il basso verso il quale scivolo, non è che un elevatissimo altipiano: mentre alle loro spalle, di sulle vette dalle quali par che mirino altezzosi, coi loro sguardi annoiati e incomprensibili, li attende il baratro)”.
E l’amarezza e il disincanto che prova per donne e amici è uguale a quello verso gli intellettuali in Versilia: “Dopo una giornata con gli scrittori, non mi riusciva nemmeno di leggere. Passavo momenti in cui desideravo veramente uccidere. Pochi scrittori, credo, hanno odiato gli altri scrittori come li ho odiati io. Avevo una naturale simpatia per uno solo di loro” – “Parlare di quegli svariati e uniformi gruppi mondani che dovetti conoscere e frequentare mio malgrado, mi fa avere ancora oggi un senso di smarrimento della mia personalità, come se avessi vissuto e continuassi a vivere in una perenne vergogna morale”.
Nel 1935 si è trasferito a Firenze proprio per poter frequentare il mondo degli intellettuali, ma ne è deluso.
Vive “l’agonia dello spirito” e ha voglia tornare a casa, rendendosi però conto di non poterlo più fare, come confesserà poi nella splendida introduzione a Il ricordo della basca.
Si sente “un borghese sulla via della delusione” che ammette l’inanità (“non sapevo veramente che cosa fare”), legge Stendhal, “una disgrazia”, e, appena può, fugge a Bologna.
A Firenze non riesce davvero a vivere (“la sprecata vita letteraria dell’inverno fiorentino”), per cui torna continuamente a Parma e a Modena, che ritrova solo allora, ora che se n’è andato via, e così, attraverso quella distanza, la città diventa quasi irreale… E spesso a Bologna, dove si reca per seguire le orme di Stendhal, ripercorre, perdendosi, le strade di Campana (“mi perdevo […] negli itinerari di Dino Campana”), girando fino alle due, fine alle tre del mattino per poi tornare a Firenze col primo treno…
*
“Come salivo su quel treno che proviene da Verona, va a Bologna passando per dolci sinuosi paesi come Camposanto, San Giovanni in Persiceto e Crevalcore […], come salivo su quel treno andavo ripensando di un giorno lontano, di un ottobre solare, di un giorno semplice, senza visioni particolari, senza tenebre, chiaro e disadorno, pieno del rieccheggiamento di echi famigliari che ogni strada e ogni piazza che avevo attraversa, mi rimandavano avvolgendomi in un mantello morbido e sottile combinato di un tessuto fatto di aria, di luce, e profumato delle vaghezze autunnali, dei prati e dell’uva matura, filtrate attraverso le porte della città, dei vicoli, delle piazzette rinchiuse. Ricordo di raggi di luce di un oro tenue e leggero che andava a consolidarsisui muri del Palazzo Ducale, sulla chiesa di San Bartolomeo, sullo sfondo del Corso Reale. Era un giorno lontano…”
Nasce così il suo capolavoro, Il ricordo della Basca, volume di novelle in prosa decisamente poetica, baudelairiana, che “fu il meno diffuso, della collezione meno diffusa, dell’editore meno diffuso d’Italia”, Lischi di Pisa.
Opera che ripercorrerà, verso la metà degli anni ’50, quando, a Roma, scriverà l’introduzione, traccia di un lavorio che culmina nel gioco di specchi tra questa piccola autobiografia e le poesie della fase che segue il 1958.
La scrittura di Delfini si fa allora tentativo di ricostruire, dai ricordi, le connessioni di avvenimenti non solo personali ma anche nazionali, con un senso apocalittico di fine del mondo, e infatti nel febbraio 1959 annota di voler tentare “l’anticanzoniere di questi ultimi giorni della vita del mondo. Ultimi giorni che stiamo vivendo o che ci illudiamo di vivere”, tra memorie, rimorsi, visioni, fine di speranze e brame d’assassinio, identificando e minacciando i colpevoli, come Pasolini, prima di Pasolini, più di Pasolini.
La sua malattia è stata quella di partire, per Firenze prima e per Roma poi, perché l’Emilia la lasciava malvolentieri, e i suoi ritorni “dalla stazione Termini alla stazione di Modena, erano sempre stati accompagnati da una grande euforia, da una pienezza di propositi e da una sconfinata gioia di vivere”, e la ragione è presto svelata: “Fra parentesi dichiaro il mio odio per tutti coloro che per Roma o da Roma hanno voluto, contro di me e contro molti altri italiani, gettare il seme dell’avvilimento sul mio – sul nostro – sentimento orgoglioso di non essere nati a Roma, di non vivere a Roma, e sulla mia – nostra – impressione che a Roma, e soltanto a Roma, si trovi quella data forma di vita che gli avvilitori di questo secolo chiamano provincia e provincialismo.”
La capitale lo farà ammalare del pregiudizio o complesso del provincialismo che ammorba gli intellettuali:
“Certo che se non avessi conosciuto degli intellettuali, e li avessi frequentati ancor meno di quanto li avessi frequentati fin allora, non sarei partito per Roma. Perché partire per Roma significava sottomettermi a una specie di complesso di inferiorità, che gli intellettuali mi avevano rivelato, e col quale non seppi giocare disinvoltamente a pallino. Era il loro complesso di inferiorità, e, par delicatesse, finsi di esserne anch’io infettato. […] Il complesso di inferiorità si chiamava (e si chiama tutt’ora) provincia. Si badi però a quanto dico. Il loro complesso non stava nell’essere dei provinciali […] ma nel parlare, nel giudicare, di una provincia, di un provincialismo, nel contagiare di un timore della provincia, e nell’isolarsi in una torre, o in una valle segreta, o nel centro di una grande città, o nel salotto di una signora dentro una villa, fuori della provincia.”
A Roma il poeta padano troverà infatti solo intellettuali che definisce con sprezzo, in francese, assommants, ossia che tendono a umiliarlo (“come se fossi un vecchio socialista, che delinquenti squadristi si fossero portati in giro dileggiando”), ad annullarlo (“Non ero più nessuno. Ero stato raccolto, spremuto per quel che valevo materialmente, e gettato via”), e a renderlo quindi inerte, lui che, senza studi e laurea, era partito come se dialogare con Cardarelli e Bacchelli in terra padana valesse meno che farlo a Firenze oppure col D’Annunzio, di cui ricordava una grottesca adorazione nella sua Modena: “Camerati, non dimentichiamo Gabriele d’Annunzio. Per il Condottiero eja! eja! Eja!”, e “Alalà!”, gli rispondeva oscenamente il coro dei fascisti.
La sua Modena non poteva dunque esser quella del fascismo, bensì una città medievale e baudelairiana, sfumata nella nebbia e ricolma di strane figure: romantiche se in accordo con tale identità; grottesche quanto figlie del regime italico…
Modena di modiste e marchesi, di puttane e puttanieri, di mariti che scompaiono nel nulla, mogli e amanti, signore impiumate e sculettanti, vecchi maestri soli e con la paura della morte, e Felice e suo fratello uscito di prigione, condannato a tre anni per truffa, i quali, in due, soddisfano la stessa donna, fino alla rovina, senza dimenticare – e come si potrebbe mai farlo? – “l’indimenticabile dandy” – la nitida proiezione di Delfini – che frequenta pittori, scrittori, giornalisti e famiglie bene, giocatore d’azzardo, spendaccione e dongiovanni che si proclama “scrittore e contrabbandiere, ricco e fortunato, brillante e famoso […] per farvi crepare di rabbia, gente impacciata cattiva pettegola paurosa e senza stile”, per prendere le distanze dalla gente – “gente […] moscia, gnaulante e ottusa” – “gente senza poesia” – “siete della merda” – gente di Modena, tra la quale c’è tuttavia anche la deliziosa apparizione della “diciottenne saltellante ed allegra Gina che coi suoi occhi neri, capelli bruni, le anche entusiaste, le gambe lunghe e tornite, già si era resa famosa in città pur preservando la sua purezza di fanciulla. Sotto il Portico del Collegio, durante i rumorosi e affollati andarivieni del mezzogiorno domenicale, era un fiorire di elogi detti grassamente in dialetto all’indirizzo della bella Gina, la quale, nella sua inavvertita solitudine passava più volte sotto quei frizzi e sotto quegli sguardi, lieta e confusa, col cuore imaginosamente pieno di un luminoso e rombante avvenire che le si presentava caoticamente con giovanile sicurezza. […] Già qualcuno l’aveva fermata, la domenica, nella stretta via di San Michele, mentre ella volgeva verso casa. Il più svelto di tutti, il Marchesino B., l’aveva palpata ben bene mentre lei ridendo cercava di liberarsi per salire presto in casa ancor timorosa che il fratello non la redarguisse”, e poi ancora, in campagna, la romanticissima ballata di un fidanzato, Teodoro, partito a cavallo da un paesino della zona incolta della pianura per andare dalla sua amata, che vive in una villa a cento chilometri e che vuol sposare per avere una famiglia, più che l’amore, dopo avere avuto tante ragazze da cui veniva infine sempre disgustato; perché i due: “Avevano in comune, e ne gioivano tacitamente, quell’educazione che non insegna e che non fu insegnata, dote somma che lascia talvolta all’uomo la libertà di sentirsi vicino a Dio”; e ora sogna: “Andremo a letto, e dormiremo, ché ne abbiamo bisogno, poiché sono trentacinque anni che non dormo, e lei trent’anni. E ogni volta che ci addormenteremo, diremo che non ci sveglieremo più per l’eternità. E quando ci saranno i bambini, anche i bambini diranno così con noi. […] Quello che facciamo noi è la cosa più antica e più rara della terra: l’amore. C’è una società che ha reso questa parola ridicola. E noi ne siamo felici, perché il nostro amore è ridicolo, noto antico, sorpassato, ma unico perché solamente te ed io lo conosciamo…”; e lei uguale;
*
E poi c’è la basca che dà il titolo a una novella e alla raccolta, testo che qui resta implicito e se ne riempiono i margini, perché non può esser riassunto o accennato, ma letto.
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A Modena, ricorda lo scrittore, gli facevano i complimenti nel 1935, quando non aveva pubblicato un bel niente, non una critica non un premio non un ministro ammazzato.
E poi, anni dopo, uscito Il ricordo della basca, silenzio, indifferenza, disprezzo, a dispetto del suo amore per la città (“Duomo torre e casa mia / voglio con te andar via”, scrive in un altro distico, della poesia Non c’è niente da fare), delle sue evocazioni del passato nel presente (“Tempo in cui le mura della città erano ancora intatte, e poche case sparse picchiettavano la solitudine della pianura”), come in un sogno, “confusa nella nebbia della pianura”, come nel sonno che spesso avvolge la campagna circostante, “il sonno dei campi sotto il sole”, il cui il ricordo della basca, figlia di una terra regionalista, si fa insomma ricordo di “quella parte della pianura, chiamata la Bassa, la cui vegetazione rigogliosa, coi campi simmetricamente divisi da lunghi filari di alti alberi vitati, e di tanto in tanto cosparsi da pioppe cipressine, dà l’idea di un’enorme infinita città signorile, mai apparsa e mai distrutta”, terra di stradine, alberi, campanili, e di malinconie.
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Lo s’immagini e ricordi a guardare fuori attraverso i vetri di un caffè, senza poter vedere il colonnato dei portici medievali, velato dalla nebbia, a pensare alla morte… Perché per i poeti: “L’unica via possibile è la morte”. Perché veramente: “Viva la f…!” / grida il popolo emiliano. / Sfonda una diga. // La morte è un piano / di ricostruzione / per la reazione”. Perché è il miglior ricordo, ora che sono passati centodieci anni dalla nascita del poeta, ottanta dalla prima edizione de Il ricordo della basca, e sessanta da questo verso, vergato a Modena: “non è il disastro che conta, / è l’assente sospiro che monta”. Perché: “Non c’è cosa più bella al mondo, non c’è ora più felice, come quella di incontrare una persona che ti ha fatto piangere al solo vederla, e che ti dice ogni cosa, come se ti conoscesse dall’infanzia, spontaneamente, senza misure e senza paure.” E chi vuol provarci tenti pure, con tanti auguri, di trovare prose e versi più potenti di quelle del poeta che voleva incendiare, senza misure né paure, la Bassa, e l’Italia.
Il suo ricordo della basca, e in parte della Bassa, è l’antidoto a uno più diffuso, “quello di far schifo ai vivi”.
Marco Settimini
L'articolo Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento proviene da Pangea.
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